Una settimana dedicata alle donne, cui casualmente il nome comincia per “A”. Ma soprattutto imperniata su alcune letture del premio Nobel Annie Ernaux. Dei libri che mi sono stati regalati, “Gli Anni”, oltre che letto in originale che ha dato un bel senso alle parole, si stacca di molto dal resto. Penso che se leggerete quanto ne scrivo, si capirà.
Ma
anche l’Islanda e l’India sono qui ben rappresentati da due scrittrici di buon
calibro e di ottima riuscita. Non sorprende Auđur, di cui ho già letto altro ed
apprezzato. Un po’ invece il libro di Anita, ambientato nei treni indiani, che
anche io ho usato e ne conservo ricordi.
Auđur Ava Ólafsdóttir “Hotel Silence”
Einaudi euro 12
[A:
14/07/2021 – I: 18/08/2022 – T: 20/08/2022] &&&
e ½
[tit. or.: Ör; ling. or.: islandese; pagine 188; anno 2016]
È stato così con il mio terzo viaggio, a
valle del quale ho letto il presente libro. Imparando a conoscere meglio anche Auður,
non solo storica dell’arte e scrittrice, ma anche conoscitrice dell’Italia e
della nostra lingua, avendo studiato a Bologna una quarantina d’anni fa.
Venendo al testo, devo dire che, pur
restando su livelli elevati, rimane un filo sotto i due precedenti. Sono sempre
convinto che ci sia sempre la capacità della traduzione di rendere il testo a
far pendere qualche mezzo voto qua e là. Qui, al solito, c’è anche il titolo.
Che in originale sta per “cicatrice”, come ben riporta la seconda delle due
parti del romanzo, la prima essendo intitolata “carne”. Gli editori
internazionali (non solo gli italiani) hanno invece preferito intitolarlo ad
uno dei siti dove si svolge il romanzo, lo strano, inquietante, ma alla fine
anche co-protagonista del testo, l’Hotel Silence.
Un’altra particolarità, che si intuiva dalla
scrittura, ma che ho scoperto a posteriori, è che doveva essere un testo
teatrale. In effetti, per quasi tutto il testo assistiamo al flusso di
coscienza, anche se ben organizzato, di Jonás. Abbastanza facile vederlo in
commedia, anche se la seconda parte prevede più personaggi, più movimenti.
Comunque, il libro è diventato teatro dopo essere uscito, quindi, ora, lo prendiamo
così com’è.
Un testo sul disagio, sull’amore, sulla
morte. Elementi che sembrano sempre presenti nella letteratura islandese. I
primi due molto legati, che dove c’è disagio si cerca (a volte) di superarlo
con l’amore. Anche se un malsano rapporto tra i due termini porta più disastri
che benefici. La morte, ed il suicidio in particolare, sono poi una costante
presenza di molta letteratura nordica. Chi ha visitato quei posti, chi ne ha
conosciuto gli abitanti, ne può capire il senso. Spesso, quando c’è disperazione,
l’isolamento, la mancanza di connessioni tangibili con l’altro, porta a
decidere che, forse, è meglio togliersi di mezzo.
Che è quello che vorrebbe fare Jonás. Ha
quarantanove anni, una madre con la demenza senile, un matrimonio andato a
rotoli, ed una figlia non biologica. Anzi il matrimonio, già traballante di
suo, ha proprio cessato di essere quando la moglie Guðrun gli confessa che la
figlia che ha cresciuto, Guðrun anch’essa come la nonna, è frutto di un
rapporto casuale di poco precedente al loro incontro.
La prima parte è un po’ pallosa, con Jonás
che ci racconta i mille modi in cui vuole farla finita, decidendo al fine che è
meglio morire lontano da casa, così che la figlia non sia costretta a trovare
il suo corpo senza vita. Decide così di partire per un paese in cui da poco è
finita una guerra civile (se non fossimo negli anni ’10, poteva essere la
Bosnia, ma in fondo, vale per ovunque, anche per l’Ucraina tra qualche tempo),
verso quell’Hotel Silence del titolo.
Lì si trova a confrontarsi con realtà
diverse, che hanno vissuto la morte da vicino, con mariti, figli, mogli, uccisi
da bombe o massacrati da soldati senza regole. Si trova a doversi confrontare
sia con altri stranieri (un’attrice, un depredatore di reperti archeologici),
sia con i locali martoriati. In particolare, con i due fratelli che gestiscono
l’hotel, Fifì e Maí e con il piccolo Adam. Jonás, di poche parole (e qui, in
terra straniera, nessuno conosce l’islandese) lavorava in una ditta di
aggiustatutto. Qui, per necessità e costrizione, si trova ad essere richiesto
di metter mano a quella sua (unica) abilità.
