Con la casualità che a volte è anche causale, in occasione di una nuova ricorrenza del 25 Aprile, mi trovo a porgervi alcune trame della collana, uscita tre anni fa, dedicata da Repubblica alla Resistenza. Una serie di libri, noti e poco noti, che esplorano diversi momenti della Seconda guerra mondiale. Libri che non sempre hanno un grosso impatto di scrittura, ma sempre, anche per vicende personali, grossi impatti emozionali. Laddove, e mi riferisco allo scritto di Paola Soriga, molta vicenda si svolge proprio a Roma. Si avranno ancora altre letture, ma intanto queste le dedico ai miei genitori ed ai miei parenti materni.
Andrea Molesini “Dove un’ombra sconsolata
mi cerca” Repubblica Resistenza 13 euro 7,90
[A:
16/07/2020 – I: 19/09/2020 – T: 20/09/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 217;
anno 2019]
Con
questo cominciamo la lettura di una collana pensata da Repubblica per la
celebrazione del 75° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale, al
fine di celebrare e/o ricordare la Resistenza. Non a caso il titolo della
collana è “Storie di Resistenza”. E vedremo, nel corso delle letture, come si
sviluppa attraverso autori noti o meno noti, questa storia.
Intanto,
capita come prima lettura un autore non particolarmente prolifico, che comincia
ad uscire dalla nicchia della letteratura per ragazzi che gli aveva fatto
aggiudicare il prestigioso Premio Anderson, solo verso i sessanta anni. Con un
libro che fece un’ottima riuscita, ma che casualmente non è mai entrato nella
mia orbita (“Non tutti i bastardi sono di Vienna”).
Con
un titolo che deriva da una delle bellissime poesie (anche per me che non ne
sono amante) di Anna Achmatova (“Requiem”). Come, in effetti, è in realtà un
lungo requiem di ricordi che si affastellano nella penna e nella mente dell’io
narrante, di sicuro incrociando i tanti pensieri popolari che avranno gremito
l’infanzia e la vita dell’autore. Con quell’andamento non lineare che Molesini
spiega ricorrendo sempre alla Achmatova nei saluti finali (“Nessuna memoria
umana è predisposta in modo da ricordare tutto in una sequenza continua”).
In
questo modo viene giustificato lo scorrere nel tempo di ricordi di Guido, dal
primo barlume di coscienza che si cristallizza in immagini, nel 1934, a 4 anni,
fino alla (possibile) catarsi finale nel 1998. Più di sessanta anni, che però
sono alla fine concentrati in pochi e significativi anni. Quelli dal ’43 al
’45, dopo l’armistizio definito giustamente di Cassibile (per il luogo dove fu
firmato in Sicilia, anche se nel mio e forse nel vostro immaginario, rimarrà
sempre quello dell’8 settembre), fino alla liberazione di Venezia (una
liberazione anomala, che avvenne dopo il 25 aprile, e sulla quale forse dovrei
chiedere lumi al mio storico amico storico).
Se
ricostruiamo in modo lineare gli avvenimenti, vediamo che Guido comincia a
percepire la realtà (quattro anni) innalzando su di un piedistallo la madre
(per il suo anticonvenzionalismo) e il padre (comandante di Marina prima, poi
sempre al centro di catene di comando).
Poi
la scuola durante il fascismo, ed il sodalizio con il poco studioso Scola, che
sa fare tante cose con le mani, e soprattutto ascolta le sue letture. Arriva la
guerra, e tutto quello che comporta anche di privazioni. La morte dolorosissima
della madre per un male incurabile. La sopramenzionata pace di Cassibile, e
l’inizio della Resistenza nelle paludi venete. La presenza inquietante ma
rispettata da tutti della vecchia chiamata Sussurro. La semi-clandestinità del
Comandante e dei suoi amici. Con Guido e Scola che vengono utilizzati sovente
come staffette per portare messaggi cifrati in giro alle varie formazioni
partigiane. La scoperta dell’amore e dei vari personaggi che popolano le
vicende uniche ma universali del tempo: la contessa tenutaria di bordelli, il
nipote di Sussurro e la sua moglie-amante somala, il maggiore tedesco più
interessato ai soldi che alla politica.
