Rimanendo in tema di thriller, questa settimana abbiamo con noi due gialli e tre racconti di spie, tutti provenienti dall’editoria di Repubblica. Come dice il titolo, i due gialli sovrastano le tre spiate. Soprattutto per merito del francese Bussi, di cui avevo letto altro, ma che qui mi convince di sicuro di più, insieme ai gialli ebraico-americani di Faye Kellerman. Certo, Maugham scrive bene, ma la sua spy story risulta spezzettate in molte microstorie, un po’ meno deludenti del primo episodio delle storie di oltre cortina di Olen Steinhauer. Finendo poi con un illeggibile libro di Patrick Robinson.
Michel Bussi “Un aereo senza di lei”
Repubblica Passione Noir 16 euro 7,90
[A: 01/10/2018 – I: 27/08/2022 – T:
29/08/2022] - &&& e ½
[tit. or.: Un
avion sans elle; ling. or.: francese; pagine: 477; anno 2012]
Sono tre i libri di Michel Bussi presenti
nella mia libreria. Il primo, “Ninfee nere” lo lessi in originale, ma lo trovai
un po’ troppo ripiegato su sé stesso, pur apprezzandone l’ambientazione nella
Givenchy di Claude Monet. Il terzo è appena arrivato e non ne parlo. Questo,
devo dire, mi riconcilia con l’autore, laddove costruisce un discreto mix di
giallo e passione.
D’altra parte, come non farsi venire in
simpatia un professore di geografia con la passione per la Normandia? La
geografia ha sempre avuto uno dei tre posti sul podio delle mie preferenze
assieme a matematica e letteratura (decidete voi l’ordine). La Normandia è
anche un’altra delle regioni che mi hanno appassionato nella maturità.
L’altro elemento che mi rende simpatico
l’autore è quel suo scherzare con le canzoni, così che titoli di successi
francesi, direttamente o cripticamente, vanno a coronare i frontespizi dei suoi
libri. Non entro nel merito di altro, rilevando solo quanto serve per questo
romanzo. Che ha una derivazione diretta dalla canzone di un rockettaro francese
Charlélie Couture e di una delle sue più note canzoni “Un avion sans
aile”, dove anche chi ignora il francese ne nota l’assonanza con il titolo del
romanzo “Un avion sans elle”. Non solo, ma nel testo la bella cui è rivolta la
canzone viene chiamata “Libellula”, soprannome che verrà appiccicato alla
protagonista del romanzo da una giornalista in vena di lirismo.
L’incipit
della trama segna già tutta una dorsale di svolgimento: il 23 dicembre 1980, un
airbus di linea sulla tratta Istanbul – Parigi si schianta sul Mont Terri
(chiamato familiarmente Mont Terrible) al confine franco svizzero. All’arrivo
dei soccorritori, viene trovata viva solo una bimba di circa tre mesi, a decine
di metri dall’uscita di sicurezza dell’aereo. Si grida al miracolo, ma la
questione si complica ben presto: sull’aereo c’erano due bimbe di 3 mesi:
Lyse-Rose de Carville e Emilie Vitral. Peccato che i genitori, anche loro sull’aereo,
siano tutti morti. Peccato che i nonni per una serie di ragioni che non vi
narro, non abbiano nessun elemento per rivendicare la bimba come loro nipote.
Ovvio
che le due famiglie siano agli antipodi: i de Carville ricchi padroni di un
impero ed i Vitral onesti lavoratori venditori ambulanti di pizze e hot dog
nelle feste paesane. Si scatena una battaglia legale senza esclusione di colpi,
al termine della quale, il giudice, senza aver ulteriori probanti elementi,
decide che la piccola sia Emilie Vitral. Nel frattempo, i giornali si erano
impadroniti del caso, chiamando la piccola prima “Libellula” come sopra
accennato. Poi con una macedonia linguistica, ribattezzandola Lylie (su questo
torneremo).
In
realtà è a questo punto che comincia realmente il romanzo, che i de Carville,
dopo la sentenza, affidano la ricerca della verità ad un improbabile detective,
Crédule Gran-Duc, con la missione di svelare il mistero entro il diciottesimo
anno della piccola. Ricordo di passaggio che nel 1980 non c’erano test DNA da
usare, o altre scoperte scientifiche a noi presenti dalla massa di telefilm
americani che li usano.