Così, ricostruendo docce, lampade, mobilio,
pagina dopo pagina, assistiamo alla ricostruzione di sé stesso. Una
ricostruzione che parte usando la cassetta degli attrezzi che aveva portato con
sé, con un trapano, una corda, chiodi e nastro adesivo, per costruire
l’ingresso nel regno dei morti. Ricostruzione non solo morale, anche fisica,
quando riuscirà, dopo otto anni e cinque mesi, a fare di nuovo all’amore (certo
non vi dico con chi). Ricostruzione che passa anche accettando la malattia
della madre, ed accogliendo la figlia che lo convince, da lontano ma con parole
da sottolineare, come lui e soltanto lui è e possa essere suo padre.
Il libro comincia il 5 maggio (e già questo
è da sottolineare) e termina il 17 giugno, con una svolta forse diversa da
quella che ci si aspettava per tutto il testo, ma da leggere.
In realtà, poi, è molto più poesia che
teatro, ed è comunque un inno alla pace, un invito a riscoprire tutto l’umano
che è in noi. Soprattutto ora, da poco usciti da una dura pandemia e da sei
mesi piombati nell’orrore di una guerra.
Ma soprattutto, è intrinsecamente islandese.
Anche lontano dall’isola, Jonás incarna con forza l’anima isolana: bricolage,
che dove tutto manca bisogna saper fare, solitudine, introspezione, difficoltà
quindi nel rapportarsi all’altro in maniera profonda. Si beve birra insieme, ma
si riesce ad essere amici? Ed anche capacità, una volta scoperto che non vuoi
ferirmi, di entrare in sintonia, di essere per l’altro.
Mi piace, Auður e continuerò a leggerne,
anche se, come detto, la prima parte del testo è un po’ lenta ed incartata.
Fortuna che ci sono le cicatrici, di Jonás, di Guðrun, di Maí che, come nel
giapponese “kintsugi” non vanno nascoste, ma sottolineate con l’oro.
Anita Nair “Cuccette per signora” Guanda
euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 27/01/2020 – I: 11/12/2022 – T:
13/12/2022] - &&&
e ½
[tit. or.: Ladies Coupé; ling. or.: inglese;
pagine: 332; anno 2001]
Anita Nair è un’interessante scrittrice indiana, di
cui ho letto qualcosa nella scorsa decade. Nata in Kerala, stato del sud
indiano che ho trovato molto interessante visitare, da sempre vive a Bengalûru
(che sarebbe il nome indiano di Bangalore). E lì ambienta la quasi totalità dei
suoi romanzi. Come questo, che in effetti è il suo secondo romanzo, ed è ancora
pieno dei suoi fermenti giovanili (benché scritto già oltre trentenne).
Un
cenno merita l’intraducibile titolo inglese. In effetti, sino al 1998, in coda
ai treni, specialmente notturni, erano posti dei vagoni chiamati in inglese
“Ladies Coupé”. Intraducibile indicazione, che in tutte le traduzioni del libro
in giro per il mondo viene tradotta con “Cuccette per signora”, ad indicare
appunto uno scompartimento dedicato all’uso solo di donne. Io lo avrei posto al
plurale, che sono vagoni letto a sei posti, che anche io ho utilizzato nei miei
viaggi indiani (ora non più riservati alle donne). C’è un sedile-cuccetta in
basso, uno in alto, e lo schienale del sedile in basso diventa la cuccetta di
mezzo.
Di
passaggio ricordo che non è una caratteristica solo dei treni, ma, ad oggi,
esistono, nelle ore di punta, vagoni riservati alle donne nelle metropolitane.
Io ne ho incontrati a Delhi e Cairo.
Tornando
al testo, Anita Nair ci narra la storia di Akhilandeshwari detta Akhila, che a
45 anni, dopo una vita dedicata alla famiglia, decide di intraprendere un
viaggio. Prima di 4 figli, a 19 anni, morto il padre travolto da un autobus nel
caotico traffico indiano, ne eredita il posto all’Ufficio delle Tasse, e con il
suo stipendio mantiene la famiglia. I fratelli si sposano, lei ha una piccola
storia d’amore che non porta a compimento per non lasciare la famiglia, muore
anche la madre. Così Akhila si trova avanti negli anni, per la società indiana,
e zitella.
