Dove
la neve il volto ci abbronzerà. Con questa dotta citazione della canzone di
Cherubini e Bixio comincio ad esaminare i testi provenienti dalla collana di
Repubblica dedicata alla montagna. Ma prima che dei libri, tornerei a parlare
della canzone con testo di Bixio Cherubini e musica di Cesare Andrea Bixio
(intreccio bellissimo), incisa nel 1967 da Los Marcellos Ferial. Dove ricordo
che il trio era tutto italiano, pur essendo stato lanciato nel ’62 come gruppo
messicano, interpretando la bellissima “Cuando calienta el sol”.
Venendo
ai libri, abbiamo alcuni approcci, che non mi hanno convinto molto. E se i
“moderni” Brizzi e Cognetti raggiungono una discreta sufficienza, i veterani
come Dino Buzzati e Lalla Romano mi hanno lasciato un po’ perplesso. Mentre mi
ha proprio deluso, e non credo potesse fare di meglio, la scrittura
dell’osannato Mauro Corona.
Enrico Brizzi “Una notte sull’alpe della
luna” Repubblica Montagna 14 euro 9,90
[A: 22/06/2021
– I: 27/06/2022 – T: 28/06/2022] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 77; anno: 2019]
Terzo
libro di Brizzi ad entrare nella mia biblioteca, dopo il mitico “Jack
Frusciante…” ed il me assai caro “La vita quotidiana a Bologna ai tempi di
Vasco”. Pur nella diversità di approccio, pur nell’affrontare un tema che non
mi è caro sino in fondo, il libro rimane sugli standard di Brizzi, che al fine
risulta un autore di buon livello nelle mie letture (direte voi, e gli altri
libri? Quello che non leggo, non so; vedremo nel futuro).
Intanto,
il libro è anche il primo delle letture che dedicherò nel futuro al tema di
questa collana, cioè “la montagna”. Non è che abbia un cattivo rapporto con i
monti, così come non l’ho con il mare o con altri panorami. Ripeto e
sottolineo: sono un animale cittadino, che va altrove per vedere, capire,
conoscere, interpretare. Ma poi, torna sempre a camminare lungo i marciapiedi
della sua Roma.
Nonostante
i suoi 45 anni, all’epoca dello scritto, Brizzi rimane sempre “giovane” dentro,
con quella capacità, dei buoni scrittori, di riuscire ad immedesimarsi (ed a
farci calare) in ogni età cui decidono di ambientare i loro scritti. Brizzi,
poi, è molto legato al passaggio dal liceo all’Università (ricordiamo sempre
Jack), e qui, in un contesto diverso, e con diverso spirito, è lì che ritorna,
è lì che ci fa ritornare.
Come
detto, è una collana dedicata alle montagne, e non so come se ne parli nelle
altre scritture, ma qui si reca un sentito omaggio ad una dorsale appenninica
molto interessante. Intanto perché, pur nell’Italia centrale, si chiama “Alpe
della Luna”, è incuneata tra Toscana, Umbria e Marche per poi sfociare verso la
Romagna, e non è neppure di altezze imponenti, essendo il suo punto più alto
(Monte dei Frati) di soli 1453 metri.
Il
percorso che Brizzi racconta del suo sé stesso negli anni Novanta è tipico
appunto di quei gruppi di giovani che stanno “attraversando la linea”. Giovani
che hanno fatto la maturità, giovani che pensano (forse o forse no)
all’Università, giovani che si immaginano scenari del futuro. Qui, ne abbiamo
tre, Brando, Senzombra ed il narratore. Ovvio che vogliano festeggiare,
decidendo di partire da Bologna su di una scassata Renault per andare ad un
concerto ad Arezzo Wave. Altrettanto ovvio che sbagliano i giorni e ad Arezzo
non c’è nulla.
Alternativa?
Andare a Rimini al mare. Problemi? Si, la Renault si ferma. Allora, la grande
decisione: attraversare l’Appennino a piedi. Qui comincia il rapporto con la
natura e la montagna. Iniziando, per Brizzi d’allora e di ora, quella scoperta
del camminare che lo porterà anche ad altri scritti. Camminare che è una
scoperta di sé (come sa chi lo fa anche in città). Quando poi lo si fa nella
natura (e qui il mio amico Luciano mi sarà di conforto) è anche una scoperta
del paesaggio, di chi ci sta dentro. Ed un approfondimento dei propri pensieri.