Il
nodo arriverà alla scoperta di un traditore nella formazione del Comandante,
traditore che fa arrestare diversi partigiani. Sono, si sa, anni difficili,
bisogna tagliare rami, e si uccide per un sospetto. Così viene sospettato ed
ucciso Scola. Se ne incarica il Comandante, e Guido non accetterà mai la
sentenza. Cominciando ad allontanarsi prima poco poi, a guerra finita,
definitivamente, dagli affetti giovanili.
Il
nodo, però verrà sciolto solo nel 1998, dove il quasi settantenne Guido
ricostruirà tutto quello che era successo. Non vi dico come, né con chi si
troverà a consolare la sua vita. Perché Guido ha tutta la vita segnata da
questo dolore, e non ne uscirà mai.
Molesini
tocca dei nodi dolorosi, il rapporto padre-figlio nei momenti di crisi, il
rapporto giustizia-verità nei momenti di pericolo. Tuttavia, il passeggiare nel
tempo non dà mai un passo sicuro alla narrazione, che procede a balzi. Momenti
interessanti, momenti stanchi. I problemi ci sono, e non banali. Ma non ne
trovo un modo di affrontarli con passo più sicuro. Rimanere poi cinquanta anni
legati ad una forse vera deduzione, e non uscirne mai, apre un paesaggio di
desolazione che è difficile da sopportare. In particolare, se non sopportato da
una adeguata scrittura.
Vedremo
le altre uscite cosa ci porteranno.
Luigi
Meneghello “I piccoli maestri” Repubblica Resistenza 6 euro 7,90
[A:
29/05/2020 – I: 01/11/2022 – T: 04/11/2022] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 283; anno: 1964]
Il
secolo scorso (che incipit altisonante) lessi il più famoso libro di Meneghello
(“Libera nos a Malo”), che trovai con alcuni spunti interessanti, ma che, nel complesso,
non mi entusiasmò. Tanto che l’autore non entrò mai nelle mie orbite di
lettura. Ora, approfittando di questa collana, pensata dagli editori per i 75
anni della Liberazione, mi sono trovato a leggere questo ulteriore libro
dell’autore vicentino.
Pur
nella frammentarietà di alcuni momenti espositivi, ed a volte nella mia
personale difficoltà di ritrovarmi quando troppi nomi affollano le pagine, è di
certo un libro che mi ha preso di più, sicuramente perché tocca corde che sono
sempre state vicine alla mia grande famiglia.
Inoltre,
è un libro indubbiamente legato al territorio dove si svolgono i fatti. Perché,
anche se viene scritto una ventina d’anni dopo la guerra, Meneghello,
dall’Inghilterra dove si era trasferito, torna nel vicentino, cerca le persone
ancora in vita, e con loro ricostruisce gli avvenimenti tra il ’43 ed il ’45,
parlando, ma anche andando sui luoghi, girano per il vicentino. Opera una
ricognizione puntuale ed una ricostruzione fedele ai ricordi suoi e dei suoi
sodali.
Il
racconto è in prima persona dell’autore che parte dalla fine, andando con il
suo amore patavino di allora, nei boschi dove aveva nascosto un’arma da guerra
durante le battaglie sui monti. E da lì parte la memoria che torna all’inizio
delle vicende.
Nel
settembre ’43, infatti, è un alpino, e dopo l’armistizio, abbandonati armi e
divisa, ritorna nei borghi natii. Si riunisce ai suoi amici e compagni di
studio, tutti plasmati dall’onestà del professor Antonio Giuriolo, cominciano a
pensare di agire, si procurano armi. Il giorno del suo compleanno lo passa
lontano da casa, dove lo vengono a cercare per forzarne il reclutamento nella
Repubblica Sociale Italiana. I giovani si riuniscono in montagna, insieme a due
solati inglesi, poi fanno base nell’altipiano di Asiago. Loro, i piccoli, i
giovani sono presto coinvolti nelle lotte. Conoscono i capi della guerra di
guerriglia, si riuniscono a Giuriolo (diventato Capitano Toni, che muore nel
dicembre del ’44 nel tentativo di recuperare i corpi dei suoi ragazzi).
