Non so se ne avevo parlato, ma da tempo Giorgio Dell’Arti mi ha coinvolto nella grandissima macchina letteraria dei “Tornei di Robinson”. Ho letto alcuni libri, cioè romanzi, poi si è entrati nella spirale dei saggi. Di alcuni ne ho parlato già. Qui ne affrontiamo quattro, che non mi sono piaciuti molto. Anzi, il primo l’ho trovato irritante, il secondo leggibile ma solo per un rispetto storico. Meglio Martinelli ed il suo Dante o Nadia Fusini e la sua Virginia Woolf. Tuttavia, il meglio della settimana è un saggio che ho comprato per me, sui viaggi. Basta la parola!
Silvio Danese “In pace con la pancia”
Sonzogno s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)
[A:
22/06/2022 – I: 22/06/2022 – T: 24/06/2022] &
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 160; anno: 2021]
Dopo
la parentesi, difficile ma tutto sommato stimolante, dei saggi letterari sui
romanzi francesi e sul giornalismo, con questa tornata i miei amici
repubblicani mi invitano alla lettura di altri saggi, veramente lontani dai
miei interessi. Ma, come diceva un film decisamente stupido, “una promessa è
una promessa”, e così leggiamo.
Intanto,
devo dire che, in generale, non avendo una propensione per i saggi, ne ho una
ancor minore per quelli di origine o di derivazione medica. E questo già mi
indispone verso il libro. In più il
dottor Danese ha un modo di scrivere molto presupponente, del tipo che ti
avverte: guarda io sono medico e quindi ho sempre ragione io quando parliamo
della mia materia. In generale è vero, ma questo fa il paio con l’altra frase
altezzosa che spesso si sente dietro le sue parole: “se avete i sintomi che ho
descritto, andate da un gastroenterologo”. Una sola considerazione: non vedo
perché devo investire dei soldi in un libro che mi consiglia di fare quello che
io avrei comunque fatto, se mi sentissi male.
Fatto
allora salvo il discorso sul contorno e sul significato, qualche dritta,
qualche informativa, anche qualche suggerimento di pensiero relativo al proprio
benessere se ne può favorevolmente trarre. Dato che se la pancia (con tutto
quello che c’è dentro ed intorno) lavora bene, sta lì, non si fa sentire, è un
sicuro indizio che possiamo dormire sonni tranquilli. Se invece protesta, se
borbotta continuamente, se una stitichezza momentanea non risolve e si
cronicizza, se abbiamo in maniera continuativa bruciori allo stomaco, che ci
fanno sentire gonfi, allora bisogna indagare, allora bisogna intervenire.
Da
questa premessa un po’ generica e genericamente condivisibile, il dottor Danese
scende nel concreto ponendo domande puntuali, pur con risposte che non sempre
vanno alla risoluzione ed alla risposta definitiva (o almeno esaustiva) del
problema. A mo’ di esempio, ricordo in modo casuale alcune domande. Che
significa il mal di pancia dopo mangiato? Come si capisce se il disturbo è
emotivo? Ci sono esami da fare se la pancia sembra un palloncino? Esiste
l’intolleranza al lievito?
Un
punto interessante, e che ci riporta fulmineamente all’attualità, è il rapporto
tra pancia e pandemia. Si è parlato molto dei problemi legati al COVID, la
respirazione e tutto quanto concerne la parte superiore del corpo. Della pancia
si è parlato pochissimo, anche se sia durante le fasi acute della pandemia, sia
a valle delle guarigioni dal virus, c’è stata una sotterranea epidemia di mal
di stomaco. Con bruciori, gonfiori, malattie localizzate nella pancia a seguito
dello stress dovuto all’isolamento, in conseguenza di un’aumentata
sedentarietà, per non dimenticarsi degli eccessi di cibo, spesso più cibo-spazzatura
che buona alimentazione.
Quando
poi non ci si è dimenticati di uno delle malattie più strettamente legate al
COVID, l’intestino irritabile.
Nonostante
io sperassi in un maggior consiglio, in un maggior ventaglio di soluzioni
propositive, qualcosa viene detto. Ma di malattie che a me, profano, sembrano
più marginali del diffuso mal di pancia. Penso ad esempio al capitolo dedicato
al morbo di Crohn.
La
pancia, di fatto, è veramente un organo basilare del nostro corpo, tant’è che
studi recenti hanno portato a collegare alcuni microrganismi che lì abitano con
la longevità crescente. Tuttavia, come accennato, la maggior parte delle
analisi dei suoi malfunzionamenti, finisce con un poco consolatorio consiglio:
andate a farvi vedere da un gastroenterologo.