Ponendosi
allora la domanda cruciale che permea il libro (“una donna ha bisogno di un
uomo per completarla o può rimanere single e felice?”), decide di intraprendere
un viaggio, sola e verso il Sud, puntando ad arrivare a Kanyakumari nel Tamil
Nandù, la punta più meridionale dell’India. Un viaggio che ora, venticinque
anni dopo e con treni più moderni, consta di circa 13 ore di treno. Viaggio che
intraprende appunto nelle cuccette a 6, dove incontra cinque donne. Nel corso
della lunga notte e del primo mattino di viaggio, le donne parlano, si
confessano, stimolate da Akhila che si appende sempre a quella domanda.
Il
libro a questo punto diventa una sorta di raccolta di piccoli racconti. Dieci
capitali, dove i dispari narrano la vita nel treno, ed i pari sono dedicati
ognuno ad una delle donne.
Così
nella ricerca della propria identità Akhila incontra Janaki, una donna anziana
che si è completamente annullata dietro l’ombra protettiva del marito. Quindi è
la volta di Margaret Shanti, brillante insegnante di chimica che fa un
matrimonio sballato con il suo preside, che scopre tiranno, ma che riconduce
alla ragione riempiendolo di cibo (e facendole ingrassare oltre misura). C’è
poi Prabha Devi che narra la sua vita di madre e moglie perfetta, fino a che
non scopre l’esistenza di una piscina che cambierà la sua vita.
I
racconti terminano con le più giovani. Prima la quattordicenne Sheela, che vede
negli altri quello che gli altri non vedono. Un dono che le servirà per
accudire la nonna negli ultimi istanti della di lei vita. Finendo con Marikolanthu,
ragazza di belle speranze, la cui vita viene distrutta da uno stupro, cui
seguono a cena altre conseguenti disgrazie. Inciso fuori contesto, il nome
della protagonista di questo ultimo racconto è il termine sanscrito per
indicare la maggiorana.
Sarà
nell’ultimo e undicesimo capitolo che finalmente Akhila parla in prima persona,
prendendo consapevolmente alcune decisioni, alcune condivisibili, altre meno,
ma, alla buona ora, fatte in prima persona. Anche qui, facciamo una piccola
digressione dal sanscrito dove Akhila indica l’Universo, ed il termine
complesso Akhilandeshwari indica una divinità conosciuta come “Lei che non può
essere mai spezzata”. Forse la scrittrice voleva dirci qualcosa con questi
nomi?
Come
detto, la costruzione del testo non è fluida, che i racconti spezzano assai il
corso della narrazione. Ma da tutte si evince il filo rosso del testo: in tutte
e situazioni descritte le donne contano poco, sono sempre colpevoli (stuprate
perché vestono alla moda, impedite negli studi, ed altro che potete
immaginare). Di certo esce con forza una fotografia non certo postivi della
società indiana, dove la donna deve, nell’ordine, accudire la casa, cucinare,
sottostare ai comandi dei maschi di casa, e, laddove mancano, forse trovare
sostentamento solo vendendo il proprio corpo.
Purtroppo,
e lo vediamo quotidianamente, pur con le dovute modifiche dovute ai tempi ed ai
luoghi, non è che anche nella società occidentale la donna sia trattata in modo
migliore. In ogni caso, oltre alla fotografia della pessima considerazione del
mondo femminile, abbiamo alcuni risvolti etnograficamente positiva che escono
fuori dal narrato. Il modo di vestire, ad esempio, con i diversi colori e
tessuti delle sari (ora, il mio dizionario riporta “il” sari mentre in tutto il
testo viene indicato con “la” sari; mistero). Le cavigliere portate solo se si
cerca marito. E la meravigliosa cucina dell’India del Sud, dove, con grande
intelligenza, viene riproposto in finale di libro, un piccolo ricettario delle
principali pietanze citate.
Un
libro che forse ha qualche anno, che forse non scorre sempre al meglio, ma che
ha il merito, per chi ne sa intraprendere una lettura non superficiale, di
farci riflettere. Forse poco cambierà che chi legge il libro ha già una mente
più ordinato, e chi maltratta le donne non leggerà questo libro. Ma c’è sempre
una piccola speranza in fondo al cuore.
