Mirko Zilahy “È così che si uccide”
Corriere Thriller Psicologici 10 euro 7,90
[A: 24/09/2018 – I: 19/06/2022 – T: 20/06/2022]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 408; anno:
2016]
Ero curioso di leggere l’inizio della
trilogia thriller di Mirko Zilahy, di
cui mi aveva accennato il Bissa. Ed anche perché un autore romano ben ci sta
nelle mie letture. Il risultato è stato di sicuro gradevole, anche se mi
aspettavo qualcosa di meglio. Non mi hanno convinto alcune costruzioni di
scrittura, mi ha lasciato un po’ freddo il meccanismo thriller e la sua
decodifica finale. Di certo, invece, mi ha coinvolto l’aggirarsi di una serie
di scene in una Roma particolare. Quella tra il Gasometro, San Paolo fuori le
mura e Testaccio, quest’ultimo non a caso perché ogni volta risveglia
sentimenti familiari.
Su
Testaccio parleremo anche in altra sede, anche se in zona ho prima passato
domeniche su domeniche tra i mei cinque e dieci anni, e poi tanto tempo
scandito dalle feste familiari sui colli aventiniani. Ma questa è un’altra
storia.
Torno
al libro, iniziando dalla cosa che meno in assoluto mi ha convinto.
L’inserimento cioè in questa collana di “Thriller psicologici”. Una scelta del
Corriere per riempire una collana, sebbene questo di Mirko sia certamente un
thriller a tutti gli effetti, ma sul lato psicologico non mi pare abbia le
cartucce del caso. Certo, ognuno di noi, come il killer, come il commissario, e
come tutti i protagonisti del libro, scavando, ha un lato psicologico da
approfondire e da esorcizzare. Ma il termine della collana, come detto anche
altrove, è ben caratterizzante un genere cui il buon libro di Zilahy non
aderisce.
Che qui abbiamo un thriller in piena
regola, imperniato sulla figura del commissario Enrico Mancini. Uno dei
commissari di punta del panorama romano, specializzatosi a Quantico (diventato
ormai un must), ma tornato abbastanza distrutto in Italia in seguito alla morte
per cancro dell’amata moglie Marisa. Così che ora dirige il commissariato di
Roma Montesacro, cercando di rimanere molto defilato. È anche abbastanza
maniacale, non ama i contatti con altri, indossa sempre i guanti, ed ogni due
per tre ci riempie l’anima della moglie morta.
Nella sua zona, ed in particolare a
Testaccio avviene il primo omicidio. Efferato, chirurgico, con una
rivendicazione tra il plausibile e lo sfidante. Una mail (che diventeranno
tante) che di sicuro nascondono qualcosa, non a caso viene firmata da un
fantomatico “Ombra”. All’inizio c’è molto poco, tanto che Mancini si vorrebbe
tirare indietro. Solo dopo il secondo omicidio, e la seconda rivendicazione,
Mancini si fa persuaso del fatto che le morti sono ascrivibili ad un serial
killer. Così, pur se non convinto, mette su la sua squadra. Che, oltre al capo
della polizia, risponde alla PM Giulia Foderà, e comprende l’ispettore Walter Comello,
l’ispettrice e fotografa tirocinante Caterina De Marchi ed il criminologo Carlo
Biga.
Soprattutto con l’aiuto di Carlo, Mancini
riesce a visualizzare il profilo del killer: solo, trentenne, intelligente,
organizza le morti come a vendicarsi di torti subiti, con indizi che rimandano
alle colpe da espiare (quasi fossimo in un contrappasso dantesco). A questo
punto, è solo questione di loro due, dei due protagonisti, Mancini e l’ombra.
Ma chi è la preda e chi il predatore? Come non collegarsi anche al passato del
killer (per ora ignoto) ed a quello di Mancini (ben noto, ma fino a che punto
intrecciato con il caso?).
