domenica 11 dicembre 2022

I saggi del fine settimana - 11 dicembre 2022

Non so se ne avevo parlato, ma da tempo Giorgio Dell’Arti mi ha coinvolto nella grandissima macchina letteraria dei “Tornei di Robinson”. Ho letto alcuni libri, cioè romanzi, poi si è entrati nella spirale dei saggi. Di alcuni ne ho parlato già. Qui ne affrontiamo quattro, che non mi sono piaciuti molto. Anzi, il primo l’ho trovato irritante, il secondo leggibile ma solo per un rispetto storico. Meglio Martinelli ed il suo Dante o Nadia Fusini e la sua Virginia Woolf. Tuttavia, il meglio della settimana è un saggio che ho comprato per me, sui viaggi. Basta la parola!

Silvio Danese “In pace con la pancia” Sonzogno s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 22/06/2022 – I: 22/06/2022 – T: 24/06/2022] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 160; anno: 2021]

Dopo la parentesi, difficile ma tutto sommato stimolante, dei saggi letterari sui romanzi francesi e sul giornalismo, con questa tornata i miei amici repubblicani mi invitano alla lettura di altri saggi, veramente lontani dai miei interessi. Ma, come diceva un film decisamente stupido, “una promessa è una promessa”, e così leggiamo.

Intanto, devo dire che, in generale, non avendo una propensione per i saggi, ne ho una ancor minore per quelli di origine o di derivazione medica. E questo già mi indispone verso il libro.  In più il dottor Danese ha un modo di scrivere molto presupponente, del tipo che ti avverte: guarda io sono medico e quindi ho sempre ragione io quando parliamo della mia materia. In generale è vero, ma questo fa il paio con l’altra frase altezzosa che spesso si sente dietro le sue parole: “se avete i sintomi che ho descritto, andate da un gastroenterologo”. Una sola considerazione: non vedo perché devo investire dei soldi in un libro che mi consiglia di fare quello che io avrei comunque fatto, se mi sentissi male.

Fatto allora salvo il discorso sul contorno e sul significato, qualche dritta, qualche informativa, anche qualche suggerimento di pensiero relativo al proprio benessere se ne può favorevolmente trarre. Dato che se la pancia (con tutto quello che c’è dentro ed intorno) lavora bene, sta lì, non si fa sentire, è un sicuro indizio che possiamo dormire sonni tranquilli. Se invece protesta, se borbotta continuamente, se una stitichezza momentanea non risolve e si cronicizza, se abbiamo in maniera continuativa bruciori allo stomaco, che ci fanno sentire gonfi, allora bisogna indagare, allora bisogna intervenire.

Da questa premessa un po’ generica e genericamente condivisibile, il dottor Danese scende nel concreto ponendo domande puntuali, pur con risposte che non sempre vanno alla risoluzione ed alla risposta definitiva (o almeno esaustiva) del problema. A mo’ di esempio, ricordo in modo casuale alcune domande. Che significa il mal di pancia dopo mangiato? Come si capisce se il disturbo è emotivo? Ci sono esami da fare se la pancia sembra un palloncino? Esiste l’intolleranza al lievito?

Un punto interessante, e che ci riporta fulmineamente all’attualità, è il rapporto tra pancia e pandemia. Si è parlato molto dei problemi legati al COVID, la respirazione e tutto quanto concerne la parte superiore del corpo. Della pancia si è parlato pochissimo, anche se sia durante le fasi acute della pandemia, sia a valle delle guarigioni dal virus, c’è stata una sotterranea epidemia di mal di stomaco. Con bruciori, gonfiori, malattie localizzate nella pancia a seguito dello stress dovuto all’isolamento, in conseguenza di un’aumentata sedentarietà, per non dimenticarsi degli eccessi di cibo, spesso più cibo-spazzatura che buona alimentazione.

Quando poi non ci si è dimenticati di uno delle malattie più strettamente legate al COVID, l’intestino irritabile.

Nonostante io sperassi in un maggior consiglio, in un maggior ventaglio di soluzioni propositive, qualcosa viene detto. Ma di malattie che a me, profano, sembrano più marginali del diffuso mal di pancia. Penso ad esempio al capitolo dedicato al morbo di Crohn.