I momenti
che ho trovato più intensi sono due. La descrizione dei momenti di incoscienza
che si potevano avere, anche in guerra. Un loro compagno, nel tentativo di
fuggire, ripara in una casa non sapendo che era di un convinto fascista, che lo
prende a fucilate. Con loro che tentano di imbastire una rappresaglia. E poi
gli avvenimenti del giugno, dove si doveva organizzare un attacco, ma vengono
circondati dai tedeschi, e Meneghello narra le fughe nei boschi, gli spari, i
nascondigli precari, le morti.
Le
vicende del suo amico Lello che, catturato, si spaccia per inglese, viene
portato in Germania, ma poi rimpatriato in Inghilterra. Le sue vicende, quando,
nascostosi dalla sua amica Marta, vengono circondati dai tedeschi, lui scappa,
mentre Marta viene deportata.
Finendo
con la descrizione dell’insurrezione popolare che il 28 aprile permise la
liberazione di Padova, con la resa del comando tedesco, ed il nostro che
ritrova la Simonetta di cui narra nel primo capitolo. Dopo tanto lottare,
quelli che erano i ragazzi pochi anni prima erano diventati dei piccoli maestri
per i ragazzi più giovani.
La
mancanza di retorica celebrativa permette a Meneghello di dire che realmente fu
una guerra civile. Non ci si nasconde dietro un dito. Certo, e dal testo si
sente benissimo, il fronte antifascista non era compatto. C’erano le
organizzate formazioni comuniste, e c’erano i gruppi legati al Partito
d’Azione, i gruppi di Giustizia e Libertà. Ma il senso della lotta era comune.
Pur nella diversità non si fecero i marchiani errori della guerra civile
spagnola di soli dieci anni prima.
Ovvio,
poi, che nella lettura si mescolano i ricordi delle narrazioni familiari.
Meneghello quando sente dell’armistizio si trova a Corneto, e per trovare un
treno che lo riporti nel vicentino, attraversa l’Appennino sino a Orvieto. Ed
io ricordo i racconti di mio padre, che l’8 settembre, ferito non grave ad una
gamba, era ricoverato in un ospedale di Orvieto. Da dove fuggì a piedi ed in
bicicletta per tornare a Roma ed unirsi alla lotta insurrezionale guidata da
mio zio ed ispirata dal mentore di mio padre, don Paolo Pecoraro.
Tanti
sarebbero gli altri episodi che mi vengono alla mente (mia madre che attraversa
Ponte Sisto con un pacco di pistole nella borsa, passando indisturbata tra un
reparto militare tedesco) ma non sto parlando della “mia” guerra, ma di quella
combattuta sui monti e che Meneghello, pur senza entusiasmarmi, descrive
fedelmente.
Una
guerra civile, ripeto, ma soprattutto, una guerra combattuta da persone e non
da superuomini.
Paola
Soriga “Dove finisce Roma” Repubblica Resistenza 9 euro 7,90
[A:
19/06/2020 – I: 17/01/2023 – T: 19/01/2023] - &&&
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[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 141;
anno 2012]
Di Paola Soriga avevo letto un racconto telegrafico
contenuto nella breve antologia “Sei per la Sardegna”. Racconto breve ma che
dava un tocco di interesse allo scritto ed alla scrittrice. Tocco che rimane
anche in questo romanzo, che sfiora certo anch’esso alcuni temi cari alla
scrittrice e dedicati alla sua terra, ma che, e questo per me è stato un plus,
tocca i temi della Resistenza a Roma, vista da un’ottica di quartiere che non
mi è propria, ma che mi ha lasciato interesse e curiosità.
Il
dramma (che quando si parla di guerra, sempre dramma è) si svolge nella settimana
da martedì 30 maggio a domenica 4 giugno 1944. Un dramma visto con gli occhi di
Ida, una immigrata sarda di 18 anni che seguiamo in diretta in quei giorni ed
in flashback sui suoi ricordi e pensieri relativi sia alla giovinezza sarda che
agli anni romani.