Ognuno
porterà il proprio io in questo viaggio iniziatico, in particolare Brando, il
capobranco, sempre coraggioso, sempre propositivo, anche se il suo carisma non
potrà annullare la tensione che naturalmente si crea di notte, dormendo
all’addiaccio in posti sconosciuti. I tre, e qui ci sono belle descrizioni di
natura e persone, vanno per monti e per boschi, guadano fiumi, attraversano
vallate e villaggi, incontrano persone diverse da loro, ma con le quali si instaura
quel senso di comunanza quando si sta, insieme e senza mascheramenti, a
contatto con la natura.
Nonostante
la stanchezza, la mancanza di sonno, lo spettro costante di una fame latente,
avranno momenti magici, che mi hanno rimandato ad un tramonto in una valle
desertica del deserto africano che fu un momento bellissimo ed indimenticabile
per me. Si scopriranno vicini, parte di una comunità. E se alla fine faranno
promesse che difficilmente si mantengono a diciotto anni, non lo faranno per
facciata. Dopo un’esperienza del genere, ci si promette di non lasciarsi mai,
di rimanere in contatto, di restare amici per sempre.
Promesse
che non sempre si possono mantenere, promesse che si fanno e poi, per mille ed
uno motivi, diventano altro, diventano allontanamenti impercettibili che
neanche i social moderni riusciranno fortunatamente a colmare. Se ci siamo
persi di vista, ci sarà un motivo.
Rimane
il ricordo di un momento in cui si aprivano tutte le possibilità e tu, mentre
lo vivi, non te ne sei accorto.
Insomma,
un buon racconto di formazione, con un Brizzi come a me piace, vicino e
scanzonato, attento ai problemi quotidiani, alla vita, e soprattutto, alla
natura.
“Non bisognerebbe mai tradire quel che si
prova a diciott’anni.” (77)
Mauro
Corona “Le voci del bosco” Repubblica Montagna 2 euro 9,90
[A: 25/03/2021
– I: 10/11/2022 – T: 12/11/2022] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 111; anno: 1998]
Se
avessi letto questo libro quando fu scritto (nel ’98) o anche quando fu ripubblicato
(’08), corredato anche dai bei disegni originali dell’autore, penso ne sarei
rimasto incantato. Purtroppo, letto ora, dopo aver visto Corona balzare nelle
pieghe della cronaca per intemperanze verbali in trasmissioni televisive,
nonché nella partecipazione a non so neanche io quale tipo di “Grande Fratello
… qualcosa”, non riesco a scindere l’autore dal testo.
Ne
viene fuori, quindi, non un discorso onesto sugli alberi e sulla loro natura,
magari condito da interessanti elementi biografici, ma un discorso, sempre
sugli stessi argomenti, fatto a mo’ di “captatio benevolentiae”. Tipo, io,
Corona, so di che parlo, e voi no. Io conosco il legno dei boschi e posso
parlarne imbastendo discorsi che voi, ignoranti dei boschi, dovete prendere per
buono. Anche se magari stai dicendo cavolate.
Ecco,
io, e tutti lo sanno, non so distinguere un tiglio da un leccio, quindi, seppur
mi hanno divertito ed incuriositi alcune uscite di Corona, mi rimane
l’insoddisfazione di fondo di non aver capito se mi sta prendendo in giro.
Comunque,
anche per un profano come me, rispetto ad un esperto ligneomorfo, la lettura,
pur non entusiasmante, risulta gradevole (ed anche breve). Non sapevo, e di
certo mi ha colpito, che Corona venisse da Etro, e che Etro si trova sopra il Vajont,
e tutto mi porta alla mente i miei dieci anni e quello che ricordavo come “i
morti di Longarone”. Comunque, Corona aveva 13 anni al tempo del disastro, e
credo che quello lo abbia ancor di più legato alla sua terra.
Ed
ai suoi alberi, che tratta familiarmente, come fossero compaesani, ed a volte,
quasi con più gentilezza di come tratti ora i suoi amici. In effetti, e qui
devo concordare con lui, ogni pianta ha dei tratti specifici che la
differenziano dalle altre. Guardare il tronco, la chioma, la reazione agli
agenti atmosferici (soprattutto come reagisce al vento) ci dà informazioni
sulla natura della pianta stessa, sulla sua “personalità” come direbbe
l’autore.