Bisogna
dire al contorno che i de Carville hanno un’altra nipote, Malvina, all’epoca di
sei anni, e i Vitral un nipote, Marc, di due anni più grande di Lylie. Crédule
lavora duro, e ci racconta il tutto in una parte diaristica. Ma non trova vie
d’uscita. Decide allora, il 27 settembre 1998 di suicidarsi. Mentre cerca di
attuare il suo gesto, riguarda la pagina del giornale dell’80, ed ha una folgorazione:
il mistero è risolto.
Peccato
che da lì partano tanti rivoli neri che mescolano le carte: Malvina trova un
corpo semi bruciato ma indubbiamente morto a casa di Crédule. Il detective si è
allora ucciso? Così pensa Marc, cui Lylie (informata il giorno precedente da
Crédule) ha dato il diario del detective in cui ci dovrebbe essere la verità.
Intanto,
Lylie sparisce, che, pur essendo da diciotto anni sorella di Marc, i due
sentono una reciproca attrazione. E la ragazza, prima di fare stupidaggini,
sparisce. Marc la cerca disperatamente, in questo ostacolato da Malvina, che lo
odia da diciotto anni, ritenendolo colpevole di avergli rubato la sorella. Nel
diario, inoltre, si spiega la strana morte del nonno Vitral, il doppio infarto
del nonno de Carville, gli strani giri di Crédule e dei suoi aiutanti.
È
abbastanza chiaro che la soluzione del caso non possa avvenire che sul Monte
della tragedia, dove nel vero prefinale che tutto spiega, si ritrovano tutti i
componenti del dramma. Meno, è chiaro, Lylie, che essendo sparita non può che
apparire più tardi.
L’autore,
come nei veri gialli di un tempo, ci aveva dato fin da subito la chiave
risolutiva: Crédule capisce vedendo il giornale ed esclamando che solo per
averlo visto ora, diciotto anni dopo l’incidente, ha capito la soluzione. Un
mistero che mi ha attanagliato per tutta la lettura, e quando Michel lo
disvela, mi sarei dato manate sulla fronte. Ben pensato. Ed anche ben scritto,
rispetto alle ninfee che non mi avevano convinto. Financo i caratteri degli attori
del giallo sono discretamente credibili, sia i buoni che i meno buoni e financo
i cattivissimi. Una domanda poi sorge forte: come si vive con una identità
incerta?
Ma
per finire, pur non essendo un cercatore di sviste ed altre amenità, ci sono
due cose che l’autore, l’editore ed il traduttore potevano modificare. È vero
che si tende a semplificare, ma, come scritto a pagina 82, Lylie non è un
acronimo, ma viene chiamato in linguistica “macedonia” (spero che il mio amico
Ennio di lassù sia d’accordo).
Inoltre,
e questo è veramente grave, a pagina 244 si scrive che Lyse-Rose nasce il 27
novembre, quando tutta una buona parte del dramma è basata che lei ed Emilie
siano nate lo stesso giorno, il 27 settembre. Un errore che si poteva evitare.
Di altri peccati veniali preferirei sorvolare, lasciando a voi lettori il gusto
di una buona lettura.
W.
Somerset Maugham “Ashenden o l’agente inglese” Repubblica Spy euro 7,90
[A: 24/02/2019
– I: 05/09/2022 – T: 07/09/2022] &&
[titolo:
Ashenden or the British Agent; lingua: inglese; pagine: 265;
anno: 1928]
Pur
essendo uno scrittore di peso, e con alcuni punti di sicuro interesse, solo
quattro sono i suoi libri nella mia biblioteca. Con una punta di diamante
nell’agilissimo “La lettera” (di cui parlai una decina di anni fa). Ricordo
anche che è uno scrittore ed un personaggio poliedrico. Scrive di tutto
(romanzi, gialli, teatro, articoli di giornale), ha una legame omosessuale per
trent’anni, ma intanto si sposa e mette al mondo una figlia. Infine, una
particolarità che me lo rende sempre caro nella mente, pur essendo
intrinsecamente inglese, nasce e muore a Parigi.
