domenica 11 giugno 2023

Donne e Nobel - 11 giugno 23

Una settimana dedicata alle donne, cui casualmente il nome comincia per “A”. Ma soprattutto imperniata su alcune letture del premio Nobel Annie Ernaux. Dei libri che mi sono stati regalati, “Gli Anni”, oltre che letto in originale che ha dato un bel senso alle parole, si stacca di molto dal resto. Penso che se leggerete quanto ne scrivo, si capirà.

Ma anche l’Islanda e l’India sono qui ben rappresentati da due scrittrici di buon calibro e di ottima riuscita. Non sorprende Auđur, di cui ho già letto altro ed apprezzato. Un po’ invece il libro di Anita, ambientato nei treni indiani, che anche io ho usato e ne conservo ricordi.

Auđur Ava Ólafsdóttir “Hotel Silence” Einaudi euro 12

[A: 14/07/2021 – I: 18/08/2022 – T: 20/08/2022] &&& e ½  

[tit. or.: Ör; ling. or.: islandese; pagine 188; anno 2016]

Sembra quasi una coincidenza casuale, ma ogni volta che mi avvicino all’Islanda, subito prima o subito dopo, mi imbatto nella lettura di un libro di Auður figlia di Olafus e di Sigríður. Fu così nel 2013, con “Rosa candida”, che avevo commentato, tra l’altro, dicendo che anche quando si svolge fuori d’Islanda, l’isola è presente. Fu ancora così nel 2016, con “La donna è un’isola” dove, profeticamente, avevo ribadito la mia volontà di percorrere ancora una volta il Ring.

È stato così con il mio terzo viaggio, a valle del quale ho letto il presente libro. Imparando a conoscere meglio anche Auður, non solo storica dell’arte e scrittrice, ma anche conoscitrice dell’Italia e della nostra lingua, avendo studiato a Bologna una quarantina d’anni fa.

Venendo al testo, devo dire che, pur restando su livelli elevati, rimane un filo sotto i due precedenti. Sono sempre convinto che ci sia sempre la capacità della traduzione di rendere il testo a far pendere qualche mezzo voto qua e là. Qui, al solito, c’è anche il titolo. Che in originale sta per “cicatrice”, come ben riporta la seconda delle due parti del romanzo, la prima essendo intitolata “carne”. Gli editori internazionali (non solo gli italiani) hanno invece preferito intitolarlo ad uno dei siti dove si svolge il romanzo, lo strano, inquietante, ma alla fine anche co-protagonista del testo, l’Hotel Silence.

Un’altra particolarità, che si intuiva dalla scrittura, ma che ho scoperto a posteriori, è che doveva essere un testo teatrale. In effetti, per quasi tutto il testo assistiamo al flusso di coscienza, anche se ben organizzato, di Jonás. Abbastanza facile vederlo in commedia, anche se la seconda parte prevede più personaggi, più movimenti. Comunque, il libro è diventato teatro dopo essere uscito, quindi, ora, lo prendiamo così com’è.

Un testo sul disagio, sull’amore, sulla morte. Elementi che sembrano sempre presenti nella letteratura islandese. I primi due molto legati, che dove c’è disagio si cerca (a volte) di superarlo con l’amore. Anche se un malsano rapporto tra i due termini porta più disastri che benefici. La morte, ed il suicidio in particolare, sono poi una costante presenza di molta letteratura nordica. Chi ha visitato quei posti, chi ne ha conosciuto gli abitanti, ne può capire il senso. Spesso, quando c’è disperazione, l’isolamento, la mancanza di connessioni tangibili con l’altro, porta a decidere che, forse, è meglio togliersi di mezzo.

Che è quello che vorrebbe fare Jonás. Ha quarantanove anni, una madre con la demenza senile, un matrimonio andato a rotoli, ed una figlia non biologica. Anzi il matrimonio, già traballante di suo, ha proprio cessato di essere quando la moglie Guðrun gli confessa che la figlia che ha cresciuto, Guðrun anch’essa come la nonna, è frutto di un rapporto casuale di poco precedente al loro incontro.

La prima parte è un po’ pallosa, con Jonás che ci racconta i mille modi in cui vuole farla finita, decidendo al fine che è meglio morire lontano da casa, così che la figlia non sia costretta a trovare il suo corpo senza vita. Decide così di partire per un paese in cui da poco è finita una guerra civile (se non fossimo negli anni ’10, poteva essere la Bosnia, ma in fondo, vale per ovunque, anche per l’Ucraina tra qualche tempo), verso quell’Hotel Silence del titolo.