Ed è
così, con un pensiero gentile a mia madre che conosceva fiori, piante e frutti
come fossero amici suoi (ed avrebbe fatto un bel paio con il nostro scrittore),
seguiamo le passeggiate tra boschi e valli, alla conoscenza degli alberi, del
loro carattere, del loro utilizzo (e qui una valanga di notizie sugli attrezzi
di legno e sul legno migliore per realizzarli).
Io
mi accontento di ricordare questi giri con il ricordo veloce di alcune
sensazioni.
Il
cirmolo, buono e generoso, altrove ricordato come “pino cembro”, da sempre
utilizzato per le sculture lignee in Val Gardena. Il carpino, piccolo e
cocciuto, tanto che ci si fanno birilli e scacchi, a volte confuso con
l’elegante betulla, che ci ricorda essere un albero pioniere, di quelli che si
insediano per primi in nuovi territori. Infatti, la betulla è anche conosciuta
come “Regina dei boschi”, per la sua bellezza nella fioritura, e per le sue
proprietà diuretiche.
Ovvio
che poco dopo, Corona ci racconti del “Principe dei boschi”, l’Abete Bianco, il
saggio protettore dei boschi. L’abete che mi porta il Natale, ma che io ricordo
solo per il miele di melata. Per poi dedicare lunghe pagine al maggiociondolo.
Ora questo (ma solo perché ho cercato) è il laburno delle poesie di Sylvia
Plath o dell’albero mitologico di Tolkien. E poi Corona non ci parla
dell’origine del nome, che deriva dal fatto che, in maggio, le foglie del
laburno, ciondolano. Ribadendo quindi la natura fragile dell’albero. Quanti
altri personaggi lignei ci fa scorrere l’autore sotto i nostri occhi: il noce
superbo, il pioppo sfortunato, l’alacre faggio, il resistente frassino, che
invoglia gli artisti ad usarlo per i loro scopi, contrapposto al fragile acero
(che io ricordo solo per lo sciroppo con cui condivo i miei pancake americani),
e poi i noccioli (ahi, Soriano…), le acacie, i sambuchi, gli agrifogli, e via
discettando.
Io
raccolgo solo due ultime provocazioni: il duro ma non resistente tasso e
l’ulivo di cui si parla pur non essendo un albero del bosco di Corona. Il primo
a me rimanda ad uno dei corti inimitabili di Achille Campanile: “Il tasso della
quercia del Tasso”. Se non lo conoscete, cercatelo, un piccolo gioiello.
L’ulivo mi riporta invece a Gerusalemme quando vidi per la prima volta gli
ulivi del bosco di Getsemani, storti, contorti, dolorosi come gli avvenimenti
che videro duemila anni fa. Un’emozione che sarà difficile dimenticare.
Invece,
dimenticherò anche se non presto questo libro, fragile, veloce, ma molto
lontano dalle mie corde.
“È sciocco cercare di mascherare il cammino
degli anni. L’incedere del tempo cambia il colore della pelle … ma lui non se
ne rammarica.” (32)
Dino
Buzzati “Bàrnabo delle montagne” Repubblica Montagna 4 euro 9,90
[A: 10/04/2021
– I: 03/03/2023 – T: 04/03/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 1933]
Anche
se piace a molti, anche se questo suo primo romanzo lo scrive a “soli” 27 anni,
Buzzati non è mai riuscito, nei romanzi, ad entrare nelle mie corde. Ho letto
racconti ed articoli che mi hanno convinto di più, la sua presa immediata, la
capacità quasi filmica di farci vedere le cose che scrive. Poi allunga il
passo, e, seppur rimangono idee e sensazioni, il risultato finale a me rimane
un tantino lontano dalle mie corde.
Tuttavia,
devo sottolineare che questa sua prima prova contiene, in tutto o in potenza,
l’insieme del mondo dello scrittore: l’amore per le montagne, che ha per
corollario il legame tra l’uomo e la natura, la contemplazione del tempo che
passa mescolata alla solitudine dell’uomo moderno, l’attesa. Attesa di vivere,
attesa di compiere un atto che abbia senso, attesa di qualcosa che possa cambiare
il nostro mondo. Un tema, questo, che vedrà il suo magico compimento ne “Il
deserto dei tartari”.
