domenica 12 febbraio 2023

Giallo vince, spia perde - 12 febbraio 2023

Rimanendo in tema di thriller, questa settimana abbiamo con noi due gialli e tre racconti di spie, tutti provenienti dall’editoria di Repubblica. Come dice il titolo, i due gialli sovrastano le tre spiate. Soprattutto per merito del francese Bussi, di cui avevo letto altro, ma che qui mi convince di sicuro di più, insieme ai gialli ebraico-americani di Faye Kellerman. Certo, Maugham scrive bene, ma la sua spy story risulta spezzettate in molte microstorie, un po’ meno deludenti del primo episodio delle storie di oltre cortina di Olen Steinhauer. Finendo poi con un illeggibile libro di Patrick Robinson.

Michel Bussi “Un aereo senza di lei” Repubblica Passione Noir 16 euro 7,90

[A: 01/10/2018 – I: 27/08/2022 – T: 29/08/2022] - &&& e ½

[tit. or.: Un avion sans elle; ling. or.: francese; pagine: 477; anno 2012]

Sono tre i libri di Michel Bussi presenti nella mia libreria. Il primo, “Ninfee nere” lo lessi in originale, ma lo trovai un po’ troppo ripiegato su sé stesso, pur apprezzandone l’ambientazione nella Givenchy di Claude Monet. Il terzo è appena arrivato e non ne parlo. Questo, devo dire, mi riconcilia con l’autore, laddove costruisce un discreto mix di giallo e passione.

D’altra parte, come non farsi venire in simpatia un professore di geografia con la passione per la Normandia? La geografia ha sempre avuto uno dei tre posti sul podio delle mie preferenze assieme a matematica e letteratura (decidete voi l’ordine). La Normandia è anche un’altra delle regioni che mi hanno appassionato nella maturità.

L’altro elemento che mi rende simpatico l’autore è quel suo scherzare con le canzoni, così che titoli di successi francesi, direttamente o cripticamente, vanno a coronare i frontespizi dei suoi libri. Non entro nel merito di altro, rilevando solo quanto serve per questo romanzo. Che ha una derivazione diretta dalla canzone di un rockettaro francese Charlélie Couture e di una delle sue più note canzoni “Un avion sans aile”, dove anche chi ignora il francese ne nota l’assonanza con il titolo del romanzo “Un avion sans elle”. Non solo, ma nel testo la bella cui è rivolta la canzone viene chiamata “Libellula”, soprannome che verrà appiccicato alla protagonista del romanzo da una giornalista in vena di lirismo.

L’incipit della trama segna già tutta una dorsale di svolgimento: il 23 dicembre 1980, un airbus di linea sulla tratta Istanbul – Parigi si schianta sul Mont Terri (chiamato familiarmente Mont Terrible) al confine franco svizzero. All’arrivo dei soccorritori, viene trovata viva solo una bimba di circa tre mesi, a decine di metri dall’uscita di sicurezza dell’aereo. Si grida al miracolo, ma la questione si complica ben presto: sull’aereo c’erano due bimbe di 3 mesi: Lyse-Rose de Carville e Emilie Vitral. Peccato che i genitori, anche loro sull’aereo, siano tutti morti. Peccato che i nonni per una serie di ragioni che non vi narro, non abbiano nessun elemento per rivendicare la bimba come loro nipote.

Ovvio che le due famiglie siano agli antipodi: i de Carville ricchi padroni di un impero ed i Vitral onesti lavoratori venditori ambulanti di pizze e hot dog nelle feste paesane. Si scatena una battaglia legale senza esclusione di colpi, al termine della quale, il giudice, senza aver ulteriori probanti elementi, decide che la piccola sia Emilie Vitral. Nel frattempo, i giornali si erano impadroniti del caso, chiamando la piccola prima “Libellula” come sopra accennato. Poi con una macedonia linguistica, ribattezzandola Lylie (su questo torneremo).