Lì si trova a confrontarsi con realtà diverse, che hanno vissuto la morte da vicino, con mariti, figli, mogli, uccisi da bombe o massacrati da soldati senza regole. Si trova a doversi confrontare sia con altri stranieri (un’attrice, un depredatore di reperti archeologici), sia con i locali martoriati. In particolare, con i due fratelli che gestiscono l’hotel, Fifì e Maí e con il piccolo Adam. Jonás, di poche parole (e qui, in terra straniera, nessuno conosce l’islandese) lavorava in una ditta di aggiustatutto. Qui, per necessità e costrizione, si trova ad essere richiesto di metter mano a quella sua (unica) abilità.

Così, ricostruendo docce, lampade, mobilio, pagina dopo pagina, assistiamo alla ricostruzione di sé stesso. Una ricostruzione che parte usando la cassetta degli attrezzi che aveva portato con sé, con un trapano, una corda, chiodi e nastro adesivo, per costruire l’ingresso nel regno dei morti. Ricostruzione non solo morale, anche fisica, quando riuscirà, dopo otto anni e cinque mesi, a fare di nuovo all’amore (certo non vi dico con chi). Ricostruzione che passa anche accettando la malattia della madre, ed accogliendo la figlia che lo convince, da lontano ma con parole da sottolineare, come lui e soltanto lui è e possa essere suo padre.

Il libro comincia il 5 maggio (e già questo è da sottolineare) e termina il 17 giugno, con una svolta forse diversa da quella che ci si aspettava per tutto il testo, ma da leggere.

In realtà, poi, è molto più poesia che teatro, ed è comunque un inno alla pace, un invito a riscoprire tutto l’umano che è in noi. Soprattutto ora, da poco usciti da una dura pandemia e da sei mesi piombati nell’orrore di una guerra.

Ma soprattutto, è intrinsecamente islandese. Anche lontano dall’isola, Jonás incarna con forza l’anima isolana: bricolage, che dove tutto manca bisogna saper fare, solitudine, introspezione, difficoltà quindi nel rapportarsi all’altro in maniera profonda. Si beve birra insieme, ma si riesce ad essere amici? Ed anche capacità, una volta scoperto che non vuoi ferirmi, di entrare in sintonia, di essere per l’altro.

Mi piace, Auður e continuerò a leggerne, anche se, come detto, la prima parte del testo è un po’ lenta ed incartata. Fortuna che ci sono le cicatrici, di Jonás, di Guðrun, di Maí che, come nel giapponese “kintsugi” non vanno nascoste, ma sottolineate con l’oro.

Anita Nair “Cuccette per signora” Guanda euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)

[A: 27/01/2020 – I: 11/12/2022 – T: 13/12/2022] - &&& e ½ 

[tit. or.: Ladies Coupé; ling. or.: inglese; pagine: 332; anno 2001]

Anita Nair è un’interessante scrittrice indiana, di cui ho letto qualcosa nella scorsa decade. Nata in Kerala, stato del sud indiano che ho trovato molto interessante visitare, da sempre vive a Bengalûru (che sarebbe il nome indiano di Bangalore). E lì ambienta la quasi totalità dei suoi romanzi. Come questo, che in effetti è il suo secondo romanzo, ed è ancora pieno dei suoi fermenti giovanili (benché scritto già oltre trentenne).

Un cenno merita l’intraducibile titolo inglese. In effetti, sino al 1998, in coda ai treni, specialmente notturni, erano posti dei vagoni chiamati in inglese “Ladies Coupé”. Intraducibile indicazione, che in tutte le traduzioni del libro in giro per il mondo viene tradotta con “Cuccette per signora”, ad indicare appunto uno scompartimento dedicato all’uso solo di donne. Io lo avrei posto al plurale, che sono vagoni letto a sei posti, che anche io ho utilizzato nei miei viaggi indiani (ora non più riservati alle donne). C’è un sedile-cuccetta in basso, uno in alto, e lo schienale del sedile in basso diventa la cuccetta di mezzo.

Di passaggio ricordo che non è una caratteristica solo dei treni, ma, ad oggi, esistono, nelle ore di punta, vagoni riservati alle donne nelle metropolitane. Io ne ho incontrati a Delhi e Cairo.