Ma
torniamo a questo primo testo, dove seguiamo l’odissea della vita del giovane Bàrnabo.
Uno che vive per i monti e sui monti, tanto che non se ne conosce il cognome,
ma da tutti è nominato come Bàrnabo delle montagne. Uno che, laddove i suoi
giovani amici fanno feste e cecano ragazze, lui guarda i monti, guarda la
natura, aldilà dei piccoli orizzonti delle case in cui vivono. È un
guardaboschi e con i suoi colleghi, oltre a pattugliare i monti, deve
sorvegliare un deposito di munizioni chiamato “la Polveriera”. Siamo in tempi
grami, e ci si arrangia per vivere. I monti della val di Greve sono pieni di
gente che si deve arrangiare. Gente, anche, che si dedica al contrabbando con
la vicina Svizzera. Gente che non esita, se necessario, ad assaltare il
deposito in cerca di armi.
Dopo
un primo assalto, dove muore il capo dei guardiani del deposito, Bàrnabo ed il
suo mentore Berton incrociano i briganti. Ma Bàrnabo ha paura, si nasconde,
mentre Berton viene ferito. Per questo Bàrnabo viene licenziato, e deve trovare
altro da vivere. Seguiamo allora il suo percorso, da montanaro a contadino,
lavorando in campagna, rimpiangendo sempre quella vita che la sua vigliaccheria
gli ha costretto ad abbandonare.
Passano
anni (forse dieci) e l’amico Berton, l’unico che non lo ha mai abbandonato, gli
consiglia di tornare. Lui lo fa con la coda tra le gambe, ma molte cose sono
cambiate. Il deposito è stato spostato, i guardaboschi sono quasi tutti andati
altrove. Ma a lui fanno credere che tutto è tornato come un tempo. Riveste la
divisa, e si accinge a tornare a fare le ronde tra le montagne come una volta.
Viene
anche a sapere che i briganti stanno tornando, ed i vecchi compagni lo illudono
che lo aiuteranno nella cattura. Ma Bàrnabo si ritrova sempre solo a girare tra
i monti. E vede l’arrivo dei briganti. Ma vede anche che i briganti stessi sono
invecchiati, non hanno più la ferocia e l’audacia di un tempo. Arrivano al
deposito e guardano delusi la vuota caverna.
Bàrnabo
prende la mira, potrebbe sparare, non ha più paura. Decide (grande cambio nel
passo senza speranza di Buzzati) di non farlo. Ha trovato la sua serenità, non
spara. I briganti vanno via per non tornare più. Bàrnabo continuerà a stare tra
i suoi monti, in pace con sé stesso.
Il
contraltare che sottolinea inconsciamente, forse, Buzzati, è che ci possa
essere una “grande occasione” che permetterà di dare un senso alla propria
vita. Bàrnabo decide che l’occasione è non sparare. Drogo aspetterà sempre
senza averla mai.
Ho
letto più libri di Buzzati di quanti pensassi mi interessasse, ma pur nella non
corrispondenza d’amorosi sensi con Buzzati, l’autore fa comunque riflettere. È
sempre una lettura personale, è sempre un momento d’intimità con sé stessi.
Dove a me rimane un monito, che non è l’aspettare delle occasioni, ma quello di
avere il coraggio interiore di non mentire a sé stessi, di non farsi prendere,
immotivatamente, dalla paura, di non avere, comunque, momenti di indecisioni.
Ci possono essere dubbi, non ci devono essere rimpianti.
Di
passaggio, ricordo solo che ho letto uno dei libri di Colaprico dedicato al
maresciallo Binda, dove, ambientato in parte nel ’72, il protagonista ricorda
la morte di Buzzati, dedicandogli brevi ma coinvolgenti parole, a chi ne
ricordava i passaggi sui Navigli a bere sino a stordirsi (ricordo anocra, a chi
se ne dimentica, che Buzzati muore per un tumore al pancreas).