In realtà è a questo punto che comincia realmente il romanzo, che i de Carville, dopo la sentenza, affidano la ricerca della verità ad un improbabile detective, Crédule Gran-Duc, con la missione di svelare il mistero entro il diciottesimo anno della piccola. Ricordo di passaggio che nel 1980 non c’erano test DNA da usare, o altre scoperte scientifiche a noi presenti dalla massa di telefilm americani che li usano.

Bisogna dire al contorno che i de Carville hanno un’altra nipote, Malvina, all’epoca di sei anni, e i Vitral un nipote, Marc, di due anni più grande di Lylie. Crédule lavora duro, e ci racconta il tutto in una parte diaristica. Ma non trova vie d’uscita. Decide allora, il 27 settembre 1998 di suicidarsi. Mentre cerca di attuare il suo gesto, riguarda la pagina del giornale dell’80, ed ha una folgorazione: il mistero è risolto.

Peccato che da lì partano tanti rivoli neri che mescolano le carte: Malvina trova un corpo semi bruciato ma indubbiamente morto a casa di Crédule. Il detective si è allora ucciso? Così pensa Marc, cui Lylie (informata il giorno precedente da Crédule) ha dato il diario del detective in cui ci dovrebbe essere la verità.

Intanto, Lylie sparisce, che, pur essendo da diciotto anni sorella di Marc, i due sentono una reciproca attrazione. E la ragazza, prima di fare stupidaggini, sparisce. Marc la cerca disperatamente, in questo ostacolato da Malvina, che lo odia da diciotto anni, ritenendolo colpevole di avergli rubato la sorella. Nel diario, inoltre, si spiega la strana morte del nonno Vitral, il doppio infarto del nonno de Carville, gli strani giri di Crédule e dei suoi aiutanti.

È abbastanza chiaro che la soluzione del caso non possa avvenire che sul Monte della tragedia, dove nel vero prefinale che tutto spiega, si ritrovano tutti i componenti del dramma. Meno, è chiaro, Lylie, che essendo sparita non può che apparire più tardi.

L’autore, come nei veri gialli di un tempo, ci aveva dato fin da subito la chiave risolutiva: Crédule capisce vedendo il giornale ed esclamando che solo per averlo visto ora, diciotto anni dopo l’incidente, ha capito la soluzione. Un mistero che mi ha attanagliato per tutta la lettura, e quando Michel lo disvela, mi sarei dato manate sulla fronte. Ben pensato. Ed anche ben scritto, rispetto alle ninfee che non mi avevano convinto. Financo i caratteri degli attori del giallo sono discretamente credibili, sia i buoni che i meno buoni e financo i cattivissimi. Una domanda poi sorge forte: come si vive con una identità incerta?

Ma per finire, pur non essendo un cercatore di sviste ed altre amenità, ci sono due cose che l’autore, l’editore ed il traduttore potevano modificare. È vero che si tende a semplificare, ma, come scritto a pagina 82, Lylie non è un acronimo, ma viene chiamato in linguistica “macedonia” (spero che il mio amico Ennio di lassù sia d’accordo).

Inoltre, e questo è veramente grave, a pagina 244 si scrive che Lyse-Rose nasce il 27 novembre, quando tutta una buona parte del dramma è basata che lei ed Emilie siano nate lo stesso giorno, il 27 settembre. Un errore che si poteva evitare. Di altri peccati veniali preferirei sorvolare, lasciando a voi lettori il gusto di una buona lettura.

W. Somerset Maugham “Ashenden o l’agente inglese” Repubblica Spy euro 7,90

[A: 24/02/2019 – I: 05/09/2022 – T: 07/09/2022] && 

[titolo: Ashenden or the British Agent; lingua: inglese; pagine: 265; anno: 1928]

Pur essendo uno scrittore di peso, e con alcuni punti di sicuro interesse, solo quattro sono i suoi libri nella mia biblioteca. Con una punta di diamante nell’agilissimo “La lettera” (di cui parlai una decina di anni fa). Ricordo anche che è uno scrittore ed un personaggio poliedrico. Scrive di tutto (romanzi, gialli, teatro, articoli di giornale), ha una legame omosessuale per trent’anni, ma intanto si sposa e mette al mondo una figlia. Infine, una particolarità che me lo rende sempre caro nella mente, pur essendo intrinsecamente inglese, nasce e muore a Parigi.

