domenica 8 ottobre 2023

Settimana donna - 08 ottobre 2023

Visti anche i compleanni femminili del periodo, una settimana di scrittura al femminile. Dove le scrittrici italiane fanno un notevole balzo. Di sicuro per merito di Francesca Melandri con il bel libro sull’immigrazione (grazie Anto), ma anche per le due giovani autrici, Lorenza Gentile e Federica Bressan, con due libri di taglio diverso ma di buona resa. Le straniere sono guidate da un interessante libro di Julie Otsuka, anch’esso sull’immigrazione, ma dal Giappone verso l’America. Chiude quello che pensavo fossi il migliore, di Attia Hossein sulle donne in India.

Federica Bressan “Nel cuore della Tuscia” Edizioni Sette Città s.p. (Regalo di Cristina)

[A: 09/04/2023 – I: 23/04/2023 – T: 24/04/2023] &&& --- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 84; anno: 2022]

Inaspettato, gradito ed anche un po’ sorprendente regalo pasquale di una delle mie cognate. Inaspettato che non sono aduso ricevere regali pasquali. Gradito che un libro è sempre e comunque gradito, sia esso bello, brutto, o come vi pare. Sorprendente che, nelle more di un discorso che andremo ad analizzare, mi ha permesso di fare un giro turistico nelle mie zone da “buen retiro”, non solo tra le montagne ciminesi, ma anche verso il mare Toscano e l’Argentario. Cosa chiedere di più?

Intanto, direi che, anche se poi estrapola qualche discorso, c’è una grossa vena di autobiografia nella storia raccontata. La protagonista, dopo molto girare, in Italia e nel mondo, trova il “suo” posto nell’Alto Lazio, a Blera. Federica Bressan, dalla natia Gorizia, dopo laurea ed altro, trova la sua strada nella comunicazione scientifica e finisce per installarsi per l’appunto a Blera.

La storia, di cui si ricavano sprazzi, nasce da un doloroso addio (con fidanzato, o compagno o altro, che credo di ricordare si chiami Fabrizio o Francesco), con Federica che si ritrova, sola e sfiduciata, in quel di Blera. Lì, o intorno, o comunque in qualche luogo viterbese non identificato, conosce Marcello, una persona che è fortemente radicata nel territorio etrusco, di cui conosce praticamente tutto.

Marcello capisce le difficoltà, personale ed ambientali di Federica e decide di “portarla in giro”. In macchina, a piedi, in moto, di giorno, di notte, le fa scoprire le mille bellezze della Tuscia. Anche se all’inizio Federica è riluttante, pian pianino si lascia andare, si fa coinvolgere dal gioco delle scoperte. Si pensa anche che nasca qualcosa di più tra i due, ma tutto sommato è poco rilevante rispetto all’economia del romanzo. Amore? Amicizia? Sostegno reciproco? Di sicuro, gratitudine di Federica a chi l’ha tirata fuori dal gorgo, ma non sembra, né forse è interessante sapere, se tutto evolverà verso altro.

Che Federica ci fa partecipe del suo evolversi da una persona rinchiusa in un bozzolo protettivo ad una donna aperta e comunicativa. Tanto che decide, per comunicare, di farsi un tatuaggio nelle parti basse della schiena, riprendendo un simbolo trovato in una necropoli etrusca, ed incistandoci le iniziali del suo mentore. La M di Marcello ed una P che, per gioco, avendola lui ad un certo punto chiamata “Senti, Piccì…” (non nel senso di Partito Comunista ma di abbreviazione per “piccina”) lei lo chiama “Picciò”. Ma quelle due lettere possono essere anche altro, e, come Federica stessa ci suggerisce, riferirsi, ad esempio a Madre e Patre.

Tuttavia, non è questa a storia che mi ha interessato e coinvolto, che se ne poteva (anche) fare a meno. Ma è la descrizione ambientale della Tuscia, attraverso i luoghi dove Marcello porta Federica per farle scoprire le bellezze locali. Che, e sono in accordo completo, il territorio è ben costellato di punti che andrebbero visitati. E magari valorizzati.