La pancia, di fatto, è veramente un organo basilare del nostro corpo, tant’è che studi recenti hanno portato a collegare alcuni microrganismi che lì abitano con la longevità crescente. Tuttavia, come accennato, la maggior parte delle analisi dei suoi malfunzionamenti, finisce con un poco consolatorio consiglio: andate a farvi vedere da un gastroenterologo.

Alla fine, poi, il dottor Danese conclude con un autoincensamento ed una prosopopea che colmano il bicchiere dell’irritazione. In sostanza, si loda e si sbroda essendo medico in questa struttura, dottore in quest’altra, essendo il migliore sulla piazza, e se avete dei problemi vi consiglio anche uno psicologo amico mio.

Sono completamente sicuro che molti mal di pancia siano influenzati dal cervello, ma non ci voleva certo il dottor Danese per ribadire un concetto che uno dei miei mentori, Luciano Marchino, già diceva venti anni fa: “Il corpo non mente”. Mentre ci sarebbe voluta, anche, un po’ di umiltà nell’affrontare le malattie, come fanno i medici di famiglia a me cari, che non cito, ma loro lo sanno.

Note sul libro di S. Danese per “Robinson”

Un saggio direi decisamente irritante. Ora, già sono poco propenso a ben volere i saggi medici. Ma almeno, nei pochi che ho letto, c’è un piccolo intento di spiegare ed indirizzare (non dico curare, che è di altri il compito). Qui, Danese non fa altro che elencare sintomi vari, riconducibili a mal di pancia e simili, concludendo ogni volta: “se avete questi sintomi, andate da un gastroenterologo”. Non vedo quindi perché investire soldi, quando questo consiglio l’avrei seguito a prescindere. Inoltre, lo stile di scrittura del dottor Danese è assai presupponente, come a dire che essendo lui medico ha tutto il diritto di mostrarsi un filo altezzoso. Avrei preferito un po’ più di umiltà, quella che hanno i medici di famiglia a me cari (Emilio e Ines), senza che qualcuno sbandieri: sono medico qui, sono dottore là, se venite da me vi mando anche da uno psicologo (e certo che molti mal di pancia sono influenzati dal cervello, ma non ci voleva Danese per dire quello che il mio amico Luciano Marchino diceva 20 anni fa: “Il corpo non mente”.

Simone Alliva “Fuori i nomi!” Fandango s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 22/06/2022 – I: 24/06/2022 – T: 30/06/2022] &+   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 288; anno: 2021]

Ancora un altro saggio che ha messo a dura prova la mia capacità di lettura. Non questa volta per la lunghezza, ma per l’argomento, di sicuro interesse, ma che non è riuscito a coinvolgermi. E dalla scrittura del giornalista Simone Alliva, di sicuro una buona penna, ma che non ha portato i temi del libro ad un riscontro positivo in chi, come me, è all’esterno del mondo descritto in queste pagine.

Il motore di partenza che ha portato alla scrittura è la ricorrenza del cinquantenario della nascita del movimento arcobaleno in Italia (e pubblicato nella celebrazione della Giornata Internazionale contro l’omo-bi-lesbo-transfobia nel 2021). Utilizzando un piccolo calembour nel titolo. “Fuori i nomi”, non solo invita i maggiori esponenti del mondo LGBT+ ad uscire allo scoperto, ma vuole rendere omaggio ai nomi di chi era stato il motore che spinse il movimento, di chi faceva parte del “Fuori” (che ricordo ai più giovani sta per “Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano”).

Alliva, da buon giornalista, adotta un metodo a lui consono, quello dell’intervista. Ma premettendo, ad ogni personaggio intervistato, un momento, una descrizione, una caratterizzazione, quasi un racconto introduttivo, che ci consente di sederci in tre, io, lui e il soggetto di cui si narra, in un modo più adatto a due chiacchiere intorno al caffè.

Inoltre, proprio per detipicizzare le interviste, queste non sono introdotte dal nome della persona, ma da un tratto caratteristico, da una fotografia dell’animo. Abbiamo così, tanto per citare a mente, l’anarchico, la strega cattiva, il custode, il ribelle e via con tutti gli altri. Che poi sono le persone che, quasi con un percorso storico, hanno caratterizzato la nascita del Movimento LGBT+, nei vari suoi momenti storici: Angelo Pezzana, Enzo Cucco, Giovanni Minerba, Felix Cossolo, Massimo Milani e Biagio “Gino” Campanella, Beppe Ramina, Graziella Bertozzo, Franco Grillini, Caterina “Titti” De Simone, Sergio Lo Giudice, Porpora Marcasciano, Deborah Di Cave, Vladimir Luxuria, Imma Battaglia, Giuseppina La Delfa, Bianca Pomeranzi.