Nonostante la sua pluralità di scrittore, riesce anche a fare altro. Ad esempio, sui cinquant’anni, non potendo essere arruolato nell’esercito per limiti di età, viene ingaggiato come agente segreto per l’Intelligence britannica. Ed in questa veste, trascorre gran parte della Guerra facendo base in Svizzera. Da quest’esperienza, con le sue capacità anche di invenzione su basi reali, imbastisce la storia di questo agente inglese di nome Ashenden.

Non è un gran libro di spionaggio, anche perché, in realtà, sono circa sedici racconti riuniti in libro solo per il personaggio Ashenden che compare in tutte, come motore, esecutore, tramite di trame spionistiche decise altrove, e dirette dal suo capo, indicato con solo una lettera “R”. La particolarità di Ashenden è che non usa mai armi, pur girando armato. Inoltre, ha un discreto successo con le donne, e si muove, da raffinato, in ambienti raffinati. Si dice per tutti questi caratteri che sia stato uno dei modelli ispiratori di Ian Fleming durante la scrittura delle avventure di James Bond (uno per tutte, il capo di Bond viene indicato anch’esso con una sola lettera “M”).

Come detto, tutto si svolge durante la Prima Guerra Mondiale, con Ashenden arruolato da “R.” ed inviato in Svizzera a svolgere le sue missioni. Per le quali, in massima parte, cerca di usare persuasione, ricatto o tramite intermediari.

Tra le varie missioni che si svolgono nei diversi racconti, alcune sono leggermente superiori alle altre. Ad esempio, quando deve affiancare un sedicente generale messicana in missione in Italia per recuperare documenti segreti che un greco dovrebbe portare in Germania. Magistrale è la presentazione del messicano, e delle sue azioni (comprese grandi bevute e grandi tornei amatori). A Brindisi il messicano individua l’unico greco sbarcato nel porto, lo segue, lo uccide. Ma perquisendo la stanza del greco Ashenden non trova nessun documento. Per poi ricevere un telegramma da R. che la spia era ancora in Grecia.

Un altro bell’esempio è la storia della ballerina Giulia Lazzari, un po’ ricalcata su alcuni spunti “alla Mata Hari”. Ballerina girovaga, che fa innamorare di sé un indiano antibritannico e soprattutto agente tedesco. Ashenden, con lunghi colloqui, riesce a convincere Giulia a farsi raggiungere dall’indiano in Francia. Peccato che appena arrestato, l’indiano si sucida. Tocco da maestro di Maugham: Giulia, saputone la morte, chiede ad Ashenden di riavere il prezioso orologio che aveva a suo tempo regalato alla spia.

Infine, l’ultimo racconto è anch’esso magistrale, dato che sappiamo che anche Maugham fu inviato nel ’17 in Russia per appoggiare, con denaro inglese, il governo Kerensky. Missione che fallì, secondo l’autore, perché fu inviato troppo tardi. Nella trasposizione, Ashenden segue le orme dell’autore, sobbarcandosi un lungo viaggio in treno da Vladivostok a Pietrogrado. Viaggio che condivide con un affarista americano, Harrington, instancabile parlatore. Arrivati scoprono lo scoppio della rivoluzione bolscevica. Ma Harrington non vuole evacuare senza il suo bucato, elemento che gli costerà la vita. Dove ammiriamo i colpi di colore che lo scrittore riesce a dare alla narrazione. Ma anche il pudore con cui chiude il libro.

Un divertimento la lettura, anche se la frammentarietà dei racconti non fa apprezzare a pieno le capacità descrittive e narrative di Maugham.

Tra l’altro, per i miei lettori cinefili, ricordo che dieci anni dopo la pubblicazione, Hitchcock ne trasse un film “L’agente segreto”, indicato tra i miglior film stranieri dell’anno (essendo inglese e non americano). Dove il grande regista ebbe modo di usare alcune dei suoi temi migliori e ricorrenti: la falsa identità, i treni, e, affiancando a Ashenden una signorina, il “biondo Hitchcock”.

