domenica 2 aprile 2023

Tra Giappone e Sud America - 02 aprile 2023

Gli scherzi della casualità, mi portano a proporvi, giusto al ritorno dal Sol Levante, una cinquina dominata da narratrici giapponesi. E chiusa da due scrittrici sudamericane. Tutte di livello interessante, anche se ognuna porta delle piccole pecche con sé. Su tutte, svetta Banana Yoshimoto, sia per le tematiche del testo che per alcune frasi che meritano una giusta meditazione.

Michiko Aoyama “Finché non aprirai quel libro” Garzanti s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/09/2022 – I: 26/09/2022 – T: 30/09/2022] - && +     

[tit. or.: お探し物は図書室まで O sagashi mono wa tosho-shitsu made; ling. or.: giapponese; pagine: 234; anno 2020]

Non è una novità che il mondo giapponese ci appare, qui, da lontano, strano, a volte poco comprensibile, popolato da persone sole, frustrate, spaventate, travolte da una società sempre più competitiva. E non è quindi strano che anche un libro che vuole darci consolazione, non possa che far scorrere sotto i nostri occhi questo mondo diverso, ma poi non tanto.

Il libro di Michiko si inserisce in questo filone quasi di auto-aiuto (o di aiuto e basta), come i libri dedicati al bar del caffè caldo, o anche ad un’altra libreria di cui, forse, si leggerà. Una libreria come è questa dove troneggia il bel personaggio della signora Komachi.

Ma prima di entrare nel merito, sottolineiamo la pervicacia degli editor nostrani, che parafrasano il titolo in modo da rimandare ad altri titoli di successo recente (come i sopra citati). Quando il titolo originale dovrebbe essere tradotto con “Per quello che cerchi, vai in biblioteca”. Un’esortazione per la ricerca di uno scopo nella vita, un consiglio di porsi davanti alla signora Komachi, ed aspettare che lei ci chieda “Che cosa cerca?”.

A questa domanda, in vario modo, rispondono i cinque personaggi protagonisti delle cinque storie che compongono questo agile libro, piacevole invero, anche se non eccelso. Il meccanismo è leggermente ripetitivo: i cinque vogliono dei libri, parlano con la signora Komachi, che alla fine stampa la lista dei libri che cercano, vi aggiunge un libro che non c’entra nulla con gli altri, e vi aggiunge un piccolo oggetto di lana cardata fatto con le sue mani. Ragionando sul libro fuori contesto e sull’oggetto i cinque troveranno una strada. Che poi verrà percorsa o meno, non è materia di questo libro.

Ma chi sono questi personaggi?

C’è la commessa Tomoka, fuggita dalla provincia, e venuta nella capitale con entusiasmo e grandi aspettative, che lavora senza convinzione, solo per sopravvivere, e per non tornare indietro, là dove i compaesani pensavano fosse destinata ad un grande avvenire.

C’è Ryo un contabile con il sogno di aprire un piccolo negozio d’antiquariato, ma che rimanda il sogno, avendo paura di abbandonare “la strada vecchia per la nuova”. Magari senza riuscire ad interpretare segnali che gli indicano la possibilità di intraprendere due carriere parallele

C’è Hiroya, disoccupato senza arte né parte, da sempre appassionato dei manga, ma i cui disegni sono “orrorifici” agli occhi di chi distrattamente li guarda.

C’è Natsumi che ha abbandonato il posto di redattrice di una rivista, per seguire la gravidanza e la figlia, che si vede, al ritorno al lavoro, portare via non solo il posto, ma tutte le sue certezze precedenti, mettendosi in discussione come donna, come madre, come moglie. Forse il personaggio più centrato dall’autrice, laddove vi si sente (forse) anche qualcosa di personale.

E per finire c’è Masao, che, andato in pensione, scopre di aver perduto tutti i suoi punti di riferimento, nessuno più lo cerca, e lui, senza lavoro, e senza interessi particolari, sta andando alla deriva.

Non vi dico certo le piccole soluzioni che per ognuno trova la signora Komachi, ma ve ne sottolineo la riflessione che suscita. I libri hanno il potere magico di parlarci, anche quando parlano di altro. Sta a noi cogliere quegli spunti, ed usare “una frase, un rigo appena”, per cambiare la prospettiva da cui guardiamo ed affrontiamo le cose della vita. Già solo per questo, lo ritengo un libro utile, se non altro per lo stimolo che ci propone.