Alla
fine, poi, il dottor Danese conclude con un autoincensamento ed una prosopopea
che colmano il bicchiere dell’irritazione. In sostanza, si loda e si sbroda
essendo medico in questa struttura, dottore in quest’altra, essendo il migliore
sulla piazza, e se avete dei problemi vi consiglio anche uno psicologo amico
mio.
Sono
completamente sicuro che molti mal di pancia siano influenzati dal cervello, ma
non ci voleva certo il dottor Danese per ribadire un concetto che uno dei miei
mentori, Luciano Marchino, già diceva venti anni fa: “Il corpo non mente”.
Mentre ci sarebbe voluta, anche, un po’ di umiltà nell’affrontare le malattie,
come fanno i medici di famiglia a me cari, che non cito, ma loro lo sanno.
Note sul libro di S. Danese per
“Robinson”
Un saggio direi decisamente irritante. Ora,
già sono poco propenso a ben volere i saggi medici. Ma almeno, nei pochi che ho
letto, c’è un piccolo intento di spiegare ed indirizzare (non dico curare, che
è di altri il compito). Qui, Danese non fa altro che elencare sintomi vari,
riconducibili a mal di pancia e simili, concludendo ogni volta: “se avete
questi sintomi, andate da un gastroenterologo”. Non vedo quindi perché
investire soldi, quando questo consiglio l’avrei seguito a prescindere.
Inoltre, lo stile di scrittura del dottor Danese è assai presupponente, come a
dire che essendo lui medico ha tutto il diritto di mostrarsi un filo altezzoso.
Avrei preferito un po’ più di umiltà, quella che hanno i medici di famiglia a
me cari (Emilio e Ines), senza che qualcuno sbandieri: sono medico qui, sono
dottore là, se venite da me vi mando anche da uno psicologo (e certo che molti
mal di pancia sono influenzati dal cervello, ma non ci voleva Danese per dire
quello che il mio amico Luciano Marchino diceva 20 anni fa: “Il corpo non mente”.
Simone
Alliva “Fuori i nomi!” Fandango s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)
[A:
22/06/2022 – I: 24/06/2022 – T: 30/06/2022] &+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 288; anno: 2021]
Ancora
un altro saggio che ha messo a dura prova la mia capacità di lettura. Non
questa volta per la lunghezza, ma per l’argomento, di sicuro interesse, ma che
non è riuscito a coinvolgermi. E dalla scrittura del giornalista Simone Alliva,
di sicuro una buona penna, ma che non ha portato i temi del libro ad un
riscontro positivo in chi, come me, è all’esterno del mondo descritto in queste
pagine.
Il
motore di partenza che ha portato alla scrittura è la ricorrenza del
cinquantenario della nascita del movimento arcobaleno in Italia (e pubblicato
nella celebrazione della Giornata Internazionale contro
l’omo-bi-lesbo-transfobia nel 2021). Utilizzando un piccolo calembour nel
titolo. “Fuori i nomi”, non solo invita i maggiori esponenti del mondo LGBT+ ad
uscire allo scoperto, ma vuole rendere omaggio ai nomi di chi era stato il
motore che spinse il movimento, di chi faceva parte del “Fuori” (che ricordo ai
più giovani sta per “Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano”).
Alliva,
da buon giornalista, adotta un metodo a lui consono, quello dell’intervista. Ma
premettendo, ad ogni personaggio intervistato, un momento, una descrizione, una
caratterizzazione, quasi un racconto introduttivo, che ci consente di sederci
in tre, io, lui e il soggetto di cui si narra, in un modo più adatto a due
chiacchiere intorno al caffè.
Inoltre,
proprio per detipicizzare le interviste, queste non sono introdotte dal nome
della persona, ma da un tratto caratteristico, da una fotografia dell’animo.
Abbiamo così, tanto per citare a mente, l’anarchico, la strega cattiva, il
custode, il ribelle e via con tutti gli altri. Che poi sono le persone che,
quasi con un percorso storico, hanno caratterizzato la nascita del Movimento
LGBT+, nei vari suoi momenti storici: Angelo Pezzana, Enzo Cucco, Giovanni
Minerba, Felix Cossolo, Massimo Milani e Biagio “Gino” Campanella, Beppe
Ramina, Graziella Bertozzo, Franco Grillini, Caterina “Titti” De Simone, Sergio
Lo Giudice, Porpora Marcasciano, Deborah Di Cave, Vladimir Luxuria, Imma
Battaglia, Giuseppina La Delfa, Bianca Pomeranzi.