Nonostante
la sua pluralità di scrittore, riesce anche a fare altro. Ad esempio, sui
cinquant’anni, non potendo essere arruolato nell’esercito per limiti di età,
viene ingaggiato come agente segreto per l’Intelligence britannica. Ed in
questa veste, trascorre gran parte della Guerra facendo base in Svizzera. Da
quest’esperienza, con le sue capacità anche di invenzione su basi reali, imbastisce
la storia di questo agente inglese di nome Ashenden.
Non
è un gran libro di spionaggio, anche perché, in realtà, sono circa sedici
racconti riuniti in libro solo per il personaggio Ashenden che compare in
tutte, come motore, esecutore, tramite di trame spionistiche decise altrove, e
dirette dal suo capo, indicato con solo una lettera “R”. La particolarità di
Ashenden è che non usa mai armi, pur girando armato. Inoltre, ha un discreto
successo con le donne, e si muove, da raffinato, in ambienti raffinati. Si dice
per tutti questi caratteri che sia stato uno dei modelli ispiratori di Ian
Fleming durante la scrittura delle avventure di James Bond (uno per tutte, il
capo di Bond viene indicato anch’esso con una sola lettera “M”).
Come
detto, tutto si svolge durante la Prima Guerra Mondiale, con Ashenden arruolato
da “R.” ed inviato in Svizzera a svolgere le sue missioni. Per le quali, in
massima parte, cerca di usare persuasione, ricatto o tramite intermediari.
Tra
le varie missioni che si svolgono nei diversi racconti, alcune sono leggermente
superiori alle altre. Ad esempio, quando deve affiancare un sedicente generale
messicana in missione in Italia per recuperare documenti segreti che un greco
dovrebbe portare in Germania. Magistrale è la presentazione del messicano, e
delle sue azioni (comprese grandi bevute e grandi tornei amatori). A Brindisi
il messicano individua l’unico greco sbarcato nel porto, lo segue, lo uccide.
Ma perquisendo la stanza del greco Ashenden non trova nessun documento. Per poi
ricevere un telegramma da R. che la spia era ancora in Grecia.
Un
altro bell’esempio è la storia della ballerina Giulia Lazzari, un po’ ricalcata
su alcuni spunti “alla Mata Hari”. Ballerina girovaga, che fa innamorare di sé
un indiano antibritannico e soprattutto agente tedesco. Ashenden, con lunghi
colloqui, riesce a convincere Giulia a farsi raggiungere dall’indiano in
Francia. Peccato che appena arrestato, l’indiano si sucida. Tocco da maestro di
Maugham: Giulia, saputone la morte, chiede ad Ashenden di riavere il prezioso
orologio che aveva a suo tempo regalato alla spia.
Infine,
l’ultimo racconto è anch’esso magistrale, dato che sappiamo che anche Maugham
fu inviato nel ’17 in Russia per appoggiare, con denaro inglese, il governo
Kerensky. Missione che fallì, secondo l’autore, perché fu inviato troppo tardi.
Nella trasposizione, Ashenden segue le orme dell’autore, sobbarcandosi un lungo
viaggio in treno da Vladivostok a Pietrogrado. Viaggio che condivide con un
affarista americano, Harrington, instancabile parlatore. Arrivati scoprono lo
scoppio della rivoluzione bolscevica. Ma Harrington non vuole evacuare senza il
suo bucato, elemento che gli costerà la vita. Dove ammiriamo i colpi di colore
che lo scrittore riesce a dare alla narrazione. Ma anche il pudore con cui
chiude il libro.
Un
divertimento la lettura, anche se la frammentarietà dei racconti non fa
apprezzare a pieno le capacità descrittive e narrative di Maugham.
Tra
l’altro, per i miei lettori cinefili, ricordo che dieci anni dopo la
pubblicazione, Hitchcock ne trasse un film “L’agente segreto”, indicato tra i
miglior film stranieri dell’anno (essendo inglese e non americano). Dove il
grande regista ebbe modo di usare alcune dei suoi temi migliori e ricorrenti:
la falsa identità, i treni, e, affiancando a Ashenden una signorina, il “biondo
Hitchcock”.