Tornando al testo, Anita Nair ci narra la storia di Akhilandeshwari detta Akhila, che a 45 anni, dopo una vita dedicata alla famiglia, decide di intraprendere un viaggio. Prima di 4 figli, a 19 anni, morto il padre travolto da un autobus nel caotico traffico indiano, ne eredita il posto all’Ufficio delle Tasse, e con il suo stipendio mantiene la famiglia. I fratelli si sposano, lei ha una piccola storia d’amore che non porta a compimento per non lasciare la famiglia, muore anche la madre. Così Akhila si trova avanti negli anni, per la società indiana, e zitella.

Ponendosi allora la domanda cruciale che permea il libro (“una donna ha bisogno di un uomo per completarla o può rimanere single e felice?”), decide di intraprendere un viaggio, sola e verso il Sud, puntando ad arrivare a Kanyakumari nel Tamil Nandù, la punta più meridionale dell’India. Un viaggio che ora, venticinque anni dopo e con treni più moderni, consta di circa 13 ore di treno. Viaggio che intraprende appunto nelle cuccette a 6, dove incontra cinque donne. Nel corso della lunga notte e del primo mattino di viaggio, le donne parlano, si confessano, stimolate da Akhila che si appende sempre a quella domanda.

Il libro a questo punto diventa una sorta di raccolta di piccoli racconti. Dieci capitali, dove i dispari narrano la vita nel treno, ed i pari sono dedicati ognuno ad una delle donne.

Così nella ricerca della propria identità Akhila incontra Janaki, una donna anziana che si è completamente annullata dietro l’ombra protettiva del marito. Quindi è la volta di Margaret Shanti, brillante insegnante di chimica che fa un matrimonio sballato con il suo preside, che scopre tiranno, ma che riconduce alla ragione riempiendolo di cibo (e facendole ingrassare oltre misura). C’è poi Prabha Devi che narra la sua vita di madre e moglie perfetta, fino a che non scopre l’esistenza di una piscina che cambierà la sua vita.

I racconti terminano con le più giovani. Prima la quattordicenne Sheela, che vede negli altri quello che gli altri non vedono. Un dono che le servirà per accudire la nonna negli ultimi istanti della di lei vita. Finendo con Marikolanthu, ragazza di belle speranze, la cui vita viene distrutta da uno stupro, cui seguono a cena altre conseguenti disgrazie. Inciso fuori contesto, il nome della protagonista di questo ultimo racconto è il termine sanscrito per indicare la maggiorana.

Sarà nell’ultimo e undicesimo capitolo che finalmente Akhila parla in prima persona, prendendo consapevolmente alcune decisioni, alcune condivisibili, altre meno, ma, alla buona ora, fatte in prima persona. Anche qui, facciamo una piccola digressione dal sanscrito dove Akhila indica l’Universo, ed il termine complesso Akhilandeshwari indica una divinità conosciuta come “Lei che non può essere mai spezzata”. Forse la scrittrice voleva dirci qualcosa con questi nomi?

Come detto, la costruzione del testo non è fluida, che i racconti spezzano assai il corso della narrazione. Ma da tutte si evince il filo rosso del testo: in tutte e situazioni descritte le donne contano poco, sono sempre colpevoli (stuprate perché vestono alla moda, impedite negli studi, ed altro che potete immaginare). Di certo esce con forza una fotografia non certo postivi della società indiana, dove la donna deve, nell’ordine, accudire la casa, cucinare, sottostare ai comandi dei maschi di casa, e, laddove mancano, forse trovare sostentamento solo vendendo il proprio corpo.

Purtroppo, e lo vediamo quotidianamente, pur con le dovute modifiche dovute ai tempi ed ai luoghi, non è che anche nella società occidentale la donna sia trattata in modo migliore. In ogni caso, oltre alla fotografia della pessima considerazione del mondo femminile, abbiamo alcuni risvolti etnograficamente positiva che escono fuori dal narrato. Il modo di vestire, ad esempio, con i diversi colori e tessuti delle sari (ora, il mio dizionario riporta “il” sari mentre in tutto il testo viene indicato con “la” sari; mistero). Le cavigliere portate solo se si cerca marito. E la meravigliosa cucina dell’India del Sud, dove, con grande intelligenza, viene riproposto in finale di libro, un piccolo ricettario delle principali pietanze citate.