Attraverso le loro parole, viviamo in prima
persona alcune battaglie, alcuni eventi, fondamentali per il movimento stesso.
La nascita del Fuori!, le battaglie del ’77, i duri anni della scoperta
dell’Aids, il sorgere dei cortei Gay Pride sino al momento epocale del World
Pride del 2000.
Da questi excursus, dalle loro parole,
escono fuori i problemi ed alcune iniziative attuali. Le seconde che nascono,
purtroppo, anche come battaglie di retroguardia, laddove si deve registrare la
perdita della potenza nel movimento stesso. Le divisioni, che sempre ci sono
state, si cristallizzano qui anche nell’analisi, breve ma puntuale, del
distacco, dell’autoesclusione di ArciLesbica. Movimento che ha rifiutato il
confronto con le parole di Alliva, arrivando, ad escludere ogni possibile
contatto nel momento che l’autore cercava di parlare con uno dei suoi massimi
esponenti, Cristina Gramolini.
Non ho gli strumenti per entrare in questo
punto, quindi torno sul primo, dove, le battaglie che si suggeriscono hanno il
loro senso, anche se ne vedo anche la scarsa incisività sul sociale. Indubbio
avere la forza per lottare sui diritti delle famiglie arcobaleno, giusto e
sacrosanto portare avanti il matrimonio ugualitario, in modo da risanare quanto
non si è potuto sanare con le unioni civili. Ma c’è poco altro, e spesso si ha
più un senso di colloqui tra reduci alla deriva più che di spinte propulsive.
Anche per questo non ho voluto, in queste
righe, entrare nel merito diretto di ogni intervista, non ho voluto parlare
direttamente delle domande e delle risposte. Un esercizio che lascio a chi, con
buona volontà, abbia voglia di leggere il libro.
Cito solo il piacere della lettura delle
parole di Imma, che ho avuto il piacere di conoscere, e di cui avrei citato, in
finale, i libri che ha scritto. Molto interessanti.
Che ripeto nonostante un sicuro piglio
giornalistico, non esce dal guscio di una scrittura non coinvolgente. Così che,
alla fine, abbiamo solo delle piccole o grandi storie, legate dalla matrice
comune, ma poi un po’ sbrindellate nel tempo e nello spazio.
Note sul libro di
S. Alliva per “Robinson”
Un saggio in minore, che non riesce ad
uscire dal guscio di una non eccelsa scrittura. Ha però un merito, che gli
consente un piccolo sprint. Tira fuori dal guscio (scusate il gioco di parole)
molti personaggi che hanno girato, nel tempo, intorno al collettivo Fuori!
(acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario
Italiano). Quindi, ottima e da seguire l’intervista ad Angelo Pezzana, pur
con le diversità politiche che ci possono essere. E tra nomi noti anche dal
ristretto cerchio LGBT (Franco Grillini o Vladimir Luxuria), c’è anche tempo
per fare un salto a casa della mia amica Imma (ma ne avrei citato i libri nella
bibliografia). Tuttavia, pur volenterose, le interviste non riescono a dare
spessore alla materia, quasi che non si capisse il senso dell’operazione-libro.
Uno scrittore capace avrebbe potuto, partendo dalle interviste, imbastire un
discorso più articolato e coinvolgente. Così, al fine, abbiamo solo storie, legate
dalla matrice comune, ma poi un po’ sbrindellate nel tempo e nello spazio.
Christoph
Ransmayr “Atlante di un uomo irrequieto” Feltrinelli s.p. (in omaggio con altro
libro Feltrinelli)
[A: 18/05/2022 – I: 09/08/2022 – T:
12/08/2022] - && e ½
[tit. or.: Atlas eines Ängstlichen Mannes; ling. or.: tedesco; pagine: 361; anno 2012]
Non
sono di certo molti gli scrittori moderni di nascita austriaca che sono
presenti nella mia biblioteca. Perché a parte i classici, tipo Arthur
Schnitzler e pochi altri, di moderni significativi, a mente, ricordo solo Peter
Handke. Ora, Ransmayr non è certo nelle vette letterarie, ma a me ha fatto
piacere leggerne, non tanto per la scrittura in sé, quanto per l’animo dello
scrittore, che, e qui lo si ritrova in pieno, è certo un grande viaggiatore.