Ma in seguito a complicazioni varie,
Mancini sembra voler tirarsi indietro. Solo che il complesso rompicapo si sta
ricomponendo nella sua mente. Si mettono in fila ai suoi comandi le direttive
di Quantico: quando, cosa, dove, chi, come. Alla ricerca del perché Mancini
mette tutto sé stesso in gioco, riuscendo tuttavia a comunicare alcuni indizi
alla sua squadra, e come in una corsa a staffetta si riesce ad arrivare alla
soluzione di tutti i nodi. Con la forte idea che questo potrebbe essere solo
l’inizio di un nuovo personaggio seriale.
Una bella e promettente scrittura,
un’indagine non solo poliziesca, ma anche sugli effetti del tempo sull’uomo: il
passato che incide sul presente inducendo emozioni che si riversano sul nostro
futuro. Uno stile anche curato, pur con la difficoltà che l’alternanza dei tempi
verbali, tra presente e passato, porta ad una lettura distesa.
E poi c’è Roma, con il suo passato (il
Colosseo, Testaccio) ed un presente proiettato nel futuro (la zona industriale
del Gasometro, il futurismo dell’EUR). Una Roma, che, come Mirko, non potrò mai
togliermi dal cuore.
Inciso finale, sebbene Mirko cerchi in
tutti i modi di camuffare le date, oscurandole dalle mail, tra il modo di agire
dei protagonisti, e l’inizio della storia un lunedì primo di settembre,
possiamo affermare che siamo nel 2014.
“Quel tratto del Tevere era un punto di
approdo per le imbarcazioni che trasportavano le merci. Nel tempo le anfore che
contenevano alimenti sono state accatastate sino a formare una montagnola … ne
è derivato il nome di monte Testaccio o monte dei cocci,” (117) [ne vogliamo
parlare…]
Mirko Zilahy “La forma del buio” TEA euro 12
(in realtà, scontato a 9,60 euro)
[A: 22/05/2021 – I: 27/11/2022 – T: 29/11/2022]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 414; anno:
2017]
Affrontiamo ora il secondo episodio della
trilogia del commissario Mancini, sempre seguendo quel suggerimento del Bissa,
anche se, andando avanti, la storia, l’intreccio, nonché la sua soluzione mi
sembrano un po’ meno convincenti ed avvincenti rispetto alla prima uscita.
Come tutti i romanzi seriali, ci aspettiamo
il progredire delle vicende dei protagonisti. In particolare, ci aspettiamo che
il commissario Enrico Mancini esca dal suo torpore post-mortem dell’amata
moglie, che un po’ ricalca gli atteggiamenti alla Rocco Schiavone, e questo ne
frena di certo la simpatia. Aveva iniziato una timida intesa con il procuratore
Giulia, ma in questa seconda puntata, primo Giulia compare poco, di sfuggita, e
solo nel finale, e secondo Enrico è ancora bloccato nei rapporti con l’universo
mondo, tanto che quasi mai risponde al telefono, e questo sarà un elemento che
gli peserà molto nel corso delle indagini. Solo in finale, dopo la lettura di
una lettera postuma della moglie, forse torna, nella parte umana, a comportarsi
quasi normalmente. Lo vedremo di certo nel terzo romanzo.
Poi ci sono i due suoi sottoposti principali,
Walter il vice e Caterina la fotografa, che invece sembrano aver imboccato non
dico la strada di un rapporto definitivo, ma di certo un iniziale moto
reciproco che non ci sorprenderebbe vada avanti. Anche se c’è una zeppa
laterale: già nel precedente romanzo c’era Niko il rom che avevo aiutato Cate e
da lei era benvoluto. Qui ricompare, fornisce aiuti, anche non fondamentali, e
poi scompare, lasciando un segno nella mente della fotografa. Un nodo che dovrà
sciogliersi presto.
Rimangono i due “dottori”. Il criminologo
Carlo, che alla fine avrà modo di tornare a discettare con Enrico sul profilo
dei criminali, anche rischiando di finire male. Il patologo Antonio,
conflittualmente rapportandosi ai cadaveri, che sembra trovare finalmente anche
scopi altri, ma fin dall’inizio a noi non sembrava una storia durabile.
