domenica 16 aprile 2023

Meglio il Giappone - 16 aprile 2023

Una settimana d’arte varia, come dicono le canzoni. Dove tutto si mantiene decente, ma poco sotto la mia sufficienza. A parte il delicato, anche se non stravolgente, racconto lungo giapponese, che si erge sulla poca incisività degli altri. Che sono due italiani, il “vecchio” Carofiglio ed il “giovane” Zannoni e due peruviani, i poco noti Cueto e Benavides. Letture gradevoli, come detto, ma che non mi hanno preso, se non a tratti. E se non per qualche frase che riporto, commento ed a cui rimando.

Gianrico Carofiglio “Passeggeri notturni” Repubblica Carofiglio 11 euro 8,90

[A: 15/07/2022 – I: 21/09/2022 – T: 22/09/2022] && --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 94; anno: 2016]

Un nuovo incontro poco fortunato. Carofiglio a me rimanda sempre al suo personaggio meglio riuscito, l’avvocato Guerrieri. In sottordine ho letto anche con rispetto le avventure del maresciallo Ferrero, e qualche scrittura a sé stante, dove ricordo un gradevolissimo “Né qui, né altrove”. Se a tutto ciò, unisco la mia ritrosia ad affrontare racconti o scritture spezzettate, ecco che questi passeggeri notturni fanno una grossa fatica ad essere seguiti nei loro svolazzi.

Qui, infatti, abbiamo una trentina di scritture, di due o tre pagine in media, che non seguono nessuna linea comune. Solo scritti come fossero appunti del proprio brogliaccio personale, idee o incontri che si fanno durante il corso della vita. Con la capacità, del soggetto vivente, cioè lo scrittore Carofiglio, magari di appuntarsi gli spunti, di pensarci sopra, e poi di tirar fuori alcune linee di scrittura che, se non coinvolgono, di certo ci fanno seguire i pensieri di un uomo del nostro mondo. Purtroppo, il tono che dà la musica a tutto il testo è quello di una persona un po’ distaccata, che, cercando di darci qualche perla di riflessione, a volte assume il tono di un maestrino anni Cinquanta di fronte ad una classe di alunni poco attenti.

Nel microcosmo che ci presenta Carofiglio ci sono spunti saggistici, ricordi personali, divagazioni oniriche. In una massa che non mi ha convinto, due sono i testi che mi sono rimasti impressi. Uno dei primi, dove, raccontando altre storie, termina con l’accenno alle fiabe che riporto in fondo e che non solo mi trova in completo accordo, ma che mi rimanda alla lettura delle mie fiabe giovanili in un modo tutto nuovo.

Il secondo è l’ultimo scritto, un sogno vissuto o una vita sognata, segnato dal ricordo del padre (e chi non ripensa ai propri cari, proprio quando non c’è più tempo per confrontarsi con loro), anche questo scritto che termina con una frase che non mi esce dalla mente e che è l’ultima che riporto in questo scritto, ma che ora non riesco a commentare.

Ma oltre gli apologhi, ed oltre un paio di brutte prove, tra cui annovero il raccontino intitolato “Il biglietto”, per me il peggiore di tutto il libro (tanto che, a parte citare il titolo, non ne voglio parlare), la fanno da padrone piccoli apologhi con cui si illustra un caso esemplare e si arriva alla fine enunciando una morale, una conseguenza, una frase emblematica, che dovrebbe cogliere di sorpresa ed in contropiede il lettore.

Come nell’apologo dedicato ad un ricercatore americano che scopre le cause della denutrizione in alcune popolazioni vietnamite. E lo fa concentrandosi su ciò che sembra funzionare in modo da replicarlo, invece che su quanto non funziona, cercando inutilmente di invertirne il malfunzionamento.