Un libro che forse ha qualche anno, che forse non scorre sempre al meglio, ma che ha il merito, per chi ne sa intraprendere una lettura non superficiale, di farci riflettere. Forse poco cambierà che chi legge il libro ha già una mente più ordinato, e chi maltratta le donne non leggerà questo libro. Ma c’è sempre una piccola speranza in fondo al cuore.

“Spesso succedeva che, come sua madre pensava qualcosa, suo padre esprimesse ad alta voce esattamente quello stesso sentimento nel giro di una frazione di secondo e sua madre allora diceva ‘Stavo per dirlo’” (18)

“Allevare una figlia è un’occupazione a tempo pieno.” (201) [se ne può parlare]

Annie Ernaux “Il ragazzo” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 29/12/2022 – T: 29/12/2022] - &&&

[tit. or.: Le Jeune Homme; ling. or.: francese; pagine: 58; anno 2022]

In effetti, da quando ha ricevuto il Nobel, a me ronza nell’orecchio l’idea di leggere uno dei suoi libri, ma qualcosa mi aveva sempre frenato. Un retropensiero che rumoreggiava dicendo guarda è troppo intimista, è troppo basata su ricordi, sembra fredda. Fatto sta che, invece, i nostri amici delle lezioni ventennali di lingua, che si riuniscono (almeno) una volta l’anno in dolce convivio, hanno regalato, a me ed Ale, ben due libri della scrittrice francese.

Come tante altre cose, io e Ale abbiamo deciso di condividere questi regali, senza etichettarli come regalo mio da parte di, o simili banalità. Sono regali della nostra combriccola amicale, e noi li leggeremo così. poi, io ne parlerò.

Ed è proprio così che in questa fine d’anno campagnolo, dopo essere passato nelle sue mani, che non ne sono state entusiaste, lo leggo io. È il più agile e scorre via, mentre preparo la colazione per iniziare degnamente uno degli ultimi giorni di questo 2022.

Il testo scorre in un battibaleno, anche perché, per raggiungere le 58 pagine, al testo, sono stati aggiunti tre interventi fatti dalla scrittrice tra il 2013 ed il 2016. Questi testi posticci non aggiungono molto al panorama generale, se non il primo, “Scrittura e memoria”, che disegna un utile ed interessante ponte tra il ricordo, sempre presente in ognuno di noi, e la scrittura che Annie riesce a produrre, ad esempio riandando spesso nella natia Yvetot, sovente citata solo come “Y.”, e riuscendo a narrare di sé facendone diventare una scrittura dove ognuno si può ritrovare. Una scrittura dove, a ben guardare, si parla di noi, della nostra vita in città, dagli anni della scuola e dello studio al lavoro, dai matrimoni ai divorzi, dai figli avuti e da quelli non avuti. Capisco, sentendo questo intervento letto a Roma al mitico “Festival delle Letterature”, come e perché la scrittrice sia stata insignita del Premio Nobel.

Il breve testo, che si riduce al fine in una trentina di pagine, stampate anche a caratteri larghi, ha la prima difficoltà nel titolo italiano. Laddove, per noi, “ragazzo” si intende un individuo che sta varcando la soglia della fanciullezza per percorrere il breve tratto dell’ultima giovinezza. Al contrario, “jeune homme” indica piuttosto un giovanotto, così come in effetti risulta dal testo. Non ne consociamo il nome, ma solo la funzione, quella di spalla alla matura narratrice.

Chi scrive è oltre i cinquanta, mentre il giovanotto lo collocherei tra i venti ed i venticinque. Il rapporto tra i due è decisamente squilibrato, anche se Annie si sente mentore più che madre. Ma nelle poche pagine analizza i vari stati d’animo. Il bisogno, la necessità di sentirsi giovane, e di sentirlo scrivendo. Ma scrivere è un’attività faticosa, e solo dopo un sano incontro di sensi, lei si sente in grado di abbassare le difese e por mano alla penna.

Tuttavia, è anche con lo sguardo di chi fotografa la realtà che sta vivendo, che vede sé stessa in compagnia del giovane amante, e soprattutto, nei convivi con i coetanei di lui. Se trasportiamo il tutto in questi anni Venti, come vedete una persona matura che si accompagna con giovani attenti soltanto a mandare messaggi, fare selfie, ed utilizzare il mondo social per comunicare, scordandosi che, forse, esiste anche la parola per scambiarsi le impressioni sul mondo. Straniante. Come estranea sente lei quel mondo.