Scrive
ed ha scritto interessanti opere di viaggi (reali o meno), come il suo miglior
successo, “Il mondo estremo” che narra di Ovidio, della sua morte in Romania,
delle sue opere, seguendo le vicende spazio-temporali del senatore romano
Aurelio Cotta. Qui, si imbarca in un’impresa al tempo interessante e rischiosa.
Al punto che non sempre riesce a governare il rischio, così da risultare di
difficile lettura, pur se con innegabili momenti suggestivi.
Non
c’è una narrazione, non c’è un filo conduttore nei settanta racconti che
compongono quest’atlante, se non il soggetto narrante, quello che inizia ogni
testo con le parole “Ho visto”. Per sottolineare che lui, lì, nei trentasei
paesi di cui si parla, c’è stato. Lui, lì, ha visto, ed ora ce ne parla. Senza
un altro filo che questo. Che la narrazione va avanti e indietro nel tempo, ci
sono (e si nota dai momenti di aggancio a tempi storici scanditi) episodi
recenti ed episodi antichi, almeno per noi. Che per Ransmayr fanno tutti parte
del florilegio di sensazioni che lui, viaggiatore attento e solitario, ha
raccolto nel corso della sua lunga vita viaggiante (ed ha solo un anno meno di
me).
Senza
alcuna omogeneità, quindi, passa dalla descrizione del piccolo pianista con le
protesi in Giappone (che tanto mi ricorda il concerto romano di Michael
Petrucciani al Teatro Olimpico) all’immensità del cielo pieno di stelle di
questo o quel posto remoto nell’orbe terracqueo. Orbe cui si cala nel profondo
del blu o dello scuro, magari guardando dormire una balena nelle profondità
vicino ai Caraibi Domenicani (ed io ripenso alla nuotata in Mozambico accanto
ad un gigantesco squalo-balena) o camminando tra le colonne della cisterna di
Yerebatan ad Istanbul (ma io di quella città ricordo ancora gli affreschi di
San Salvatore in Chora).
Si
capisce, proprio dietro quell’incipit di ogni testo, che comunque, c’è sempre
l’uomo dietro e dentro tutti i paesaggi. Un agire che si spande per tutto il
globo, dove siamo sempre noi che lottiamo e ci uccidiamo nelle lotte selvagge
che sconvolgono l’isola di Pitcairn, che diventiamo acerrimi guardiani in un
manicomio austriaco, che aiutiamo il povero cameriere americano a raccogliere i
cocci delle bevande cadute al suolo. Per poi avere sussulti di ricordi quando,
seguendo la barca che scende il Mekong nel Laos, l’autore scende e parla con il
padre che osserva il figlio rematore, ed io mi aggiro tra le villette di Luang
Prabang alla ricerca della casa di Marguerite Duras.
Essendo
un vero viaggiatore, non può esimersi dal sottolineare le altre e pesanti
responsabilità dell’uomo: il colonialismo, in tutte le sue forme, ma anche
l’incuria ambientale, dove non posso che riandare con la mente ad Angkor Wat,
laddove, quando l’uomo si ritira, a poco a poco, la natura riprende il possesso
della “sua” terra.
Allora,
ci siamo, andiamo, leggendo con calma, centellinando i paesaggi, quest’atlante,
andiamo per le vie poco battute, fermiamoci nelle locande nascoste, parliamo,
soprattutto, parliamo con chi ci sta intorno. Anche se poi, il libro, bello
nelle sue idee generatrici, non mantiene tutte le promesse, si appesantisce
talvolta in lunghe descrizioni, o in momenti che sfuggono perché immersi in
altro, o perché di altro, che a noi non viene detto, sono pieni. Per questo,
alla fine, il giudizio positivo, scende un po’ per la difficoltà nella forma.
Ma
visto che si parla di viaggi, io mi sento sempre tirato in causa. Sottolineo,
quindi, che, dei 36 paesi citati, ne ho esplorati 26. Dove tra tanto narrare e
descrivere, a me tre punti rimangono fissi nella memoria dei miei viaggi. La
visita alla salma imbalsamata di Lenin nella Piazza Rossa (ma io ho visto anche
Mao-Tse Tung a Piazza Tienanmen). Il
racconto del colpo di stato in Nepal, avvenuto (era il 2001) pochi giorni dopo
il mio ultimo viaggio a Katmandu. Ma soprattutto, le descrizioni di Vatnajokull
e di Jokursarlon in Islanda, due luoghi che rimarranno sempre nel mio cuore e
nella mia mente.