“Spesso
succedeva che, come sua madre pensava qualcosa, suo padre esprimesse ad alta
voce esattamente quello stesso sentimento nel giro di una frazione di secondo e
sua madre allora diceva ‘Stavo per dirlo’” (18)
“Allevare
una figlia è un’occupazione a tempo pieno.” (201) [se ne può parlare]
Annie
Ernaux “Il ragazzo” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)
[A: 25/12/2022 – I: 29/12/2022 – T: 29/12/2022]
- &&&
[tit. or.: Le
Jeune Homme; ling. or.: francese; pagine: 58; anno 2022]
In
effetti, da quando ha ricevuto il Nobel, a me ronza nell’orecchio l’idea di
leggere uno dei suoi libri, ma qualcosa mi aveva sempre frenato. Un
retropensiero che rumoreggiava dicendo guarda è troppo intimista, è troppo
basata su ricordi, sembra fredda. Fatto sta che, invece, i nostri amici delle
lezioni ventennali di lingua, che si riuniscono (almeno) una volta l’anno in
dolce convivio, hanno regalato, a me ed Ale, ben due libri della scrittrice
francese.
Come
tante altre cose, io e Ale abbiamo deciso di condividere questi regali, senza
etichettarli come regalo mio da parte di, o simili banalità. Sono regali della
nostra combriccola amicale, e noi li leggeremo così. poi, io ne parlerò.
Ed è
proprio così che in questa fine d’anno campagnolo, dopo essere passato nelle
sue mani, che non ne sono state entusiaste, lo leggo io. È il più agile e
scorre via, mentre preparo la colazione per iniziare degnamente uno degli
ultimi giorni di questo 2022.
Il
testo scorre in un battibaleno, anche perché, per raggiungere le 58 pagine, al
testo, sono stati aggiunti tre interventi fatti dalla scrittrice tra il 2013 ed
il 2016. Questi testi posticci non aggiungono molto al panorama generale, se
non il primo, “Scrittura e memoria”, che disegna un utile ed interessante ponte
tra il ricordo, sempre presente in ognuno di noi, e la scrittura che Annie
riesce a produrre, ad esempio riandando spesso nella natia Yvetot, sovente
citata solo come “Y.”, e riuscendo a narrare di sé facendone diventare una
scrittura dove ognuno si può ritrovare. Una scrittura dove, a ben guardare, si
parla di noi, della nostra vita in città, dagli anni della scuola e dello
studio al lavoro, dai matrimoni ai divorzi, dai figli avuti e da quelli non
avuti. Capisco, sentendo questo intervento letto a Roma al mitico “Festival
delle Letterature”, come e perché la scrittrice sia stata insignita del Premio
Nobel.
Il
breve testo, che si riduce al fine in una trentina di pagine, stampate anche a
caratteri larghi, ha la prima difficoltà nel titolo italiano. Laddove, per noi,
“ragazzo” si intende un individuo che sta varcando la soglia della fanciullezza
per percorrere il breve tratto dell’ultima giovinezza. Al contrario, “jeune
homme” indica piuttosto un giovanotto, così come in effetti risulta dal testo.
Non ne consociamo il nome, ma solo la funzione, quella di spalla alla matura
narratrice.
Chi
scrive è oltre i cinquanta, mentre il giovanotto lo collocherei tra i venti ed
i venticinque. Il rapporto tra i due è decisamente squilibrato, anche se Annie
si sente mentore più che madre. Ma nelle poche pagine analizza i vari stati
d’animo. Il bisogno, la necessità di sentirsi giovane, e di sentirlo scrivendo.
Ma scrivere è un’attività faticosa, e solo dopo un sano incontro di sensi, lei
si sente in grado di abbassare le difese e por mano alla penna.
Tuttavia,
è anche con lo sguardo di chi fotografa la realtà che sta vivendo, che vede sé
stessa in compagnia del giovane amante, e soprattutto, nei convivi con i
coetanei di lui. Se trasportiamo il tutto in questi anni Venti, come vedete una
persona matura che si accompagna con giovani attenti soltanto a mandare
messaggi, fare selfie, ed utilizzare il mondo social per comunicare,
scordandosi che, forse, esiste anche la parola per scambiarsi le impressioni
sul mondo. Straniante. Come estranea sente lei quel mondo.
Eppure,
è bello sentirsi vivi, anche quando gli sguardi altrui son pieni di rimproveri
e domande. Nel breve termine delle poche pagine, si svolge tutto il mondo, ed
il mondo di Annie, quel mondo, termina quando Annie riesce a produrre uno dei
suoi libri più dolenti. In quel finale dello scorso secolo, quando riuscì a
parlare del suo aborto e delle sue sofferenze. Ponendo fuori da sé quel testo,
capisce anche che la storia con il giovane amante è giunta al suo termine
naturale, consentendole di andare avanti.