È
quindi un duplice registro quello che ci propone la scrittrice, laddove, come
ben si addice ai buoni scritti, si riesce a mescolare la Storia con le storie
personali e private di persone che non sempre partecipano ai grandi eventi, ma
che li vivono, direttamente o meno.
Ricostruendo
il percorso di Ida, la vediamo ragazzina in quel di Cagliari (un po’ mutuando
il retroterra della famiglia Soriga, originaria di Uta, un sobborgo del
capoluogo), studiosa in una famiglia non povera ma neanche abbiente. Per una
serie di motivazioni private, si decide che vada a vivere a Roma, dove si è
trasferita la sorella Agnese insieme al marito, ministeriale di tiepide
tendenze fasciste. Sperando non solo di farla crescere in un ambiente più
sereno, ma anche lontano da possibili brutture: nulla può capitare nella città
del Papa, sostiene il padre.
Bello,
il piccolo cammeo del viaggio in nave verso Roma.
Ma è
a Roma, in via dei Castani nel quartiere del Quadraro, che Ida cresce, prima
studiando un po’, almeno fino ai sedici-diciassette anni. Poi il marito di
Agnese muore nel bombardamento del 19 luglio del ’43, ed allora anche Ida deve
lavorare, deve aiutare. Nel frattempo, dalla scuola, si era creata una cerchia
di vicinanze: Rita, la sua migliore amica, con cui condivide passeggiate e
nascondigli da adolescenti, Micol, la ricca amica ebrea, Antonio, che un po’ le
fa la corte, la illude (o lei si illude) per poi lasciarla ed accompagnarsi con
l’antipatica Rosa.
E
lì, tra la scuola e la parrocchia, c’è don Pietro, prete illuminato come
c’erano molti a Roma (che un po’ mi ha ricordato un’icona familiare, quella di
don Paolo Pecoraro). Che avvicina Ida alla nascente resistenza romana. Senza
troppi fronzoli, ma facendo la staffetta di collegamento tra i vari gruppo
resistenti, portando volantini, facendo circolare notizie. Certo,
pericolosamente, ma affrontata con la spensieratezza dei diciott’anni. Proprio
prima di una consegna, Ida viene avvertita di una retata, per cui lascia tutto
e fugge nelle grotte vicino all’Ardeatina, quel 30 maggio da cui inizia il
romanzo. Lì rimane per quattro giorni, senza cibo all’inizio, poi con qualche
vettovaglia che le porta Rita, aspettando notizie, tremando alla vista di
persone che si aggirano per le cave, fino alla liberazione, anche sua, quel 4
di giugno, quando mio padre stava per compiere vent’anni.
Mentre
seguiamo la storia, Paola Soriga ci fa partecipe anche della Storia. Sia con
grandi episodi diretti, come il rastrellamento del Quadraro che portò il 17
aprile del ’44 alla deportazione di circa 700 persone, oppositori del
nazifascismo, al quale Ida assiste, o il bombardamento del 19 luglio del ’43
come già detto. Sia per notizie riportate, la deportazione del Ghetto del 16
ottobre del ’43 o l’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo del ’44. Non
mancando poi piccole inserzioni e ricordi tra l’alto ed il basso. Lo struggente
ricordo reale di Giaime Pintor, ad esempio, ma anche l’assurda morta del
fratello di Rita l’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Se
vogliamo, quello che manca è un po’ di analisi politica e pathos resistenziale,
ma bisogna pensare sia una ricostruzione a quasi settanta anni dai fatti, ed
attraverso notizie ed interviste, spesso non dirette.
Ma a
me è venuta cara, proprio per le mie, di ricostruzioni dirette. Le scorribande
di mio zio Adriano, le staffette partigiane come furono mia madre Agnese,
alcune zie (rimandando ai bei ricordi di mio cugino sui suoi fatti personali),
don Paolo, la fuga dall’ospedale di Urbino di mio padre, soldato, per unirsi
alla Resistenza romana. Insomma, sono periodi che hanno scavato solchi
indelebili nella nostra memoria familiare, e leggerne anche da una prospettiva
defilata, come quella della periferia, là dove finisce Roma, piuttosto che dai
clivi che scendono verso Testaccio mi ha fatto un piccolo massaggio al cuore.