Lalla
Romano “Pralève e altri racconti di montagna” Repubblica Montagna 18 euro 9,90
[A: 20/07/2021
– I: 05/03/2023 – T: 06/03/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2017]
Devo
dire nella mia beata ignoranza che, pur avendo da sempre avuto questo nome tra
le orecchie come di una dignitosa esponente della scrittura italiana, non mi
era mai capitato di leggerne. Vuoi perché scrisse poco, vuoi perché le sue
scritture spaziano dal ’50 al ’70, e poi non vengono molto riprese, vuoi perché
il suo maggior libro non è mai riuscito ad entrare in nessuna libreria
familiare.
Eppure,
Lalla Romano fu una piemontese doc, e quindi, mi si insegna, una persona
riservata e determinata, anche se ha attraversato il Novecento con la
leggerezza (verbale) di quel libro che nel ’69 le valse il Premio Strega (“Le
parole tra noi leggere”, titolo bellissimo di un toccante romanzo sul rapporto
madre – figlio). Piemontese delle Langhe, nata in quel di Cuneo, come Mario
Soldati, che ebbe compagno di liceo, così come lo fu Cesare Pavese. E di certo
era una fucina di talenti, quel Piemonte degli anni Venti, con la presenza
anche del giovane Leone Ginzburg, del promettente Norberto Bobbio, del già
maturo Montale, insomma di tutta quella massa di talenti che nel ’33 fondò la
casa editrice Einaudi.
Ma
qui stiamo narrando di un testo di montagna, e non della vita, pur
interessante, di Lalla Romano e dei suoi amici. Un libro che fa parte di quella
collana che ho acquistato un po’ per scommessa, puntando su di un settore di
lettura, appunto la montagna, che non avevo mai praticato attivamente, né come
lettore né come camminatore.
Il
testo, nella sua parte più “intensa”, è dedicato alla fittizia cittadina
valdostana di Pralève, che nella realtà è Cheneil, piccola località montana,
appunto, sulla strada tra Chatillon e Cervinia. Un racconto lungo, già apparso
con altri racconti, nel testo pubblicato da Einaudi nel ’75 con il titolo “La
viandante”. In effetti, il racconto “Pralève” è del ’58 (nella firma
autografo di Lalla Romano), e qui è corredato da tre brevi racconti “A
Cheneil d’autunno” (‘89), “Profili di pietra” (‘87) e “Vetan”
(‘97), che tuttavia non aggiungono molto all’interesse del testo principale.
La
forma particolare del testo è che, un po’ a forma di puzzle, il testo
principale è a sua volta una collazione di brevi scritti, di bozzetti, di
pennellate (e ne capiremo il senso) che compongono il mosaico del luogo, dei
suoi abitanti, e della vita vissuta da Lalla laggiù. Ne capiamo il senso
maggiore ripensando che una delle arti cui Lalla Romano si dedicò sin da
giovane era proprio la pittura.
Ed è
in fatti come se stessimo davanti ad una tavolozza, con i vari personaggi a mo’
di colori, che la scrittrice prende, porta sulla tela, ed incastona in un
dipinto che alla fine ci restituisce il senso di una serie di visite estive
nella località montana, dove lei trascorse tutti i mesi di luglio per una trentina
d’anni.
Ovvio
a questo punto un inciso, che penso a Pralève ed invece vedo altri paesaggi.
Vedo il Passo delle Capannelle, vedo la sosta a L’Aquila, vedo Teramo, incontro
il mare, e mi lascio cullare dalla “nostra” Tortoreto. Lì dove ci portò mio padre,
io allora seienne. Lì dove ci riportò per tutte le estati, che trascorrevamo da
giugno a settembre, io fino ai miei venticinque, ma altri ancora, e mio
fratello tuttora, or sono più di quaranta. Un’epopea familiare risvegliatasi e
che spero qualcuno avrà la forza di scrivere.
Riprendendo
quanto sopra, è la forza della pittura, che consente a Lalla di descriverci, di
farci vedere le persone incontrate, incrociate in tutti quegli anni. Di cui,
alcune rimarranno anche in fondo ai nostri occhi: l’albergatrice Nanda del
Corona, la vedova Cristillin o l’ingegnere e le sue empatie verso le esistenze
altrui. Le piccole note vi fanno vivere il posto attraverso le piccole gesta di
chi ci abita. Ma è quell’introduzione corale, sia della descrizione della
conca, sia delle fatiche della corriera o degli altri mezzi per raggiungere la
cittadina che ci danno il contorno, che ci danno lo sfondo e le quinte di
questo teatro della vita.