Meno utile e riuscito è il fatto, ovvio ma è bene sottolinearlo, che poi, i libri che la signora Komachi suggerisce sono intrinsecamente giapponesi, di autori occidentalmente ignoti, come Rieko Nakagawa (una ottantasettenne scrittrice di libri per l’infanzia), Yukari Ishii (una giovane astrologa) o Shinpei Kusano (un poeta, considerato in patria il Walt Whitman dei tranvieri). Oppure di nicchia come Guy Barter, che si occupa di fiori (anche se nel libro il suo sottotitolo “problemi fastidiosi” viene reso con un “problemi curiosi”, chissà perché).

Non siamo quindi nella grande fucina onnicomprensiva del fulgido libro di Sellerio “Curarsi con i libri”, anche se Michiko si sforza di illustrarci i come ed i perché di questi libri altrimenti ignoti. Comunque, era un regalo, ed è stato letto nel lungo ritorno dal Perù. Anche solo per questo gli va reso omaggio.

“Un giorno mi piacerebbe…” – “Un giorno… […] Guarda che mentre continui a dire “un giorno” il tuo sogno non finirà affatto. Anzi, continuerà a esserci per sempre, bellissimo com’è adesso. Se pure non si avverasse, secondo me sarebbe comunque un modo per vivere. Anche avere un sogno nel cassetto non è mica una cosa brutta. Perché ci dà gioia nella vita di tutti i giorni.” (62)

“Dopo essere andato in pensione … ho capito … che a [mettici quello che vuoi, nota mia] anni si è molto più giovani di quanto pensassi … non sono il vecchio che immaginavo… mi sento come nella prosecuzione della mezza età.” (188)

Banana Yoshimoto “Il dolce domani” Corriere Giappone 2 euro 8,90

[A: 13/05/2021 – I: 04/11/2022 – T: 06/11/2022] - &&& e ½      

[tit. or.: スウィート・ヒアアフター Suwīto Hiaafuta; ling. or.: giapponese; pagine: 102; anno 2011]

Banana Yoshimoto è un’autrice ben presente nelle mie letture. Amo particolarmente lo stile garbato in cui pone le sue parole sulla carta, le tematiche dei rapporti interpersonali, la semplicità delle frasi, anche quando affronta situazioni non semplici. Fatto sta che questo è il sedicesimo libro che leggo della scrittrice, e devo dire che riesce a porsi tra quelli di cui meglio è rimasta in me una traccia.

Questo libro ha anche una valenza in più, che ho scoperto leggendo la postfazione dell’autrice. Infatti, è stato scritto di getto poco dopo il disastro (terremoto più tsunami) avvenuto l’11 marzo 2011 in Giappone, con il duplice scopo di rendere omaggio alle vittime e fungere da consolazione ai sopravvissuti.

La struttura è semplice, come spesso in Banana. Sayoko e Yoichi, fidanzati ma non conviventi (lei vive a Tōkyō e lui a Kyōto) tornano da uno onsen (il termine giapponese esteso per bagno termale), ascoltando una canzone di Leonard Cohen (“Lover, lover, lover”). Hanno un incidente di macchina, Yoichi muore e Sayoko rimane gravemente ferita.

Dopo mesi di convalescenza, la sopravvissuta tenta di tornare alla vita, ma è sopraffatta dai sensi di colpa. Seguiamo i suoi lenti cambiamenti, Cambia casa, torna a visitare Kyōto, si aggrappa ai ricordi dell’amato (uno scultore), organizza con i mancati suoceri una mostra in memoria. Ma non riesce a venirne fuori.

Frequenta spesso un bar vicino casa, gestito da Shingai, un giapponese di Okinawa, che le dice che non potrà uscire da questo suo stato finché non riavrà il mabui che ha perso nel grande dolore dell’incidente. Il mabui è un concetto chiave nella religione delle isole Ryūkyū, il gruppo di isole che comprende Okinawa (inciso: Okinawa è l’isola dov’è nato il karate) e su cui torneremo in finale.

Sayoko, nella sua razionalità, non accetta la diagnosi, ma le parole di Shingai la spronano ad affrontare un lungo percorso di accettazione del dolore. Si costringe a tornare nei posti che videro felici lei e Yoichi, incontra, con nuovi occhi, anche gli amici comuni. Si apre al mondo, e giorno dopo giorno, ora dopo ora, comincia a dare un senso alla sua vita senza Yoichi.

