Pare
che, ad ora, Ragnar non abbia più continuato la serie, ma si sa che non è
facile avere in Italia notizie di letterature così settoriali.
Ragnar
Jónasson “I
giorni del vulcano” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 28/10/2019 – I: 16/05/2022 – T:
17/05/2022] &&&
[tit. or.: Myrknætti; ling. or.: islandese; pagine: 265; anno 2011]
Perché Ragnar, nella sua serie poliziesca
maggiore, ritrae il quotidiano dell’Islanda attuale, da un’ottica molto “di
settore”, che tuttavia, già in questo secondo romanzo, allarga il proprio
respiro. La sua scrittura seriale comincia con un romanzo (“Fölsk nóta”
disponibile solo in islandese), dove conosciamo il giovane poliziotto Ari Þór,
a lavoro nella capitale. Solo nel secondo libro, che poi verrà indicato come il
primo “vero”, Ari Þór si sposta nel
Nord, dando vita a quello che in patria è conosciuta come la serie di “Siglufjörður”,
dal nome della cittadina dove il poliziotto lavora. Una serie che in giro per
il mondo è conosciuta con varie declinazioni della titolazione inglese “Dark
Iceland”, mentre da noi, volendo aggiungere suspense, è stata ribattezzata “I
misteri d’Islanda”.
Come qualcuno ricorderà ne ho letto il primo
episodio (e ne ho parlato lo scorso settembre) disquisendo, al solito, per la
traduzione del titolo. Così, comincio dal titolo anche qui. Che l’originale
porta “Myrknætti” che significa “Buio”. La comparsa del vulcano è un omaggio
non richiesto alla grande eruzione del vulcano Eyjafjöll, avvenuta nell’aprile
del 2010, che paralizzò per settimane il traffico aereo europeo (ed io fui
costretto a rimanere alcuni giorni in più a Granada…). Certo, la caduta della
cenere vulcanica ristette nell’aria per mesi, e visto che l’azione del romanzo
si svolge nell’estate di quell’anno, di sicuro ci fu più buio del solito, nella
mai troppo solatia isola. Però… perché martoriare i titoli? Anche perché, il
resto è ben tradotto dalla grande conoscitrice della lettura locale Silvia
Cosimini.
Ricordo che il personaggio principale è Ari
Þór, un giovane poliziotto che per una serie di motivi ha abbandonato molte
cose: gli studi di teologia, la sua fidanzata Kristin e la capitale, per
dedicarsi alle indagini di polizia, sotto la guida del commissario locale, Tómas.
I motivi delle sue scelte le ho descritte nel primo libro, e qui entrano poco
nella trama, se non per la parte con Kristin. Il loro rapporto è irrisolto,
anche perché la signorina, lavorando in ospedale, si è fatta spostare al nord,
ad Akureyri, vicino al centro delle azioni, la cittadina di Siglufjörður.
Un nuovo personaggio irrompe sulla scena, è
la giornalista televisiva Ísrún, che muove dalla capitale quando ha notizia di
un brutale omicidio. Inciso, Ísrún non è un nome “tipico” islandese (qui si
potrebbe aprire una parentesi ma ve la risparmio), è solo l’omaggio alle sue
due nonne, quella paterna Ísbjörg e quella materna Heiðrun.
Tutto parte dalla scoperta della morte di
Elyas, un carpentiere locale che a tutti sembra, e sottolineo sembra, una brava
persona. Ma saranno le ricerche incrociate di Ísrún e di Ari Þór a portare alla
luce le ombre di Elyas. Vittima di abusi in infanzia, violento verso le donne,
forse qualche traffico per droga, ultimamente invischiato nell’importare in
Islanda signorine provenienti dall’altro capo del mondo.
Varie vicende si intrecciano, piene di nomi
che spesso si confondono (per pagine ho mischiato una Katrin con una Kristin).
Poi le cose si sgarbugliano, per cui veniamo a sapere perché Ísrún è così
coinvolta, perché Ari Þór pensa di capire l’infanzia di Elyas, perché ci sono
andati di mezzo i cugini di Tómas, perché Kristin è bloccata nei rapporti con
gli altri, ed infine chi e come ha ucciso Elyas. Certo, rimangono punti oscuri
(uno su tutti: chi ha coinvolto Elyas nel business delle signorine allegre?),
ma il testo, alla fine, scorre.