Attraverso le loro parole, viviamo in prima persona alcune battaglie, alcuni eventi, fondamentali per il movimento stesso. La nascita del Fuori!, le battaglie del ’77, i duri anni della scoperta dell’Aids, il sorgere dei cortei Gay Pride sino al momento epocale del World Pride del 2000. 

Da questi excursus, dalle loro parole, escono fuori i problemi ed alcune iniziative attuali. Le seconde che nascono, purtroppo, anche come battaglie di retroguardia, laddove si deve registrare la perdita della potenza nel movimento stesso. Le divisioni, che sempre ci sono state, si cristallizzano qui anche nell’analisi, breve ma puntuale, del distacco, dell’autoesclusione di ArciLesbica. Movimento che ha rifiutato il confronto con le parole di Alliva, arrivando, ad escludere ogni possibile contatto nel momento che l’autore cercava di parlare con uno dei suoi massimi esponenti, Cristina Gramolini.

Non ho gli strumenti per entrare in questo punto, quindi torno sul primo, dove, le battaglie che si suggeriscono hanno il loro senso, anche se ne vedo anche la scarsa incisività sul sociale. Indubbio avere la forza per lottare sui diritti delle famiglie arcobaleno, giusto e sacrosanto portare avanti il matrimonio ugualitario, in modo da risanare quanto non si è potuto sanare con le unioni civili. Ma c’è poco altro, e spesso si ha più un senso di colloqui tra reduci alla deriva più che di spinte propulsive.

Anche per questo non ho voluto, in queste righe, entrare nel merito diretto di ogni intervista, non ho voluto parlare direttamente delle domande e delle risposte. Un esercizio che lascio a chi, con buona volontà, abbia voglia di leggere il libro.

Cito solo il piacere della lettura delle parole di Imma, che ho avuto il piacere di conoscere, e di cui avrei citato, in finale, i libri che ha scritto. Molto interessanti.

Che ripeto nonostante un sicuro piglio giornalistico, non esce dal guscio di una scrittura non coinvolgente. Così che, alla fine, abbiamo solo delle piccole o grandi storie, legate dalla matrice comune, ma poi un po’ sbrindellate nel tempo e nello spazio.

Note sul libro di S. Alliva per “Robinson”

Un saggio in minore, che non riesce ad uscire dal guscio di una non eccelsa scrittura. Ha però un merito, che gli consente un piccolo sprint. Tira fuori dal guscio (scusate il gioco di parole) molti personaggi che hanno girato, nel tempo, intorno al collettivo Fuori! (acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Quindi, ottima e da seguire l’intervista ad Angelo Pezzana, pur con le diversità politiche che ci possono essere. E tra nomi noti anche dal ristretto cerchio LGBT (Franco Grillini o Vladimir Luxuria), c’è anche tempo per fare un salto a casa della mia amica Imma (ma ne avrei citato i libri nella bibliografia). Tuttavia, pur volenterose, le interviste non riescono a dare spessore alla materia, quasi che non si capisse il senso dell’operazione-libro. Uno scrittore capace avrebbe potuto, partendo dalle interviste, imbastire un discorso più articolato e coinvolgente. Così, al fine, abbiamo solo storie, legate dalla matrice comune, ma poi un po’ sbrindellate nel tempo e nello spazio.

Christoph Ransmayr “Atlante di un uomo irrequieto” Feltrinelli s.p. (in omaggio con altro libro Feltrinelli)

[A: 18/05/2022 – I: 09/08/2022 – T: 12/08/2022] - && e ½  

[tit. or.: Atlas eines Ängstlichen Mannes; ling. or.: tedesco; pagine: 361; anno 2012]

Non sono di certo molti gli scrittori moderni di nascita austriaca che sono presenti nella mia biblioteca. Perché a parte i classici, tipo Arthur Schnitzler e pochi altri, di moderni significativi, a mente, ricordo solo Peter Handke. Ora, Ransmayr non è certo nelle vette letterarie, ma a me ha fatto piacere leggerne, non tanto per la scrittura in sé, quanto per l’animo dello scrittore, che, e qui lo si ritrova in pieno, è certo un grande viaggiatore.