Ha toccato il fondo, ma, con o senza mabui, ha visto che la fine del tunnel del dolore è raggiungibile e si può ricominciare. Senza rinunciare a tutto quello che si è avuto, si può portare il proprio dolore dentro di sé. E continuare il viaggio (come nelle frasi che riporto).

Lo stile scorrevole di Banana ci porta ad affrontare, con lei e con Sayoko, temi cruciali della nostra vita. La sofferenza, la fragilità, la solitudine, lo smarrimento davanti alla morte, la memoria ed il suo apporto cruciale alla nostra vita, il coraggio di ricominciare, senza mai dimenticare. Solo non rinnegando il dolore del passato, si ritrovare la fiducia nell’oggi (per il futuro ci vuole più tempo) e trasformare il dolore in forza.

Un messaggio di una semplicità disarmante viene fuori dal romanzo: ogni giorno ha qualcosa di buono, se lo vuoi vedere.

Due considerazioni finali. Il titolo giapponese, secondo le migliori traduzioni, sarebbe più propriamente traducibile con “dolce aldilà”, anche se il domani del titolo italiano non è completamente fuori mira. In inglese, infatti, è stato tradotto come “Sweet hereafter”.

La seconda riguarda il mabui. Un concetto in realtà né traducibile né immediatamente trasportabile nella nostra cultura. Il mabui è una specie di cocktail composto dall’anima (elemento immortale presente in tutte le culture) e dal mana, un concetto della cultura polinesiana che significa “forza sovrannaturale” o “forza che viene da dentro”, spesso tradotto come “forza vitale”. A me piace la definizione hawaiana di forza interiore, che aiuta la nostra anima (il nostro io) ad andare avanti, a proseguire ancora, ed ancora.

Non so se il romanzo sia servito ai superstiti dello tsunami, di certo l’ho trovato, pur nella sua esilità, un racconto che sprona. Almeno, ad essere sé stessi. E non è poco. Grazie come sempre per le tue parole, Banana.

“Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il dolore che ha provato.” (31)

“Nessuno sa ancora dove ci porterà questo viaggio, ma ci attendono giorni e notti meravigliosi.” (98)

Yoko Ogawa “L’anulare” Corriere Giappone 5 euro 8,90

[A: 07/06/2021 – I: 06/11/2022 – T: 08/11/2022] - && e ½      

[tit. or.: 薬指の標本 - Kusuriyubi no hyōhon; ling. or.: giapponese; pagine: 103; anno 1994]

Yoko Ogawa è considerata la miglior scrittrice post-moderna giapponese, che cambia le prospettive degli scritti nipponici alla Yoshimoto, passando dall’ottimismo della bubble economy al pessimismo dei giovani giapponesi dagli anni ’90 in poi. È molto famosa in patria dove ha vinto tutti i maggiori premi letterari. In Italia, invece, è praticamente ignota. In realtà, i suoi scritti sono etichettati come “romanticismo nero”, dove il romanticismo in genere ottimista viene esplorato da un’ottica cupa e spesso pessimistica. I suoi critici, in patria, ne esaltano le capacità di indagini psicologiche sugli aspetti più nascosti della natura umana. Io non ho letto altro di lei, e ne prendo atto.

La scrittura prende subito dal primo impatto con la voce narrante, una ragazza senza nome che, in un suo lavoro precedente, perde la punta dell’anulare in un incidente di lavoro. Cercando un nuovo posto di lavoro, si imbatte nel misterioso laboratorio del signor Deshimaru, dove si impiega come primo contatto con i clienti del laboratorio (e poi come segretaria e catalogatrice degli oggetti del laboratorio).

Nel laboratorio si producono “esemplari” di qualsiasi oggetto (in inglese, avendone cercato in rete, il termine usato sarebbe “specimen” cioè campione di un oggetto, una sua instansazione unica che ne riproduce le caratteristiche). Il cliente porta al signor Deshimaru un oggetto da cui, per motivi personali, si vuole separare, lo vuole portare in un oblio altro. L’oggetto viene quindi trattato dal signor Deshimaru, incapsulato in provette di vetro, conservato nell’ampio magazzino, dove il cliente sa che c’è ma non verrà mai a ritrovarlo.