Ripeto,
non sempre la scrittura sorregge il testo, ma alla fine va bene anche così.
Luca
Randazzo “L’estate di Giacomo. La guerra e un partigiano di undici anni”
Repubblica Resistenza 23 euro 7,90
[A:
02/10/2020 – I: 19/01/2023 – T: 20/01/2023] - &&
E ½
[tit.
or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123;
anno 2014]
Quarta
lettura della serie di Repubblica dedicata alla Resistenza. Qui, il quarantenne
Randazzo ci restituisce una storia semplice nella sua durezza. Una storia di
Resistenza, ovvio per il contesto in cui ci si muove. Ma anche una storia in
cui la Resistenza è un contorno, un contesto, anche per esplorare le passioni
umane, i propri atteggiamenti, le proprie scelte.
Una
narrazione che, scusate l’alto paragone, si pone un po’ a metà tra un Fenoglio
di cui vediamo l’uso del contesto ed un Calvino, con la partecipazione, anche
ingenua data l’età, ad un momento fondante dell’Italia, ma anche della
personalità dei protagonisti.
L’ambientazione
è nel bellunese, nella frazione di Aune delle alpi Feltrine laddove cominciano
i monti e le malghe. Là dove ancora c’è il Rifugio Dal Piaz, raggiungibile nei
suoi quasi 2000 m.s.l.m. partendo dalla Croce d’Aune.
La
storia è tutta negli occhi di Giacomo, undici anni. Finita la scuola, per
portare qualche soldo a casa e non pesare sull’economia familiare, viene
spedito per tre mesi a portare a giro le mandrie nell’alpeggio ed a lavorare
nella malga per preparare burro e formaggi. Lo accompagnano nel lavoro estivo,
Alpina, di qualche anno più grande, ragazza rustica e ribelle, il pastore
Sergio che sta per compiere diciotto anni, ed il capo, il casaro Bepi,
scontroso e dedito ad alzare spesso e volentieri il gomito, e non solo quello.
Per
un ragazzino, tutto è gioco, anche il lavoro. Tanto che Giacomo si porta le
biglie con i ciclisti ed i fumetti della rivista Audace di Lotario Vecchi. Se
della seconda si può parlare, ma è un discorso solo per gli amanti del fumetto
italico, apro una piccola parentesi, che, venti anni dopo i fatti, le biglie
erano un punto forte e saliente delle estati mie e dei miei cugini in quel di
Tortoreto. Lì si facevano grandi giri d’Italia sulle piste in spiaggia. Dove io
ero sempre con il mio ciclista preferito, il lussemburghese Charly Gaul (ed un
giorno ne parleremo).
Lì
nella malga Giacomo deve affrontare due ordini di problemi. Quelli interni,
laddove Bepi costringe Alpina a rapporti non consenzienti, e lui, oltre a
consolare Alpina, aspetta solo che, una volta a settimana salga da valle la sua
amica Rachele, scatenata avventuriere di storie inventate. Quelli esterni, che
c’è la guerra (ovvio che siamo nell’estate del ’44) e lì per i monti si
affrontano nazisti e repubblichini contro i partigiani della Brigata Garibaldi
“Antonio Gramsci” di Feltre.
Giacomo
è combattuto tra gioco e realtà, trova volantini partigiani, scopre
l’ubicazione del battaglione partigiano “Zancanaro”, individua con Rachele le
staffette tra monte e valle, incontra il comandante partigiano Paride Brunetti
detto “Bruno” (reale). E lì, oltre le capre, le pecore, il burro ed il
formaggio, diventa “aiuto partigiano”, sbucciando patate per la Brigata.
La
Resistenza è tutta intorno, è tutta una scelta che non si fa perché c’è una
parte sola in cui stare. Anche quando i tedeschi avanzano, anche quando
giungono notizie. La sorella di Rachele che se la intende con il comandante
tedesco, Bepi che sta sempre lì a fare domande sulle mosse partigiane, le
giovani staffette individuate ed arrestate, la frazione di Aune messa a ferro e
fuoco dai nazisti.