Certo, a volte è lento, ma di sicuro è molto
islandese. Leggendolo si capiscono meglio alcune cose: i rapporti
interpersonali, la finta apertura sociale che nasconde una reale reticenza, il
rapporto dei locali con la natura. Elemento che alla fine prevale su molto
altro, chiedendoci di tornare ancora a visitare questa bellissima isola.
Inoltre, mentre il primo era tutto in Siglufjörður, qui ci si muove tra i
fiordi, Akureyri, Reykjavík ed altro. E non a caso, che siamo in estate, quando
tutte le strade sono aperte, e non c’è la neve che blocca tutto. Certo, c’è il
buio della cenere vulcanica, che però passerà.
Sono ora curioso di capire cosa ci riserva
il terzo libro della serie.
Ragnar Jónasson “Fuori dal mondo”
Feltrinelli euro 9,50
[A: 25/03/2021 – I: 31/05/2022 – T: 01/06/2022]
&&&
[tit. or.: Rof; ling. or.: islandese; pagine: 255; anno 2012]
Visto
che ci siamo, continuiamo ad approfondire la cultura islandese attraverso gli
scritti di Ragnar e le avventure di Ari Þór e di Ísrún.
La
scrittura si mantiene a buoni livelli, ma soprattutto ci si immerge nel modo di
vivere islandese, che forse è uno dei punti di forza del racconto.
Atteggiamenti interpersonali molto amichevoli, approcci verso l’altro con
rispetto, ma anche con facilità e disinvoltura. Si capisce come, in un’isola
così piccola, ci possa essere spazio per famiglie multiple, per donne single,
ed altre combinazioni. Il tutto sempre con rilassatezza.
Il
primo, intrigante problema, viene dal titolo. Che dopo una ricerca non facile
in rete (non sono certo un esperto di islandese) sembra potersi riferire a
qualcosa tipo “scioglimento” inteso come “risoluzione” di qualche cosa, mistero
o altro che sia. Non era certo facile renderlo in italiano, così penso che
l’editore abbia scelto un titolo che ci porti alla scelta dei quattro
protagonisti non di primo piano di andare a vivere in un posto non facile da
frequentare, il Héðinsfjörður, separato da una cresta montuosa dal luogo
principale dell’azione, il Siglufjörður che abbiamo imparato a conoscere dai
precedenti scritti.
Come
detto, e come si immaginava dalla lettura del precedente libro, abbiamo un
dualismo di interpreti principali, che si riflette anche in una doppia
inchiesta. Tenendo conto che siamo nel 2010, ci sorprende, a posteriori, che a Siglufjörður
ci sia una pandemia da “influenza suina”, che porta all’isolamento della città.
Certo, letto con gli occhi di chi ha sopportato due anni di coronavirus, sembra
sentir parlare i vecchi dottori di famiglia che andavano di casa in casa.
A Siglufjörður
c’è una pandemia, e Ari Þór ha poco da fare, così che si lascia convincere da
un insegnante del loco a cercare di capire cosa sia avvenuto nel 1956 nel
casolare familiare di Héðinsfjörður, dove nasce lui, l’insegnante, e dove
vivono i suoi genitori ed i suoi zii. Il tutto parte da una foto che ritrae la
famiglia, nonché un ragazzo di 15 anni non noto a nessuno. E dal fatto che poco
dopo la foto, Jorunna, la zia, muore dopo aver ingerito veleno per topi.
Ari
Þór indaga, cerca, collega, trova indizi, coinvolge la giornalista Ísrún, visto
che lui non può uscire dall’isolamento, a fare altre ricerche nella capitale.
Trova un altro zio dell’insegnante, nonché una persona che conosceva il
ragazzino, purtroppo ormai morto anche lui. Ari Þór riesce anche a riallacciare
i suoi rapporti con Kristin, forse con qualche sviluppo futuro. E durante una
gita ad Héðinsfjörður gli viene in mente l’unico possibile modo di svolgimento
dei fatti. Non ci sono prove, ma è ragionevole.
In
parallelo, si muove la vita e le indagini di Ísrún, che sta facendo una buona
carriera in televisione (grazie anche allo scoop del precedente romanzo), anche
se deve guardarsi da due nemici: il caporedattore ed un cancro che non si sa se
sia stato debellato.