“Aveva
… accarezzato l’idea di studiare il norvegese per poter cogliere, leggendo
[Ibsen] … nell’originale, l’essenza segreta del suo pensiero.” (242) [e mi
ricorda qualcosa…]
Olen Steinhauer “Il
ponte dei sospiri” Repubblica Spy 15 euro 7,90
[A: 06/05/2019 – I: 24/10/2022 – T: 26/10/2022] - && e ½
[tit. or.: The Bridge of Sighs; ling. or.: inglese; pagine: 347; anno 2003]
Cinquantenne
americano, con un anno di studi in Romania, con questo libro di venti anni fa
diede avvio ad un’onesta carriera di scrittore di “spy stories”. Ovviamente
focalizzate in quello che ha studiato a lungo, il mondo oltre cortina, in
special modo prima del 1989.
La
particolarità di questa pentalogia è che segue in particolar modo l’evolversi
della situazione in una precisa zona del blocco sovietico, laddove ogni libro
si occupa di un anno e di una particolare situazione. Inoltre, ogni libro è
centrato su un personaggio, e dista dieci anni da successivo, così che, a
partire dal primo ambientato nel ’48 arriviamo all’ultimo coevo della caduta di
Berlino.
Nelle
bibliografie, viene indicata come serie “Viale Yalta (o Yalta Boulevard)” dal
nome della via dove si situa il comando della polizia segreta da cui parte la
prima vicenda. Viale che viene collocato in una fittizia nazione Est Europea,
che potrebbe sovrapporsi al sito storicamente documentato ed indicato con il
nome di Rutenia. Ricordo per i poco adusi alla geografia, che la Rutenia è una
vasta area che copre una zona ora suddivisa tra Ucraina, Bielorussia, Russia,
Polonia e Slovacchia.
In
Italia credo sia uscito solo questo, primo volume della serie, con protagonista
Emil Brod ed appunto che si svolge nel 1948. Il secondo (“The Confession”) si
svolge nel ’56 (invasione dell’Ungheria) ed ha per protagonista Ferenc Kolyeszar.
Il terzo (“36 Yalta Boulevard”) si svolge nel biennio ’66-’67 (nascita delle
spinte verso la Primavera di Praga) ed ha per protagonista Brano Sev (che
compare di sfuggita anche nel primo libro). Il quarto (“Liberation Movements”)
si svolge tra il ’68 ed il ’75 (facilmente riconducibile al titolo), incentrato
ancora su Brano Sev, e su Katja Drdova e Gavra Noukas. L’ultimo (“Victory
Square”) si ferma al 1989 facendo tornare in scena Emil Brod.
Venendo
a questa prima puntata, in realtà abbiamo due piani di lettura da seguire. Da
un lato le indagini a seguito dell’omicidio di Janos Crowder, un cantautore ben
addentro alla nascente borghesia costruitasi intorno a personaggi, spesso
loschi, dopo l’annessione della nazione al Blocco Sovietico. Dall’altra la
descrizione della vita come si va costruendo ed organizzando in un pase, un
tempo libero, ma ora entrato nell’orbita dell’Orso sovietico.
Il
primo filone non è particolarmente coinvolgente. Emil indaga, mette insieme
idee, sospetti, viene in possesso di foto compromettenti. Sono coinvolti
personaggi altolocati, quindi il nostro deve muoversi con i piedi di piombo. Ma
tra indagini locali, puntate nella Berlino occupata, agnizioni, delazioni, ed altre
avventure di poca presa emozionale, riesce a tirare le fila e ad incastrare il
potente di turno. Personaggio ambiguo, che aveva lavorato per molti servizi
segreti contrapposti, ma che Janos aveva conosciuto nella sua veste di delatore
verso i nazisti occupanti. Riuscirà ad incastrarlo, anche se non sarà suo il
merito, e forse non sarà neanche condannato a morte come meriterebbe.
Ma è
la descrizione della vita e dei sentimenti che nascono in quei paesi che più mi
sembra interessante. La Rutenia (chiamiamola così per semplicità) è un eponimo
di molti paesi similmente occupati. Emil entra nelle Milizie del Popolo, dopo
che durante la guerra aveva fatto il pescatore in Finlandia. E lì entra in
contatto con la diffidenza reciproca di tutti i miliziani. Tutto sospettano
l’uno dell’altro. Che qualcuno sia una spia di altre gerarchie, di altre e
diverse situazioni politiche.