Smarcato il punto dei personaggi, veniamo
alla struttura. A me continua a non piacere l’uso, ormai in voga nei thriller,
di inserire parti in corsivo, dove si crede di far vedere prospettive altre.
Anche perché Mirko qui, a volte le usa come soggettiva del cattivo, altre
descrittive, anche se sempre con il cattivo di mezzo. Insomma, continua a non piacermi
questo utilizzo.
La struttura complessiva, poi, con le dovute
differenze, ricalca l’impianto del primo romanzo. C’è un cattivo, che ci viene
subito presentato, e che persegue un suo disegno criminale. Sappiamo che è
disturbato, sappiamo che ha vissuto a lungo in un convento francescano, vediamo
il suo sdoppiamento tipo dr. Jekyll e mr. Hide, con il secondo che a poco a
poco prende il sopravvento. Ma non per fattori chimici esterni, quanto per una
mutazione interna dei geni della persona, altro motivo che, medicalmente,
lascia perplessi.
Dall’altra parte c’è la nostra squadra, che,
come l’altra volta, all’inizio brancola nel buio. Scopre, uno dopo l’altro, i
delitti, e la loro ferocità. Ma ci mette molto tempo a trovare i primi bandoli
della matassa che porterà alla soluzione.
L’aspetto psicologico – horror è il modo in
cui il cattivo compone i corpi dopo averli uccisi. Li trasforma in quadri
mitologici, cominciando da Laocoonte, per poi passare alla Sirena, al
Minotauro, a Scilla, a Lamia, a Caronte, al Ciclope, a Bacco, per terminare con
l’Orco. Tutti aspetti in cui c’è una degenerazione dell’aspetto umano con
intarsi animaleschi e di feroce cattiveria. Ci vorrà l’aiuto di una dottoressa
esperta in mitologia per unire i puntini, anche se, fin dal suo primo apparire,
a me suonava una partecipazione stonata.
Il puzzle si ricompone quando Walter trova
una fune utilizzata come cordone dagli ordini francescani, riuscendo a risalire
all’unica fabbrica che li produce, ed all’unico convento che li ha ordinati.
Quello dove stava il cattivo all’inizio, e da dove scappa tre anni prima della
vicenda che leggiamo. Una domanda sale facile alla mente, come abbia fatto per
tre anni a rimanere occultato. Domanda cui Mirko dà una risposta, anch’essa
poco convincente.
Altro elemento ripetitivo dello schema
“Zilahy”, una volta capita la traccia che porta al cattivo, c’è il momento
hard-boiled che scioglie definitivamente il dramma. Questa volta, tuttavia, il
cattivo farà una fine diversa dall’Oreste del primo romanzo.
Non posso non dire, comunque, che, nonostante
tutto, la scrittura di Mirko si mantiene quasi sempre ad un buon livello,
rendendo facile la lettura anche per chi non conoscesse già i personaggi.
Inoltre, ci sono ottime digressioni sulle parti mitologiche. Di sicuro, la
Lamia intesa come personaggio metà donna, metà animale, rapitrice di bambini.
Le altre sono più scontate, anche se trovo geniale il finale con l’Orco. Che
non è il cattivo delle fiabe, ma il dio degli Inferi nella mitologia romana. E
soprattutto un elemento mitologico di origine etrusca. Quindi, come non far
collassare la storia verso la “Bocca dell’Orco” del Parco dei Mostri di
Bomarzo. Altro elemento che mi avvicina alla topologia del romanzo, essendo
quel parco ben vicino alla nostra casa campagnola.
Infine, come nel primo episodio, c’è lo
sfondo, anche forse un po’ più di uno sfondo, della mia città, di questa Roma
che meriterebbe una sorte migliore. C’è la Galleria Borghese, immersa nel verde
della Villa omonima, c’è la Casina delle Civette di Villa Torlonia, c’è il
giardino zoologico (o meglio il Bioparco), c’è il triste Lunapark dell’Eur. E
ci sono quartieri, il Pigneto, la Garbatella, Trastevere e Montesacro. Ovvio, e
non ci torno, il plusvalore del finale in quel di Bomarzo.