Le
indagini seguono la morte di Snorri, un giovane, figlio di un ex-politico
ritiratosi due anni prima dalla vita pubblica, per possibili coinvolgimenti del
figlio in storie di droga. E seguono la vita di Robert, un ex-drogato che sta
mettendo su famiglia con una ragazza in via di divorzio ed il figlio piccolo di
un anno e mezzo. Il tutto collegato o collegabile con la morte, dopo due anni
di coma, di una ragazza presa a bastonate con un bastone da baseball.
Sicuramente da un drogato, sicuramente per errore (sbaglio casa e persona),
sicuramente causando un dolore non risolvibile ad Emil, l’uomo della morta che,
dopo due anni di dolore appresso al letto della ragazza in coma, alla di lei
morte decide di vendicarsi.
Ísrún
segue il filo delle indagini, ed anche lei ha un guizzo di intelligenza
investigativa. Mentre Emil, dopo aver ucciso Snorri, rapisce il figlio della
donna di Robert. Intanto che aiuta Ari Þór con indagini, visite in case di
cura, e reportage televisivi, si rende conto della possibile vicinanza delle
storie di Snorri e Robert. Anche perché, l’uscita di scena del padre di Snorri
ha favorito l’ascesa di un politico che stava insieme ad una ex-compagna di
classe di Ísrún.
Equivoci
e responsabilità dirette ed indirette portano Ísrún a risolvere brillantemente
il caso, così che i nostri due “eroi” portano valore alle loro storie di vita.
Mi
ripeto, una buona immagine del mondo islandese, anche dovuta alla discreta
penna di Ragnar Jónasson, educata dal compito di essere stato per anni il
traduttore ufficiale in islandese dei gialli di Agatha Christie. Tant’è che
spesso si dice che saper scrivere aiuta e lo stile leggero, i dialoghi e lo
sfondo islandese sono un sicuro puntello delle capacità di Ragnar (anch’io
comincio a parlare con gli isolani chiamandoli per nome).
Ragnar Jónasson “La donna del faro” Repubblica
Anima Noir 43 euro 8,90
[A: 26/04/2022 – I: 21/06/2022 – T: 22/06/2022]
&&
[tit. or.: Andköf; ling. or.: islandese; pagine: 204; anno 2013]
Con
questo quarto libro della serie pensata dal giallista islandese, abbiamo alcune
piccole svolte ed altre piccole (o grandi?) conferme. Sulle seconde mi soffermo
subito. La prima è la difficoltà, per gli editor italiani, di tradurre titoli
difficili. Questo, secondo le più accreditate traduzioni, si riferisce ad un
moto del respiro, ad una specie di fiato corto, forse “sussulto”. Poiché poco
avrebbe attirato, ecco che si piazza nel titolo una delle protagoniste del
romanzo, una donna (come vedremo che sarà Ásta) ed il suo ritorno al paese
natio ed al suo faro.
Il
secondo elemento sono ancora i protagonisti, con al centro Ari Þór cui abbiamo
imparato a voler bene, pur non comprendendo a volte la sua mancanza di
iniziativa. Sembra sempre farsi trascinare dagli eventi. In secondo piano c’è
sempre il suo ex-capo, che anche qui viene a condurre, o comunque a spronarlo,
nelle indagini. E c’è la sua amata Katrin, con cui è di nuovo insieme, e che
ora è anche incinta.
Le
due piccole svolte sono segnate dal muoversi la trama su di un unico binario,
mentre nelle precedenti c’erano sempre due indagini in parallelo. Inoltre, e
non sappiamo se solo qui o per sempre, esce di scena Ísrún, che invece era un
personaggio simpatico nelle sue contraddizioni.
Intanto,
visto che amo questi posti, veniamo all’ambiente in cui si svolge il dramma.
Siamo ben lontani dalla caotica capitale. Ari Þór, come abbiamo imparato dai
precedenti romanzi, vive nel Siglufjörður, quello che in fondo vede la seconda
cittadina islandese, Akureyri. Di fronte c’è la penisola di Skagi, dove, nella
parte rivolta ai Fiordi Occidentali, c’è Kálfshamarsnes, dove, nelle prossimità
del faro e delle case intorno, si consuma il dramma di questo romanzo.