Olen
ha buon gioco per descrivere la povertà, la miseria, la diffidenza reciproca.
Tocchiamo con mano le difficoltà della popolazione dopo anni di privazioni,
devastata dall’invasione di popoli altri venuti a dettare legge. Vediamo le
carte annonarie per mangiare, le notti senza elettricità (e subito andiamo
all’Ucraina odierna), i ponti aerei americani per portare viveri e generi di
sussistenza varia a Berlino e zona limitrofe.
E se
da un lato non manca la descrizione del degrado umano e morale che si diffonde,
i soprusi dei soldati russi invasori, l’alcolismo che prende il sopravvento, la
corruzione della politica, di converso vediamo anche come, nel popolo minuto,
ci sia quell’anelito di uguaglianza e libertà che l’idea del comunismo portava
con sé, come nelle frasi che riporto, mito di speranza e di rassegnazione. Non
un bel libro, ma un libro interessante per queste pennellate di verismo. Ma
sono argomenti che poco prendono il lettore, e non ci meravigliamo la scarsa
diffusione delle opere di Steinhauer.
“Mara,
tu non lo sai. Io ci sono stato in Russia … Erano buoni e sinceri. … [Marito]
non dirmi quello che so e quello che non so … ne ho visti abbastanza di russi
per questa vita.” (78)
“Lo
so di cosa sono capaci i russi … nel bene e nel male. È un popolo che va da un
estremo all’altro.” (322)
Faye Kellerman “L’impiccato” Repubblica
Emozione Noir 13 euro 7,90
[A: 12/09/2019 – I: 28/10/2022 – T:
29/10/2022] - &&&
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[tit. or.: Hangman; ling. or.: inglese; pagine: 507; anno 2010]
Torno,
dopo sei mesi, ad un nuovo libro di Faye Kellerman. Uno della serie imperniata
sulla coppia Peter Decker e Rina Lazarus. Per essere precisi, il diciannovesimo
romanzo di una serie ormai arrivata al libro ventisette. Peccato che pochi
siano stati tradotti in italiano, tanto che a me ne risultano solo sette.
Dispiace anche perché, pur con delle peculiarità, è una serie che ha un suo
interesse.
La
particolarità deriva dall’autrice, ebrea ortodossa americana, che ha imperniato
la serie proprio intorno all’ebraismo e ad alcune sue particolarità. In molti
libri si toccano temi religiosi (il bagno rituale, il kippur, ed altri simboli
ebraici), cosa che ne fa una serie molto orientata verso questi temi e non
sempre facilmente replicabile in altri contesti. Tuttavia, personalmente,
ritengo che, anche con limiti e particolarismi, sia una serie che apre alcuni
squarci sulla vita americana che sono comunque d’interesse.
Prima
di entrare nello specifico della serie, che forse è ben riassumere nelle grandi
linee, un primo problema mi arriva dal titolo. Che, come molte parole inglesi,
assume una serie molteplice di significati, non subito comprensibili in
italiano. Come “Hangman”, che può stare per impiccato (persona appesa ad un
cappio), per boia o carnefice (persona che uccide per legge o per piacere), ma
anche “gioco dell’impiccato”, quello in cui due persone si sfidano
nell’indovinare una parola e nel comporre un tratto dell’impiccato ad ogni
parola sbagliata.
Qui,
potrebbe aver senso l’ultimo significato, dove il detective Decker deve cercare
di trovare un assassino prima che colpisca ancora. Di certo non ha senso
metterlo così, crudamente, visto che l’unica persona realmente impiccata è una
donna. Metti un titolo così ed induci il lettore ad aspettare per tutto il
libro che compaia un uomo appeso da qualche parte.
Veniamo
ai personaggi della serie. Nel primo libro, il detective Peter Decker conosce
in circostanze particolari Rina Lazarus, vedova e con due figli piccoli. Pete
divorziato con figlia sedicenne in poco tempo, e due libri, si innamora di
Rina, e scopre di avere anche lui ascendenze ebraiche, ed in altri pochi libri,
sposa Rina. I due ad un certo punto hanno una loro figlia, Hannah, costituendo
alla fine una famiglia molto allargata.