Ci sono punti che tutti conoscono, come Orvieto o il lago di Bolsena. Punti che molti conoscono ma che Federica ci fa traguardare da altre prospettive, come il lago di Vico o il mare di Capalbio. Punti meno noti, ma che consiglio, se non li avete visti, di visitarli, come Bassano in Teverina o Narni.

Sono poi contento che Federica mi suggerisce altri posti di cui avevo sentito parlare, ma che metterò senza dubbio nelle mie mete future per girovagare nella Tuscia: Titignano, in Umbria, con il suo borgo ed il castello, San Galgano, in Toscana, con la sua Abbazia, e soprattutto la necropoli etrusca di Norchia, tra Tuscania e Monte Romano nel Viterbese.

Lascio per ultime le due mete del mio cuore. Federica ci narra della gita a Monte Argentario, ora meta di parte delle mie sortite, in quel luogo nascosto ma ormai caro che è Porto Ercole. Per Caravaggio, per Forte Stella, e per la tua casa verso l’Isolotto. Ed ovviamente la faggeta di Soriano, che è ora la nostra casa dell’estate (e non solo). Con l’unico appunto che la faggeta è a 1000 metri, non Soriano che rimane 400 metri più in basso.

Guida turistica a parte, è quella frase che ci si attaglia che mi rimane nel cuore. Anche se, poi, nel complesso, a parte l’ottima scrittura, mi rimane in parte inespresso il senso del tutto.

Se avete voglia, vi consiglio anche di visitare il sito https://federicabressan.com/cuoretuscia/ dove c’è una bellissima Google Maps con i siti che vi ho descritto.

“[Lui] mi porta a vedere i posti, e io li vedo. Siamo lì per me, non per lui. Lui li ha già visti.” (37)

Lorenza Gentile “Le piccole libertà” Feltrinelli s.p. (regalo di Raul&Viviana)

[A: 07/05/2023 – I: 14/05/2023 – T: 15/05/2023] &&& --   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 316; anno: 2021]

Stavo cercando un libro “leggero” per completare la rosa dei regali che i miei amici bolognesi hanno avuto l’ardire di farmi, quando ho visto da Feltrinelli, in cima alle uscite di vendita il libro “Le cose che ci salvano” di Lorenza Gentile. Mi aveva incuriosito, ma ho poi deciso di ripiegare su questo perché mi sembrava più promettente, perché parlava sicuramente di Parigi, perché c’era un fenicottero in copertina.

Devo dire una scelta indovinata per un libro rilassante, scritto con discreta cura, forse a tratti prevedibile, anche se con qualche piccola sorpresa, ma soprattutto un libro che mi ha fatto (di nuovo) fare un salto nella mia Parigi.

Come in molti romanzi-relax la protagonista è una giovane donna non priva di problemi. Lavoro precario, vive con i genitori e, già sui trent’anni, sta per sposare un uomo affidabile e tranquillo (almeno per i suoi). Ma Oliva sa che sta sull’orlo di tanti possibili punti critici. Soffre d’insonnia, di tachicardia, ha tante paure che non confessa neanche alla sua analista. Insomma, un equilibrio instabile che viene messo alla prova da una lettera che la zia Vivienne, dopo quindici anni di silenzio, le invia.

Con un biglietto per Parigi, dove vive la zia, e l’urgenza di un incontro. Zia che le aveva trasmesso le sue uniche passioni, il teatro e l’arte pasticcera. Come fare a dire di no? Ovvio che Oliva, pur piena di dubbi, parte. Ovvio che da qui comincerà una sarabanda di avvenimenti che metteranno in discussione tutte le (finte) certezze della nostra eroina.