Nelle
premesse, anche se poi se ne capisce meglio durante il racconto, lì al faro,
una ventina o più di anni prima si è consumata una tragedia. Dall’alta
scogliera si butta una madre. Un mese dopo, dalla casa del faro, si butta (o
cade o viene spinta) la piccola Tinna. Due morti che segnano il luogo. Due
morti che segnano Ásta, la sorella di Tinna, che ora lì torna, nelle vicinanze
del Natale, perché, forse, ha qualcosa di nuovo da dire o da fare per quelle
morti.
Peccato
che tre giorni prima del Natale, anche Ásta muore cadendo da quelle altezze. Da
qui, si dipana un giallo quasi a porte chiuse (se non fosse un controsenso
parlare di porte in Islanda). Viene Tómas, inviato dalla capitale per risolvere
il caso (e forse per spronare il suo ex-aiutante a fare carriera). Ari si trova
così di fronte ad uno scenario con pochi attori: a parte le tre donne morte, ci
sono sulla scena Oskar e Þora, gli anziani fratello e sorella che fanno lui da
guardiano e lei da governante del faro e dei suoi annessi, c’è Reynir, coetaneo
di Ásta, ricco proprietario della villa, e Arnòr, un vicino di casa, amico
d’infanzia della famiglia.
Nonostante
la compagna di Ari, Kristin, sia incinta e lui voglia tornare a casa,
nonostante anche Tómas voglia tornare nella capitale dalla famiglia, non si
possono affrettare le indagini. Che procedono con interrogatori fatti di poche
parole, insinuazioni degli attori del dramma, tutti diversi, tutti con qualcosa
da nascondere. Vivono insieme, ma non sono sodali. Quando anche Þora muore, ed
i protagonisti sono ristretti all’osso, saranno solo le intuizioni di Ari che
metteranno a nudo i pochi rimasti, e farà luce non solo sul presente, ma anche
sul passato. Dove l’unica cosa che posso rivelare è che Tinna non si è uccisa
(difficile pensare al suicidio a sette anni). Insomma, un giallo tipicamente
nordico, con dei colpi di scena che avvengono con tanta lentezza che quasi
sembrano inavvertibili. Infine, e purtroppo, anche se è il quarto caso che
risolve, Ari non ha le spinte politiche giuste per diventare ispettore. Ma se
ne riparlerà.
Quello
che rimane, oltre alle persone, è la natura, dura e maestosa dell’Islanda. Un
paese che sapete tutti amo tantissimo, cui ritorno appena possibile. Un paese
che qui, come in altre letture lassù nel Nord ambientate non è solo lo sfondo
delle azioni, ma una parte integrata di quanto succede. Dove il ghiaccio, il
fuoco, la luce e le tenebre sono un sottofondo imprescindibile dall’azione che
vi si svolge. Non si comprendono molte delle azioni svolte se non si segue con
attenzione il legame che unisce gli abitanti non solo alla natura, ma anche
alle tradizioni, parte non banale del mondo islandese.
Non
a caso, una delle più belle, ed a me vicine, tradizioni natalizie è regalare
libri per Natale. Non solo, ma si può e si deve passare la vigilia leggendo
tutto quello che si vuole. Un segno di civiltà assoluta. Che un libro è sempre
un compagno, anche di viaggio come in questo caso che ci ha portato di nuovo
verso l’incantevole isola.
Ragnar Jónasson “Notturno islandese” Feltrinelli
s.p. (Regalo di Feltrinelli Platino per il mio compleanno)
[A:
07/05/2022 – I: 02/07/2022 – T: 04/07/2022] &&
e ½
[tit. or.: Náttblinda; ling. or.: islandese; pagine: 230; anno
2015]
Siamo
così arrivati al quinto episodio della saga di Siglufjörður. Come al solito,
cominciamo con una discussione sul titolo, composto da “Nátt” nel significato
di notte e “blinda” come qualcosa legato al non vedere. Del tipo “cecità
notturna” o, con un piccolo passaggio “notte buia”. Aggiungere l’aggettivo
islandese mi è sembrato una piccola forzatura non richiesta.