In
questo episodio, Hannah ha diciassette anni, i due figli di Rina, Simon e Jacob
sono tra i venticinque ed i trenta, e Cindy, la maggiore, dovrebbe averne
intorno ai trentacinque, sposata con un uomo di colore, ed ora anche incinta.
Nel
gioco dei rimandi incrociati, la storia si ricollega al libro numero 8, in cui
incontriamo per la prima volta i giovani Terry e Chris, coinvolti in un
omicidio, di cui alla fine sarà incolpato Chris, che, in modo che non so (non è
uscito in Italia e non l’ho letto) esce presto di prigione, sposa Terry, hanno
un figlio, Gabriel detto Gabe. Chris è violento, astuto, e decide di diventare
killer professionista, continuando ad amare follemente Terry e provvedendo in
ogni caso a Gabe.
Questa
storia, con l’impiccato di turno, è comunque duplice. Da un lato, infatti,
Terry coinvolge l’amico Pete che l’aveva salvata a suo tempo, nella sua vita
familiare, che vuole lasciare Chris, senza mettere in difficoltà Gabe. Si
inventa tutto un giro più astuto di quanto pensi Chris, con il risultato che,
alla fine, lei scappa, Chris si calma, e Gabe va a vivere con la famiglia
Decker. Non so, e spero di scoprirlo prima o poi, cosa succede nei successivi
libri.
Ma
se questo è l’ambito mistero-personale abbiamo poi il giallo in quanto tale,
che una giovane infermiera viene trovata impiccata. Pete, con l’aiuto della sua
squadra, tenta di risalire la china delle azioni. La donna, Adrianna, aveva un improbabile
fidanzato, Garth, forse a Reno durante l’omicidio. Aveva un’amica, infermiera
come lei, che forse flirtava con Garth. Aveva anche altre due amiche, una,
serio avvocato, ed una barista molto liberale, nei costumi. Ci sono poi anche
due amici di Garth, con lui a Reno, che non disdegna di andare a letto sia con
Adrianna che con la barista. Barista che viene anche lei trovata morta, dentro
un frigorifero.
Non
c’è molta tensione nel giallo, che si capisce, e si dice ben presto, che, per
una serie di motivi, che vi lascio leggere, c’è Garth alla base di tutto. Ma
dopo 450 pagine che scorrono non dico con lentezza, ma di certo molto
tranquillamente, le ultime cinquanta hanno una accelerazione poco spiegabile.
In cui molti nodi vengono sciolti, si dipana al meglio la storia di Gabe, Terry
e Chris, si capiscono risvolti della storia di Garth inaspettati. Rimanendo
però, non vi dico come né perché, con alcuni punti di domanda e molte necessità
di risposta senza una reale soluzione. Quasi come se, credo, altro ci si possa
aspettare in altri libri. Peccato, soprattutto se questi libri non arriveranno
in Italia.
Quello
che alla fine mi ha anche lasciato perplesso è il non religioso, che era sempre
presente nelle altre storie dell’autrice, ma che qui, a parte alcuni accenni
all’aborto ed all’adozione di figli altrui, non mi pare sia presente.
Tuttavia,
risulta un libro gradevolmente leggibile, in particolare nell’atmosfera di
mutuo soccorso della famiglia Decker, allargata e coesa, culminante in una
bellissima e da me partecipata in spirito festo per i sessant’anni di Pete.
“Le
illusioni rendono la vita degna di essere vissuta.” (399)
Patrick Robinson “Interceptor” Repubblica
Spy 14 euro 7,90
[A: 17/04/2019 – I: 08/12/2022 – T:
10/12/2022] - &
[tit. or.: Intercept; ling. or.: inglese;
pagine: 461; anno 2010]
Patrick Robinson è uno scrittore britannico, ormai più che
ottantenne, che ha cominciato la carriera come giornalista sportivo, e,
leggendo questo romanzo, forse era meglio che continuasse lì. Lui passa dal
giornalismo alla scrittura venticinque anni fa con una serie di libri di
ambiente marino. In particolare, di marina militare (portaerei ed altro).