Poi ci sono spigolature varie, spesso, purtroppo, senza troppe pretese se non fotografare momenti di vita quotidiana. Come l’autore ad una inaugurazione di una galleria d’arte dove si domanda se sia peggiore il rinfresco o le opere esposte. O lo stesso ad una terrazza romana in compagnia del “generone” della Capitale. Mitica la scena di Carofiglio in libreria avvicinato da un signore che vuole congratularsi con lo scrittore per un suo romanzo. O gli incontri con varia umanità: una professoressa inglese esperta di toilette (nel senso di W.C.) o uno psicologo di New York. Tutto senza che si arrivi a scoperte che ci illuminano la vita (anche se devo dire, e lo vedete in fondo, qualche frase rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure, come diceva il poeta).

Concludo, citando l’apologo cinese, dove Confucio sostiene che per governare bene, la prima cosa che i neo affacciati al potere devono fare è correggere i nomi. Perché “se i nomi non sono corretti, cioè se non corrispondono alla realtà, il linguaggio è privo di oggetto. Se il linguaggio è privo di oggetto, agire diventa complicato, tutte le faccende umane vanno a rotoli e gestirle diventa impossibile e senza senso. Per questo il primo compito di un vero uomo di Stato è rettificare i nomi”. Interessante quesito per la nuova gente al potere in Italia.

Ripeto, non amo gli scritti frammentati, amo altro di Carofiglio, e quindi, pur apprezzando la scrittura ed alcune spigolature, non metterei questo in cima ai suoi scritti, né tantomeno in cima o nella pattuglia di testa dei miei interessi letterari.

“Chesterton diceva che le fiabe non servono per spiegare ai bambini che i draghi esistono … le fiabe servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti.” (10)

“Somerset Maugham … era solito dire che ci sono tre regole infallibili per scrivere un romanzo di successo. Sfortunatamente … nessuno sa quali siano” (16)

“[c’è un atteggiamento che in psicologia viene definito pregiudizio egoistico ed è] quel fenomeno complesso per cui, in pratica, tendiamo a sopravvalutare le nostre qualità e sminuire i nostri difetti ed i nostri limiti” (41)

“La morte non è niente. Io sono solo andato nella stanza accanto.” (94)

Alonso Cueto “Testamento de sangre” Debolsillo s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/09/2022 – I: 24/09/2022 – T: 24/09/2022] - &&   

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 78; anno 2018]

Durante il recente (e bellissimo) viaggio in Perù, per ovvi problemi di peso aereo, ho dovuto limitare il numero dei libri al seguito. Motivo per cui, verso la fine del giro, trovandoci in quel di Cusco, l’ottima Alessandra ha pensato bene di rifornirmi di autori locali. Trovata una ben fornita libreria nell’Avenida del Sol, due autori sono finiti nel mio carniere. Primo, quindi, ho iniziato a leggere questo scrittore proveniente dalla capitale, e considerato un autore di buon livello. D’altra parte, stavo cercando alternative a Vargas Llosa, che, personalmente, non sempre mi ha soddisfatto nelle sue prose.

Cueto viene da una famiglia di intellettuali, figlio del filosofo Carlos Cueto, ha studiato in patria e all’estero, prendendo un dottorato in Texas a trent’anni. Ha iniziato scrivendo articoli, cosa che continua a fare anche dopo essersi affermato come scrittore. Come molti scrittori peruviani suoi contemporanei, ha sentito molto l’influenza della guerra civile (magistralmente riprodotta nella sua opera maggiore “L’ora azzurra” (pubblicata in Italia da Editori Riuniti). Leggendone biografie e commenti in rete, è palese la sua posizione antagonista, laddove molti personaggi dei suoi scritti si ribellano agli ambienti ristretti in cui vivono.

Ribellione che, seppure in forma minore e personale, è presente in questo veloce scritto, di meno di cento pagine, che si legge velocemente ed agilmente, scritto in uno spagnolo semplice (o forse semplificato dall’uso locale peruviano). Non è un libro entusiasmante, pur se con qualche spunto, laddove riesce a presentarci lotte familiari intorno ad un testamento. Cosa che purtroppo è di attualità, in ogni paese.