Certo,
Giacomo lo sa, non è più un gioco, che lì, undicenne, vede morire persone, vede
crudeltà. Muore Bepi (forse delatore, forse Alpin si vendica), muore la sorella
di Rachele, Sergio va sui monti, e Giacomo è lì, con l’unica certezza di essere
cresciuto, di aver raggiunto una maturità che ha per sempre portato via
l’innocenza della giovinezza.
La
scrittura è facile e mai giudicante, rimandandoci una riflessione potente: il
passaggio tra amore e odio, tra pazzia e razionalità è di una fragilità unica.
Così come il passaggio tra la vita e la morte. Ma non è sempre compiutamente
riuscito, anche se sono del parere che sia una scrittura leggibile dai giovani,
per non dimenticare.
Infatti,
leggendone, come sempre in questi racconti, rivado ai miei parenti, alle mie
storie familiari. Laddove ricordo che mia zia Gigia aveva all’epoca l’età di
Giacomo. Chissà come aveva lei vissuto quei momenti, dove i fratelli e le
sorelle più grandi erano attivi nella resistenza romana. Purtroppo, anche lei
non c’è più. Restano solo i momenti che i nostri parenti ci hanno tramandato.
Ma anche questi, come ci dice Liliana Segre, forse moriranno con noi.
Alberto Vigevani “I compagni di settembre”
Repubblica Resistenza 19 euro 7,90
[A: 02/09/2020 – I: 09/03/2023 – T:
10/03/2023] &&
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 138; anno: 1944]
Un libro resistenziale poco noto ma
importante per le modalità ed i tempi della sua uscita. Come poco noto è per i
giovani (e forse anche i meno giovani) l’autore, Alberto Vigevani. Un poeta
(come lo definì Lalla Romano) che ha anche scritto romanzi.
Nato il 1° agosto 1918, sul finire della
Guerra, da una famiglia ebrea di origini emiliane ma da tempo trasferitasi a
Milano. Fin da giovane predisposto alla letteratura (ed alle arti teatrali)
studia a Venezia, scrive recensioni teatrali, si avvicina a Mondadori e
Lattuada (tanto che reciterà nel primo film firmato da Monicelli “I ragazzi
della via Pal”) e si integra negli ambienti liberali della seconda metà degli
anni Trenta, fonda insieme a Treccani la rivista “Corrente”. Colpito dalle
leggi razziali si sposta in Francia, per poi tornare negli anni della guerra in
Italia, si occupa di librerie, scrive per poi, dopo l’8 settembre riparare in
Svizzera con moglie e figlio. In quegli anni scrive anche questo romanzo, su
cui torneremo.
Socialista da sempre, nel dopoguerra scrive a
lungo sull’Avanti e poi, in tarda età, pubblica elzeviri sui più importanti
giornali italiani, diventando una sorta di cantore della vita quotidiana
milanese.
Veniamo ora al testo, che in effetti è uno
dei primi esempi di “instant book”, cioè di quei libri che si occupano di
qualcosa che è appena successo, o sta ancora succedendo. Questo, infatti, è il
primo romanzo che si occupa della Resistenza, prima di Calvino, prima di
Fenoglio. Un libro quasi in presa diretta. Tanto che, visto Vigevani stare in
Svizzera, venne pubblicato da una poco nota casa editrice di Lugano (la “Ghilda
del Libro”). Le strane giravolte della storia, ne portarono poi, pochi mesi
dopo, ad essere pubblicato in traduzione tedesca da una casa editrice di
Zurigo.
La storia parte da Como, dove vive Filippo,
un giovane artista con moglie e figlio appena nato. Subito dopo l’8 settembre
il giovane sente l’urgenza di fare qualcosa. Il re è fuggito, l’Italia è allo
sbando, il Nord Italia è praticamente in mano ai tedeschi con il supporto dei
repubblichini di Salò. L’artista non sa (non vuole) stare indietro. Bisogna
fare, bisogna mettersi in gioco. Lascia la famiglia, e cerca di avviarsi verso
le montagne, volendo unirsi ai reparti combattenti.