Con
un piccolo ritorno all’antico e con l’evoluzione dei personaggi, soprattutto
del principale interprete, Ari Þór. Che rimane sempre un po’ né carne né pesce
(prima o poi qualche accenno di caparbietà anche nella vita privata oltre che
in quella lavorativa non sarebbe male). Tanto che la sua vita privata sta
andando a rotoli. Non si trova più in sintonia con Kristin, anche se curano
insieme il piccolo Stefnir (che ora ha dieci mesi). Ma Kristin vuole altro da
un compagno che sta raramente a casa, oltre l’accudire il loro figliolo. Non ci
sorprende che alla fine, si lasceranno. Che Ari è sempre più legato a questa
cittadina del Nord dell’isola più a Nord di tutta Europa, e Kristin è sempre
più attratta da Akureyri (una metropoli) e forse dal lavoro più remunerativo in
Norvegia.
Intanto,
il giallo comincia con il ferimento (che poi lo condurrà a morte) di Herjólfur,
il nuovo capo di Ari, che ha sostituito Tómas in base ad oscure alchimie decise
nella capitale. Che Herjólfur è un poliziotto di vecchio stampo, figlio di uno
dei poliziotti più amati nella poco belligerante isola. Come inoltre suggerisce
il titolo, stiamo andando verso i periodi più bui della vita islandese, essendo
gennaio ed avviandoci ad un paio di mesi (almeno) senza sole.
Oltre
i problemi dei (pochi) personaggi del racconto, Ragnar ci introduce in uno
spaccato dei problemi economici e sociali dell’Islanda. Il libro è del 2014, ma
l’isola, e Siglufjörður, risentono ancora della crisi del 2008, che ha portato
il paese alla bancarotta, ed all’eruzione del 2010, che ha anche bloccato il
turismo, una delle entrate principali dell’isola. Ma è soprattutto il default,
che bloccò anche tutti i finanziamenti verso le diverse attività. Siglufjörður
era uno dei porti principali della pesca dell’aringa, ma nel secolo scorso i
banchi scomparvero, la città sopravvisse con finanziamenti che, cessati negli
anni ’10, la riducono ora ad una cittadina di circa duemila abitanti, piena dei
relativi problemi sociali (corruzione, droga, violenze pubbliche e private). Un
plauso a Ragnar per non farcelo dimenticare.
Torniamo
ora al testo.
Cime
detto c’è un piccolo ritorno all’antico, che di nuovo sembrano intrecciarsi più
indagini. Mentre si procede con Ari e Tómas sule tracce del fucile che ha
colpito l’ispettore, seguiamo le vicende di Elín, vicesindaco della cittadina,
con un rapporto complicato con il sindaco, ma soprattutto, scopriremo, sotto
mentite spoglie, che cerca di sfuggire a Valberg, uno stalker violento che la
perseguitava quando era nella capitale. Il tutto viene anche frammezzato da
brani di un diario di una persona ricoverata in un ospedale psichiatrico,
diario che, quando ne sapremo di più, non cambia il corso della storia, ma fa
leggere in modo diverso alcune vicende.
La
pubblicità della morte del poliziotto, fa venire in luce Elín, che viene
ritrovata da Valberg, la cui morte dà una prospettiva di vicinanza dei due
casi. Quello che sarà vicino, in ogni caso, è la violenza domestica sottesa, in
tutte le vicende, come scopriamo anche dalle parole del figlio omonimo di Herjólfur.
Mentre
si infittisce il buio, Ari riesce a mettere ordine in tutte le vicende, anche
se non in quelle sue private. Uscendo con quella frase un po’ cupa ma
veritiera, che la violenza si trova ovunque.
Ragnar
ci dà un nuovo buon capitolo del popolo islandese, bene al solito nelle
descrizioni dei luoghi e della natura, bene, in modo nuovo, nell’entrare nel
tessuto sociale della vita locale, mene bene, forse un po’ poco incisivo nelle
vicende gialle. La trama è volutamente ingarbugliata, ma non così resistente
come nelle prime prove dello scrittore.
A
proposito di “sociale” un elemento interessante è la costruzione di tunnel tra
i monti. Sono scorciatoie che consentono di avvicinare le piccole città, ma che
portano anche altro. Turismo, spesso, ma anche criminalità. Con il tunnel anche
Siglufjörður perde la sua innocenza e viene sempre più investita da quanto
Akureyri ma soprattutto Reykjavík portano di poco buono.