Il testo si sviluppa intorno alla vita familiare di una tipica famiglia peruviana. Non abbiamo traccia del padre, morto da tempo. C’è invece la madre, una donna decisamente forte e determinata, che sta andando verso il crepuscolo della vita, subendo acciacchi dell’età. Ma soprattutto legata ai suoi due figli.

Mariana, sposata con Pedro, che le sta vicino, la accudisce, quando può, la prende dalla casa di riposo per portarla a spasso per Lima. Inciso: spostamenti che, dopo aver nuovamente visitato la capitale, sconsiglio a chiunque; per girare in macchina bisogna prendersi un giorno di tempo per fare cinque chilometri, ed un giorno di riposo dopo averli fatti. Ma loro sono di città, così che posso gustare, seduto in poltrona, la loro gita in un caffè di San Isidro.

Roberto, invece, inopinatamente, il giorno prima delle nozze di Mariana, parte per l’Europa e per anni evita di tenere contatto con la famiglia. A posteriori conosceremo i suoi giri tra Spagna, Francia e Germania, le sue iniziali difficoltà, i piccoli successi, anche se non sono particolarmente interessanti, o apportatori di nuova luce alla vicenda.

L’elemento scatenante è in primo luogo l’infarto della madre e la sua dipartita. Così che per il funerale ed il testamento, tutta la famiglia si riunisce. Lo zio di Mariana riesce anche, un po’ per fortuna, un po’ per segreti contatti, ad avvertire anche Roberto. E tutti presenti, si dà lettura di un testamento che più sanguinoso non si può. La famiglia è benestante, hanno case, partecipazioni in aziende e qualche soldo da parte. Ebbene la gran parte di tutto ciò la madre la indirizza a Roberto, lasciando praticamente tutti gli altri parenti con un palmo di naso, ed in particolare Mariana.

Da qui comincia la lotta di sangue tra i due fratelli, sui motivi di tale scelta. Un modo forse della madre per far tornare il figlio lontano. Un tentativo, trasverso, di riavvicinare i fratelli una volta tanto uniti. Domande su domande, che Roberto e Mariana si pongono in un incessante e dolorosa “querelle” familiare. Fino a che Roberto non confessa la sua verità: ha visto la madre con un altro uomo, e, colpito dal tradimento, ha deciso di fuggire lontano e non vederla mai più. Così che si immagina il testamento come un modo della madre di chiedergli perdono.

Mariana non crede a Roberto, ma insieme indagano per scoprire, dopo tanto, gli altarini materni. Che scopriranno, e non ve li narro, ma serviranno a riunire due fratelli che per cecità ed orgoglio si erano ingiustamente allontanati. Pur nel finale pacificatore, un suggerimento, anche personale, viene dalle parole di Cueto: lasciate in ordine le vostre cose, prima che avvenimenti imprevisti portino a situazioni di difficile risoluzione.

Forse, se non avesse toccato corde a me vicine, mi sarebbe restato un po’ distante, apprezzandone solo la scrittura. Non è un gran racconto, ma di sicuro un testo che pone delle domande a cui dobbiamo rispondere in prima persona.

Jorge Eduardo Benavides “Una visita inesperada” Bizarro s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/09/2022 – I: 24/09/2022 – T: 25/09/2022] - && --  

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 118; anno 2015]

Eccoci al secondo libro peruviano, regalato per colmare qualche lacuna della letteratura locale durante il bellissimo viaggio anniversario, e come al solito laggiù nell’altro continente, un regalo di Ale. Qui abbiamo uno scrittore quasi sulla sessantina, nato ad Arequipa, la bella “ciudad blanca”. Scrittore della cosiddetta generazione di mezzo, a cavallo del secolo, le cui opere oscillano tra realismo urbano e voli fantastici (che i critici chiamano “alla Cortazar”).