Scrive ed ha scritto interessanti opere di viaggi (reali o meno), come il suo miglior successo, “Il mondo estremo” che narra di Ovidio, della sua morte in Romania, delle sue opere, seguendo le vicende spazio-temporali del senatore romano Aurelio Cotta. Qui, si imbarca in un’impresa al tempo interessante e rischiosa. Al punto che non sempre riesce a governare il rischio, così da risultare di difficile lettura, pur se con innegabili momenti suggestivi.

Non c’è una narrazione, non c’è un filo conduttore nei settanta racconti che compongono quest’atlante, se non il soggetto narrante, quello che inizia ogni testo con le parole “Ho visto”. Per sottolineare che lui, lì, nei trentasei paesi di cui si parla, c’è stato. Lui, lì, ha visto, ed ora ce ne parla. Senza un altro filo che questo. Che la narrazione va avanti e indietro nel tempo, ci sono (e si nota dai momenti di aggancio a tempi storici scanditi) episodi recenti ed episodi antichi, almeno per noi. Che per Ransmayr fanno tutti parte del florilegio di sensazioni che lui, viaggiatore attento e solitario, ha raccolto nel corso della sua lunga vita viaggiante (ed ha solo un anno meno di me).

Senza alcuna omogeneità, quindi, passa dalla descrizione del piccolo pianista con le protesi in Giappone (che tanto mi ricorda il concerto romano di Michael Petrucciani al Teatro Olimpico) all’immensità del cielo pieno di stelle di questo o quel posto remoto nell’orbe terracqueo. Orbe cui si cala nel profondo del blu o dello scuro, magari guardando dormire una balena nelle profondità vicino ai Caraibi Domenicani (ed io ripenso alla nuotata in Mozambico accanto ad un gigantesco squalo-balena) o camminando tra le colonne della cisterna di Yerebatan ad Istanbul (ma io di quella città ricordo ancora gli affreschi di San Salvatore in Chora).

Si capisce, proprio dietro quell’incipit di ogni testo, che comunque, c’è sempre l’uomo dietro e dentro tutti i paesaggi. Un agire che si spande per tutto il globo, dove siamo sempre noi che lottiamo e ci uccidiamo nelle lotte selvagge che sconvolgono l’isola di Pitcairn, che diventiamo acerrimi guardiani in un manicomio austriaco, che aiutiamo il povero cameriere americano a raccogliere i cocci delle bevande cadute al suolo. Per poi avere sussulti di ricordi quando, seguendo la barca che scende il Mekong nel Laos, l’autore scende e parla con il padre che osserva il figlio rematore, ed io mi aggiro tra le villette di Luang Prabang alla ricerca della casa di Marguerite Duras.

Essendo un vero viaggiatore, non può esimersi dal sottolineare le altre e pesanti responsabilità dell’uomo: il colonialismo, in tutte le sue forme, ma anche l’incuria ambientale, dove non posso che riandare con la mente ad Angkor Wat, laddove, quando l’uomo si ritira, a poco a poco, la natura riprende il possesso della “sua” terra.

Allora, ci siamo, andiamo, leggendo con calma, centellinando i paesaggi, quest’atlante, andiamo per le vie poco battute, fermiamoci nelle locande nascoste, parliamo, soprattutto, parliamo con chi ci sta intorno. Anche se poi, il libro, bello nelle sue idee generatrici, non mantiene tutte le promesse, si appesantisce talvolta in lunghe descrizioni, o in momenti che sfuggono perché immersi in altro, o perché di altro, che a noi non viene detto, sono pieni. Per questo, alla fine, il giudizio positivo, scende un po’ per la difficoltà nella forma.

Ma visto che si parla di viaggi, io mi sento sempre tirato in causa. Sottolineo, quindi, che, dei 36 paesi citati, ne ho esplorati 26. Dove tra tanto narrare e descrivere, a me tre punti rimangono fissi nella memoria dei miei viaggi. La visita alla salma imbalsamata di Lenin nella Piazza Rossa (ma io ho visto anche Mao-Tse Tung a Piazza Tienanmen).  Il racconto del colpo di stato in Nepal, avvenuto (era il 2001) pochi giorni dopo il mio ultimo viaggio a Katmandu. Ma soprattutto, le descrizioni di Vatnajokull e di Jokursarlon in Islanda, due luoghi che rimarranno sempre nel mio cuore e nella mia mente.