Perché la trasformazione ha come il potere di scindere il cliente dalle emozioni negative, dal dolore che è legato all’oggetto stesso, provocando, nel distacco e nella campionatura un effetto liberatorio per il cliente stesso. Sarebbe ben poco se per “oggetto” nel libro non si intendesse qualsiasi cosa che il cliente porta: una cicatrice, ad esempio, o una melodia, dove vediamo trasformato non lo spartito del suono da riprodurre, ma la musica stessa che nasce dallo spartito.

Vediamo così che la voce narrante ci narra episodi vari di campionatura, ma anche un progressivo avvicinarsi tra lei ed il signor Deshimaru.

Comincia un gioco erotico – feticista, con la ragazza che viene omaggiata di un bellissimo paio di scarpe, che le viene chiesto di non togliersi mai. Un gioco che porta i due a degli asettici amplessi consumati nella vasca da bagno del laboratorio. Con l’abilità di Yoko nel descrivere la sessualità dei gesti con una algidità che ne toglie tutto il sapore erotico.

Non si riesce mai a comprendere sino in fondo cosa faccia, cosa sia il signor Deshimaru. Mentre vediamo la ragazza sempre più presa dal rapporto con lui, sempre più dipendente dalle richieste del capo, sempre più pensierosa sui clienti e poi su sé stessa, sulla sua perdita, quella della falange dell’anulare. Fino a richiedere, come dono finale, un esemplare dell’anulare mancante. Certo, lei si domanda dove sia finita la segretaria precedente, anche lei con sempre indosso le famose scarpe, o la ragazza della cicatrice. Ma non si tira indietro, e si avvia verso la sua personale campionatura.

In effetti, il titolo originale recita “Esemplare di anulare”, leggermente più aderente alla scrittura. E su quello si gioca tutto il testo, che porta spunti di riflessione su varie tematiche: la perdita, il ruolo della memoria, il tentativo, da parte di chi ha subito una forte sofferenza, di dare una forma altra ai propri sentimenti dolorosi, quasi ad archiviarli. Come se il laboratorio fosse una sorta di “camera psicologica” dove poter elaborare, in forma concreta, i propri lutti. Un modo esteriorizzato di dare una forma a quanto una forma non può averla. Come, appunto, quella cicatrice che deturpa il volto di una ragazza, e che si vuole esorcizzare, donandole un posto diverso dalla propria faccia.

Ma non manca, non può mancare, l’analisi di un rapporto amoroso (io direi più erotico) tra i due protagonisti, che non viene mai risolto, che si lascia intorno un alone di indecifrabilità.

Ecco allora presenti i tre elementi che possono in un certo senso caratterizzare gli scritti di Yoko Ogawa: il sesso, il mistero e (immancabile nella scrittura giapponese) il cibo. Di cui non ho parlato, ma che compare qua e là nel testo, lasciandomi un dubbio su cosa possa essere, su che sapore possa avere “una limonata calda servita con noccioline ricoperte al cioccolato”.

Insomma, un testo intrinsecamente giapponese, scritto da una scrittrice eponima del paese, che tuttavia, alla resa dei conti, non mi ha soddisfatto come sembrava promettere.

Silvina Ocampo “La promessa” Repubblica Latinoamericana 19 euro 9,90

[A: 09/06/2020 – I: 08/11/2022 – T: 10/11/2022] - && e ½     

[tit. or.: La promesa; ling. or.: spagnolo; pagine: 120; anno 1989-2010]

Silvina Ocampo è un personaggio importante del panorama letterario argentino. Sorella minore di Victoria, personaggio centrale della cultura sudamericana, inizia con la pittura, per poi dedicarsi alla poesia e, occasionalmente, a racconti. Ad un certo punto sposa Adolfo Bioy Casares, sodale di Borges. Ma rimane sempre nell’ombra, per una ritrosia congenita, dove, come racconta Alberto Manguel (che ricordo era un lettore per Borges cieco), scriveva quasi al buio, che pensava di avere una brutta faccia, tenendo in vista solo le gambe, che riteneva belle e degne di essere guardate.