Qui abbiamo un’opera inserita nel filone “juvenilia”, cioè destinato alla generazione in formazione, motivo per cui siamo più sul primo assunto, con ambientazioni cittadine, in genere quasi tutte nella città di Lima. Pur non conoscendo le altre opere di Benavides, per le quali ha ricevuto premi sia in patria che nel mondo ispanico, devo comunque sottolineare che ha una scrittura che scivola bene in lettura (anche dallo spagnolo), al servizio di una storia leggerina anche se con qualche spunto di novità e di attualità.

Il nucleo centrale, che poi si svelerà lentamente nel corso della narrazione, vede contrapposti due mondi tipicamente peruviani: quello di chi si rimbocca le maniche e decide di vivere in patria con tutti i problemi e le difficoltà (e di crescervi i propri figli) e quello di chi, per opportunità a volte e per necessità spesso decide di trasferirsi altrove, sovente in Europa, ed ancor di più in Spagna.

Il balletto delle poco più di cento pagine ruota intorno a quattro personaggi. Due amiche limegne e due fratelli espatriati. Lei e lui si sono cosciuti via chat (qui si potrebbe aprire una bella discussione sugli incontri in rete), senza dire i propri veri nomi, usando pseudonimi iperbolici, quasi a magnificare virtù che magari non posseggono. Quando i due emigrati in Spagna, per motivi familiari, tornano in Perù, quale migliore occasione per incontrarsi.

Così comincia l’avventura tra Victoria detta Vicky e Alex. Benavides ha una buona capacità di farci vedere l’imbarazzo di un incontro al buio, dove ognuno cerca di rassomigliare all’immagine che ha dato di sé attraverso le parole lanciate nel vento. Vediamo però che qualcosa gira con un po’ di ruggine. Entrambi sembrano aver altro per la testa, quasi che, andata troppo avanti la finzione, non si riesca a tornare sulla terra.

Scopriamo presto che, in realtà, Vicky non è Vicky ma la sua amica Amalia, che ha tutt’altro carattere. Vicky è estroversa, vogliosa di avventure, di vita, mentre Amalia preferisce leggere e studiare. Ma se l’amica chiede un favore, Amalia c’è. Peccato che, finzione dopo finzione, Amalia comincia ad avere un debole per Alex. Cosa che ingelosisce Vicky, che decide di entrare nel gioco delle parti, presentandosi come Amalia.

Pur apprezzando i mescolamenti dei personaggi, ritengo tuttavia che Benavides poteva sfruttare meglio questa parte. Comunque, l’irruenta Vicky riesce a scombussolare la routine dei due. Anche perché vediamo pure Alex avere strane ritrosie. Arriviamo così al punto di rottura (ci vuole se no è troppo piatto). Vicky organizza una fesa, Amalia ci va senza dirlo ad Alex che dovrebbe stare a casa a studiare. Ma lì vede Vicky ballare sfrenata con Alex e baciarlo davanti a tutti.

Crisi nera, sembra senza uscita, fino a che scopriamo che Renzo non è solo il fratello di Alex, ma è il fratello gemello. Inoltre, come Amalia sostituiva Vicky, così Alex sostituiva Renzo. Che erano i due scatenati ad essersi incontrati sul web, mentre i due studiosi vengono presi in mezzo dalle loro ciclopiche manie. Dopo alcuni passaggi a vuoto della scrittura, arriviamo bellamente alla fine. Tutti si sono chiariti, ma un gemello deve tornare in Spagna. Chi sarà? Ci sarà un happy end o un finale aperto? Anche se dubito che qualcuno riuscirà a trovare il libro in Italia, non vi svelo il finale (un po’ di pudore, che diamine).

In ogni caso, anche se giovanilista, Benavides riesce a porci qualche domanda. I giovani sudamericani, ad esempio, sembrano quasi assai più legati degli occidentali ai social. Poi ci sono le differenze sociali, i meticci, le scarse prospettive di lavoro, i peruviani legati alla patria e quelli legati alla Spagna. Non è un libro ben bilanciato, ma moderatamente gradevole (e scritto in uno spagnolo veramente facile da seguire).