E se l’autore chiosa che non c’è un momento in cui senta di aver visto abbastanza, io sottolineo, facciamo un piccolo zaino e andiamo.

“Le storie non accadono, le storie vengono raccontate.” (9)

“[Allora si rinforzò] la speranza che ci fosse davvero una via per arrivare alla felicità da una situazione disperata e che ognuno … già quasi sconfitto, potesse trovarla e percorrerla.” (291)

Marco Martinelli “Nel nome di Dante” Ponte alle Grazie s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 14/08/2022 – I: 16/08/2022 – T: 17/08/2022] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 160; anno: 2019]

Altro libro, altro saggio della fucina di Robinson che mi è stato gentilmente concesso di leggere. Un libro che, in effetti, più che un saggio dantesco, è una doppia biografia. Da un lato abbiamo Dante, il suo mondo, la sua scrittura. Dall’altra abbiamo la vita di Vincenzo Martinelli, padre dell’autore, ed una serie di altre esistenze collegate.

Ma facciamo un passo indietro, che dobbiamo intanto narrare che Marco Martinelli è uno scrittore di teatro, grande conoscitore di Dante (e leggendo ne scopriremo i motivi) che dal 2017 ha portato in teatro la Commedia, iniziando con l’Inferno e coinvolgendo nella narrazione teatrale attori ma anche spettatori dell’esordio ravennate. Lavoro poi proseguito nel 2019 con il Purgatorio, e che sarebbe dovuto terminare nel 2021 con il Paradiso, progetto però che si è arenato per i problemi pandemici insorti.

Durante tutto il lavoro intorno a Dante, Martinelli si pone la domanda se ha senso leggerne e se ha un senso per i giovani d’oggi. Domande di difficoltà elevata, cui l’autore cerca di rispondere non con un saggio su Dante, ma con questo percorso che, come detto, da un lato ci parla di Dante, e dall’altro ci parla di come l’autore sia arrivato a Dante. Scrivendo un testo che, pur con qualche mescolamento di troppo, saltabecca tra il tempo dantesco ed il tempo presente.

A me, pur entrando poco nell’economia di un discorso dantesco, è ovviamente il canto dei giorni privati dell’autore quello che mi ha intrigato di più. Il padre Vincenzo che leggeva al piccolo Marco brani di Dante come storie prima di dormire. La storia di Vincenzo stesso, lo studio giovanile, l’incontro con Lorenza, futura madre di Marco, il lavoro politico nell’Emilia rossa, lui invece bianco, fino all’insediarsi come addetto alla segretaria tecnica della Democrazia Cristiana. Lavoro che porterà avanti fino all’uccisione di Moro. Da lì prende il sopravvento anche il percorso personale di Marco, che sposa nel ’77 Ermanna, che insieme a lei lavora al teatro, e fa il suo percorso che, per l’appunto, lo riporterà alle storie del padre ed a Dante.

Dante che non ci siamo scordati, nei capitoli alterni. Un Dante che seguiamo anche qui nei suoi percorsi. Ragazzo che vede la sua città sconvolta dal conflitto tra Guelfi e Ghibellini. Dante giovane, innamorato, poeta, sodale di Guido e Lapo. E come tutti impegnato, in politica, e dalla politica, e dalla sua sconfitta, costretto all’esilio (“ah, come sa di sale lo pane altrui”). Ed in esilio, malato, ucciso dalla malaria e sepolto in quel di Ravenna. Qui c’è una delle parti più coinvolgenti del testo, nel racconto delle peripezie delle ossa del Sommo.

Martinelli usa una metafora che ho trovato una delle più calzanti per il percorso dantesco. Vede le lotte, il dilaniarsi, colpirsi senza quartiere, e trasforma le lotte terrene nel suo Inferno. Vede la possibilità che ognuno con le forze e con aiuti dall’alto possa ricominciare e la trasforma nel suo Purgatorio. Vede l’infinta potenza dell’Amore, trasfigurandola nel suo Paradiso.

Per questo, Dante ci parla ancora, perché ognuno di noi ha attraversato una selva oscura dove la diritta via era smarrita.

Pur nel suo divagare, è comunque un libro che si legge con agilità, che pone qualche seme nella nostra mente, laddove riflettiamo ad una lettura di tutta la costruzione dantesca come una protesta, sincera, sentita, contro le ingiustizie.