Questa volta, comunque, Mirko ha fatto tesoro
di alcune osservazioni, togliendo ogni riferimento temporale diretto, così che
possiamo solo desumere che la storia si svolga nel nostro presente, magari
qualche settimana o un mese dopo la fine del precedente romanzo, quindi,
conseguentemente, tra la fine del ’14 e l’inizio del ’15.
Mirko Zilahy “Così crudele è la fine”
Corriere Profondo Nero 22 euro 7,90
[A: 05/12/2019 – I: 29/01/2023 – T: 30/01/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 418; anno:
2018]
Terzo ed ultimo volume della trilogia che
l’autore chiama “degli Spettri”. Dispiace che sia finita, come dispiace sempre
quando si segue una serie, anche se non ha impatti emozionali stratosferici.
Dispiace meno, che la serie andava in calando, e quest’ultimo romanzo l’ho
trovato un filo sotto i precedenti.
Tra l’altro, facendo una summa della
trilogia, forse questo è il romanzo che più avrebbe avuto sede nei Thriller
Psicologici (leggete il commento al primo volume), che meglio si scava nella
psicologia dei personaggi, soprattutto per far uscire dalle sue paturnie il
commissario Mancini.
Oltre al commissario ritroviamo la sua
squadra, coesa, compatta, e questa volta ben delineata: il vice Walter che
ormai fa coppia fissa con la fotografa Caterina, l’esperta di antichità
Alexandra in un piccolo cammeo, che serve a tirare finalmente fuori l’anima del
patologo Antonio, il professor Biga che seppur costretto sulla sedia a rotelle,
come sappiamo dal precedente libro, con alcuni scritti, vuoi voluti, vuoi
perduti, dà un contributo non marginale all’indagine ed il PM Giulia Foderà,
che sta riscrivendo il lato umano di Mancini, portandolo, senza invasività,
anche se non da sola, a superare il dramma della morte della moglie Marisa.
Ma coprotagonista assoluta, ed in questo
ringrazio l’acume di Mirko, è Roma. Certo, ancora una parte di Roma occulta,
segreta, che a noi romani dice e molto. Mi domando solo quale ritorno ne abbia
un lettore di altre città. Non dico solo per quei punti che, magari, anche ai
romani sono noti, seppur solo perché ci passano ogni giorno, come il Campo
Scellerato dietro via Collina, il tempio di Apollo Sosiano al Teatro Marcello o
la Città dell’acqua sotto Fontana di Trevi. Ma anche a quelli più noti, che a
noi dicono di Roma e delle nostre storie: Portico d’Ottavia, Talenti,
Montesacro, Garbatella, la stazione Termini. Leggere la trilogia serve anche a
ripassare Roma e la sua storia.
Come detto, tuttavia, la storia è una
ricerca dell’identità. Ovvio che si cerca l’identità del serial killer, ma anche
la squadra cerca la propria, come ho accennato sopra. E soprattutto, è il
nostro Mancini che sta facendo un lungo percorso, iniziato 800 pagine fa, per
ritrovare sé stesso, il suo io. Non è un caso che si faccia crescere la barba,
che tolga gli specchi da casa. Non vuole vedere dove sta andando il suo corpo,
non vuol vedere la sua faccia, per paura di capire che sta, finalmente,
elaborando il lutto, uscendone, ed andando verso Giulia.
In questo percorso ad ostacoli, ecco che
compaiono gli ostacoli dei nuovi efferati assassini. Certo che in questo, la
fantasia di Mirko si lascia andare verso le più crudeli messe in scena. Che i
morti vengono storditi, anestetizzati, torturati, risvegliati, ed alla fine
murati vivi sia in prigioni fisiche (il
Campo Scellerato) sia ricoperti di calce che, seccatasi presto, toglie loro
l’aria e la vita. Come se il killer volesse far provare alle sue vittime, negli
ultimi istanti, il senso di isolamento che dovrebbe aver provato in qualche
parte della propria vita.