Intanto, l’appuntamento con la zia è in un luogo mitico, la famigerata libreria “Shakespeare and Company”. Certo, non è più la libreria di Sylvia Beach, che aveva visto aggirarsi tra gli scaffali Henry Miller e Samuel Beckett. Ma quella rilevata nel ’51 da George Whitman, e che io visitai fin dal mio primo soggiorno parigino. Una libreria che era più di una libreria. Un rifugio per tutti gli “artisti” vagabondi e giramondo, cui George offriva ospitalità in cambio di ore di lavoro alla libreria.

Ovvio che Oliva non riesce ad incontrare la sfuggente zia, e con un’accumulazione di sensi di colpa e di appuntamenti mancati/traditi, la storia prosegue e s’ingarbuglia. Oliva non ha posti per dormire, ed allora accetta le proposte di Whitman. E lì, tra letti rimediati, scaffali e lungosenna comincia a percepire la vita altra. Che si può dormire senza tappi nelle orecchie, che si può essere puliti anche senza lavarsi ogni cinque minuti, che degli snack orientali se ne può fare a meno, che si può indossare un vestito anche con una macchia, che si può andare con i capelli sciolti. Ma non si può fare a meno degli altri. E non si può fare a meno di tutti questi piccoli spazi personali. Perché “Ci sono piccole libertà che ci cambiano per sempre. Perché tante piccole libertà ne fanno una grande.”

Oliva sembra sempre sul punto di… Ma i suoi nuovi amici della Shakespeare and Company la portano a guardarsi dentro. Farà di nuovo un provino teatrale, che tanto le era mancato. Riuscirà? Non so Oliva, ma Lorenza sì che frequentò la Scuola Internazionale di Arti Drammatiche Jacques Lecoq a Parigi. Troverà una pasticceria sodale dove sperimenterà di nuovo le ricette della zia Vivienne. Con successo? Leggetene.

Come leggete la parte finale del libro che riserva alcune sorprese, a noi e ad Olivia. In una chiusura di libro leggera, che lascia un sorriso sulle labbra, dove, e sarebbe ora, c’è un libro in cui il protagonista si prende sul serio e prende sul serio la sua vita.

Ovvio, da come ne parlo, che la co-protagonista della storia è Parigi, la mia Parigi. Siamo negli anni ’10 di questo secolo. Quindi possiamo passeggiare intorno a Notre-Dame, risalire rue de l’Odeon, mangiare da Polidor o da Chartier, girellare per la “rive gauche”. Magari passare da “La fourmi ailée”, stupenda thè-libreria a due passi da quella di Oliva. Entrare ancora una volta al Museo d’Orsay, e fermarsi per ore davanti a Van Gogh e Cézanne.

Ed alla fine, tra Oliva e Parigi, risulta una lettura distensiva, e moderatamente gradevole.

Un ultimo cenno ai frequentatori della libreria, che Lorenza, con il termine inglese, battezza “tumbleweeds” che in effetti, in italiano, si dovrebbero chiamare “rotolacampo”, una formazione vegetale caratteristica di alcune specie di piante che, giunte a maturità, si staccano dalle proprie radici e rotolano sospinte dal vento, processo che permette alla pianta di diffondere i propri semi. Capite a me!

“Gli amici sono parenti che ci scegliamo noi.” (113)

Attia Hosain “La casa delle donne” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 18/03/2023 – I: 18/05/2023 – T: 21/05/2023] - && --

[tit. or.: Sunlight on a broken column; ling. or.: inglese; pagine: 335; anno 1961]

Sicuramente non è una lettura facile, né, purtroppo, ben introdotta nel panorama italiano. Attia Hosain è stata una donna, scrittrice, giornalista ed altro ancora, nata nell’India degli inizi del secolo scorso (1913 per l’esattezza) e che ha vissuto sulla propria pelle i cambiamenti che in meno di 40 anni hanno portato l’India da sottomessa colonna britannica a subcontinente diviso prima in due e poi in tre nazioni.