“Lo importante no es encontrar la respuesta. Es saber plantear la pregunta.” (102) [L’importante non è trovare la risposta, ma saper formulare la domanda]

Bernardo Zannoni “I miei stupidi intenti” Sellerio s.p. (regalo di Natale di Pietro)

[A: 24/12/2022 – I: 26/12/2022 – T: 28/12/2022] && --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 243; anno: 2021]

È di certo un piacere leggere uno scritto di un giovane scrittore che, a ventisei anni, con questo romanzo, vince un premio non banale come il Campiello. Piacevole perché la scrittura c’è, una forte idea di trama che non si sperde durante la via, passaggi coerenti con l’assunto iniziale, ed un complesso non consolatorio e discretamente reale, anche se andremo meglio ad analizzare cosa possa significare reale.

Tuttavia, devo anche dire subito che il libro non mi è piaciuto, cioè non mi ha coinvolto emozionalmente. L’idea di antropomorfizzare gli animali della foresta, pur conservando ognuno le proprie particolarità animali, non mi ha appassionato, anzi mi ha quasi respinto. Non sono riuscito ad entrare in sintonia con i personaggi, né ho colto le eventuali connessioni, nel caso l’autore volesse fare un discorso a tema.

Ma forse non è così, è solo un’espediente per parlare, attraverso non-umani di sentimenti umani. Il rapporto con qualcosa che è più grande di noi e che non conosciamo, come il Dio cui si lega il percorso di vita della volpe. Il rapporto con la morte, presente in tutti. Il senso di benessere ed appagamento a fronte di turbe e soddisfacimenti sessuali, che Archy segue e persegue per tutto il testo.

Tuttavia, riconosco a Zapponi il merito di non aver voluto rendere umani gli animali. Sono e restano animali, anche se si muovono nel mondo adottando atteggiamenti umani. Non solo e non tanto nei pensieri, ma quando mangiano a tavola, quando entrano ed escono dalle tane, quando si muovono nel loro mondo. Per poi tornare all’istinto, all’animalità, quando lottano, quando si sbranano, quando si accoppiano.

Se si fa il salto di realtà che l’autore ci chiede, ecco che, un po’, riusciamo ad entrare nel mondo di Archy la faina, protagonista del libro. Un po’ meno animale dei suoi fratelli, laddove bilancia l’istinto con brandelli di raziocinio. Colpito da sfortuna sin da piccolo. Muore il padre, la madre vedova fatica a tirare avanti con cinque figli. Due deboli e sfortunati, Otis gracile di costituzione e Cora, orbata di un occhio da uno sfogo inconsulto della madre. Due forti, Leroy, il maschio di casa che presto diventa (anche) il sostegno di casa e Louise, la femmina, bella, provocante, causa dei primi turbamenti sessuali di Archy (nel mondo animale non esistono barriere incestuose). In mezzo lui, Archy, che vorrebbe essere come Leroy, ma, nel tentativo di imitarlo, cade da un albero, e rimarrà zoppo per tutta la vita.

Menomato è inutile, e la madre lo vende all’usuraio, la volpe Solomon, che lo adotta. Prima come semplice schiavo, poi, attraverso un percorso di avvicinamento reciproco, quasi come un figlio putativo. Anche perché Solomon si sente invecchiare, e vede in Archy un possibile erede delle sue conoscenze. Che Solomon sa leggere e scrivere, e lo insegna ad Archy, che dalla scrittura troverà lo scopo ultimo della sua esistenza. Quello di cristallizzare i suoi “stupidi intenti” per lasciare un segno del proprio esistere sulla terra. Un libro prima di sparire, un sogno che non è e non sarà mai solo di Archy.

Seguiamo le vicende successive di Archy, gli insegnamenti del libro di Solomon, la Bibbia, in cui si parla di uomini, e l’animale Archy si domanda cosa ci sia al di là ed al di sopra di lui. In particolare, quando muore Solomon. In particolare, quando anche lui si avvicina alla morte. Vediamo Archy innamorarsi della bella Anja, vivere una piccola estate d’amore con lei, per poi cadere in errori (o in comportamenti animali) che l’allontaneranno per sempre.