Intanto, ben misteriosi appaiono all’inizio
gli indizi, che non sembrano far convergere i morti verso un fattor comune.
Saranno appunti sparsi di Carlo Biga che daranno un primo avvio alle ricerche.
E sarà l’acume di ogni componente della squadra che fornisce a Mancini, su di
un piatto d’argento, una motivazione globale. Ed è lì che Mancini dovrà usare
le sue arti di profiler per calarsi nella mente del killer, per capirne le
motivazioni, per anticiparne le mosse. Attività, quest’ultima, che non riesce
molto, visto che tre dei cinque possibili omicidi vengono realizzati.
Per far sì che tutti i fili si annodino,
così che questo possa essere realmente l’ultimo atto, mancano ancora alcune
cose. Un killer che si deve intravedere tra le pagine, un motivo per capire
come mai, in realtà, come nel primo libro, il killer vuole uccidere ma vuole
anche essere scoperto. Forse c’è un ultimo mistero da scoprire. E con un colpo
di bacchetta, Zilahy fa in modo che sia lo zingaro Niko a fare quest’ultimo
passo.
Così che si evita un’ultima morte. Così che
Caterina possa chiedere di adottare Niko e confessare a Walter che è un libro e
mezzo che ci pensa. Così che Enrico si liberi dal passato e possa pensare
(decidete voi se lo farà o meno) di rispondere ad una telefonata di Giulia.
Seppure, al solito, la scrittura è ben
congeniata, tengo mio dovere sottolineare l’uso anche qui troppo massiccio di
inserti corsivati. Che interrompono il flusso del pensiero, che spesso sono
atemporalmente posti, che in alcune occasioni sono volutamente criptici per non
farci capire se sono d’attualità o riferiti al passato. Insomma, un uso del
corsivo che a me continua a non essere del tutto gradito. Anche se, quando
avesse deciso di usare le stesse pagine non in corsivo, non credo che il libro
sarebbe stato danneggiato.
Al fine però, alcuni piccoli misteri mi
sono rimasti oscuri. Ad un certo punto, salta fuori il nome di chi commette i
crimini, ma quando si trova davanti a Mancini, il nome è cambiato e non viene
spiegato quando. Alle vittime vengono effettuate delle mutilazioni mirate
(taglio delle dita, delle orecchie, di un occhio), che vengono ritrovate in
fontane vicino al luogo del crimine. Qual è il senso delle fontane? Infine,
capisco la psicologia disturbata dell’omicida, ma quando se ne ripercorre la
vita, sembra che sia disturbata sin dall’inizio (e ci può stare) ma poi, per
anni, vive nel consesso civile senza che questi disturbi escano fuori. Un
rovello per la mia povera mente di lettore.
Zilahy ci ha portato alla fine del percorso
di Mancini, che ci dispiace lasciare (come sempre verso i personaggi seriali
cui ci affezioniamo), anche se la fine (così crudele) potrebbe essere un nuovo
inizio. Purtroppo, per ora, non sulle pagine, che di altro parla il quarto
libro dell’autore.
Luca Crovi “L’ombra del campione” Corriere
Profondo Nero 30 euro 7,90
[A: 05/02/2020 – I: 09/09/2022 – T: 10/09/2022]
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e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 202; anno:
2018]
Avevo apprezzato Luca
Crovi nel suo bel documentato saggio “Storia del Giallo Italiano”, ben scritto
e ben documentato. Mi aspettavo quindi una prova in linea con le capacità
affabulatorie dimostrate. Purtroppo, pur rimarcando conoscenze e collegamenti,
questa ombra gialla mi ha un po’ deluso.
Intanto, per la sua collocazione. Perché
inserire un pastiche giallo, tutt’al più ironico, in una collana dal serioso
titolo “Profondo Nero”? Il libro di Crovi è leggero, a tratti con delle punte
di riflessione che vanno al di là del giallo e sconfinano nella storia. Ma non
ha nulla di nero. Non ci sono indagini, solo qualche capitolo che racchiude
delle storie, legate in gran parte dal fatto che sono ambientate a Milano.