Aspettiamo
ora il sesto episodio, per capire come si evolve, soprattutto, la vicenda
personale del tuttavia simpatico Ari Þór.
Ragnar Jónasson “La ragazza nella tormenta”
Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[A:
07/05/2022 – I: 19/07/2022 – T: 20/07/2022] &&&
[tit. or.: Vetrarmein; ling. or.: islandese; pagine: 235; anno
2016]
Pare,
secondo le più accreditate voci, che questo sia l’ultimo titolo della saga di
Ari Þór e di Siglufjörður. In effetti, molti punti sembrano procedere verso una
stabilità, almeno apparente, e non ci meraviglieremmo se, appunto, il buon
Ragnar si dedicasse ad altre scritture.
Cominciamo
allora a prendere contatto con questa vicenda “pasquale”, per il periodo in cui
si svolge, e con il Mistero, non della serie, ma del titolo. Il titolo
islandese, infatti, fa riferimento all’inverno e forse, ma non sono certo io
con il basic icelandic a poterlo dirimere, ad una “malattia invernale”, intesa
come elemento cupo dell’esistenza. Tanto che, nelle traduzioni in altre lingue,
si fa riferimento all’inverno che uccide. In Italia, si punta subito a
suscitare interesse “giallo”: si introduce nel titolo una ragazza (che di certo
è il primo morto che si incontra), ed una tormenta. Nel doppio significato, di
una ragazza con dei problemi, e di un brutto tempo che avanza. Anche se la
tormenta atmosferica ci sarà, ma solo nelle ultime dieci pagine. I soliti
problemi che rimarranno sospesi.
Pur
essendo quindi l’ultimo capitolo, troviamo un po’ della verve dei precedenti,
anche perché Ragnar reintroduce indagini multiple nella trama principale.
Intanto, comunque, i personaggi evolvono. Come ci si aspettava dalla fine del
precedente, Ari è diventato finalmente il responsabile della polizia di Siglufjörður.
Ma è anche stato lasciato da Kristin, che si è trasferita in Svezia con il loro
figlio Stefnir. Ari attende il loro ritorno per Pasqua, indeciso se cercare un
recupero, o dedicarsi solo al figlio. Due elementi, però, vengono a turbare il
nostro: la ricomparsa di una sua vecchia fiamma, Ugla, con la quale il rapporto
sembra progredire meglio che con Kristin, e la morte di una ragazza, Unnur,
precipitata o lanciatasi da un balcone.
L’indagine
parte quindi per analizzare il possibile suicidio di Unnur, che il palazzo
usato è vuoto, essendo il suo affittuario, Bjarki, in trasferta nella capitale
alla ricerca di fonti per un suo libro sulla storia del fiordo. E l’indagine,
come al solito quando c’ a capo Ari, non procede per colpi ad effetto, ma per
piccoli accumuli di notizie che Ari raccoglie andando a parlare con la gente
del fiordo.
Viene
così a conoscenza della presenza, in una struttura per anziani, di un vecchio
che ha scritto “L’hanno uccisa” su tutti i muri della sua stanza. Instillato il
dubbio, Ari cerca di fare i collegamenti più strampalati, provando, durante
lunghe chiacchierate con la madre di Unnur, ad entrare nella psicologia di
questa ragazza, intelligente, brava negli studi, un po’ solitaria.
Al
solito ci sono le piccole coincidenze che scoperchiano le pentole. Trova in un
diario di Unnur, nel tempo che Bjarki, che si scopre essere stato il suo
insegnante, la menzione alla cittadina di Siglunes. Cittadina vicina, dove lui
va a trovare il reverendo, che non gli parla di Unnur, ma dei medici
responsabili della RSA. Mentre di Unnur parla una sua compagna di classe. Che
si scopre essere stata sedotta da Bjarki, così come è stata sedotta Unnur.
Ma
Bjarki non era in loco. E Siglunes, cui tanto anelava Unnur, è anche una
cittadina canadese nel Manitoba, con forti insediamenti islandesi (qui c’è
anche l’eco di uno scritto coevo di Arnaldur di cui ho parlato recentemente). E
sul cellulare di Bjarki i nostri poliziotti trovano foto compromettenti. Ed i medici
della RSA, in via di bancarotta, avevano trovato sollievo economico alla morte
della ricca madre di lei, anch’essa ricoverata nella struttura, ed amica del
vecchio demente.