Vediamo Archy adottare l’istrice Klaus, sperando di ripercorrere con Klaus il suo percorso con Solomon. Ma Archy non è una volpe astuta, è solo una faina che riuscirà a ripercorrere gli errori di Solomon senza avere la capacità di trovare soluzioni per tirarsene fuori.

La biografia di Archy narrata da Zapponi, quindi, non potrà che concludersi con la morte, momento in cui troverà un’ultima nemesi della sua precedente vita.

Molti, anche dopo la vittoria del premio, hanno parlato di una favola che si esprime tramite un percorso di formazione. Ma, e sono d’accordo con quanto ho letto qua e là in rete, un percorso di formazione porta il formato ad un punto in cui ha coscienza e migliora la sua condizione iniziale. Cosa che ad Archy non succede. Archy rimane, in fondo, ancorato al suo istinto animale, ed è proprio quando utilizza l’istinto che ha i momenti migliori di serenità e di sincerità.

Come avete potuto seguire fin qui, è una bella storia, in sé, ma qual è l’intento di usare gli animali? Cosa ci danno di diverso dallo scrivere una storia su quello che conosciamo meglio, gli umani? Rimango con i miei dubbi e con poca soddisfazione.

Hiraide Takashi “Il gatto venuto dal cielo” Corriere Giappone 9 euro 8,90

[A: 15/06/2021 – I: 21/01/2023 – T: 22/01/2023] - &&&      

[tit. or.: 猫の客 – Neko no kyaku; ling. or.: giapponese; pagine: 136; anno 2001]

Una nuova lettura dedicata alla collana della letteratura giapponese, che ribadisce i punti fermi di queste scritture: delicatezza, semplicità, capacità di creare atmosfere con poche parole e facili descrizioni.

Non ho molte notizie sullo scrittore, se non che Takashi è ora oltre i settanta ed è considerato tra i maggiori poeti in patria. Un modo di scrivere che si rivela presto fin dalle prime righe, dove, più che ad un racconto, ad un intreccio, andiamo incontro a pennellate di vita. Con questo romanzo, l’autore ha avuto un notevole successo, sia in patria, sia in molte nazioni. Se ne capisce il motivo proprio per quell’aria di non invasività che viene utilizzata nello scrivere.

Intanto, comunque, comincerei con il cercare di capire le motivazioni del titolo. Ora, io sono totalmente ignaro del giapponese, ma le varie traduzioni del testo, nonché alcune ricerche filologiche, fanno pendere la bilancia sulla presenza di due concetti: gatto e ospite. Non si capisce però sia il gatto ad essere l’ospite o i protagonisti ad essere ospitati nella vita del gatto. Quello che mi risulta oscuro è il motivo di inserire nel titolo italiano quell’accenno a “venuto dal cielo”.

Certo, il gatto al centro del testo non si sa da dove viene, ma una siffatta titolazione avrebbe, forse, avuto senso utilizzando “piovuto”, che significa che non si sa da dove viene. Mentre venuto indica un moto che il gatto di certo non ha mai pensato di effettuare. Né tantomeno possiamo pensare ad un gatto extra-terrestre.

Alla fine del libro propenderei però verso la considerazione che il gatto del titolo entra certo nella vita della coppia al centro (o quasi) del racconto, ma rimarrà sempre indipendente, rimarrà sempre un “gatto ospite”.

Non so se ci sia anche dell’autobiografico, ma il racconto è visto dalla parte di un lui che ha raggiunto un punto sterile della sua vita. Non è contento del suo lavoro, il rapporto con la moglie sembra essere diventato ormai solo una routine di coppia. Anche la casa dove da poco si sono trasferiti non apporta novità. Bella, forse comoda, ma ancora parte della vecchia Tokyo, quella che il mercato immobiliare sta stravolgendo verso la Tokyo del futuro. Credo infatti, da alcuni accenni che si sia negli anni ’80 (dove Hiraide dovrebbe appunto essere sulla trentina come il protagonista).