“Aveva … accarezzato l’idea di studiare il norvegese per poter cogliere, leggendo [Ibsen] … nell’originale, l’essenza segreta del suo pensiero.” (242) [e mi ricorda qualcosa…]

Olen Steinhauer “Il ponte dei sospiri” Repubblica Spy 15 euro 7,90

[A: 06/05/2019 – I: 24/10/2022 – T: 26/10/2022] - && e ½  

[tit. or.: The Bridge of Sighs; ling. or.: inglese; pagine: 347; anno 2003]

Cinquantenne americano, con un anno di studi in Romania, con questo libro di venti anni fa diede avvio ad un’onesta carriera di scrittore di “spy stories”. Ovviamente focalizzate in quello che ha studiato a lungo, il mondo oltre cortina, in special modo prima del 1989.

La particolarità di questa pentalogia è che segue in particolar modo l’evolversi della situazione in una precisa zona del blocco sovietico, laddove ogni libro si occupa di un anno e di una particolare situazione. Inoltre, ogni libro è centrato su un personaggio, e dista dieci anni da successivo, così che, a partire dal primo ambientato nel ’48 arriviamo all’ultimo coevo della caduta di Berlino.

Nelle bibliografie, viene indicata come serie “Viale Yalta (o Yalta Boulevard)” dal nome della via dove si situa il comando della polizia segreta da cui parte la prima vicenda. Viale che viene collocato in una fittizia nazione Est Europea, che potrebbe sovrapporsi al sito storicamente documentato ed indicato con il nome di Rutenia. Ricordo per i poco adusi alla geografia, che la Rutenia è una vasta area che copre una zona ora suddivisa tra Ucraina, Bielorussia, Russia, Polonia e Slovacchia.

In Italia credo sia uscito solo questo, primo volume della serie, con protagonista Emil Brod ed appunto che si svolge nel 1948. Il secondo (“The Confession”) si svolge nel ’56 (invasione dell’Ungheria) ed ha per protagonista Ferenc Kolyeszar. Il terzo (“36 Yalta Boulevard”) si svolge nel biennio ’66-’67 (nascita delle spinte verso la Primavera di Praga) ed ha per protagonista Brano Sev (che compare di sfuggita anche nel primo libro). Il quarto (“Liberation Movements”) si svolge tra il ’68 ed il ’75 (facilmente riconducibile al titolo), incentrato ancora su Brano Sev, e su Katja Drdova e Gavra Noukas. L’ultimo (“Victory Square”) si ferma al 1989 facendo tornare in scena Emil Brod.

Venendo a questa prima puntata, in realtà abbiamo due piani di lettura da seguire. Da un lato le indagini a seguito dell’omicidio di Janos Crowder, un cantautore ben addentro alla nascente borghesia costruitasi intorno a personaggi, spesso loschi, dopo l’annessione della nazione al Blocco Sovietico. Dall’altra la descrizione della vita come si va costruendo ed organizzando in un pase, un tempo libero, ma ora entrato nell’orbita dell’Orso sovietico.

Il primo filone non è particolarmente coinvolgente. Emil indaga, mette insieme idee, sospetti, viene in possesso di foto compromettenti. Sono coinvolti personaggi altolocati, quindi il nostro deve muoversi con i piedi di piombo. Ma tra indagini locali, puntate nella Berlino occupata, agnizioni, delazioni, ed altre avventure di poca presa emozionale, riesce a tirare le fila e ad incastrare il potente di turno. Personaggio ambiguo, che aveva lavorato per molti servizi segreti contrapposti, ma che Janos aveva conosciuto nella sua veste di delatore verso i nazisti occupanti. Riuscirà ad incastrarlo, anche se non sarà suo il merito, e forse non sarà neanche condannato a morte come meriterebbe.

Ma è la descrizione della vita e dei sentimenti che nascono in quei paesi che più mi sembra interessante. La Rutenia (chiamiamola così per semplicità) è un eponimo di molti paesi similmente occupati. Emil entra nelle Milizie del Popolo, dopo che durante la guerra aveva fatto il pescatore in Finlandia. E lì entra in contatto con la diffidenza reciproca di tutti i miliziani. Tutto sospettano l’uno dell’altro. Che qualcuno sia una spia di altre gerarchie, di altre e diverse situazioni politiche.