Consentendole
di scrivere una frase che starebbe bene anche sulla pena di Garcia Marquez: "Se
non le scrivo, le cose non sono arrivate fino al loro termine, sono state solo
vissute". Ora sono vivo e sono buone per essere raccontate. Una frase che
racchiude molto del mondo di Annie Ernaux, meglio di quella posta nella quarta
di copertina, quasi tesa ad accalappiare incauti lettori: “spesso ho fatto l'amore
per obbligarmi a scrivere”. Non commento di più, che poi dite che sto
diventando un acido anziano.
Comunque,
come prima prova di lettura, pur non esaltandomi come altri scrittori che
avrebbero meritato il Nobel e non l’hanno avuto (come il mio amato Oz), è in
ogni caso una scrittura che, nella sua semplicità sembra possa aprire mondi.
Staremo a vedere.
Annie
Ernaux “Guarda le luci, amore mio” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)
[A: 25/12/2022 – I: 04/01/2023 – T: 05/01/2023]
- &&+
[tit. or.: Regarde
les lumières mon amour; ling. or.: francese; pagine: 107; anno 2014]
Secondo
libro dell’ultimo Nobel, ma ancora lontano dalla voglia di leggere i suoi libri
maggiori (e in particolare “Gli anni” che prima o poi affronterò).
Dopo
il breve assaggio del veloce “Il ragazzo”, qui siamo ancora in una dimensione
diversa del raccontare. Il testo nasce da una richiesta dell’editore Seuil, che
propone una collana dal titolo “Raccontare la vita”. Annie prende la sfida al
balzo e decide di impiantare un racconto diaristico sulle sue periodiche visite
ad un supermercato. Siamo a Clergy, una ventina di chilometri a nord di Parigi.
C’è un centro commerciale, “Les Trois fontaines”, con tutti i negozi tipici di
un tale centro. Librerie, parafarmacie, ma soprattutto Auchan, con tutto il
fulgore e la prosopopea consumistica di un supermercato di livello. Non nel
solo senso che sia per persone agiate, ma perché riesce a diversificare i suoi
scaffali per ogni livello di consumistico frequentatore.
Dal
suo diario di un anno, circa, di frequentazione, la scrittrice estrapola brani,
impressioni, descrizioni, parole (che quelle sono la sua merce), ed attraverso
le sue osservazioni noi entriamo nel suo mondo, ma anche facciamo un salto nel
nostro. Che noi, spesso, si va a fare la spesa nei supermercati, anche se
questo ipertrofico Auchan non è sempre alla nostra portata. Ma io ne ricordo.
Dal normale Auchan di Portonaccio in Roma, a visite a esempi mirabili del
consumismo mondiale. Dai Tesco in Scozia alle Galeries Lafayette a Parigi, ma
soprattutto a quello che per me rimane l’emblema massimo, la catena Walmart in
America. Lì dove ho visto vendere di tutto (che le descrizioni della Ernaux ne
sono un pallido piccolo esempio), pieno lì si di tutto il mondo possibile. Ma,
e rimarrà per sempre nel mi immaginario personale, non scorderò mai la sezione
dedicata alle armi. Tu entri in un Conad americano, come Walmart, ed esci con
un fucile funzionante ed una scatola di munizioni. Ci sarebbero fiumi di parole
da spendere, ma per me queste parole sono state sufficienti a rappresentarmi
cosa siano, realmente, gli Stati Uniti d’America.
Torniamo
però allo scritto che stiamo leggendo. Non ho molti termini di paragone per
accostarmi alla scrittura della Ernaux, ma di certo è di una feroce abilità
quando, partendo da sé e dalle sue scorribande all’Auchan, le sue parole
prendono il largo e diventano manifesti, esortazioni, analisi critiche. C’è una
sottile abilità che le fa passare dal particolare al politico senza che noi
lettori se ne senta il salto quantico. Detto ciò, il testo in sé non mi ha
entusiasmato, non l’ho trovato una lettura coinvolgente. Bella, interessante,
cerebralmente stimolante, ma quasi (anche se non lo è) da saggio culturale.