Ed ecco che una gatta viene adottata dai vicini. Si chiama Chibi, e pur essendo del piccolo vicino, è indipendente. Non miagola, si preannuncia dal suono della campanella al collo, e si aggira per le varie zone della proprietà, tra i protagonisti, i vicini, gli anziani proprietari, il giardino.

I nostri sono intrigati da questa presenza silenziosa ma costante, dai suoi giochi, dal suo mangiare, dal suo girovagare essendoci senza ingombrare. La sua presenza scatena piccoli sommovimenti interiori nei protagonisti. La coppia si riavvicina, trova nuovi momenti di comunità. Lui prende il coraggio a due mani, si licenzia, e comincia a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. E quando gli anziani devono andarsi (il vecchio muore e la vecchia si ricovera in una struttura per anziani) il nostro, insieme a Chibi, esplora il proprio mondo. Trovando elementi di serenità nelle piccole cose che lo circondano. Tipica, ad esempio, la descrizione del getto d’acqua per innaffiare il prato e della libellula che vi si aggira.

Il piccolo mondo di Chibi e dei suoi dovrà anche affrontare crisi, forti, epocali, che modificano le vite dei personaggi. Ma questo lo potete leggere nelle poche pagine del testo. Dove, come detto, senza sembrare che succeda nulla, succedono tante cose. Ognuno, per la sua parte, fa un salto di coscienza, avendo Chibi come elemento tornasole della propria esistenza.

Pur centrato sulla gatta, il testo non è uno “stupidario animale”, un tentativo di entrare nella testa di un animale che è diverso da noi, e che non potrà mai essere descritto. È un testo sui rapporti, dove uno di questi rapporti è tra l’umano e l’animale, poeticamente visto dalla parte dell’uomo.

Takashi è un tipico esempio della sensibilità giapponese nel riferirsi al mondo. Ne leggi, e sei trasportato nei giardini zen di Tokyo, nelle vecchie case di Kyoto, ritorni ai personaggi di Banana e solidarizzi con loro. Insomma, un’efficace lettura introduttiva alla cosmogonia nipponica.

Un ultimo accenno al nome della gatta. Purtroppo, la traduzione non spiega che “chibi” è un termine colloquiale usato per designare qualcosa di piccolo (in questo caso una piccola gatta). Inoltre, è anche molto usato nel mondo dei “manga” per indicare un tipo di disegno che riduce le proporzioni del personaggio. In particolare, negli anni Novanta sarà un elemento forte del manga “Sailor Moon”, dove, appunto, accanto a Sailor Moon appare come aiutante e piena di poteri forti “Sailor Chibi Moon”. Pur non entrando nel mondo dei fumetti, avrei usato una nota per spiegare la piccola gatta Chibi.

In questi momenti storici di grandi movimenti, mi viene ben incontro Zygmunt Bauman ed un suo scritto al solito denso di parole su cui riflettere. Mi riferisco a “Modus vivendi” dove ci sono due frasi in qualche modo anche complementari, sull’essere e sullo stare, laddove la seconda allarga il pensiero ad una ulteriore riflessione sulla vita. Eccole:

“I profughi … non cambiano posto. Perdono il loro posto sulla terra e sono catapultati in un luogo che non c’è … o in un deserto, per definizione una terra inabitata, una terra che non sopporta gli uomini e che gli uomini raramente visitano” (50)

“Dalle Città invisibili di Calvino, Marco Polo dice ‘L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.’” (126)

Come passa anche il tempo, solo ieri era Natale, stamani Pasqua, ed ora siamo già a metà aprile. Si è viaggiato con gioia, si è tornati, si prospettano forse altre piccole mete anche se non nell’immediato. Che ora si pensa un po’ (anche) a sé stessi. E se ha ben donde. Per cui, senza perdere tempo, vi saluto con un caldissimo abbraccio.

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