Ne seguiamo le vicende, il timido cercare
contatti, le reticenze (ovvie) di chi, essendo in guerra, sa che ci sono molti
infiltrati, molti delatori, molte difficoltà nel trovare il giusto modo di
rapportarsi agli altri. Tutte vicende che la mia famiglia, piena di partigiani
e medaglie varie al valor militare, conosce e si racconta da decenni.
Con tutte le difficoltà del caso, il nostro,
comunque, riesce ad unirsi ad un piccolo gruppo di partigiani di montagna. E ne
seguiamo le vicissitudini: le guardie, le armi, gli scontri a fuoco, i
rastrellamenti. Si accenna al cameratismo di montagna, ma anche a tutti i dubbi
che vengono su di sé e sui propri compagni. Filippo è lì, si integra nel
gruppo, ma rimane spesso incerto, in particolare verso di sé. Si chiede spesso
se avrà paura negli scontri, se avrà paura della morte, se, avendola di fronte,
avrà il coraggio di guardarla negli occhi o se abbasserà lo sguardo.
Non mancano anche gli accenni a tutti i
possibili intrighi ed incastri. Le brigate garibaldine, i “rossi”, i liberali,
gli azionisti. Il pensiero di un dopo che non si sa se e come arriverà (e
purtroppo sappiamo noi come è arrivato). Intanto si fa l’ultima azione, il
comandante viene ferito, forse a morte, ma seriamente di sicuro. L’unica è
cercare di attraversare la frontiera verso la Svizzera. Traversata descritta
con una prosa asciutta e che prende molto.
Come detto, un libro forte, in presa diretta,
a volte immaturo in alcune uscite. Io, pur non condividendo sempre tutte le
affermazioni, penso che sia in ogni caso uno dei tanti libri che bisognerebbe
leggere e far leggere ai giovani, a tutti quelli che non solo non hanno vissuto
quegli anni (neanch’io c’ero), ma che non ne hanno neanche sentito parlare in
famiglia o in amicizia.
Come dice Liliana Segre, anche se in ambito
diverso, sono tutti momenti che vanno scomparendo ad uno ad uno, insieme ai
genitori, ai nonni che ci lasciano.
Noi abbiamo ancora due fiammelle, in
famiglia, che pur flebilmente, ci rammentano quegli anni, quelle
preoccupazioni, quei dolori.
Ma alla fine, riprendiamo con Filippo il
coraggio a due mani: quando bisogna decidere da che parte stare, è doveroso
schierarsi. E, come Filippo, schierarsi dalla parte giusta.
Per omogeneità di espressione mi viene di
citare alcune frasi di un libro di Valerio
Varesi “La casa del comandante”, anch’esso
con una parte interessante dedicata all’ultima guerra. Anche se le frasi
vengono alla memoria pure nel rapporto tra il commissario Soneri e la sua
donna.
“Nella vita ci vuole anche un po’
d’incoscienza. Con la saggezza tiri solo a campare. Senza l’incoscienza non
combini una sega” (18).
“Non stiamo parlando di geometria ma di
sentimenti. La ragione c’entra poco. C’è una parte oscura di noi del tutto
contraddittoria che fa a pugni con la logica” (217).
“Tu hai degli uomini che ti girano intorno …
Avrebbe voluto che lei gli dicesse che non era vero: l’avrebbe fatto star bene.
‘Ce ne sono sempre stati, certo, ma per adesso ci sei tu e basta’ rispose … e
lui si sentì di nuovo incerto e confuso” (218).
Ma soprattutto ripenso a “Siamo tutti animali
volubili e niente è serio come sembra” (72).
Ne approfitto per aggrapparmi a queste parole, sperando che quanto a me ora mi sembra serio nei rapporti umani, si possa adagiare alle parole di Varesi. Intanto si continua a lavorare a momenti che si avvicinano a grandi passi, con piccole speranze e, per voi, tanti abbracci.
PS: e se volete finire celebrando
il 25 pensando con i nostri pochi neuroni, consiglio “Il sol dell’avvenire” di
Nanni Moretti.
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