Poi,
nel 2009, decide di ampliare il raggio d’azione dal mare a tutti i terreni,
iniziando una serie di romanzi che hanno come protagonista il capitano di
corvetta del SEAL Mackenzie Bedford. Per chi non conoscesse gli ambienti
guerrieri americani, SEAL è un corpo speciale, dedicato alla guerra non
convenzionale, il cui acronimo sta per SEa, Air, Land (cioè mare, aria, terra),
cioè i tre ambienti in cui i militari operano.
Questo
è il secondo dei quattro romanzi che hanno per protagonista il capitano. Anche
se si dovrebbe dire ex-capitano. Infatti, come ci viene ricordato e descritto
qui, nel primo romanzo si narrano i motivi del congedo forzato. Mack (così
viene brevemente chiamato) in un’azione in Iraq, vede morire venti militari
americani, uccisi in un’imboscata. Individuati i colpevoli, pur se si stanno
arrendendo, ne uccide una dozzina prima di fermarsi. Per questo viene
processato, assolto dall’accusa di omicidio ma costretto al congedo.
Non avendo
letto il primo libro, che mi si dice mediamente benfatto, questo che ho letto
ritengo che sia veramente di una povertà di trama e di situazioni quasi imbarazzante.
Intanto,
il narrato è spesso interrotto da lunghe digressioni per descrivere sia
ambienti islamici, sia posizioni e storie di militari e di corpi addestrati
americani, che poco portano alla trama in sé. Che, se vogliamo, è di una
linearità disarmante.
Una
storia di terroristi di matrice islamica che, sovvenzionati da forze vicine ad
Al-Qaeda, vogliono organizzare uno spettacolare attentato. Per una serie di
motivi, le forze regolari non possono intervenire, quindi viene ingaggiato Mack
per il lavoro sporco. Dopo quattrocento pagine di inutile girovagare, incluse
alcune poco convincenti “rivelazioni”, Mack si mette all’opera e, dopo aver
sbaragliato la cellula terroristica, viene reintegrato nel suo ruolo per i
SEAL.
Quali
sono le zeppe che in questo racconto, che potrebbe essere svolto in un
centinaio di pagine, si inventa il nostro buon Robinson?
Intanto,
i due terroristi di matrice pakistana vengono arrestati (senza prove) da Mack
prima che lui fosse congedato, e spediti a Guantanamo. Dove sopravvivono per
cinque anni senza essere interrogati né accusati. Al passaggio di guardia da
Bush a Obama, un’ondata garantista si abbatte sulla giustizia americana. Così
uno studio legale americano accetta soldi da emiri arabi per liberare i due.
Possibilità indotta proprio dalla mancanza di accuse specifiche. I due
pakistani vengono liberati insieme a due nord-africani, in odore di attentati
antiisraeliani.
Ecco
allora che si inserisce nella trama il Mossad. Che, come primo intervento, fa
saltare in aria lo studio degli avvocati, uccidendo i tre responsabili della
liberazione di Ibrahim, Youssuf, Ben Talib e Abu Hassan.
I
quattro, intanto, prima si riparano i Pakistan, poi, vestiti e ripuliti,
cominciano un percorso di ritorno in America, passando per Londra, la Spagna,
il Messico, la frontiera clandestina, ed un percorso finale in treno. Anche se
a New York, nella Pennsylvania Station, un tizio sembra riconoscerli. Ma Abu
Hassan ha una bomba nascosta e fa saltare in aria la toilette con il tizio
dentro.
Comunque,
i quattro, dopo varie inutili peripezie, si stabiliscono in una zona rurale,
vicino ad un collegio di ebrei americani, con l’intento di farlo saltare in
aria.
In
tutto ciò, Mack li segue da vicino, varie volte sta per arrivare loro a tiro,
ma fortuna o bravura, i quattro sfuggono. Così, non potendo chiedere aiuto alle
forze regolari, Mack si avvale della rete sotterranea del Mossad. Con la quale,
individua il covo, decritta i messaggi che danno indicazioni sull’attentato,
interviene con l’israeliano Benny ad invertire i cavi delle autobombe, facendo
al fine saltare in aria un pulmino destinato alla scuola. Essendo morti gli
africani, il Mossad (che a loro teneva) si tira indietro. I pakistani riescono
a tornare in patria, ma lì c’è Mack che li aspetta, ed in un conflitto a fuoco,
cinque contro uno, è l’uno, Mack, ad avere la meglio. E ti pareva.