Questo romanzo rimane nelle carte di Silvina per decenni. Lo inizia a metà degli anni ’60, continuando a lavorarci ad intermittenza, senza riuscire a trovare il modo di portarlo ad una conclusione. Che, come vedremo, più che un romanzo è un affastellarsi di racconti, che, come Sherazade nelle “Mille e una notte” non riescono mai ad avere una fine. Solo nel 1989, la salute compromessa dalla malattia che l’avrebbe portata via in pochi anni, riesce a correggere la sua versione “finale” del libro. Ma non riesce a trovare la forza di farlo pubblicare. Tanto che il romanzo vedrà la luce solo postumo nel 2010 (come ho scritto nelle note in alto).

La struttura complessa nasce dall’idea di partenza dello scritto: il personaggio che parla in prima persona è una donna che, durante una traversata in nave, cade in modo accidentale nell’oceano, e stando a galla, nuotando, e riflettendo ad alta voce, chiede a Santa Rita di salvarla ed in cambio, come un ex-voto, scriverà dei suoi ricordi, facendone un abecedario. Ovviamente, Santa Rita perché viene considerata la santa degli impossibili ed a lei si ricorre affinché interceda nei casi che sembrano disperati.

Si snocciola così questo non-romanzo attraverso un percorso dei ricordi della donna in mare, con i pensieri che rivanno alle storie che ha vissuto. Pensandole, rivivendole, quasi creandole di nuovo, in un mondo che più che dal reale dipende dalla sua memoria. E se ci si domanda quanto i suoi ricordi siano aderenti alla realtà, si fa un percorso sbagliato, che non è la realtà quella che ci viene incontro ma il vissuto di chi quella realtà ricorda.

Ci sono così due ordini di personaggi che affiorano dalle bolle della memoria. I personaggi secondari, quasi periferici, con le loro storie, a volte conchiuse in sé stesse. Poi ci sono i tre personaggi principali: Irene, Gabriela la figlia, e Leandro, la cui vita viene e ritorna, attraverso il boccheggiante narrato della naufraga.

Vediamo allora, attraverso le storie altrui, anche la storia della narratrice, una vita a suo modo intensa, piena di tanto, illusioni, presenze, assenze, amori, pericoli. Tutto quello che c’è stato, e che stimola anche noi lettori a ricordare quello che abbiamo vissuto. Quanto ricordiamo del reale, e quanto, di quel reale, è trasformato dalle nostre percezioni soggettive!

Ogni ricordo, poi, è delimitato, inquadrato, dal nome del protagonista della piccola o grande storia. Ed ogni storia riporta a Silvina parti del suo passato, come luci che illuminano la propria esistenza. Un altro tratto accomuna molti personaggi, specialmente quelli femminili. Una fisicità che allontana, quasi sgradevole, come a sottolineare, a ricordare la propria di fisicità, come l’episodio che ho narrato all’inizio.

E tuttavia parlando degli altri, di quelli che per un solo istante hanno sfiorato la sua vita, Silvina ci parla di sé. Sono le persone che hanno sfiorato la sua vita, quei personaggi secondari che dicevo prima: Marina Dongui, Aldo Bindo, Alina Cerunda, Leandro Alvarez, Roberto Ruso, Mirta Lamberti, Rosina Lopez e Rosina Diaz, e via elencando sino a Sara Conte, nomi che suonano, nomi che prendiamo il nostro cellulare, apriamo i contatti, ed andiamo leggendo. Quanti sono ancora “con noi”? Quanti ci hanno o abbiamo lasciato per strada, dove prendiamo strade diverse? Di quanti ancora ricordiamo qualcosa?

Il finale è, come voleva l’autrice, un non-finale. La scrittura della naufraga si fa confusa, diventa la scrittura di Silvina stessa che vuol mantenere la promessa, e ci lascia confessando che, alla fine, rimarrebbe volentieri in un mondo di tanti animali, senza tutti quegli uomini e quelle donne cui, nonostante il male, non si è mai abituata.

Mi è molto piaciuta l’idea, mi ha interessato il modo di procedere della scrittrice, non sempre, però, le sue storie sono diventate le mie. Ripenso ancora all’immagine (mia) del cellulare e rimango a pensare.

“[le scarpe] i primi giorni fanno male … poi ci si abitua. Come per tutte le cose.” (72)

Marcela Serrano “Il giardino di Amelia” Repubblica Latinoamericana 5 euro 9,90

[A: 28/02/2020 – I: 25/11/2022 – T: 27/11/2022] - && e ½     

[tit. or.: La novena; ling. or.: spagnolo; pagine: 232; anno 2016]

Quanto tempo è passato. Saranno più di dieci anni che non mi capita di prendere in mano un libro della scrittrice cilena Marcela Serrano, e mi fa piacere tornarci con un libro che ha le sue luci e le sue ombre, ma che, nell’intimo, è profondamente cileno.