Eppure, è bello sentirsi vivi, anche quando gli sguardi altrui son pieni di rimproveri e domande. Nel breve termine delle poche pagine, si svolge tutto il mondo, ed il mondo di Annie, quel mondo, termina quando Annie riesce a produrre uno dei suoi libri più dolenti. In quel finale dello scorso secolo, quando riuscì a parlare del suo aborto e delle sue sofferenze. Ponendo fuori da sé quel testo, capisce anche che la storia con il giovane amante è giunta al suo termine naturale, consentendole di andare avanti.

Consentendole di scrivere una frase che starebbe bene anche sulla pena di Garcia Marquez: "Se non le scrivo, le cose non sono arrivate fino al loro termine, sono state solo vissute". Ora sono vivo e sono buone per essere raccontate. Una frase che racchiude molto del mondo di Annie Ernaux, meglio di quella posta nella quarta di copertina, quasi tesa ad accalappiare incauti lettori: “spesso ho fatto l'amore per obbligarmi a scrivere”. Non commento di più, che poi dite che sto diventando un acido anziano.

Comunque, come prima prova di lettura, pur non esaltandomi come altri scrittori che avrebbero meritato il Nobel e non l’hanno avuto (come il mio amato Oz), è in ogni caso una scrittura che, nella sua semplicità sembra possa aprire mondi. Staremo a vedere.

Annie Ernaux “Guarda le luci, amore mio” L’Orma editore s.p. (Natale degli Arabini)

[A: 25/12/2022 – I: 04/01/2023 – T: 05/01/2023] - &&+

[tit. or.: Regarde les lumières mon amour; ling. or.: francese; pagine: 107; anno 2014]

Secondo libro dell’ultimo Nobel, ma ancora lontano dalla voglia di leggere i suoi libri maggiori (e in particolare “Gli anni” che prima o poi affronterò).

Dopo il breve assaggio del veloce “Il ragazzo”, qui siamo ancora in una dimensione diversa del raccontare. Il testo nasce da una richiesta dell’editore Seuil, che propone una collana dal titolo “Raccontare la vita”. Annie prende la sfida al balzo e decide di impiantare un racconto diaristico sulle sue periodiche visite ad un supermercato. Siamo a Clergy, una ventina di chilometri a nord di Parigi. C’è un centro commerciale, “Les Trois fontaines”, con tutti i negozi tipici di un tale centro. Librerie, parafarmacie, ma soprattutto Auchan, con tutto il fulgore e la prosopopea consumistica di un supermercato di livello. Non nel solo senso che sia per persone agiate, ma perché riesce a diversificare i suoi scaffali per ogni livello di consumistico frequentatore.

Dal suo diario di un anno, circa, di frequentazione, la scrittrice estrapola brani, impressioni, descrizioni, parole (che quelle sono la sua merce), ed attraverso le sue osservazioni noi entriamo nel suo mondo, ma anche facciamo un salto nel nostro. Che noi, spesso, si va a fare la spesa nei supermercati, anche se questo ipertrofico Auchan non è sempre alla nostra portata. Ma io ne ricordo. Dal normale Auchan di Portonaccio in Roma, a visite a esempi mirabili del consumismo mondiale. Dai Tesco in Scozia alle Galeries Lafayette a Parigi, ma soprattutto a quello che per me rimane l’emblema massimo, la catena Walmart in America. Lì dove ho visto vendere di tutto (che le descrizioni della Ernaux ne sono un pallido piccolo esempio), pieno lì si di tutto il mondo possibile. Ma, e rimarrà per sempre nel mi immaginario personale, non scorderò mai la sezione dedicata alle armi. Tu entri in un Conad americano, come Walmart, ed esci con un fucile funzionante ed una scatola di munizioni. Ci sarebbero fiumi di parole da spendere, ma per me queste parole sono state sufficienti a rappresentarmi cosa siano, realmente, gli Stati Uniti d’America.

Torniamo però allo scritto che stiamo leggendo. Non ho molti termini di paragone per accostarmi alla scrittura della Ernaux, ma di certo è di una feroce abilità quando, partendo da sé e dalle sue scorribande all’Auchan, le sue parole prendono il largo e diventano manifesti, esortazioni, analisi critiche. C’è una sottile abilità che le fa passare dal particolare al politico senza che noi lettori se ne senta il salto quantico. Detto ciò, il testo in sé non mi ha entusiasmato, non l’ho trovato una lettura coinvolgente. Bella, interessante, cerebralmente stimolante, ma quasi (anche se non lo è) da saggio culturale.