In questo, che risulterebbe il suo unico romanzo, ci cala nella realtà indiana degli anni ’30, con una narrativa semi-autobiografica. Attia, figlia di un possidente di Lucknow, città dell’Uttar Pradesh, equidistante (300 km) da Agra e da Varanasi, osservante mussulmano ma aperto alle influenze occidentali, è la prima donna a laurearsi all’Università di Lucknow. È anche lei molto “occidentale”, pur avendo presente le regole islamiche e indiane. Tuttavia, si sposa con un cugino, contro il volere famigliare. Per i casi della sorte, la sua famiglia viene inviata nel ’47 a Londra come responsabile dei commerci anglo-indiani. Ed è lì che vivono il dramma della “partizione”, decidendo di rimanere in Europa, come dice lei “pur avendo il cuore in una terra che ha più di 800 anni di storia per la mia famiglia”.

Diventa un volto noto alla BBC, presentando il programma “Writing in a Foreign Tongue”, ed una penna presente nel panorama giornalistico inglese.

Venendo al libro, devo rimarcare la necessità di un’edizione più accurata. Innanzi tutto, ci sarebbe stato bisogno di qualche nota in più sulle nominalistiche locali. Che mettere in nota “Begum” intesa come donna di alto rango sociale (cosa che è abbastanza conosciuta) e non dire nulla di Taluqdar, gli aristocratici regnanti nelle regioni indiane del nord, latifondisti e responsabili locali delle tasse, mi sembra un tantino poco attento.

Secondo poi, avrei dedicato una piccola nota al titolo, ovviamente quello inglese. Infatti, il titolo originale viene da un verso di una poesia di T. S. Eliot “Siamo gli uomini vuoti” (“Nel regno di sogno della morte … gli occhi sono / luce di sole su una colonna infranta”). Verso che dà un senso al vuoto che si prospetta nella vita delle donne indiane, aspettando quel raggio di sole che potrebbe cambiare la vita, anche soltanto mettendo in luce “una colonna infranta”, cioè persone con difficili futuri.

Invece di addentrarsi nella possibile discussione, gli editori italiani hanno deciso di mettere come titolo questo “la casa delle donne”, che già non rende completamente il senso, anche e soprattutto se non si spiega né cos’è la “zenana” (la zona del palazzo riservata alle donne reali di famiglie indù o musulmane) né cosa sia la “purdah” (la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne; essa si attua in due modi: segregazione fisica dei sessi o imposizione alle donne di coprire i loro corpi al punto di nascondere la pelle e le loro forme”). Questi sono due concetti fondanti del testo, e rendere il primo come “casa delle donne” è non facilmente comprensibile.

L’ultimo elemento che avrebbe meritato una maggiore attenzione è la proliferazione dei nomi delle persone coinvolte nella narrazione. Non solo per il numero, ma anche perché, nella tradizione indiana, ci sono nomi hindi e nomi islamici, che per noi hanno poca valenza, e che, tuttavia, l’hanno nella storia. Per cui, senza poterne dirimere la provenienza, vediamo personaggi assumere atteggiamenti consoni con la tradizione ma con difficile comprensione immediata per il lettore occidentale.

Comunque, Attia ci narra la storia della sua alter-ego Laila, per 4/5 del testo tra i 17 ed i 20 anni, intorno alla prima metà degli anni ’30. Prima nella struttura piramidale ma aperta del nonno, poi in quella fintamente aperta governata dallo zio. Laila ha frequentazioni esterne, va a scuole occidentali, poi in casa segue la purdah ed i rituali “ortodossi”. Ma i libri che l’hanno forgiata le danno anche una visione aperta del mondo.

Con piglio sicuro, Attia ci descrive i contorni, appunto. Le zie ortodosse, i cugini che divergono uno aperto all’integrazione, l’altro schierata per la segregazione. E poi le amiche, quelle anch’esse ortodosse che si affidano ai matrimoni combinati, quelle aperte che lottano con sacrifici personali sulla via di Gandhi, quelle occidentali che rimarranno fedeli al territorio, quelle occidentali che scapperanno via.