E
se l’autore chiosa che non c’è un momento in cui senta di aver visto
abbastanza, io sottolineo, facciamo un piccolo zaino e andiamo.
“Le
storie non accadono, le storie vengono raccontate.” (9)
“[Allora
si rinforzò] la speranza che ci fosse davvero una via per arrivare alla
felicità da una situazione disperata e che ognuno … già quasi sconfitto,
potesse trovarla e percorrerla.” (291)
Marco
Martinelli “Nel nome di Dante” Ponte alle Grazie s.p. (Regalo “Torneo
Letterario Robinson”)
[A:
14/08/2022 – I: 16/08/2022 – T: 17/08/2022] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 160; anno: 2019]
Altro
libro, altro saggio della fucina di Robinson che mi è stato gentilmente
concesso di leggere. Un libro che, in effetti, più che un saggio dantesco, è
una doppia biografia. Da un lato abbiamo Dante, il suo mondo, la sua scrittura.
Dall’altra abbiamo la vita di Vincenzo Martinelli, padre dell’autore, ed una
serie di altre esistenze collegate.
Ma
facciamo un passo indietro, che dobbiamo intanto narrare che Marco Martinelli è
uno scrittore di teatro, grande conoscitore di Dante (e leggendo ne scopriremo
i motivi) che dal 2017 ha portato in teatro la Commedia, iniziando con
l’Inferno e coinvolgendo nella narrazione teatrale attori ma anche spettatori
dell’esordio ravennate. Lavoro poi proseguito nel 2019 con il Purgatorio, e che
sarebbe dovuto terminare nel 2021 con il Paradiso, progetto però che si è
arenato per i problemi pandemici insorti.
Durante
tutto il lavoro intorno a Dante, Martinelli si pone la domanda se ha senso
leggerne e se ha un senso per i giovani d’oggi. Domande di difficoltà elevata,
cui l’autore cerca di rispondere non con un saggio su Dante, ma con questo
percorso che, come detto, da un lato ci parla di Dante, e dall’altro ci parla
di come l’autore sia arrivato a Dante. Scrivendo un testo che, pur con qualche
mescolamento di troppo, saltabecca tra il tempo dantesco ed il tempo presente.
A
me, pur entrando poco nell’economia di un discorso dantesco, è ovviamente il
canto dei giorni privati dell’autore quello che mi ha intrigato di più. Il
padre Vincenzo che leggeva al piccolo Marco brani di Dante come storie prima di
dormire. La storia di Vincenzo stesso, lo studio giovanile, l’incontro con
Lorenza, futura madre di Marco, il lavoro politico nell’Emilia rossa, lui
invece bianco, fino all’insediarsi come addetto alla segretaria tecnica della
Democrazia Cristiana. Lavoro che porterà avanti fino all’uccisione di Moro. Da
lì prende il sopravvento anche il percorso personale di Marco, che sposa nel
’77 Ermanna, che insieme a lei lavora al teatro, e fa il suo percorso che, per
l’appunto, lo riporterà alle storie del padre ed a Dante.
Dante
che non ci siamo scordati, nei capitoli alterni. Un Dante che seguiamo anche
qui nei suoi percorsi. Ragazzo che vede la sua città sconvolta dal conflitto
tra Guelfi e Ghibellini. Dante giovane, innamorato, poeta, sodale di Guido e
Lapo. E come tutti impegnato, in politica, e dalla politica, e dalla sua
sconfitta, costretto all’esilio (“ah, come sa di sale lo pane altrui”). Ed in
esilio, malato, ucciso dalla malaria e sepolto in quel di Ravenna. Qui c’è una
delle parti più coinvolgenti del testo, nel racconto delle peripezie delle ossa
del Sommo.
Martinelli
usa una metafora che ho trovato una delle più calzanti per il percorso
dantesco. Vede le lotte, il dilaniarsi, colpirsi senza quartiere, e trasforma
le lotte terrene nel suo Inferno. Vede la possibilità che ognuno con le forze e
con aiuti dall’alto possa ricominciare e la trasforma nel suo Purgatorio. Vede
l’infinta potenza dell’Amore, trasfigurandola nel suo Paradiso.
Per
questo, Dante ci parla ancora, perché ognuno di noi ha attraversato una selva
oscura dove la diritta via era smarrita.
Pur
nel suo divagare, è comunque un libro che si legge con agilità, che pone
qualche seme nella nostra mente, laddove riflettiamo ad una lettura di tutta la
costruzione dantesca come una protesta, sincera, sentita, contro le
ingiustizie.