Olen ha buon gioco per descrivere la povertà, la miseria, la diffidenza reciproca. Tocchiamo con mano le difficoltà della popolazione dopo anni di privazioni, devastata dall’invasione di popoli altri venuti a dettare legge. Vediamo le carte annonarie per mangiare, le notti senza elettricità (e subito andiamo all’Ucraina odierna), i ponti aerei americani per portare viveri e generi di sussistenza varia a Berlino e zona limitrofe.

E se da un lato non manca la descrizione del degrado umano e morale che si diffonde, i soprusi dei soldati russi invasori, l’alcolismo che prende il sopravvento, la corruzione della politica, di converso vediamo anche come, nel popolo minuto, ci sia quell’anelito di uguaglianza e libertà che l’idea del comunismo portava con sé, come nelle frasi che riporto, mito di speranza e di rassegnazione. Non un bel libro, ma un libro interessante per queste pennellate di verismo. Ma sono argomenti che poco prendono il lettore, e non ci meravigliamo la scarsa diffusione delle opere di Steinhauer.

“Mara, tu non lo sai. Io ci sono stato in Russia … Erano buoni e sinceri. … [Marito] non dirmi quello che so e quello che non so … ne ho visti abbastanza di russi per questa vita.” (78)

“Lo so di cosa sono capaci i russi … nel bene e nel male. È un popolo che va da un estremo all’altro.” (322)

Faye Kellerman “L’impiccato” Repubblica Emozione Noir 13 euro 7,90

[A: 12/09/2019 – I: 28/10/2022 – T: 29/10/2022] - &&& --- 

[tit. or.: Hangman; ling. or.: inglese; pagine: 507; anno 2010]

Torno, dopo sei mesi, ad un nuovo libro di Faye Kellerman. Uno della serie imperniata sulla coppia Peter Decker e Rina Lazarus. Per essere precisi, il diciannovesimo romanzo di una serie ormai arrivata al libro ventisette. Peccato che pochi siano stati tradotti in italiano, tanto che a me ne risultano solo sette. Dispiace anche perché, pur con delle peculiarità, è una serie che ha un suo interesse.

La particolarità deriva dall’autrice, ebrea ortodossa americana, che ha imperniato la serie proprio intorno all’ebraismo e ad alcune sue particolarità. In molti libri si toccano temi religiosi (il bagno rituale, il kippur, ed altri simboli ebraici), cosa che ne fa una serie molto orientata verso questi temi e non sempre facilmente replicabile in altri contesti. Tuttavia, personalmente, ritengo che, anche con limiti e particolarismi, sia una serie che apre alcuni squarci sulla vita americana che sono comunque d’interesse.

Prima di entrare nello specifico della serie, che forse è ben riassumere nelle grandi linee, un primo problema mi arriva dal titolo. Che, come molte parole inglesi, assume una serie molteplice di significati, non subito comprensibili in italiano. Come “Hangman”, che può stare per impiccato (persona appesa ad un cappio), per boia o carnefice (persona che uccide per legge o per piacere), ma anche “gioco dell’impiccato”, quello in cui due persone si sfidano nell’indovinare una parola e nel comporre un tratto dell’impiccato ad ogni parola sbagliata.

Qui, potrebbe aver senso l’ultimo significato, dove il detective Decker deve cercare di trovare un assassino prima che colpisca ancora. Di certo non ha senso metterlo così, crudamente, visto che l’unica persona realmente impiccata è una donna. Metti un titolo così ed induci il lettore ad aspettare per tutto il libro che compaia un uomo appeso da qualche parte.

Veniamo ai personaggi della serie. Nel primo libro, il detective Peter Decker conosce in circostanze particolari Rina Lazarus, vedova e con due figli piccoli. Pete divorziato con figlia sedicenne in poco tempo, e due libri, si innamora di Rina, e scopre di avere anche lui ascendenze ebraiche, ed in altri pochi libri, sposa Rina. I due ad un certo punto hanno una loro figlia, Hannah, costituendo alla fine una famiglia molto allargata.