Quello
che acclariamo, al fine, sono che, contrariamente a “la donna del faro”, dove
un suicidio non lo era in realtà, qui il suicidio è suicidio. Ma la morte di
Unnur e la morte della vecchia sono forse state indotte. I responsabili,
quindi, pagheranno le loro colpe? Lo scopriremo solo leggendo, direbbe un colto
Battisti.
Noi
ci limitiamo a fare il tifo per il nostro Ari. Che Kristin non ci sembra adatta
a lui. Che forse Ugla gli è più vicina in spirito (e sicuramente in corpo). Che
di sicuro può e deve instaurare un rapporto diverso con il figlio Stefnir. Che
deve decidere, alfine, se rimanere, come gli auguriamo, nel fiordo, o tornare
alle origini nella capitale.
Ci
aspettiamo infine che, prima o poi, le leggi editoriali spingano i nostri
benamati editori a proporci il primo episodio della saga, quello che mette le
basi al personaggio “Ari”. Anche se per ora sappiamo che è stato tradotto un
nuovo libro di Ragnar, ma forse di altro contenuto.
Comunque,
basta solo la descrizione della tormenta che fa rintanare i locali nelle loro
abitazioni a riportarci con la testa ed il corpo verso questa terra selvaggia
che non smetto di amare.
E visto
che l’Islanda mi porta ai viaggi, mi sovviene questa settimana un viaggio che
stavo per fare e poi, per una serie di motivi, saltò. Dovevo andare in Armenia
(ed ancora non sono riuscito a riorganizzarlo), ed una mia amica mi regalò un
bellissimo libro “Viaggio in Armenia” di Osip Mandel’stam. Su cui
torneremo, ma da cui non posso mancare di ricordare questa lunga citazione sul
modo di entrare in contatto con i quadri: “A tutti … consiglierei il
seguente modo di guardare i quadri: non entrare mai, assolutamente, come in una
cappella. Non andare in visibilio, non restare di stucco, impalati, non
incollarsi alle tele... Diritti, con andatura da passeggio, come per un viale!
Fendete le grandi ondate termiche dello spazio della pittura a olio.
Tranquillamente, senza infervorarvi … immergete l'occhio nell'ambiente
materiale per lui nuovo, e ricordate che l'occhio è un animale nobile ma
testardo. Stare davanti a un quadro a cui la vostra temperatura corporea non si
è ancora acclimatata, per cui il vostro cristallino non ha ancora trovato
l'unica degna forma di adeguamento, è lo stesso che starsene per strada,
coperti da una pelliccia, e cantare serenate sotto finestre dai doppi vetri.
Quando questo equilibrio sarà stato raggiunto - ma solo allora - date inizio
alla seconda fase del restauro del quadro, al suo lavaggio, alla rimozione
della sua crosta decrepita, del barbaro strato esterno e recente che unisce il
quadro, come ogni altro oggetto, alla solare e condensata realtà. Con le sue
finissime reazioni acide, l'occhio - organo munito di una sua acustica, organo
che accresce il valore dell'immagine e aumenta le proprie conquiste
moltiplicandole per le offese sensoriali, cui da sempre un'importanza esagerata
- solleva il quadro fino al proprio livello, giacché la pittura è un fatto di
secrezione interiore molto più che di appercezione, e cioè di percezione
esterna. Il materiale della pittura è organizzato come una lotteria dal premio
assicurato, e in questo è la sua differenza rispetto alla natura. Ma le
probabilità del premio sono inversamente proporzionali alla sua realizzabilità.
E solo adesso comincia la terza e ultima fase di penetrazione del quadro - il
confronto oculare con il suo progetto. E l'occhio-viaggiatore presenta le sue
credenziali all'ambasciata della coscienza. Allora tra spettatore e quadro si
stabilisce un gelido patto, qualcosa come un segreto diplomatico.” (50-51)
Intanto possiamo solo dire che si avvicina un altro Natale, il primo, forse, con un po’ di respiro che ci dona la pandemia infinita. Si spera in qualche incontro di speranza, su cui non voglio soffermarmi, ma solo pensare positivo. Per cui mi fermo e vi abbraccio.