Il secondo collante è la presenza di un
commissario che viene da altrove. Qui si misura tutta la conoscenza del giallo
italiano che il nostro possiede. Infatti, riprende il primo commissario del
giallo italiano, il commissario Carlo De Vincenzi, uscito negli anni Trenta
dalla magistrale penna di Augusto De Angelis, e lo fa muovere in una Milano del
1928, tra carceri, caserme di polizia, cimiteri, fiere campionarie, centro e
periferia. E si muove similmente a come De Angelis lo avrebbe fatto muovere.
Infatti, rimarca i caratteri precipui del
personaggio: solitario, gran lettore, pieno di intuizioni che avrebbero fatto
la gioia di Fred Vargas (spero lo conosca), pieno di conoscenze, anche
trasversali, ed una delle migliori forchette di piatti locali. Certo, chi
conosce poco le avventure originali si domanda chi sia Antonietta, che spesso accompagna
De Vincenzi. Ipotizzando ne sia una buona compagna, non sapendo che, invece, è
la sua fida governante.
Che De Vincenzi è e rimane solitario.
Inoltre, come giustamente rimarca l’autore nelle note, Crovi si prende qualche
libertà sulle letture, che l’originale legge Sant’Agostino, Freud e Platone.
Qui il commissario si concentra sull’ultimo, ed in particolare sul “Critone”,
l’apologo sull’attesa della morte di Socrate, dove questi ribadisce che bisogna
rispettare le leggi, anche se portano a sentenze ingiuste. Ovvio parallelo sul
periodo della narrazione, dove si è nel pieno dell’onda alta del fascismo. De
Vincenzi rispetta le leggi e cerca sempre di trovare qualche scorciatoia che ne
consenta un parziale aggiramento. Così come ne scriveva a suo tempo De Angelis,
le cui opere furono censurate dal regime, poi fu imprigionato per i suoi
articoli antifascisti dopo il 25 luglio ’43, nonché massacrato ed ucciso da un
repubblichino nel ’44.
Il romanzo, comunque, non è un romanzo, come
accennato. Sono una serie di piccole storie di ordinaria malavita milanese,
risolte da De Vincenzi con il suo solito spirito accomodante verso le carenze
altrui. Solo due meritano di essere menzionate, seppur in breve.
La prima riguarda il campione del titolo, dove
seguiamo uno dei tanti personaggi, questa volta reali, che si aggirano tra le
pagine. C’è infatti Giuseppe Meazza, il Balilla del calcio italiano, che
diciassettenne, si allena nottetempo dietro San Vittore, a tirar calci ad un
pallone, e, dopo aver nel finale raccontato la sua storia al commissario,
questi lo porta dentro San Vittore per essere omaggiato dai carcerati che hanno
fatto sempre il tifo per lui. Meazza non è ancora un campione, ma è già
ammirato dal popolo milanese di fede interista, poi anche in Nazionale, dove
rimane il secondo marcatore di tutti i tempi, dopo Gigi Riva. Da leggere per
documentarsi del periodo, dove tuttavia rimangono due domande: la prima squadra
in cui giocò Meazza viene indicata come “Costanza A.S.” mentre risulterebbe
essere “Gloria F.C.”. La suora che fa da nume e tramite tra Meazza ed i
carcerati, viene indicata come Enrica, invece sarebbe Enrichetta, beatificata
nel 2011.