Il
potere delle parole ci ammalia sin dalle prime righe, quando insieme ad Annie
entriamo nel grande parcheggio, cercando non solo di trovare un posto libero,
ma di trovarlo vicino all’entrata, un’esperienza che tutti abbiamo fatto. Poi
entriamo, giriamo, sentiamo le voci. C’è la fila alle casse, dove scegliamo
sempre quella più lenta, e malediciamo la signora che mette lentamente i suoi
oggetti sul nastro. Oggetti che poi rivelano le nostre scelte di vita, che
rivelano al mondo la nostra natura. Gente che vede gli yogurt piuttosto che gli
alimenti per celiaci che poniamo sul nastro in attesa del bip del commesso. Le
chiacchiere con la cassiera (io preferisco servirmi con il personale
femminile), ma anche il passaggio verso lo straniamento: le casse automatiche
impersonali che ci intimano di scansionare il prodotto.
Cosa
dire poi dei cartelli? Quelli bonari, nei reparti di lusso, quelli esortativi
nella libreria (non sfogliate i libri, le riviste, compratele), quelli
intimidatori nelle parti discount (non consumate il cibo all’interno del
supermercato). C’è tutto il potere della grande distribuzione, che si esercita,
anche, nelle scelte verso le grandi feste. Il Natale che spesso comincia già a
ottobre, la Pasqua che inizia a Carnevale, ma, con un sottile occhio alla
multietnicità ormai presente, i sempre maggiori reparti “sushi”, le offerte per
il ramadan (anche se questo aspetto è più presente in Francia che da noi).
Annie
Ernaux, poi, è sempre pronta ad un orecchio mirabilmente politico. Non solo per
quanto detto sulla scelta della distribuzione, ma sulle dimensioni personali,
ad esempio partendo da sé stessa, etichettata come “signora anziana che va a
fare la spesa”. Passando poi a ricordare anche avvenimenti lontani che
dovrebbero risuonare da monito: una fabbrica che crolla in Bangladesh dove
troviamo etichette Carrefour o Auchan tra le macerie.
È un
viaggio che si accompagnerebbe egregiamente con la lettura dei “Nonluoghi” di
Marc Augé. Anche se noi ci accontentiamo di girare con il nostro carrello tra
gli scaffali di Conad.
Un
elemento, anch’esso molto politico, mi ha poi colpito in contropiede. A pagina
28 parla di una donna nera davanti al banco del pesce. Da lì parte un lungo
inciso sul politicamente corretto, su come “etichettare” i non-bianchi, con la
conclusione che la cosa migliore è usare le parole che usiamo in genere, senza
troppi infingimenti. Ebbene, il contropiede è partito che io, alla lettura di
“donna nera” non avevo associato una signora di colore, ma molto più banalmente
una signora vestita di nero. Che scherzi fa il nostro cervello.
Vorrei
finire con un tocco di leggerezza, che tutto questo parlare di supermercati, mi
ha fatto tornare in mente uno dei brani più leggeri, indovinati, comici ma
anche no, di Aldo, Giovanni e Giacomo, nella scena del supermercato di
“Chiedimi se sono felice”. Laddove, spingendo un carrello tra i latticini, Aldo
cerca di indottrinare Giacomo sull’amore e sul manuale eponimo dei testi
amorosi, la canzone “Teorema” di Marco Ferradini. Una scena mitica, in un
supermercato, perché è lì che si può svolgere la vita. Perché Annie ci dice che
non vedrebbe Françoise Sagan fare la fila alle casse, mentre scorge, e noi con
lei, Georges Perec tra gli scaffali.
Spero
di leggere altro del recente Premio Nobel, che queste due prime letture, pur
soddisfacenti, non sono state del livello che mi sarei aspettato. Una facilità
ed una capacità di portare il particolare a livelli di esempi alti, ma nessuno
dei due realmente coinvolgente “di pancia”.
Annie Ernaux “Les années” Folio s.p. (Regalo di
Alessandra)
[A:
22/01/2023 – I: 08/02/2023 – T: 10/02/2023] - &&&&
[tit.
or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 254;
anno 2008]
Dopo
aver girato in tondo alla scrittrice premio Nobel 2022, approfittando di una
benedetta gita nella Ville Lumière, ho avuto in dono questo che viene
riconosciuto come il punto più alto e cruciale della scrittura di Annie Ernaux.
Giudizio che mi sento di condividere in pieno, anche se con qualche piccolo
distinguo e qualche commento marginale.