Laila non è mai in prima linea, spesso anzi si nasconde, pur avendo piccoli moti di ribellione, in particolare se vede trattare male le altre donne. Fino a che l’amore per Ameer non le farà scattare la molla della coscienza, rifiutandosi di lasciarlo, pur se povero e di casta inferiore.

L’ultimo quinto ci fa fare un salto di quindici anni, presentandoci lo scenario successivo alla partizione, con Laila che torna nelle case paterne, e ci fa un piccolo riassunto di come e dove siano andati a finire i vari personaggi. Non molto altro vi dico, che uno dei punti forti e positivi e proprio il finale aperto che la scrittrice ci lascia e che, appunto, non vi descrivo.

La bellezza del libro sta in alcuni spunti, interessanti pur se datati. la descrizione dei padri padroni, le lotte per l’indipendenza, la battaglia per l’autodeterminazione femminile. Come detto, e non posso che ripetermi, il punto debole è che vengono date per scontate situazioni che mettono in difficoltà chi non conosce la realtà indiana. Per questo, il giudizio un po’ scende, non ultimo anche a causa della vetustà di alcuni modi espressivi, che rallentano il ritmo della scrittura.

Francesca Melandri “Sangue giusto” Bompiani s.p. (regalo di Anto&Paolo)

[A: 07/05/2023 – I: 06/06/2023 – T: 08/06/2023] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 566; anno: 2017]

Francesca Melandri è forse meglio nota come sceneggiatrice (di lei, oltre ai film della Comencini si ricordano episodi della serie televisiva “Don Matteo”), ma, evitando indebiti inserimenti in ambiti familiari, ha anche prodotto alcune opere di narrativa. Non molte, ma spesso premiate. In particolare, dedite ad un approfondimento, con al centro una figura paterna, di alcuni momenti della Storia italiana. Con il primo “Eva dorme” si parla del Sud Tirolo e della sua annessione all’Italia. Con il secondo “Più in alto del mare” si tocca il tema del terrorismo.

Qui, in un ben affollato librone, affronta una non piccola mole di problematiche, alcune minute, altre macigni difficili da muovere. Con una scrittura sempre gradevole, mai respingente, a volte con qualche allungamento, ma abbastanza auto contenitiva per riuscire a dimenticare poco di quello di cui scrive. Anche se poi, il nodo centrale è la guerra italiana in Etiopia durante il fascismo.

Entriamo ed usciamo dal mondo della famiglia Profeti con i due capitoli 0, il primo e l’ultimo, dedicati alla morte ed al funerale del personaggio centrale della storia, Attilio Profeti detto Attila, classe 1915. Il romanzo, poi, va su e giù nel tempo, con l’abilità della scrittrice di non farci mai perdere la bussola. Consentendoci, anzi, alla fine di fare mentalmente una ricapitolazione della storia, riannodando tutti i fili sparsi nelle quasi seicento pagine.

Vediamo allora la figura del capostipite, Ernani Profeta, capostazione in quel di Lugo di Romagna, nota per altro avendo dato i natali all’eroe italiano della Prima Guerra mondiale, Francesco Baracca. Ernani, patito verdiano oltre che ferroviere, sposa Viola, instaurando un rapporto asimmetrico. Lui da sempre innamorato, lei mai, ossessionata dal culto della bellezza, superficiale, esemplare di quel mondo femminile affascinato da Mussolini. I due mettono al mondo due figli, che il verdiano chiama Otello il primo e vorrebbe Attila per secondo, ma Viola impone la variante Attilio. Viola muore durante la guerra. Ernani muore d’infarto il giorno in cui dovrebbe andare in pensione.

Otello, intelligente ma non bello, sarà sempre ossessionato dal fratello, che di lui è il contrario. Non solo di bell’aspetto, ma dotato di una gran fortuna che lo fa attraversare il Novecento come personaggio di una storia minore, sempre sul bordo della Storia, ma troppo “pesce piccolo” per esserne veramente colpito (e affondato).