L’altro e forse più interessante episodio
riguarda lo scoppio di una bomba, il 12 aprile 1928, durante l’inaugurazione,
da parte del re, della Fiera Campionaria. Episodio reale, che provocò venti
morti, e che non venne mai risolto. I gerarchi fascisti cercarono a lungo sia
la pista anarchica che quella comunista, senza successo (anche se misero in
mezzo Romolo Tranquilli, fratello di Ignazio Silone, che ne morì per le
percosse quattro anni dopo). Crovi fa assistere De Vincenzi allo scoppio, ma il
commissario non parteciperà alle indagini, anche se Crovi mette qualche pulce
nell’orecchio collegando lo scoppio alla morte di alcuni soldati in una rissa
da caserma, come si volesse sottolineare l’attentato come un possibile epilogo
della lotta senza quartiere tra Roberto Farinacci, il Ras di Cremona, e Arnaldo
Mussolini, fratello del Duce.
Come vedete due episodi che poco hanno del
giallo, uno perché forse più neroazzurro, l’altro che ancor’oggi è avvolto nel
mistero. La scrittura di Crovi veleggia leggera nella sua Milano, dietro ai
malviventi detti della “ligera” perché rubavano senza armi, leggeri, immerso
nella “scighera”, la nebbia milanese, dietro ad uno dei tanti piatti che la
siura Maria gli prepara. Ne ricorderei due: la “busecca” (piatto a base di
trippa, fagioli, passata di pomodoro, carote e sedano) e la Torta di Michelacc
(nome che deriva dall’uso di mica, cioè pane, e latt, o lacc in dialetto, e
composta quindi di pane
raffermo, latte e cacao, spesso arricchita da amaretti o biscotti di altro
genere, uvetta, pinoli e canditi).
Allora plauso alla milanesità dell’autore,
meno alla resa gialla del testo. Un risultato alla fine comunque gradevole,
arricchito da una briciola di formaggio bettelmatt per finire il pranzo (perché
“la bocca l’è minga stracca se la sa no de vacca”)
Federico Inverni “Il prigioniero della
notte” Corriere Thriller Psicologici 15 euro 7,90
[A: 19/11/2018 – I: 16/12/2022 – T: 18/12/2022]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 471; anno:
2016]
Un
libro che aggiunge poco alla conoscenza sia del thriller nei vari suoi aspetti,
sia ad una cultura popolare come, in genere, si fa legare a queste tipologie di
scritti, che usano il giallo non fine a sé stesso, ma per esplorare, con
qualche vincolo in meno, il mondo in cui viviamo.
Ora,
l’autore non si sa chi sia, che quello usato è uno pseudonimo. Con l’aggravante
che in una intervista misterioso, in un sito che si occupa di gialli, il nostro
dice che ha usato “Inverni” perché avrebbe voluto essere inglese, così da
firmarsi “F. Winter”. Cosa che mi sembra risibile (come il fatto che avrebbe
scritto le prime cinquanta pagine in inglese), anche perché, filologicamente,
si sarebbe dovuto firmare “F. Winters” o “F. Inverno”.
Il
secondo scoglio deriva dal fatto che si passa per thriller psicologico un testo
solo perché qualcuno dei protagonisti ha delle turbe. Ora, dato per scontato
che un criminale ha (quasi) sempre delle turbe psichiche, quando queste si
allargano agli investigatori, e magari senza motivazioni particolari, abbiamo
forse più un guazzabuglio che un thriller psicologico.
Il
terzo inghippo è l’utilizzo di una collocazione fittizia in una località senza
nessuna caratterizzazione. L’azione si svolge in un città denominata Haven (che
significa porto, ma non sembra questa una città marinara, a meno che l’autore
non si voglia collegare alla serie televisiva omonima, basata su di un libro di
Stephen King e piena di fenomeni soprannaturali), e tutto è volto in inglese,
anche se non si tipizza come matrice anglosassone. Anzi, l’uso di nomi e
toponimi inglesi rende solo più fredda la narrazione.
L’ultimo
problema è un finale molto veloce, in cui si sciolgono molti, ma non tutti i
misteri. Quando si accumulano 400 pagine con avventure e colpi di scena
variegati, sarebbe bene arrivare ad una spiega che elimini punti oscuri e
chiarisca le dinamiche dei fatti. A meno che, ma questo è un po’ un inganno per
il lettore, lo si voglia indurre ad aspettare e leggere altre avventure seriali
dei protagonisti.