Ed
a proposito di semi, una prima riflessione personale mi rimanda a mio padre.
Certo, il paragone che usa papà Vincenzo è ardito ma non campato in aria.
Portando le lotte fiorentine nel presente, vede i Ghibellini trasformati nella
Sinistra più o meno varia, ed i Guelfi nella sua DC. Vieppiù quando si mettono
in lotta i Guelfi bianchi (come Moro e Zaccagnini) contro i Guelfi neri (come
Andreotti). Ma lì entra mio padre con quel tentativo, suo e di suoi sodali di
conciliare un sentimento di libertà nato dall’uguaglianza con un profondo senso
religioso.
Poi
c’è la nascita dei miei ricordi scolastici, delle lunghe discussioni, a volte
feroci, con il mio amato/odiato professore d’italiano, il sempre caro alla fine
professor Torinto Morganti. Dove al fine, con lui e con Dante, non posso che
tornare al mio amato viaggiatore dell’antichità, e con lui recitare:
"Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per
seguir virtute e canoscenza".
“Se
vogliamo arrivare alla luce, dobbiamo prima attraversare le tenebre.” (97)
“Quando
leggo su un giornale di un sessantenne … che definiscono vecchio … io con i
miei … anni, cosa sono? Da buttare? E mi sembra ieri che ne avevo 50…” (128)
“Il
meglio finisce sempre per accadere e il futuro è migliore del passato (Teilhard
de Chardin)” (128)
“A
rischiare si può perdere qualcosa, a non rischiare si perde tutto.” (135)
Note sul libro di M. Martinelli per “Robinson”
L’autore è senz’altro un bravo drammaturgo,
capace di infondere forza visiva alle sue parole. Mi lascia un po’ perplesso,
tuttavia, il costrutto del libro, a metà tra un viaggio nell’epoca dantesca ed
uno nella biografia personale dell’autore, soprattutto per celebrare i fasti
del padre Vincenzo. Sarebbe quasi da fare due recensioni. La parte con
Vincenzo, Luciana, l’autore e tutta l’Italia tra la Guerra, il miracolo
economico, Aldo Moro e gli anni senili è bella e coinvolgente, tanto che si
legge con gusto e velocità. Anche con rimembranze, sia dei furori paterni, sia
delle lotte scolastiche con il mio amato-odiato insegnante di lettere, il prof.
Torinto Morganti. La parte dantesca, invece, risulta un po’ monca. Non è
incisiva, non è risolutiva, non accompagna in particolare nella parte “Commedia”.
Certo, si cerca di far uscire Dante dall’imbalsamato busto della letteratura,
per farlo uomo del suo tempo. Operazione in parte riuscita, ma non
completamente. Forse, e non è un caso, risulta avvincente solo la storia
relativa alle ossa del sommo poeta. Ed anche, non a caso, le sue peregrinazioni
ravennati, il rapporto con Guido Novello da Polenta, il mescolar quella Ravenna
a quella d’oggi è un secondo punto di forza. Non a caso, l’autore ha messo in
scena drammaturgie dantesche per Ravenna Festival a partire dal 2017.
Nadia
Fusini “Possiedi la mia anima” Feltrinelli s.p. (Regalo “Torneo Letterario
Robinson”)
[A:
14/08/2022 – I: 18/08/2022 – T: 22/08/2022] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 400; anno: 2006]
Qualcuno
forse lo sa, o lo ha seguito nelle mie parole, ma tra giugno e agosto sono
stato pesantemente coinvolto nei tornei di Robinson (se non sapete cosa sono vi
rimando allo spiegone). Questa lettura è stata l’ultima faticosa di tutto il
lotto. Una scrittura da cui mi aspettavo molto e che invece si è rivelata
inferiore all’attesa.
Intanto,
in alto ho indicato l’anno di scrittura originale del testo, uscito per
Mondadori, mentre questo che ho letto, sotto la spinta di Robinson, si
riferisce alla ristampa di Feltrinelli del 2019. Non so che differenze ci
siano, ma tant’è, un segnalazione.
Nella
scrittura, che segue un dettame molto sentito da Virginia (“la letteratura è
biografia o non è”), nel tentativo di rappresentarci la vita della scrittrice,
l’altrettanto brava (mutatis mutandi) Nadia si avventura in una scrittura
complicata. Entra nel mondo di Virginia e poi ne esce, con dei capitoli rivolti
direttamente “al lettore”, in cui è lei, Nadia, che parla a noi che leggiamo,
ma non direttamente della materia di cui stiamo leggendo.