Attilio che parte volontario per la grande avventura in Abissinia. Dove fa molti incontri fortunati, che gli serviranno nel futuro italiano e non vi dico come. Che per caso si aggrega alla spedizione etnografica di Lidio Cipriani (una delle figure reali del testo). Colui che redigerà il famigerato “Manifesto della Razza”, che fornirà un rifugio post-bellico ad Attilio. Ma soprattutto, nella spedizione il nostro incontra la bellissima Abeba, di etnia amhara. Con la quale vivrà quattro anni, per poi dover fuggire quando gli inglesi liberano l’Etiopia, senza sapere che la lascerà incinta.

Un figlio che scoprirà solo negli anni Ottanta, in diverse circostanze, anche senza incontrarlo mai. Nel frattempo, tornato in Italia sposa Marella con la quale farà tre figli, due maschi inutili, ed Ilaria, che è il motore primo di tutta la narrazione. Attilio che intanto per lunghi anni vive da bigamo (senza farsi scoprire, data la sua proverbiale fortuna). Ma la nascita di un figlio dalla moglie nascosta farà precipitare tutto. Separazione da Marella, matrimonio con Anita, convivenze con i figli.

Fino a quando a casa di Ilaria si presenta un “richiedente asilo”, un etiope che la chiama zia, e che fa scoprire tutta l’altra storia del padre. In realtà è qui che comincia il narrato, con tutte le vicissitudini (una delle parti più belle) del racconto del nipote e della sua fuga dall’Africa. Non solo, le storie di Shimeta Ietmgeta Attilaprofeti ci fanno fare anche un nuovo viaggio nell’Italia dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), dei clandestini, della Roma multietnica che gravita intorno a Piazza Vittorio, l’Italia di Berlusconi e Gheddafi e degli accordi con la Libia.

L’Italia dove Shimeta spera di avere il “sangue giusto” per rimanere in Italia, mal traducendo lo “ius sangunis” e dimenticando, come tutti i politici, lo “ius solis”. Ve ne lascio scoprire il senso nella lettura, ribadendo fortemente che non esiste sangue giusto e sangue non giusto, perché non si deve frapporre tra i due nessuna linea divisoria.

Ribadiamo, al fine, che non è un romanzo storico, pur essendo ben documentato. Ma di sicuro è, potrebbe essere, un romanzo che accende l’interesse per momenti che molti tendono a dimenticare: l’Italia delle sciagurate guerre di conquista, delle stragi con l’iprite (cercatene in rete), della rivalità tra Graziani e Badoglio, delle leggi razziali, dei “matrimoni” fittizi tra invasori ed invasi (e non entriamo nelle polemiche tra Angelo del Boca e Indro Montanelli).

È un libro forte contro l’intolleranza, contro la guerra ed ogni tipo di violenza, contro le mistificazioni, storiche e politiche (ci sarebbe da analizzare tutto il percorso di Ilaria e Pietro, ma forse andremmo troppo lontano), contro quella che a me ancora fa ribollire il sangue, la cultura del privilegio.

Mi rimangono due considerazioni sul testo. La constatazione che Attilio in fondo attraversa tutta la vita con una visione inconsapevole degli avvenimenti. Visione che non hanno quelli che, coscientemente, fanno delle scelte, anche difficili, ma scelte.

L’altra è una fotografia culturale che mi rimanda la lettura del Manifesto che Attilio fa ad Abeba. Lui la espone per sottolineare la supremazia dei bianchi sui negri. Abeba la reinterpreta come supremazia degli amhara sugli oromo, i due gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia.

Comunque, un libro bello e che sono ben contento di aver letto.