C’è stato un periodo che pensavo fosse messicana, che lì viveva con il terzo marito. Poi, approfondendo la scrittura e la conoscenza, l’ho collocata nel giusto panorama cileno. Marcela fugge anche dopo il golpe di Pinochet, e, tra l’altro, vive alcuni anni anche in Italia.

Ne avevo apprezzato la scrittura quando si cimentava con tematiche legate alle donne, sempre ovviamente inserite nel contesto storico e sociale che costituisce il suo retroterra. Qui mi ha invece un po’ deluso. Certo, affronta temi che sono corde dolorose e sempre presenti nel panorama cileno, ma non ne esce sempre con facilità. Anche perché, volutamente, usa una pluralità di voci, sia in alcune soggettive (Miguel, Amalia, Mel) sia in momenti da narratore esterno. Alla fine, tenta di giustificare il tutto per la difficoltà, sono parole di Mel, di riportare tutto in una dimensione comprensibile al lettore e giusta per i protagonisti. Ma rimane il fatto che ci sono su e giù di scenari che indeboliscono la presa sul lettore.

In particolare, quando cerca di mettersi in soggettiva con il personaggio centrale, Miguel Flores, dove la scrittura femminile non riesce a riprodurre in tutte le sfaccettature la difficile esistenza maschile di Miguel.

La storia comunque ruota intorno a Miguel, che incontriamo negli anni ’80, giovane ribelle contro Pinochet, arrestato e confinato, guarda caso, nelle terre della non più giovane Amalia. I due, dopo attimi di diffidenza, entrano in sintonia, con Amalia a far da mentore a Miguel, sia indottrinandolo attraverso la lettura, sia narrando (e qui c’è la grande mano di Marcela) i momenti salienti della propria vita.

Tutto sembra scorrere fino ad un momento topico: i militari irrompono nella proprietà per arrestare Miguel, che riesce a scappare. Non Amalia, che, trovate armi nel giardino, viene arrestata e torturata per quindici giorni. Amalia è comunque un’aristocratica, ed i militari sono costretti a rilasciarla. Lei si rintana nelle sue terre ma non sarà più quella di prima.

Miguel invece, dopo la fuga, riesce a riparare in Inghilterra, scrive, si laurea, conosce Sybill, la cugina di Amalia, che gli racconta delle traversie di lei. Miguel è sconvolto, ma continua la sua vita. Con successo, anche. E con il successo ed il passare degli anni, si allontana da quel giovane rivoluzionario che era, anche se non dimentica di inviare una camelia ogni anno in settembre ad Amalia. Per tornare al fine in Cile, dove partecipa al funerale di Amalia.

E dove, finalmente, riesce ad avere un lungo colloquio, forse meglio direi un lungo scontro con Mel, la figlia di Amalia. Miguel non si pente del tradimento che ha fatto, ma, forse, insieme a Mel riesce ad elaborarne i contorni. Che faranno sempre male ad entrambi, ma, come ben sappiamo, meglio dirle, le cose, che rimane in silenzio.

Come dicevo, c’è molto Cile nel romanzo. C’è Pinochet, c’è la guerriglia, c’è la speranza di una rivoluzione, c’è la rassegnazione, c’è la ripartenza, c’è l’allontanamento da quel che si è stati, c’è la speranza, sempre, di un futuro diverso. Che spesso, non a caso, passa nella speranza che le nuove generazioni riescano a fare ciò che a noi non è riuscito. Non tutto riesce bene a Marcela, ma di certo mette carne al fuoco che dovremmo assaggiare prima di farla bruciare.

Vorrei chiudere ricordando come nel romanzo si usano molto due elementi per sottolineare stati d’animo e prese di posizione di vita che sono ben presenti nel mio presente (scusate la ridondanza). C’è tutta la descrizione del rapporto di Amalia con la natura in genere e con i fiori in particolare, che non sempre capisco, ma che segue con passione tampinando la botanicità di Alessandra. E c’è il rapporto con i libri (come dalle due belle frasi che riporto) che non può che farmi sentire in sintonia con Marcela. La lettura, le citazioni di passaggio, nonché il forte impatto sui protagonisti di un libro ottocentesco (“Mary Barton” di Elisabeth Gaskell, un libro del 1848, imperniato sulle difficoltà di vita dei meno abbienti nella Manchester della prima metà di quel secolo). E tutto ciò fa risalire un giudizio che stentava a decollare.