Soprattutto
ritengo che le ultime 15 pagine siano da incorniciare, per la lucidità con cui
spiega il suo modo di scrivere ed il perché lo scriva e ne scriva. È riuscita a
costruire un racconto autobiografico di tutta la sua esistenza, senza
utilizzare “io” e “me”, ma autoriferendosi in terza persona (modo di scrivere).
È riuscita ad inserire la sua vita nel contesto del mondo in cui ha vissuto, con
un’operazione da saggio sociologico di rara finezza. È riuscita infine in
un’ultima cosa su cui tornerò più avanti.
I
piccoli punti cui mi riferivo sopra sono da un lato legati alla difficoltà, per
le pagine iniziali, di penetrare il metodo e quindi di entrare in sintonia con
lo scritto. Non so se alcune delle righe finali fossero inserite nei primi
commenti alle foto, avrebbero potuto facilitare questo processo. D’altro canto,
è stata una sua scelta, e quindi, per lei, è giusto così. Ed io mi adeguo.
Dall’altro,
mi domando se, non conoscendo nulla della vita della scrittrice, la forza delle
sue parole sarebbe stata la stessa. Domanda senza controprova, che io, pur non
sapendone tutti i punti, ne avevo già una visione parziale ma discretamente
puntellata di caposaldi, così che per me è stato agevole seguirne l’evoluzione.
Ed altrettanto agevole comprendere le scorribande politiche e sociologiche che
sostanziano il testo con una robustezza oserei dire granitica.
Annie
confessa di avere da tempo, anche prima di immergersi in questa scrittura,
avuto l’idea di scrivere di sé e del suo mondo, e di aspettare quella scintilla
che le permettesse di capire quale fosse il (suo) modo giusto di parlarne.
Scintilla che scatta compulsando scatole di fotografie. Nasce così il suo
percorso, seguendo le sue foto, commentandole, scrivendole, e raccordandole con
gli avvenimenti che intercorrono tra l’una e l’altra.
Da
questi fili intrecciati nasce quindi da un lato il percorso di Annie, nata nel
1940 (lo stesso giorno di Franco Bitossi, tanto per dare un tocco personale) e
verso la soglia dei settanta anni quando termina il libro. Attraverso le foto,
prima in bianco e nero, poi virate, poi a colori, attraverso i primi filmini,
per finire con le espressioni digitali, si racconta e ci racconta. La scoperta
di una sorella morta qualche anno prima della sua nascita, l’evoluzione
personale e privata dal mondo contadino prima al mondo commerciale del suo
universo familiare. Poi il suo distacco attraverso gli studi, l’emancipazione (vera?
effimera?), gli studi universitari, il matrimonio e la nascita di due figli. Il
lavoro come insegnante, la difficoltà (impossibilità) di conciliare la gestione
privata della vita con le proprie aspirazioni. Il divorzio dopo diciassette
anni di matrimonio, la (forse) riconquistata voglia di vivere, gli amanti (il
russo, il giovane, e poi altri). L’aborto, ferita mai rimarginabile. Il
pensionamento, il senso attuale del vivere e dell’essere, forse sconfitto, di
certo non domo.
Tutto
ciò scandito, anche, da una lunga sequela di pranzi di famiglia, che si
evolvono anche loro con il tempo. I pranzi rigidi familiari della giovinezza,
le riunioni con gli amici, i figli piccoli, l’aria piena di fumo, i pranzi
dell’abbandono e della solitudine, quelli recuperati con i figli cresciuti, i
loro amici, le loro compagne. Si nota, palpabilmente, la variazione di senso di
ogni pranzo. Di come non sarebbe stato possibile, con i genitori, portare a
tavola persone conviventi non sposate. Di come sarebbe ora anacronistico
fissare regole e comportamenti verso gli altri, fossero i figli stessi, che
l’autoregolazione ed il rispetto sono diventati una chiave imprescindibile del
vivere odierno.
L’altro
filo parallelo ed imprescindibile è la Storia, che man mano diventa anche la
nostra storia. Nei primi venti anni è solo il progredire dal mondo chiuso della
costa normanna verso le città, per poi finire, immancabilmente, a Parigi. Poi,
quasi senza accorgercene, entrano altri filoni. Il marzo del ’53 con
quell’annuncio straniante (Stalin è morto). L’Ungheria del ’56, la Cuba del
’63, la morte di Kennedy. La deflagrazione del “Mai 68” (lo lascio in francese,
che “mai” non è il nostro “maggio”, è qualcosa di altro seppur uguale). Lo
sbarco sulla luna, la politicizzazione degli anni Settanta, l’inizio del
consumismo che dagli anni Ottanta ad oggi stravolge usi e costumi per portarci
all’oggi digitale (o al quasi oggi visto che ci si ferma a quindici anni fa).