Julie Otsuka “Venivamo tutte per mare” Corriere Giappone 7 euro 8,90

[A: 22/06/2021 – I: 13/07/2023 – T: 15/07/2023] - &&&     

[tit. or.: The Buddha in the Attic; ling. or.: inglese; pagine: 142; anno 2011]

Prima di addentrarci nell’interessante testo, c’è bisogno di qualche “delucidazione” ed interpretazione. Cominciamo dall’autrice, una scrittrice di origine giapponese, ma nata in America da genitori giapponesi di diversa ascendenza. Il padre era un “issei”, cioè un immigrato nato in Giappone, mentre la madre era una “nisei”, cioè una persona nata in America da genitori giapponesi. Quindi, ovvio il legame con il Giappone, ma Julie è americana.

Sebbene poi questo che abbiamo di fronte è un testo che narra di una peculiare esperienza del mondo giapponese, nasce dalle ascendenze personali di Julie e soprattutto è scritto in inglese. Motivo per cui, non lo inserisco nell’analisi della letteratura giapponese ma in quella della scrittura femminile.

Altro mistero è il titolo che varia in maniera significativa da un paese all’altro. Come vedete abbiamo sopra il titolo italiano, che parla della provenienza delle protagoniste. Ma ad esempio il titolo francese riporta “Certaines n'avaient jamais vu la mer”, cioè “Alcune non avevano mai visto il mare”, entrando nello stato d’animo di alcune protagoniste. Il titolo tedesco, invece, recita “Wovon wir träumten”, cioè “Quello che abbiamo sognato”, entrando proprio nello specifico delle donne del libro. Poi, lo confrontiamo con il titolo originale inglese “The Buddha in the Attic”, e ci domandiamo: perché gli editor di tutto il mondo vanno a modificare ed incidere nelle intenzioni originali della scrittrice? Il mio solito mistero.

Veniamo ora al testo. Che è un vero e proprio romanzo corale, in cui non abbiamo protagonisti individuali, ma collettivi. Agli inizi del Novecento ci fu una forte immigrazione di manodopera giapponese verso l’America. Partirono molti uomini in cerca di lavoro, facile da trovare nel Nuovo Mondo. Ma difficile restò (e resterà sempre) l’integrazione con i locali, gli immigrati essendo sempre tenuti un po’ distanti (come ben sappiamo tuttora). Ecco che intermediari di facile guadagno e svelta parlantina, organizzano matrimoni per lettera. Noi seguiamo quindi uno di questi convogli, che porta una gran massa di donne verso un destino che non conoscono, verso dei matrimoni con degli sconosciuti, verso una vita che non sanno come sarà, che le spaventa alquanto, che non sempre (come vedremo) manterrà le promesse.

Abbiamo così le loro voci, le voce delle donne e delle ragazze che si imbarcano, nessuna approfondita, o seguita come protagonista, ognuna descritta ed individuata da una o due frasi. Sono le loro voci che, capitolo dopo capitolo, ognuno battezzato con un qualche significativo avvenimento, ci portano nell’incontro con il nuovo mondo, con lo scontro con una diversa civiltà, con speranze spesso tradite, con delusioni quasi sempre insormontabili.

Cominciamo dal primo capitolo che narra delle donne imbarcate in Giappone ed in rotta verso la California per sposare persone che hanno visto solo in fotografia. Credono che stiano per sposare uomini ricchi con una carriera avviata, ma, appena scendono dalla nave, rimangono profondamente deluse, scoprendo la vita misera che le attende, con un marito povero, stanco e non più giovane. Nel secondo, “Prima notte” vediamo consumarsi i matrimoni, spesso con persone assai diverse dalle foto, che gli intermediari di cui sopra avevano ovviamente messo belle ed attraenti persone, quasi sempre diverse da quelle che troveranno a San Francisco. Poi c’è il capitolo dedicato all’interazione con i bianchi. Rapporti difficili, così che alcune vanno a vivere in campagna per sfuggire il contatto con i WASP, altre faranno le domestiche, relegate negli alloggi della servitù. La maggior parte, poi, si riunirà in zone “tutte Nippo”, creando le prime “Japantown”. Poi c’è il momento in cui nascono i figli, ma soprattutto quando i figli crescono, si vergognano dei genitori che non parlano inglese, ma sono discriminati dai loro compagni di classe, “americani puri” (ma che noi sappiamo non esistere, essendo un paese in cui tutti provengono da altrove).