Questo
tentativo trasversale di raccontare la vita e le opere di Virginia, di ovvio
acume intellettuale, alla fine però mi fa anche perdere di vista il cronologico
procedere della vita della scrittrice nella Londra a cavallo del secolo
ottocentesco sino alla Seconda guerra mondiale. Basando molto della sua
scrittura direttamente sugli scritti della Woolf, è ovvio che il ritratto che
ne esce è di sicuro vicino il più possibile all’originale, senza poterlo
ricalcare.
È
così che seguiamo, intervallati da un certo punto in poi dalla punteggiatura
degli scritti di Virginia, il mondo della Woolf, come nasce e come si evolve.
Il complesso rapporto con i genitori, complicato dalla morte precoce della
madre e, poco dopo, anche del padre. Il legame, problematico ed a volte
irrisolto, con i fratelli e con i fratellastri. L’incontro con Leonard Woolf,
il matrimonio, i viaggi, con la famiglia, ma anche e soprattutto, dal ’12 in
poi (lei trentenne) con il marito. La descrizione dei luoghi eponimi che la
videro protagonista e motore primo: Talland House (quella che servì come
scenario per il bellissimo “Al faro”), Hyde Park Gate, Monk’s House (la stanza
tutta per sé), ma soprattutto Bloomsbury, ed il gruppo di amici ed
intellettuali che lì fecero il loro cenacolo.
La
Fusini, ovvio, non dimentica poi gli interessi extra letterari di Virginia:
l’arte in tutti i suoi aspetti, la politica espresso soprattutto nel pacifismo
onnipresente, l’impegno sociale con tutte le passioni di emancipazione
femminile sempre e comunque presenti nella scrittrice. Ma l’avanzare della
narrazione non avviene spesso per episodi, ma nella descrizione degli stati
d’animo, nella quotidianità, nell’ansia per l’uscita di un libro, che per lei
diventava ogni volta il surrogato di un parto.
Fino
al non facile approdo alla decisione, certo in un momento di depressione, ma
coerente con il sentire di tutta la sua vita, e rispettosa del rapporto con il
marito Leonard, di porre fine alla sua vita. Uno dei punti più difficile da
descrivere ed affrontare.
Seppur
notevole nella decisione dell’impianto generale che Nadia Fusini dà al testo,
alla fine mi rimangono molti vuoti. Il motivo di fondo è che bisognerebbe
conoscere meglio Virginia Woolf ed i suoi scritti per potersi sbrogliare nella
matassa descrittiva. In fondo, era questo che mi aspettavo, una più esplicita
narrazione non tanto della cronologia biografica della scrittrice, quanto nella
genesi e nel significato che i suoi scritti impongono al corso della sua vita.
Rimango
così ancora una volta perplesso rispetto alla grande scrittrice londinese, di
cui ho letto, anche se non molto. Ma ogni volta sono rimasto fermo ad un passo
dalla vera comprensione del testo. Mi ricordo, ad esempio, il bellissimo
racconto su Mrs. Dalloway e la sua giornata londinese. Bello, formalmente
corretto, senza una parola fuori posto, esempio di quel mondo fatuo della
aristocrazia o semi-aristocrazia inglese. Senza tuttavia che entri nelle mie
corde. Un esercizio intellettuale che alla fine, come tutti i giochi mentali,
mi incuriosisce ma non mi appassiona.
Allo
stesso modo di questo libro di Nadia Fusini. Mi ha incuriosito, ma non mi ha
soddisfatto.
“Non
credo si invecchi. Credo si cambi.” (230)
“A
cinquant’anni o si rinasce o si resta moribondi per sempre.” (265)
“Se
non scriveva, non sapeva cosa fare.” (365)
Note sul libro di N. Fusini per “Robinson”
La
scrittrice, che così ritengo si debba etichettare Nadia Fusini, è molto brava
nel portarci nel mondo di Virginia Woolf. Con alcuni grossi difetti, però, che
ne fanno calare il giudizio. Non è mai empatica con il lettore, pur sforzandosi
di tanto in tanto ad inserire degli intarsi a lui dedicati. Ma sarà la
scrittura, o forse, in maniera più aderente, il soggetto, non si entra in
sintonia con lo scritto. Il secondo è che, volendo appunto portarci a spasso
per i quasi sessant’anni di Virginia, non riesce a farcene gustare lo scorrere
degli anni, l’avvicendarsi degli avvenimenti. Si va spesso su e giù per la
linea temporale, magari perché c’è un filo logico da seguire, ma se non si
conosce, ed intendo conoscere a fondo, l’opera della Woolf, si rischia di
perdersi, di non seguire più quanto si va esponendo. Avrei preferito, forse,
che nell’analisi dei testi, si pensasse al lettore che magari ha letto poco e
male di Virginia, e cerca in una biografia un motivo per avvicinarsi
all’autore. Qui, in parte, ci si avvicina alla scrittrice, che poi non è
lontano dall’idea del sé della Woolf. Che sostiene di esistere solo nella sua
opera, e che ritiene la biografia l’unica forma espressiva della letteratura.