Ci
sono, ovvio, molte cose prettamente francesi: Mitterand, Chirac, Colouche tanto
per citare qualche politico, ma anche Sylvie Vartan, la Gréco, Brassens, Brel
ed altre canzoni, o Sarte e Simone, ed altri eminenti francesi (non sempre
decrittabili da noi cugini d’oltralpe).
La
memoria e la penna della scrittrice vaga anche ad ondate, saltando passaggi,
tornando su temi già detti, ma da ripetere, attraversando guerre, politica e
società, usi, costumi, tecnologie, per raccontare le trame di una vita che è
molte vite, che, in parte (anche grande) è anche la nostra vita. Per realizzare,
infine, che il tempo è passato, la vecchiaia è vicina, le disillusioni tante e
cocenti.
Poi
quello scatto di reni, che serve a salvare brandelli di memoria che sono e
saranno irripetibilmente nostri. Questo è l’ultimo filo che avevo lasciato in
sospeso all’inizio. Un filo ora mia, delle notti di Assisi, del pane e
cioccolato, degli angoli nascosti al Pére Lachaise, della cena di 52 mezzé a
Beirut con il mio amico Paul, delle discussioni al casale, dell’ultimo piano di
Piazza Mazzini con zia Lisa, dei Natali con Nonna Bianca e tutta la tribù, del
caldo di Siviglia o del freddo a Capo Nord, degli aerei presi all’ultimo
momento e di quelli persi, dei tanti viaggi e dei tanti ritorni, di commozioni
grandi nelle foto con i miei fratelli piccoli, della felicità di sedere davanti
ad un prato, con Alessandra accanto.
Grazie,
allora, madame Ernaux, di aver scritto questo libro e di aver innescato onde
che non si placano. Hai fuso al fine la tua memoria, con la mia e con quella
del nostro mondo martoriato.
“Elle … a lu … comme si seuls les livres
récents étaient capables d’apporter le regard le plus juste sur le monde d’ici
et maintenant.” (91) [Lei... leggeva... come se solo i libri recenti
fossero in grado di fornire la visione più accurata del mondo, qui e ora]
“Je vais avoir cinquante ans, il serait
bien temps de me connaitre.” (215) [Sto per compiere cinquant'anni, è
ora di conoscere me stesso]
“Sauver quelque chose du temps où nous ne
sera plus jamais.” (254) [Salvare qualcosa dal tempo in cui non ci
saremo più]
Come
contraltare di una settimana al femminile, un po’ di ironia ligure con lo
scrittore psicologo Lorenzo
Licalzi, che, ne “Il privilegio di essere un guru” ironizza prima con l’atteggiamento da macho
del protagonista: “Non vorrei passare per un presuntuoso ma esercito un
certo fascino sulle donne. Eppure, non sono poi tutta questa bellezza, sono
passabile, diciamo, intrigante, forse, ma niente di più. L’esperienza,
d’accordo, la tecnica sopraffina che ho perfezionato negli anni, non bastano a
giustificare l’interesse che spesso suscito nelle donne. All’inizio magari no,
mi serve qualche ora, talvolta qualche giorno, raramente addirittura qualche
settimana di duro lavoro, ma poi lo sento che in loro scatta qualcosa, che
incominciano a guardarmi con occhi diversi” (10) e “Negli anni mi sono fatto
una certa cultura, ci sono materie su cui sono più preparato (quelle che hanno
maggior ascendente sulle donne: arte, poesia, letteratura, filosofia,
psicologia, medicina) e altre su cui zoppico un po’, ma non c’è argomento sul
quale non potrei fingermi un esperto. La cultura è uno strumento di lavoro
irrinunciabile, chiunque ti capiti, serve sempre, l’ignorante la stupisci, la
colta si stupisce” (12).
Per finire con quella massima che ovviamente
sottoscriviamo: “Era un estimatore della donna cuciniera … mi ricordo che
diceva: ‘femmina piccante pigghiatela come amante, femmina cuciniera
pigghiatela come mugliera’” (119).
Per il resto, si conferma per metà luglio una settimana turca, e si confermano gli auguri a tutti i miei coetanei che stanno compiendo augusti genetliaci, a tutti gli sposi nuovi o novelli, ed a tutti i miei amici, sempre e comunque.
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