Il punto forte arriva quando scoppia la guerra tra America e Giappone: i “gialli” vengono isolati, visti con sospetto, arrestati senza preavviso, deportati i campi di concentramento, certo meno disumani di quelli nazisti, ma sempre isolati. Queste partenze sono le più desolanti descrizioni del testo, laddove, solamente, riesco ad isolarne nomi ed atteggiamenti. Iyo parte e c’è una sveglia che suona nella sua valigia, ma non si ferma per spegnerla, Kimiko lascia la sua borsa in cucina, ma lo ricorda quando è troppo tardi. Per finire con Haruko che ha lasciato un piccolo Budda in ottone, un Buddha che rideva, lasciandolo in un angolo della soffitta della casa in cui viveva, un angolo dove Buddha sta ancora ridendo. Così capite anche da dove viene il titolo.

Fino alla “sparizione”: le famiglie bianche parlano della sparizione dei domestici, dei vicini, degli amici giapponesi, ne sentono la mancanza, poi, a poco a poco, si dimenticano di loro. Riuscendo in questa parte la scrittrice, senza alzare nessuna accusa, a descrivere il vuoto assordante che lascia questa fine delle illusioni.

La scrittura è potente, e credo abbia avuto necessità di una lunga gestazione per riuscire ad essere univoca e molteplice. Manca un po’ nella parte di denuncia, ma forse è nell’intento della scrittrice non recriminare, non giudicare, solo descrivere. Sta a noi capire, decidere, pensare.

Sta a noi ancora una volta arrivare a capire che gli americani non sono gli Al Pacino o i Sylvester Stallone, che pur rappresentano due antitetici modi di recitare, ma sono i John Smith della prateria, sono, purtroppo, i razzisti alla Donald Trump.

In un mese al femminile, non potevo mancare un serie di citazioni di un'altra signora della scrittura (anche se non solo scrive). Non è prolifica, ma ha creato un bel personaggio di detective al femminile. Parlo di Grazia Verasani dove, nel suo “Di tutti e di nessuno”, alcune frasi hanno lasciato un segno. Una donna che parla dell’amore dalla parte della donna, anche con qualche ironia, ma tutte da riflettere. Ve lo porgo così, senza commenti.

“[Nelle cose d’amore] ho imparato che ci vuole più fegato che cuore … per buttarsi a pesce in una nuova storia, anche se un giorno finirà come le altre, perché il bello deve ancora venire”. (59)

 “Io lo appesantivo e lui mi alleggeriva. Ognuno tirava la fune dalla propria parte. Come si fa a cambiare quando ci hai messo una vita per essere così?” (106)

“Ripenso alla liceale impegnata che sono stata, a quel libro di Marx di cui avevo sottolineato la frase: ‘Il ruolo sociale della donna è il primo termometro per misurare il progresso della società’, e mi chiedo se il mondo è un luogo dove si passa la vita ad azzerare e a ricominciare, visto che niente, nessuna piccola o grande conquista, sembra al riparo da assurdi passi indietro” (125)

“Una moglie può sempre tornare comoda, quando ci si sente soli o arrivano i primi acciacchi… Ci si sposa per questo, no?” (137)

“Molti ricordi del mio passato sono inesatti o solo vagamente verosimili” (235)

“C’è una strofa di ‘Rusholme Ruffians’ degli Smiths che fa così: ‘E sebbene cammini tutto solo verso casa, la mia fede nell’amore è ancora intatta…’” (237)

Ribadendo quindi la difficoltà di programmare idee ed azioni al di là del raggio di una scarsa settimana, velocemente vi abbraccio.

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