Questa volta finisco, invece di cominciare come mio solito, con la periodica domanda sulla necessità di stravolgere i titoli dei libri. Ora Amelia ha un giardino, e vi passa ore di intensi scambi con Miguel. Ma non è, o non è solo, il punto centrale della storia. Che invece ha senso quando si passa al titolo originale, “La Novena”. Sia perché è il nome della terra dove vive Amelia e dove si svolgono le parti fondamentali del romanzo, sia perché è attraverso la novena, cioè i nove giorni di preghiere rivolte ad un caro defunto, che consente di rilasciare, nell’animo di Miguel, sia la dipartita di Sybill che, soprattutto quella di Amalia. Rimango tuttora perplesso.

“Quando si legge non si impara qualcosa, ci si trasforma in qualcosa.” (43)

“Imparo più cose sulla natura umana dai romanzi che dalle creature in carne ed ossa.” (67)

“Nonostante tutto … non cambierei la vita che mi è toccata … Indipendentemente dalle ferite, quello che conta è la vita che è valsa la pena di vivere.” (226)

Già un nuovo mese è iniziato, ed allora eccoci nuovamente alle massicce letture di gennaio. Dove svettano il solito, sempre caro Simenon insieme ad una nuova puntata delle indagini del capo ispettore Morse e ad un garbato libro sui libri, gradito omaggio natalizio di Flavio.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Maurizio De Giovanni

Caminito

Einaudi

s.p.

3,5

2

M. C. Beaton

La quiche letale

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

3

Annie Ernaux

Guarda le luci, amore mio

L’Orma editore

s.p.

2

4

T. R. Richmond

Tutto ciò che resta

Corriere Thriller

7,90

1

5

Gabriella Genisi

Lo scammaro avvelenato

Sonzogno

s.p.

2,5

6

Georges Simenon

La camera azzurra

Repubblica

9,90

4

7

Marco Malvaldi & Samantha Bruzzone

Chi si ferma è perduto

Sellerio

s.p.

3,5

8

Melba Escobar

La casa della bellezza

Repubblica Emozione Noir

7,90

2

9

José Saramago

L’autore si spiega

Feltrinelli

s.p.

3,5

10

Guillaume Musso

Salvami

La Nave di Teseo

12,50

2,5

11

Hakan Nesser

La confraternita dei mancini

TEA

s.p.

3,5

12

Paola Soriga

Dove finisce Roma

Repubblica Resistenza

7,90

3

13

Luca Randazzo

L’estate di Giacomo

Repubblica Resistenza

7,90

2,5

14

Ugo Facco de Lagarda

Il commissario Pepe

Corriere

8,90

2,5

15

Hiraide Takashi

Il gatto venuto dal cielo

Corriere Giappone

8,90

3

16

Guillaume Musso

Skidamarink

Le Livre de Poche

s.p.

3

17

Colin Dexter

Il segreto della camera 3

Sellerio

14

4

18

Officina Saggiatore

Piccolo galateo illustrato per il corretto utilizzo dei libri

Il Saggiatore

s.p.

4

19

Louise Penny

La via di casa

Repubblica Emozione Noir

7,90

2,5

20

Mirko Zilahy

Così crudele è la fine

Corriere Profondo Nero

7,90

2,5

 

Ci sarebbe stata bene una citazione nipponica, ma invece vi propongo una riflessione italiana, tratta da un Noir di Giancarlo De Cataldo, “Onora il padre. Quarto comandamento”. Un pensiero che faccio subito mio, sperando di tornare presto su di un aereo: “Alberghi, stazioni, aeroporti … luoghi di passaggio, insomma: fosse dipeso da lui, vi avrebbe consumata tutta la vita in un’interrotta sospensione del tempo” (17).

Per il resto, ovvio che si sia letto meno, visto che in marzo ho passato ottimo tempo (ed in ottima compagnia), ben lontano dall’Italia. Mentre ora, il mese di aprile sarà dedicato ad altro, che per ora non dico. Si aspetta comunque la Pasqua, sperando in messaggi di pace che tardano, ma colmando l’attesa con abbracci.

 

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