Ed a proposito di semi, una prima riflessione personale mi rimanda a mio padre. Certo, il paragone che usa papà Vincenzo è ardito ma non campato in aria. Portando le lotte fiorentine nel presente, vede i Ghibellini trasformati nella Sinistra più o meno varia, ed i Guelfi nella sua DC. Vieppiù quando si mettono in lotta i Guelfi bianchi (come Moro e Zaccagnini) contro i Guelfi neri (come Andreotti). Ma lì entra mio padre con quel tentativo, suo e di suoi sodali di conciliare un sentimento di libertà nato dall’uguaglianza con un profondo senso religioso.

Poi c’è la nascita dei miei ricordi scolastici, delle lunghe discussioni, a volte feroci, con il mio amato/odiato professore d’italiano, il sempre caro alla fine professor Torinto Morganti. Dove al fine, con lui e con Dante, non posso che tornare al mio amato viaggiatore dell’antichità, e con lui recitare: "Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza".

“Se vogliamo arrivare alla luce, dobbiamo prima attraversare le tenebre.” (97)

“Quando leggo su un giornale di un sessantenne … che definiscono vecchio … io con i miei … anni, cosa sono? Da buttare? E mi sembra ieri che ne avevo 50…” (128)

“Il meglio finisce sempre per accadere e il futuro è migliore del passato (Teilhard de Chardin)” (128)

“A rischiare si può perdere qualcosa, a non rischiare si perde tutto.” (135)

Note sul libro di M. Martinelli per “Robinson”

L’autore è senz’altro un bravo drammaturgo, capace di infondere forza visiva alle sue parole. Mi lascia un po’ perplesso, tuttavia, il costrutto del libro, a metà tra un viaggio nell’epoca dantesca ed uno nella biografia personale dell’autore, soprattutto per celebrare i fasti del padre Vincenzo. Sarebbe quasi da fare due recensioni. La parte con Vincenzo, Luciana, l’autore e tutta l’Italia tra la Guerra, il miracolo economico, Aldo Moro e gli anni senili è bella e coinvolgente, tanto che si legge con gusto e velocità. Anche con rimembranze, sia dei furori paterni, sia delle lotte scolastiche con il mio amato-odiato insegnante di lettere, il prof. Torinto Morganti. La parte dantesca, invece, risulta un po’ monca. Non è incisiva, non è risolutiva, non accompagna in particolare nella parte “Commedia”. Certo, si cerca di far uscire Dante dall’imbalsamato busto della letteratura, per farlo uomo del suo tempo. Operazione in parte riuscita, ma non completamente. Forse, e non è un caso, risulta avvincente solo la storia relativa alle ossa del sommo poeta. Ed anche, non a caso, le sue peregrinazioni ravennati, il rapporto con Guido Novello da Polenta, il mescolar quella Ravenna a quella d’oggi è un secondo punto di forza. Non a caso, l’autore ha messo in scena drammaturgie dantesche per Ravenna Festival a partire dal 2017.

Nadia Fusini “Possiedi la mia anima” Feltrinelli s.p. (Regalo “Torneo Letterario Robinson”)

[A: 14/08/2022 – I: 18/08/2022 – T: 22/08/2022] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 400; anno: 2006]

Qualcuno forse lo sa, o lo ha seguito nelle mie parole, ma tra giugno e agosto sono stato pesantemente coinvolto nei tornei di Robinson (se non sapete cosa sono vi rimando allo spiegone). Questa lettura è stata l’ultima faticosa di tutto il lotto. Una scrittura da cui mi aspettavo molto e che invece si è rivelata inferiore all’attesa.

Intanto, in alto ho indicato l’anno di scrittura originale del testo, uscito per Mondadori, mentre questo che ho letto, sotto la spinta di Robinson, si riferisce alla ristampa di Feltrinelli del 2019. Non so che differenze ci siano, ma tant’è, un segnalazione.

Nella scrittura, che segue un dettame molto sentito da Virginia (“la letteratura è biografia o non è”), nel tentativo di rappresentarci la vita della scrittrice, l’altrettanto brava (mutatis mutandi) Nadia si avventura in una scrittura complicata. Entra nel mondo di Virginia e poi ne esce, con dei capitoli rivolti direttamente “al lettore”, in cui è lei, Nadia, che parla a noi che leggiamo, ma non direttamente della materia di cui stiamo leggendo.