Il potere delle parole ci ammalia sin dalle prime righe, quando insieme ad Annie entriamo nel grande parcheggio, cercando non solo di trovare un posto libero, ma di trovarlo vicino all’entrata, un’esperienza che tutti abbiamo fatto. Poi entriamo, giriamo, sentiamo le voci. C’è la fila alle casse, dove scegliamo sempre quella più lenta, e malediciamo la signora che mette lentamente i suoi oggetti sul nastro. Oggetti che poi rivelano le nostre scelte di vita, che rivelano al mondo la nostra natura. Gente che vede gli yogurt piuttosto che gli alimenti per celiaci che poniamo sul nastro in attesa del bip del commesso. Le chiacchiere con la cassiera (io preferisco servirmi con il personale femminile), ma anche il passaggio verso lo straniamento: le casse automatiche impersonali che ci intimano di scansionare il prodotto.

Cosa dire poi dei cartelli? Quelli bonari, nei reparti di lusso, quelli esortativi nella libreria (non sfogliate i libri, le riviste, compratele), quelli intimidatori nelle parti discount (non consumate il cibo all’interno del supermercato). C’è tutto il potere della grande distribuzione, che si esercita, anche, nelle scelte verso le grandi feste. Il Natale che spesso comincia già a ottobre, la Pasqua che inizia a Carnevale, ma, con un sottile occhio alla multietnicità ormai presente, i sempre maggiori reparti “sushi”, le offerte per il ramadan (anche se questo aspetto è più presente in Francia che da noi).

Annie Ernaux, poi, è sempre pronta ad un orecchio mirabilmente politico. Non solo per quanto detto sulla scelta della distribuzione, ma sulle dimensioni personali, ad esempio partendo da sé stessa, etichettata come “signora anziana che va a fare la spesa”. Passando poi a ricordare anche avvenimenti lontani che dovrebbero risuonare da monito: una fabbrica che crolla in Bangladesh dove troviamo etichette Carrefour o Auchan tra le macerie.

È un viaggio che si accompagnerebbe egregiamente con la lettura dei “Nonluoghi” di Marc Augé. Anche se noi ci accontentiamo di girare con il nostro carrello tra gli scaffali di Conad.

Un elemento, anch’esso molto politico, mi ha poi colpito in contropiede. A pagina 28 parla di una donna nera davanti al banco del pesce. Da lì parte un lungo inciso sul politicamente corretto, su come “etichettare” i non-bianchi, con la conclusione che la cosa migliore è usare le parole che usiamo in genere, senza troppi infingimenti. Ebbene, il contropiede è partito che io, alla lettura di “donna nera” non avevo associato una signora di colore, ma molto più banalmente una signora vestita di nero. Che scherzi fa il nostro cervello.

Vorrei finire con un tocco di leggerezza, che tutto questo parlare di supermercati, mi ha fatto tornare in mente uno dei brani più leggeri, indovinati, comici ma anche no, di Aldo, Giovanni e Giacomo, nella scena del supermercato di “Chiedimi se sono felice”. Laddove, spingendo un carrello tra i latticini, Aldo cerca di indottrinare Giacomo sull’amore e sul manuale eponimo dei testi amorosi, la canzone “Teorema” di Marco Ferradini. Una scena mitica, in un supermercato, perché è lì che si può svolgere la vita. Perché Annie ci dice che non vedrebbe Françoise Sagan fare la fila alle casse, mentre scorge, e noi con lei, Georges Perec tra gli scaffali.

Spero di leggere altro del recente Premio Nobel, che queste due prime letture, pur soddisfacenti, non sono state del livello che mi sarei aspettato. Una facilità ed una capacità di portare il particolare a livelli di esempi alti, ma nessuno dei due realmente coinvolgente “di pancia”.

Annie Ernaux “Les années” Folio s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 22/01/2023 – I: 08/02/2023 – T: 10/02/2023] - &&&&

[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 254; anno 2008]

Dopo aver girato in tondo alla scrittrice premio Nobel 2022, approfittando di una benedetta gita nella Ville Lumière, ho avuto in dono questo che viene riconosciuto come il punto più alto e cruciale della scrittura di Annie Ernaux. Giudizio che mi sento di condividere in pieno, anche se con qualche piccolo distinguo e qualche commento marginale.