In questo episodio, Hannah ha diciassette anni, i due figli di Rina, Simon e Jacob sono tra i venticinque ed i trenta, e Cindy, la maggiore, dovrebbe averne intorno ai trentacinque, sposata con un uomo di colore, ed ora anche incinta.

Nel gioco dei rimandi incrociati, la storia si ricollega al libro numero 8, in cui incontriamo per la prima volta i giovani Terry e Chris, coinvolti in un omicidio, di cui alla fine sarà incolpato Chris, che, in modo che non so (non è uscito in Italia e non l’ho letto) esce presto di prigione, sposa Terry, hanno un figlio, Gabriel detto Gabe. Chris è violento, astuto, e decide di diventare killer professionista, continuando ad amare follemente Terry e provvedendo in ogni caso a Gabe.

Questa storia, con l’impiccato di turno, è comunque duplice. Da un lato, infatti, Terry coinvolge l’amico Pete che l’aveva salvata a suo tempo, nella sua vita familiare, che vuole lasciare Chris, senza mettere in difficoltà Gabe. Si inventa tutto un giro più astuto di quanto pensi Chris, con il risultato che, alla fine, lei scappa, Chris si calma, e Gabe va a vivere con la famiglia Decker. Non so, e spero di scoprirlo prima o poi, cosa succede nei successivi libri.

Ma se questo è l’ambito mistero-personale abbiamo poi il giallo in quanto tale, che una giovane infermiera viene trovata impiccata. Pete, con l’aiuto della sua squadra, tenta di risalire la china delle azioni. La donna, Adrianna, aveva un improbabile fidanzato, Garth, forse a Reno durante l’omicidio. Aveva un’amica, infermiera come lei, che forse flirtava con Garth. Aveva anche altre due amiche, una, serio avvocato, ed una barista molto liberale, nei costumi. Ci sono poi anche due amici di Garth, con lui a Reno, che non disdegna di andare a letto sia con Adrianna che con la barista. Barista che viene anche lei trovata morta, dentro un frigorifero.

Non c’è molta tensione nel giallo, che si capisce, e si dice ben presto, che, per una serie di motivi, che vi lascio leggere, c’è Garth alla base di tutto. Ma dopo 450 pagine che scorrono non dico con lentezza, ma di certo molto tranquillamente, le ultime cinquanta hanno una accelerazione poco spiegabile. In cui molti nodi vengono sciolti, si dipana al meglio la storia di Gabe, Terry e Chris, si capiscono risvolti della storia di Garth inaspettati. Rimanendo però, non vi dico come né perché, con alcuni punti di domanda e molte necessità di risposta senza una reale soluzione. Quasi come se, credo, altro ci si possa aspettare in altri libri. Peccato, soprattutto se questi libri non arriveranno in Italia.

Quello che alla fine mi ha anche lasciato perplesso è il non religioso, che era sempre presente nelle altre storie dell’autrice, ma che qui, a parte alcuni accenni all’aborto ed all’adozione di figli altrui, non mi pare sia presente.

Tuttavia, risulta un libro gradevolmente leggibile, in particolare nell’atmosfera di mutuo soccorso della famiglia Decker, allargata e coesa, culminante in una bellissima e da me partecipata in spirito festo per i sessant’anni di Pete.

“Le illusioni rendono la vita degna di essere vissuta.” (399)

Patrick Robinson “Interceptor” Repubblica Spy 14 euro 7,90

[A: 17/04/2019 – I: 08/12/2022 – T: 10/12/2022] - & 

[tit. or.: Intercept; ling. or.: inglese; pagine: 461; anno 2010]

Patrick Robinson è uno scrittore britannico, ormai più che ottantenne, che ha cominciato la carriera come giornalista sportivo, e, leggendo questo romanzo, forse era meglio che continuasse lì. Lui passa dal giornalismo alla scrittura venticinque anni fa con una serie di libri di ambiente marino. In particolare, di marina militare (portaerei ed altro).