Questo tentativo trasversale di raccontare la vita e le opere di Virginia, di ovvio acume intellettuale, alla fine però mi fa anche perdere di vista il cronologico procedere della vita della scrittrice nella Londra a cavallo del secolo ottocentesco sino alla Seconda guerra mondiale. Basando molto della sua scrittura direttamente sugli scritti della Woolf, è ovvio che il ritratto che ne esce è di sicuro vicino il più possibile all’originale, senza poterlo ricalcare.

È così che seguiamo, intervallati da un certo punto in poi dalla punteggiatura degli scritti di Virginia, il mondo della Woolf, come nasce e come si evolve. Il complesso rapporto con i genitori, complicato dalla morte precoce della madre e, poco dopo, anche del padre. Il legame, problematico ed a volte irrisolto, con i fratelli e con i fratellastri. L’incontro con Leonard Woolf, il matrimonio, i viaggi, con la famiglia, ma anche e soprattutto, dal ’12 in poi (lei trentenne) con il marito. La descrizione dei luoghi eponimi che la videro protagonista e motore primo: Talland House (quella che servì come scenario per il bellissimo “Al faro”), Hyde Park Gate, Monk’s House (la stanza tutta per sé), ma soprattutto Bloomsbury, ed il gruppo di amici ed intellettuali che lì fecero il loro cenacolo.

La Fusini, ovvio, non dimentica poi gli interessi extra letterari di Virginia: l’arte in tutti i suoi aspetti, la politica espresso soprattutto nel pacifismo onnipresente, l’impegno sociale con tutte le passioni di emancipazione femminile sempre e comunque presenti nella scrittrice. Ma l’avanzare della narrazione non avviene spesso per episodi, ma nella descrizione degli stati d’animo, nella quotidianità, nell’ansia per l’uscita di un libro, che per lei diventava ogni volta il surrogato di un parto.

Fino al non facile approdo alla decisione, certo in un momento di depressione, ma coerente con il sentire di tutta la sua vita, e rispettosa del rapporto con il marito Leonard, di porre fine alla sua vita. Uno dei punti più difficile da descrivere ed affrontare.

Seppur notevole nella decisione dell’impianto generale che Nadia Fusini dà al testo, alla fine mi rimangono molti vuoti. Il motivo di fondo è che bisognerebbe conoscere meglio Virginia Woolf ed i suoi scritti per potersi sbrogliare nella matassa descrittiva. In fondo, era questo che mi aspettavo, una più esplicita narrazione non tanto della cronologia biografica della scrittrice, quanto nella genesi e nel significato che i suoi scritti impongono al corso della sua vita.

Rimango così ancora una volta perplesso rispetto alla grande scrittrice londinese, di cui ho letto, anche se non molto. Ma ogni volta sono rimasto fermo ad un passo dalla vera comprensione del testo. Mi ricordo, ad esempio, il bellissimo racconto su Mrs. Dalloway e la sua giornata londinese. Bello, formalmente corretto, senza una parola fuori posto, esempio di quel mondo fatuo della aristocrazia o semi-aristocrazia inglese. Senza tuttavia che entri nelle mie corde. Un esercizio intellettuale che alla fine, come tutti i giochi mentali, mi incuriosisce ma non mi appassiona.

Allo stesso modo di questo libro di Nadia Fusini. Mi ha incuriosito, ma non mi ha soddisfatto.

“Non credo si invecchi. Credo si cambi.” (230)

“A cinquant’anni o si rinasce o si resta moribondi per sempre.” (265)

“Se non scriveva, non sapeva cosa fare.” (365)

Note sul libro di N. Fusini per “Robinson”