Insomma,
le tesi di Robinson sono: gli arabi sono al 90% terroristi, gli emiri, dal
Golfo al Pakistan, fanno parte di Al-Qaeda (nel romanzo c’è ancora Osama, che
morirà solo l’anno dopo l’uscita del libro), ci sono cellule dormienti in tutto
il mondo, ma in particolare vicino a Londra, il Mossad e i Servizi Segreti
americani sono autorizzati ad uccidere senza essere incriminati, i giudici
garantisti devono essere messi in grado di non ostacolare l’arresto di tutti
quelli che hanno la barba, ed altre amene giustificazioni per un libro
guerrafondaio senza se e senza ma.
Prima
di lasciare il libro al suo giusto oblio, una domanda sorge, anche, sul titolo,
che in italiano viene messo come “Interceptor”, che potrebbe essere reso con
“intercettatore”. Mentre il titolo originale è “Intercept” che sta per
“intercettazione”. Dove, se devi mantenere il titolo inglese, perché lo cambi?
E soprattutto, tutto il romanzo si basa sulle capacità di intercettazione dei
servizi segreti alleati sparsi per il mondo. Quindi, chi è l’intercettatore,
visto che il protagonista è un James Bond militare, ma non intercetta una
telefonata in nessuna delle quasi cinquecento pagine del libro.
Da
dimenticare al più presto.
In questo mese di ricordi, vorrei dedicare le
citazioni, ed il ricordo, ad una scrittrice non grandemente nota, ma di buona
penna, che ci ha lasciato, centenaria, due anni fa. Di Luisa Adorno ho letto
molto, e vorrei commentare alcune frasi e pensieri che colpiscono.
I
primi provengono da “Tutti qui
con me” e riguardano l’invecchiare:
“Non si invecchia a gradini, s’invecchia a pianerottoli” (125) ed ancor
più sagace “Eravamo ancora giovani e non lo sapevamo” (166).
Poi ci sono un pensiero ancora sull’età, ma
anche sull’amore: “Se saremo insieme anche la vecchiaia sarà salva” (109) ed
uno sull’amicizia “Ma che amicizia era mai la nostra se le cose importanti le
dicevamo dopo averle decise o quando erano già accadute?” (59), estratti da “Le dorate stanze”.
Infine,
da “L’ultima provincia” la descrizione di un comportamento da
ammalato che potrei sottoscrivere: “Alla prima strinata di freddo Cosimo
si ammalò. Una qualunque influenza che non gli impedì di giacere, fermo come un
morto, le coperte tirate dalla punta dei piedi all’orlo del naso uncinato dal
solco degli occhiali. ‘Perché non leggi? Perché non fai qualcosa?’, gli dicevo.
Mi rispondeva un gemito di riprovazione appena soffocato dalle coltri. Questa
che io credetti una sua stranezza, è invece il comportamento comune degli
Adorno ammalati. Niente si deve fare per distrarsi dal male, niente per
ingannarlo, e non per un bisogno di ascesi, ma nella ferma convinzione che a
stare fermi, la bocca e le braccia coperte, a non ‘sventoliarsi’, il male se ne
vada prima. Un Adorno ammalato non parla, geme, di preferenza dopo aver
controllato sul termometro un minimo rialzo di febbre. Non ha bisogno di
leggere, ‘… aio che pensare!’. Rifiuta infastidito, la sua mente essendo
continuamente occupata a cogliere un dolore, un rantolo, una fitta, e a
rispondere, dentro di sé a quell’ ‘unne lo pigliasti?’ con cui lo martella chi
lo assiste.” (148-149)
Intanto, pare che ci siano spiragli significativi per organizzare in marzo un viaggio in Giappone, dove, chi fosse interessato tra i miei amici lettori e viaggiatori, può chiedermi lumi. Quindi con qualche occupazione maggiore in testa, vi abbraccio tutti.
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