Soprattutto ritengo che le ultime 15 pagine siano da incorniciare, per la lucidità con cui spiega il suo modo di scrivere ed il perché lo scriva e ne scriva. È riuscita a costruire un racconto autobiografico di tutta la sua esistenza, senza utilizzare “io” e “me”, ma autoriferendosi in terza persona (modo di scrivere). È riuscita ad inserire la sua vita nel contesto del mondo in cui ha vissuto, con un’operazione da saggio sociologico di rara finezza. È riuscita infine in un’ultima cosa su cui tornerò più avanti.

I piccoli punti cui mi riferivo sopra sono da un lato legati alla difficoltà, per le pagine iniziali, di penetrare il metodo e quindi di entrare in sintonia con lo scritto. Non so se alcune delle righe finali fossero inserite nei primi commenti alle foto, avrebbero potuto facilitare questo processo. D’altro canto, è stata una sua scelta, e quindi, per lei, è giusto così. Ed io mi adeguo.

Dall’altro, mi domando se, non conoscendo nulla della vita della scrittrice, la forza delle sue parole sarebbe stata la stessa. Domanda senza controprova, che io, pur non sapendone tutti i punti, ne avevo già una visione parziale ma discretamente puntellata di caposaldi, così che per me è stato agevole seguirne l’evoluzione. Ed altrettanto agevole comprendere le scorribande politiche e sociologiche che sostanziano il testo con una robustezza oserei dire granitica.

Annie confessa di avere da tempo, anche prima di immergersi in questa scrittura, avuto l’idea di scrivere di sé e del suo mondo, e di aspettare quella scintilla che le permettesse di capire quale fosse il (suo) modo giusto di parlarne. Scintilla che scatta compulsando scatole di fotografie. Nasce così il suo percorso, seguendo le sue foto, commentandole, scrivendole, e raccordandole con gli avvenimenti che intercorrono tra l’una e l’altra.

Da questi fili intrecciati nasce quindi da un lato il percorso di Annie, nata nel 1940 (lo stesso giorno di Franco Bitossi, tanto per dare un tocco personale) e verso la soglia dei settanta anni quando termina il libro. Attraverso le foto, prima in bianco e nero, poi virate, poi a colori, attraverso i primi filmini, per finire con le espressioni digitali, si racconta e ci racconta. La scoperta di una sorella morta qualche anno prima della sua nascita, l’evoluzione personale e privata dal mondo contadino prima al mondo commerciale del suo universo familiare. Poi il suo distacco attraverso gli studi, l’emancipazione (vera? effimera?), gli studi universitari, il matrimonio e la nascita di due figli. Il lavoro come insegnante, la difficoltà (impossibilità) di conciliare la gestione privata della vita con le proprie aspirazioni. Il divorzio dopo diciassette anni di matrimonio, la (forse) riconquistata voglia di vivere, gli amanti (il russo, il giovane, e poi altri). L’aborto, ferita mai rimarginabile. Il pensionamento, il senso attuale del vivere e dell’essere, forse sconfitto, di certo non domo.

Tutto ciò scandito, anche, da una lunga sequela di pranzi di famiglia, che si evolvono anche loro con il tempo. I pranzi rigidi familiari della giovinezza, le riunioni con gli amici, i figli piccoli, l’aria piena di fumo, i pranzi dell’abbandono e della solitudine, quelli recuperati con i figli cresciuti, i loro amici, le loro compagne. Si nota, palpabilmente, la variazione di senso di ogni pranzo. Di come non sarebbe stato possibile, con i genitori, portare a tavola persone conviventi non sposate. Di come sarebbe ora anacronistico fissare regole e comportamenti verso gli altri, fossero i figli stessi, che l’autoregolazione ed il rispetto sono diventati una chiave imprescindibile del vivere odierno.

L’altro filo parallelo ed imprescindibile è la Storia, che man mano diventa anche la nostra storia. Nei primi venti anni è solo il progredire dal mondo chiuso della costa normanna verso le città, per poi finire, immancabilmente, a Parigi. Poi, quasi senza accorgercene, entrano altri filoni. Il marzo del ’53 con quell’annuncio straniante (Stalin è morto). L’Ungheria del ’56, la Cuba del ’63, la morte di Kennedy. La deflagrazione del “Mai 68” (lo lascio in francese, che “mai” non è il nostro “maggio”, è qualcosa di altro seppur uguale). Lo sbarco sulla luna, la politicizzazione degli anni Settanta, l’inizio del consumismo che dagli anni Ottanta ad oggi stravolge usi e costumi per portarci all’oggi digitale (o al quasi oggi visto che ci si ferma a quindici anni fa).