Poi, nel 2009, decide di ampliare il raggio d’azione dal mare a tutti i terreni, iniziando una serie di romanzi che hanno come protagonista il capitano di corvetta del SEAL Mackenzie Bedford. Per chi non conoscesse gli ambienti guerrieri americani, SEAL è un corpo speciale, dedicato alla guerra non convenzionale, il cui acronimo sta per SEa, Air, Land (cioè mare, aria, terra), cioè i tre ambienti in cui i militari operano.

Questo è il secondo dei quattro romanzi che hanno per protagonista il capitano. Anche se si dovrebbe dire ex-capitano. Infatti, come ci viene ricordato e descritto qui, nel primo romanzo si narrano i motivi del congedo forzato. Mack (così viene brevemente chiamato) in un’azione in Iraq, vede morire venti militari americani, uccisi in un’imboscata. Individuati i colpevoli, pur se si stanno arrendendo, ne uccide una dozzina prima di fermarsi. Per questo viene processato, assolto dall’accusa di omicidio ma costretto al congedo.

Non avendo letto il primo libro, che mi si dice mediamente benfatto, questo che ho letto ritengo che sia veramente di una povertà di trama e di situazioni quasi imbarazzante.

Intanto, il narrato è spesso interrotto da lunghe digressioni per descrivere sia ambienti islamici, sia posizioni e storie di militari e di corpi addestrati americani, che poco portano alla trama in sé. Che, se vogliamo, è di una linearità disarmante.

Una storia di terroristi di matrice islamica che, sovvenzionati da forze vicine ad Al-Qaeda, vogliono organizzare uno spettacolare attentato. Per una serie di motivi, le forze regolari non possono intervenire, quindi viene ingaggiato Mack per il lavoro sporco. Dopo quattrocento pagine di inutile girovagare, incluse alcune poco convincenti “rivelazioni”, Mack si mette all’opera e, dopo aver sbaragliato la cellula terroristica, viene reintegrato nel suo ruolo per i SEAL.

Quali sono le zeppe che in questo racconto, che potrebbe essere svolto in un centinaio di pagine, si inventa il nostro buon Robinson?

Intanto, i due terroristi di matrice pakistana vengono arrestati (senza prove) da Mack prima che lui fosse congedato, e spediti a Guantanamo. Dove sopravvivono per cinque anni senza essere interrogati né accusati. Al passaggio di guardia da Bush a Obama, un’ondata garantista si abbatte sulla giustizia americana. Così uno studio legale americano accetta soldi da emiri arabi per liberare i due. Possibilità indotta proprio dalla mancanza di accuse specifiche. I due pakistani vengono liberati insieme a due nord-africani, in odore di attentati antiisraeliani.

Ecco allora che si inserisce nella trama il Mossad. Che, come primo intervento, fa saltare in aria lo studio degli avvocati, uccidendo i tre responsabili della liberazione di Ibrahim, Youssuf, Ben Talib e Abu Hassan.

I quattro, intanto, prima si riparano i Pakistan, poi, vestiti e ripuliti, cominciano un percorso di ritorno in America, passando per Londra, la Spagna, il Messico, la frontiera clandestina, ed un percorso finale in treno. Anche se a New York, nella Pennsylvania Station, un tizio sembra riconoscerli. Ma Abu Hassan ha una bomba nascosta e fa saltare in aria la toilette con il tizio dentro.

Comunque, i quattro, dopo varie inutili peripezie, si stabiliscono in una zona rurale, vicino ad un collegio di ebrei americani, con l’intento di farlo saltare in aria.

In tutto ciò, Mack li segue da vicino, varie volte sta per arrivare loro a tiro, ma fortuna o bravura, i quattro sfuggono. Così, non potendo chiedere aiuto alle forze regolari, Mack si avvale della rete sotterranea del Mossad. Con la quale, individua il covo, decritta i messaggi che danno indicazioni sull’attentato, interviene con l’israeliano Benny ad invertire i cavi delle autobombe, facendo al fine saltare in aria un pulmino destinato alla scuola. Essendo morti gli africani, il Mossad (che a loro teneva) si tira indietro. I pakistani riescono a tornare in patria, ma lì c’è Mack che li aspetta, ed in un conflitto a fuoco, cinque contro uno, è l’uno, Mack, ad avere la meglio. E ti pareva.