Cosa che lei fa, come sottolinea abilmente la Fusini, mettendo la biografia di
sé e dei suoi sodali in tutte le sue opere, ovviamente sotto mentite spoglie.
Un ultimo accenno al sottotitolo, che recita “Il segreto di Virginia Woolf”.
Purtroppo, dopo 400 pagine ancora non ho capito quale sia.
Una decina di anni fa dedicai molto tempo
(ben speso) alla lettura dei libri giornalistici di Ryszard Kapuściński. In
questi giorni di lotta, e di solidarietà con le donne iraniane, vorrei dedicare
ampio spazio ad alcune bellissime citazioni riprese da “Shah-in-shah”, il
bellissimo reportage sulla caduta di Reza Pahlavi e sull’ascesa di Khomeini,
che riporto senza commenti (a parte uno doveroso, che condividerete di certo).
“Non potendo emigrare nello spazio, il popolo
intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno a un passato che, paragonato
ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso
perduto. Trova rifugio in usanze antiche: tanto antiche, quindi tanto sacre,
che il potere non osa combatterle” (citato)
“l’Iran
diventa l’asilo dei vari oppositori dell’impero mussulmano confluiti qui da
ogni parte del mondo per trovare rifugio, incoraggiamento e sostegno presso gli
sciiti … che insegnano i principi basilari della sopravvivenza. Per esempio, la
dissimulazione: davanti ad un avversario più forte, uno sciita può fingere di
accettare la religione dominante per salvare la propria vita…Oppure la tecnica
di disorientare l’avversario, che, in caso di pericolo, permette allo sciita di
fingersi tonto e sconfessare quel che ha detto un attimo prima.” (100)
“Riuscite
ad immaginare un capo di stato europeo, il quale racconti che andando a cavallo
è caduto in un precipizio e che sarebbe morto se un santo non avesse allungato
la mano per trattenerlo? Quando ne parla lo scià in un suo libro gli iraniani
non fanno una piega [e quando lo scrive Berlusconi, che fanno gli italiani?]”
(101)
“È sempre il potere a provocare la
rivoluzione. Non certo di proposito. Tuttavia, il suo stile di vita e di governo
finisce per diventare una vera provocazione. Questo si verifica quando tra i
personaggi dell’élite si instaura il senso dell’impunità e la convinzione di
poter fare tutto, di potersi permettere tutto. Questa è un’illusione, ma poggia
su un fondamento razionale. Per un po’ sembra in effetti come se i potenti
possano fare ciò che vogliono. Scandalo dopo scandalo, illegalità dopo
illegalità, tutto rimane impunito. Il popolo rimanere in silenzio. Hanno paura
e non si sentono sicuri delle proprie forze. Allo stesso tempo, tiene un
resoconto dettagliato dei torti subiti: tirerà le somme nel momento debito. La
scelta di questo famoso momento è il più grande enigma della storia.” (139)
“Se tutto sommato, la vita consiste nel
risolvere i problemi, il progresso risiede nel risolverli con abilità e
generale soddisfazione” (169)
“Un altro portato della rivoluzione iraniana
ha trovato conferma in tempi recenti anche in Europa: la consapevolezza di come
non sia possibile democratizzare uno stato multietnico” (186)
“Anche se si può distruggere un uomo,
distruggendolo lui non cessa di esistere. Al contrario, se posso esprimermi in
questo modo, egli comincia a esistere di più. Questi sono paradossi che un
tiranno non riesce ad affrontare. La falce taglia, e allo stesso tempo l'erba
comincia a ricrescere. Tagli di nuovo e l'erba cresce più veloce che mai. Una
legge di natura molto confortante” (citazione)
Come avete visto, nelle trame riporto anche i giudizi che ho inviato a “Robinson” sui libri letti. Una piccola ripetizione, ma, per me, doverosa. Come è doveroso ora, a sole due settimane dal Natale, unirvi tutti in un grande abbraccio.
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