Ci sono, ovvio, molte cose prettamente francesi: Mitterand, Chirac, Colouche tanto per citare qualche politico, ma anche Sylvie Vartan, la Gréco, Brassens, Brel ed altre canzoni, o Sarte e Simone, ed altri eminenti francesi (non sempre decrittabili da noi cugini d’oltralpe).

La memoria e la penna della scrittrice vaga anche ad ondate, saltando passaggi, tornando su temi già detti, ma da ripetere, attraversando guerre, politica e società, usi, costumi, tecnologie, per raccontare le trame di una vita che è molte vite, che, in parte (anche grande) è anche la nostra vita. Per realizzare, infine, che il tempo è passato, la vecchiaia è vicina, le disillusioni tante e cocenti.

Poi quello scatto di reni, che serve a salvare brandelli di memoria che sono e saranno irripetibilmente nostri. Questo è l’ultimo filo che avevo lasciato in sospeso all’inizio. Un filo ora mia, delle notti di Assisi, del pane e cioccolato, degli angoli nascosti al Pére Lachaise, della cena di 52 mezzé a Beirut con il mio amico Paul, delle discussioni al casale, dell’ultimo piano di Piazza Mazzini con zia Lisa, dei Natali con Nonna Bianca e tutta la tribù, del caldo di Siviglia o del freddo a Capo Nord, degli aerei presi all’ultimo momento e di quelli persi, dei tanti viaggi e dei tanti ritorni, di commozioni grandi nelle foto con i miei fratelli piccoli, della felicità di sedere davanti ad un prato, con Alessandra accanto.

Grazie, allora, madame Ernaux, di aver scritto questo libro e di aver innescato onde che non si placano. Hai fuso al fine la tua memoria, con la mia e con quella del nostro mondo martoriato.

“Elle … a lu … comme si seuls les livres récents étaient capables d’apporter le regard le plus juste sur le monde d’ici et maintenant.” (91) [Lei... leggeva... come se solo i libri recenti fossero in grado di fornire la visione più accurata del mondo, qui e ora]

“Je vais avoir cinquante ans, il serait bien temps de me connaitre.” (215) [Sto per compiere cinquant'anni, è ora di conoscere me stesso] 

“Sauver quelque chose du temps où nous ne sera plus jamais.” (254) [Salvare qualcosa dal tempo in cui non ci saremo più]

Come contraltare di una settimana al femminile, un po’ di ironia ligure con lo scrittore psicologo Lorenzo Licalzi, che, ne “Il privilegio di essere un guru” ironizza prima con l’atteggiamento da macho del protagonista: “Non vorrei passare per un presuntuoso ma esercito un certo fascino sulle donne. Eppure, non sono poi tutta questa bellezza, sono passabile, diciamo, intrigante, forse, ma niente di più. L’esperienza, d’accordo, la tecnica sopraffina che ho perfezionato negli anni, non bastano a giustificare l’interesse che spesso suscito nelle donne. All’inizio magari no, mi serve qualche ora, talvolta qualche giorno, raramente addirittura qualche settimana di duro lavoro, ma poi lo sento che in loro scatta qualcosa, che incominciano a guardarmi con occhi diversi” (10) e “Negli anni mi sono fatto una certa cultura, ci sono materie su cui sono più preparato (quelle che hanno maggior ascendente sulle donne: arte, poesia, letteratura, filosofia, psicologia, medicina) e altre su cui zoppico un po’, ma non c’è argomento sul quale non potrei fingermi un esperto. La cultura è uno strumento di lavoro irrinunciabile, chiunque ti capiti, serve sempre, l’ignorante la stupisci, la colta si stupisce” (12).

Per finire con quella massima che ovviamente sottoscriviamo: “Era un estimatore della donna cuciniera … mi ricordo che diceva: ‘femmina piccante pigghiatela come amante, femmina cuciniera pigghiatela come mugliera’” (119).

Per il resto, si conferma per metà luglio una settimana turca, e si confermano gli auguri a tutti i miei coetanei che stanno compiendo augusti genetliaci, a tutti gli sposi nuovi o novelli, ed a tutti i miei amici, sempre e comunque. 

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