Facendoci poi capire che quello di cui
stiamo leggendo non è lo schizzo di alcuni protagonisti, ma la vita di chi li
guarda, di chi li ricorda, di chi, ora, ne scrive. Di chi non ne sapeva, di
chi, attraverso la quotidianità della montagna, penetra nei luoghi,
abbandonando la rigidità borghese che ne aveva accompagnato l’avvicinamento. Come
si afferma infatti ad un certo punto “Sono gli uomini che fanno i luoghi”.
Uomini di cui, a volte, non se ne sapeva nulla, prima di parlarne, ed ora fanno
parte del “nostro” coro.
Devo comunque dire che, in finale, non mi ha
conquistato in modo particolare, lasciandomi soltanto la piacevolezza di
un’idea di scrittura, e di una levità di vita che sicuramente è stato un
momento di piacevole riposo mentale.
Paolo
Cognetti “Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna” Repubblica Montagna 1
euro 9,90
[A: 19/03/2021
– I: 21/03/2023 – T: 21/03/2023] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 139; anno: 2013]
Non
ho letto, e non so se leggerò, il super-premiato libro di Cognetti, “Le otto
montagne”, benedetto anche da un film, anch’esso agli onori delle cronache, ed
anche questo non credo che a breve sarà frequentato. Perché, per me, Cognetti
rimane ancora quello di “Una piccola cosa che sta per esplodere”, quello che
nei racconti “altri da sé” ci dà bei punti di pensiero.
Ad
un certo punto, l’autore si volge (anche) alle sue montagne, al mondo “alto e
silente”, e ne comincia a scrivere. Questo, in realtà, è il primo dei libri che
si occupa di montagne, e ben ci sta, sia a rappresentare Cognetti, sia ad
essere il primo titolo della collana di Repubblica per l’appunto dedicata ai
monti.
In
realtà, non è un libro facile da descrivere, che non c’è praticamente trama. O
meglio, c’è tutta una storia da raccontare, ma solo attraverso brani, cenni,
rimandi, e poi sensazioni ed altre cose che a volte non hanno una sequenza
temporale, se non nell’animo di chi le vive.
Scrittura
autobiografica, ci porta diritti nella crisi dello scrittore Paolo, stretto
nella vita di città, dove si sente mancare l’aria e, soprattutto, mancare lo
spunto di scrittura che lo aveva sorretto sin a quel momento. Per dare uno
stacco a tutto quanto decide di ritirarsi in una baita di montagna che aveva
visto le prime mossa di lui bambino e adolescente, ma che erano almeno dieci
anni che non vi ritornava.
Seguiamo
così, in un diario cui mancano solo le date per esserlo, l’andamento di questi
mesi di “ritorno alla natura” del nostro, dalla primavera che inizia
all’autunno che scolora, passando indenne e pieno di colori per un’estate
smagliante.
La
narrazione procede così per piccoli scatti, e per tanti incontri, di persone,
di cose, di animali. E lì, a contatto più con sé stesso che con la natura,
ritrova in sé appunto le parole per farci partecipe del suo mondo. Prima che
con Remigio e Gabriele, i suoi mentori montani, vediamo Paolo incontrare una
lepre, sentire il rumore della pioggia durante un temporale, passare all’aperto
una notte a guardar le stelle (“Dimmi tu luna in ciel, dimmi che fai?” questo
lo cito io, visto che Cognetti invece cita anche molti scrittori, degni di nota
e di ricordi), pensare a come organizzare un orto (e noi diciamo sempre
“Grazie, Sandro!”). Attraverso il silenzioso rumore della natura, passando dal
guardare gli alberi, ammirando la vitalità dei boschi, a ricercar per terra le
orme degli stambecchi, restiamo lì, nella Valle d’Aosta che prima o poi ci
rivedrà, a seguire la trasformazione del cittadino Paolo nel “ragazzo
selvatico” del titolo.
Altri
animali iniziano a popolare l’immaginario, ma anche il reale, di Paolo. Mentre
si meraviglia dello sciogliersi della neve all’inizio dell’avventura,
portandoci, pagina dopo pagina, a godere del fiorire della natura, ecco che si
mette a cantare una canzone ad una marmotta, oppure ad osservare mamma aquila
che insegna il volo al suo piccolo. Sino all’incontro (o al re-incontro) con
gli umani. Con Gabriele il pastore chiacchierone amante delle bevute. Con
Remigio, silenzioso con il suo trattore, ma che coinvolge Paolo in piccole
attività campestri.