Insomma, le tesi di Robinson sono: gli arabi sono al 90% terroristi, gli emiri, dal Golfo al Pakistan, fanno parte di Al-Qaeda (nel romanzo c’è ancora Osama, che morirà solo l’anno dopo l’uscita del libro), ci sono cellule dormienti in tutto il mondo, ma in particolare vicino a Londra, il Mossad e i Servizi Segreti americani sono autorizzati ad uccidere senza essere incriminati, i giudici garantisti devono essere messi in grado di non ostacolare l’arresto di tutti quelli che hanno la barba, ed altre amene giustificazioni per un libro guerrafondaio senza se e senza ma.

Prima di lasciare il libro al suo giusto oblio, una domanda sorge, anche, sul titolo, che in italiano viene messo come “Interceptor”, che potrebbe essere reso con “intercettatore”. Mentre il titolo originale è “Intercept” che sta per “intercettazione”. Dove, se devi mantenere il titolo inglese, perché lo cambi? E soprattutto, tutto il romanzo si basa sulle capacità di intercettazione dei servizi segreti alleati sparsi per il mondo. Quindi, chi è l’intercettatore, visto che il protagonista è un James Bond militare, ma non intercetta una telefonata in nessuna delle quasi cinquecento pagine del libro.

Da dimenticare al più presto.

In questo mese di ricordi, vorrei dedicare le citazioni, ed il ricordo, ad una scrittrice non grandemente nota, ma di buona penna, che ci ha lasciato, centenaria, due anni fa. Di Luisa Adorno ho letto molto, e vorrei commentare alcune frasi e pensieri che colpiscono.

I primi provengono da “Tutti qui con me” e riguardano l’invecchiare: “Non si invecchia a gradini, s’invecchia a pianerottoli” (125) ed ancor più sagace “Eravamo ancora giovani e non lo sapevamo” (166).

Poi ci sono un pensiero ancora sull’età, ma anche sull’amore: “Se saremo insieme anche la vecchiaia sarà salva” (109) ed uno sull’amicizia “Ma che amicizia era mai la nostra se le cose importanti le dicevamo dopo averle decise o quando erano già accadute?” (59), estratti da “Le dorate stanze”.

Infine, da “L’ultima provincia” la descrizione di un comportamento da ammalato che potrei sottoscrivere: “Alla prima strinata di freddo Cosimo si ammalò. Una qualunque influenza che non gli impedì di giacere, fermo come un morto, le coperte tirate dalla punta dei piedi all’orlo del naso uncinato dal solco degli occhiali. ‘Perché non leggi? Perché non fai qualcosa?’, gli dicevo. Mi rispondeva un gemito di riprovazione appena soffocato dalle coltri. Questa che io credetti una sua stranezza, è invece il comportamento comune degli Adorno ammalati. Niente si deve fare per distrarsi dal male, niente per ingannarlo, e non per un bisogno di ascesi, ma nella ferma convinzione che a stare fermi, la bocca e le braccia coperte, a non ‘sventoliarsi’, il male se ne vada prima. Un Adorno ammalato non parla, geme, di preferenza dopo aver controllato sul termometro un minimo rialzo di febbre. Non ha bisogno di leggere, ‘… aio che pensare!’. Rifiuta infastidito, la sua mente essendo continuamente occupata a cogliere un dolore, un rantolo, una fitta, e a rispondere, dentro di sé a quell’ ‘unne lo pigliasti?’ con cui lo martella chi lo assiste.” (148-149)

Intanto, pare che ci siano spiragli significativi per organizzare in marzo un viaggio in Giappone, dove, chi fosse interessato tra i miei amici lettori e viaggiatori, può chiedermi lumi. Quindi con qualche occupazione maggiore in testa, vi abbraccio tutti.

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