I due attori principali sono l’agente Lucas
e la profiler Anna. Con una narrazione che alterna lo scrittore onnisciente a
capitoli in soggettiva di Anna, con un resa molto bassa di questi, dove, a
parte lo stato confusionale della profiler, poco si entra nella sua
personalità.
Lucas, l’agente con la più alta percentuale
di casi risolti (si dice all’inizio), capiamo subito che, oltre ad essere intelligente
e capace di collegamenti geniali, ha dei forti problemi. Sapremo poi che
derivano da un incidente d’auto, avvenuto due anni prima, dove, con lui alla
guida, sono morti moglie e figlia. Da quel momento, soffre di una strana
disfunzione psichica, rarissima, chiamata “sindrome di Cotard”, dove il
paziente crede di essere morto. Ed ovviamente agisce in modi strampalati. Il
dubbio dell’accumulo di indizi altri viene quando scopriamo che ha lavorato per
molto tempo sotto copertura, e quindi come sappiamo che è molto in gamba?
Anna, al contrario, sembra, oltre che
maniaca dell’ordine, colpita da altre turbe. In effetti, risulta essere stata
rapita in gioventù, fuggita dai rapitori anche con uccisioni a latere. Dopo di
che, cambia nome (si chiamava Anita) e decide di dedicarsi all’analisi di
profili criminali. Attività dove raggiunge un buon successo, finché non si
imbatte nel caso che viene descritto nel romanzo.
Un maniaco, serial killer, fa trovare corpi
di donne uccise, senza che sia loro torto un capello (né sevizie né stupri), e,
ad ogni ritrovamento, manda alla Polizia la foto della successiva ragazza che
dovrà morire. In parallelo, un cecchino uccide una serie di persone,
coinvolgendo Lucas, che pare non conoscerlo, ed innescando una catena di eventi
in base alla quale Lucas e Anna si trovano a dover indagare insieme sui
delitti.
Che il cecchino è il padre di una delle
vittime, che qualcuno lo ha convinto chi sia il killer che ha ucciso sua
figlia, e che deve invocare Lucas. Mentre Lucas porta avanti una serie di
scoperte che sembrano miracolose, Anna in parallela sembra comprendere che
Lucas sa troppe cose per non essere implicato. Si aggiunga la presenza, latente
ma non approfondita, di nuove droghe, una psicologa che ha in cura Lucas e che
scompare, e tanti altri piccoli indizi (che dovrebbero diventare una prova, ma
non ci riescono).
Le ultime trenta pagine diventano
frenetiche, che tutto sembra collassare, ogni volta in una soluzione
ragionevole ma sbagliata, fino alla vera soluzione del mistero.
Tutto però con una scrittura poco
coinvolgente, con una scarsa empatia tra scrittore e lettore, ed una forte
volontà di farsi dire quanto sono bravo da parte dell’ignoto Inverni. Tuttavia,
i meccanismi finto giallo-psicologici sono abbastanza scoperti, e quando si
vengono a sapere alcuni contorni, tutto torna al suo posto molto prima che ce
lo metta l’autore.
Qui si è parlato molto d’Italia, visto che
Inverni lo lascerei nel dimenticatoio, mi vien voglia di pensare ad una bella
citazione, stranamente italiana, di quel gran siciliano che fu Andrea Camilleri (1925 – 2019), che ne “Il corso delle cose” ci parla dei limiti ed a me rimanda alle
odissee familiari dei tempi di guerra: “Forse, come al dolore, c’è anche
un limite alla paura, oltre il quale non si può andare, ed è così che, certe
volte, i vigliacchi finiscono per diventare coraggiosi” (122).
Infine, l’ipotesi di viaggio è diventata un certezza cui manca solo l’ufficialità per concretizzarsi. Non vi preoccupate, allora, se le prossime settimane le trame salteranno. Quando sarà così, sarà per un motivo lieto. Quindi, visto che vi mancheranno le mie trame ed i miei saluti, ve ne mando tanti, corredati da tantissimi abbracci.
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