La
riflessione e le letture portano il nostro Paolo a condividere con noi alcuni
grandi maestri, come Defoe ed il suo Robinson, come tanto Primo Levi, come le
montagne di Mario Rigoni Stern. Ma soprattutto, com’è ovvio, Thoreau ed il suo
“Walden ovvero Vita nei boschi”, con un ovvio pensiero che va a Chris
McCandless (quello di “Into the Wild”). Tuttavia, personalmente, mi ha
entusiasmato conoscere (ed approfondire) la personalità di Elisée Reclus,
francese ottocentesco che si definiva “geografo, ma anarchico”. Ed in
particolare mi ha preso la frase in commento al suo librone “L’uomo e la
terra”, che dice: “La Geografia non è che la Storia nello spazio, mentre la
Storia non è che la Geografia nel tempo”.
Qualcuno
trova le pagine di Cognetti “un po’ lente”, ma io ritengo che questa lentezza
sia congeniale al modo di proporre la materia a noi lettori, di farci
riflettere, di farci prendere una pausa. A me non fa venire voglia di ritirarmi
in montagna per perseguire una vita autarchica, non è nelle mie corde. Certo,
mi carezza che ci sia Soriano come paracadute di riflessione. Ma la voglia di
partire, di allontanarsi dal caos presente (ed italiano) mi fa solo venire in
mente un aereo, un volo, un atterraggio ed un giro in un mondo altro dove far
magari i conti con altre vite artificiali, tuttavia diverse dalla mia.
Un
libro degnamente letto appunto in un momento altro, pensando ad un giardino zen
giapponese, mentre in aereo tornavo verso casa.
“La fine è importante in tutte le cose.”
(133)
Essendo una settimana italiana, ed anche
volta alla leggerezza, vorrei riportare alcune frasi dal certamente poco
profondo “Il tempo che vorrei” di Fabio Volo, un autore che
si fa leggere, e che ogni tanto inserisce momenti di riflessione che mi
coinvolgono grandemente. Come in questo caso, con due piccoli grandi inserti
dedicati alla lettura.
“Sappi che leggere mette in moto tutto
dentro di te: fantasia, emozioni, sentimenti. È un’apertura dei sensi verso il
mondo, è un vedere e riconoscere cose che ti appartengono e che rischiano di
non essere viste. Ci fa riscoprire l’anima delle cose. Leggere significa
trovare le parole giuste, quelle perfette per esprimere ciò a cui non riuscivi
a dare una forma. Trovare una descrizione a ciò che tu facevi fatica a
riassumere. Nei libri le parole di altri risuonano come un’eco dentro di noi
perché c’erano già. …. Non importa se il lettore è giovane o vecchio, se vive
in una metropoli o in un villaggio sperduto nelle campagne. Così come è
indifferente se l’argomento di cui sta leggendo riguarda un’epoca passata, il
tempo presente o un futuro immaginario; il tempo è relativo e ogni epoca ha la
sua modernità. E poi leggere è bello, punto. Io a volte dopo aver letto
un libro mi sento sazio, appagato, soddisfatto, e provo un piacere fisico” (90)
“I personaggi, le frasi e le parole
trovate nei libri sono come ponti che ti permettono di spostarti da dove sei
verso dove vuoi andare, e quasi sempre è un ponte che unisce il tuo vecchio io
a quello nuovo che ti attende” (130)
Pensieri che non
potrei esprimere meglio.
Comunque, abbiamo passato il solstizio d’estate, stagione cui dovremmo essere quindi entrati a pieno diritto. Anche perché si svolta passando per un onomastico fondamentale, ed un ricordo di una delle mie più care zie, che seppur da tempo ci ha lasciato, oggi avrebbe doppiato la boa dei novanta anni. Ah, quanto speriamo di potere, io e voi, continuare a lungo con la nostra testa sulle spalle. Per ora ci si accontenta di pensare che, pur onusti, si prova ad andar per il mondo. E non è poco.
Nessun commento:
Posta un commento