La scrittrice, che così ritengo si debba etichettare Nadia Fusini, è molto brava nel portarci nel mondo di Virginia Woolf. Con alcuni grossi difetti, però, che ne fanno calare il giudizio. Non è mai empatica con il lettore, pur sforzandosi di tanto in tanto ad inserire degli intarsi a lui dedicati. Ma sarà la scrittura, o forse, in maniera più aderente, il soggetto, non si entra in sintonia con lo scritto. Il secondo è che, volendo appunto portarci a spasso per i quasi sessant’anni di Virginia, non riesce a farcene gustare lo scorrere degli anni, l’avvicendarsi degli avvenimenti. Si va spesso su e giù per la linea temporale, magari perché c’è un filo logico da seguire, ma se non si conosce, ed intendo conoscere a fondo, l’opera della Woolf, si rischia di perdersi, di non seguire più quanto si va esponendo. Avrei preferito, forse, che nell’analisi dei testi, si pensasse al lettore che magari ha letto poco e male di Virginia, e cerca in una biografia un motivo per avvicinarsi all’autore. Qui, in parte, ci si avvicina alla scrittrice, che poi non è lontano dall’idea del sé della Woolf. Che sostiene di esistere solo nella sua opera, e che ritiene la biografia l’unica forma espressiva della letteratura. Cosa che lei fa, come sottolinea abilmente la Fusini, mettendo la biografia di sé e dei suoi sodali in tutte le sue opere, ovviamente sotto mentite spoglie. Un ultimo accenno al sottotitolo, che recita “Il segreto di Virginia Woolf”. Purtroppo, dopo 400 pagine ancora non ho capito quale sia.

Una decina di anni fa dedicai molto tempo (ben speso) alla lettura dei libri giornalistici di Ryszard Kapuściński. In questi giorni di lotta, e di solidarietà con le donne iraniane, vorrei dedicare ampio spazio ad alcune bellissime citazioni riprese da “Shah-in-shah”, il bellissimo reportage sulla caduta di Reza Pahlavi e sull’ascesa di Khomeini, che riporto senza commenti (a parte uno doveroso, che condividerete di certo).

“Non potendo emigrare nello spazio, il popolo intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno a un passato che, paragonato ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso perduto. Trova rifugio in usanze antiche: tanto antiche, quindi tanto sacre, che il potere non osa combatterle” (citato)

“l’Iran diventa l’asilo dei vari oppositori dell’impero mussulmano confluiti qui da ogni parte del mondo per trovare rifugio, incoraggiamento e sostegno presso gli sciiti … che insegnano i principi basilari della sopravvivenza. Per esempio, la dissimulazione: davanti ad un avversario più forte, uno sciita può fingere di accettare la religione dominante per salvare la propria vita…Oppure la tecnica di disorientare l’avversario, che, in caso di pericolo, permette allo sciita di fingersi tonto e sconfessare quel che ha detto un attimo prima.” (100)

“Riuscite ad immaginare un capo di stato europeo, il quale racconti che andando a cavallo è caduto in un precipizio e che sarebbe morto se un santo non avesse allungato la mano per trattenerlo? Quando ne parla lo scià in un suo libro gli iraniani non fanno una piega [e quando lo scrive Berlusconi, che fanno gli italiani?]” (101)

“È sempre il potere a provocare la rivoluzione. Non certo di proposito. Tuttavia, il suo stile di vita e di governo finisce per diventare una vera provocazione. Questo si verifica quando tra i personaggi dell’élite si instaura il senso dell’impunità e la convinzione di poter fare tutto, di potersi permettere tutto. Questa è un’illusione, ma poggia su un fondamento razionale. Per un po’ sembra in effetti come se i potenti possano fare ciò che vogliono. Scandalo dopo scandalo, illegalità dopo illegalità, tutto rimane impunito. Il popolo rimanere in silenzio. Hanno paura e non si sentono sicuri delle proprie forze. Allo stesso tempo, tiene un resoconto dettagliato dei torti subiti: tirerà le somme nel momento debito. La scelta di questo famoso momento è il più grande enigma della storia.” (139)

 “Se tutto sommato, la vita consiste nel risolvere i problemi, il progresso risiede nel risolverli con abilità e generale soddisfazione” (169)

“Un altro portato della rivoluzione iraniana ha trovato conferma in tempi recenti anche in Europa: la consapevolezza di come non sia possibile democratizzare uno stato multietnico” (186)

“Anche se si può distruggere un uomo, distruggendolo lui non cessa di esistere. Al contrario, se posso esprimermi in questo modo, egli comincia a esistere di più. Questi sono paradossi che un tiranno non riesce ad affrontare. La falce taglia, e allo stesso tempo l'erba comincia a ricrescere. Tagli di nuovo e l'erba cresce più veloce che mai. Una legge di natura molto confortante” (citazione)

Come avete visto, nelle trame riporto anche i giudizi che ho inviato a “Robinson” sui libri letti. Una piccola ripetizione, ma, per me, doverosa. Come è doveroso ora, a sole due settimane dal Natale, unirvi tutti in un grande abbraccio.

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