Visti anche i compleanni femminili del periodo, una settimana di scrittura al femminile. Dove le scrittrici italiane fanno un notevole balzo. Di sicuro per merito di Francesca Melandri con il bel libro sull’immigrazione (grazie Anto), ma anche per le due giovani autrici, Lorenza Gentile e Federica Bressan, con due libri di taglio diverso ma di buona resa. Le straniere sono guidate da un interessante libro di Julie Otsuka, anch’esso sull’immigrazione, ma dal Giappone verso l’America. Chiude quello che pensavo fossi il migliore, di Attia Hossein sulle donne in India.
Federica
Bressan “Nel cuore della Tuscia” Edizioni Sette Città s.p. (Regalo di Cristina)
[A: 09/04/2023 – I: 23/04/2023 – T:
24/04/2023] &&&
---
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 84; anno: 2022]
Inaspettato, gradito ed anche un po’
sorprendente regalo pasquale di una delle mie cognate. Inaspettato che non sono
aduso ricevere regali pasquali. Gradito che un libro è sempre e comunque
gradito, sia esso bello, brutto, o come vi pare. Sorprendente che, nelle more
di un discorso che andremo ad analizzare, mi ha permesso di fare un giro
turistico nelle mie zone da “buen retiro”, non solo tra le montagne ciminesi,
ma anche verso il mare Toscano e l’Argentario. Cosa chiedere di più?
Intanto, direi che, anche se poi estrapola
qualche discorso, c’è una grossa vena di autobiografia nella storia raccontata.
La protagonista, dopo molto girare, in Italia e nel mondo, trova il “suo” posto
nell’Alto Lazio, a Blera. Federica Bressan, dalla natia Gorizia, dopo laurea ed
altro, trova la sua strada nella comunicazione scientifica e finisce per
installarsi per l’appunto a Blera.
La storia, di cui si ricavano sprazzi, nasce
da un doloroso addio (con fidanzato, o compagno o altro, che credo di ricordare
si chiami Fabrizio o Francesco), con Federica che si ritrova, sola e
sfiduciata, in quel di Blera. Lì, o intorno, o comunque in qualche luogo
viterbese non identificato, conosce Marcello, una persona che è fortemente
radicata nel territorio etrusco, di cui conosce praticamente tutto.
Marcello capisce le difficoltà, personale ed
ambientali di Federica e decide di “portarla in giro”. In macchina, a piedi, in
moto, di giorno, di notte, le fa scoprire le mille bellezze della Tuscia. Anche
se all’inizio Federica è riluttante, pian pianino si lascia andare, si fa
coinvolgere dal gioco delle scoperte. Si pensa anche che nasca qualcosa di più
tra i due, ma tutto sommato è poco rilevante rispetto all’economia del romanzo.
Amore? Amicizia? Sostegno reciproco? Di sicuro, gratitudine di Federica a chi
l’ha tirata fuori dal gorgo, ma non sembra, né forse è interessante sapere, se
tutto evolverà verso altro.
Che Federica ci fa partecipe del suo
evolversi da una persona rinchiusa in un bozzolo protettivo ad una donna aperta
e comunicativa. Tanto che decide, per comunicare, di farsi un tatuaggio nelle
parti basse della schiena, riprendendo un simbolo trovato in una necropoli
etrusca, ed incistandoci le iniziali del suo mentore. La M di Marcello ed una P
che, per gioco, avendola lui ad un certo punto chiamata “Senti, Piccì…” (non
nel senso di Partito Comunista ma di abbreviazione per “piccina”) lei lo chiama
“Picciò”. Ma quelle due lettere possono essere anche altro, e, come Federica
stessa ci suggerisce, riferirsi, ad esempio a Madre e Patre.
Tuttavia, non è questa a storia che mi ha
interessato e coinvolto, che se ne poteva (anche) fare a meno. Ma è la
descrizione ambientale della Tuscia, attraverso i luoghi dove Marcello porta
Federica per farle scoprire le bellezze locali. Che, e sono in accordo
completo, il territorio è ben costellato di punti che andrebbero visitati. E
magari valorizzati.
Ci sono punti che tutti conoscono, come
Orvieto o il lago di Bolsena. Punti che molti conoscono ma che Federica ci fa
traguardare da altre prospettive, come il lago di Vico o il mare di Capalbio.
Punti meno noti, ma che consiglio, se non li avete visti, di visitarli, come
Bassano in Teverina o Narni.
Sono poi contento che Federica mi suggerisce
altri posti di cui avevo sentito parlare, ma che metterò senza dubbio nelle mie
mete future per girovagare nella Tuscia: Titignano, in Umbria, con il suo borgo
ed il castello, San Galgano, in Toscana, con la sua Abbazia, e soprattutto la
necropoli etrusca di Norchia, tra Tuscania e Monte Romano nel Viterbese.
Lascio per ultime le due mete del mio cuore.
Federica ci narra della gita a Monte Argentario, ora meta di parte delle mie
sortite, in quel luogo nascosto ma ormai caro che è Porto Ercole. Per
Caravaggio, per Forte Stella, e per la tua casa verso l’Isolotto. Ed ovviamente
la faggeta di Soriano, che è ora la nostra casa dell’estate (e non solo). Con
l’unico appunto che la faggeta è a 1000 metri, non Soriano che rimane 400 metri
più in basso.
Guida turistica a parte, è quella frase che
ci si attaglia che mi rimane nel cuore. Anche se, poi, nel complesso, a parte
l’ottima scrittura, mi rimane in parte inespresso il senso del tutto.
Se avete voglia, vi consiglio anche di
visitare il sito https://federicabressan.com/cuoretuscia/ dove c’è una bellissima Google Maps con i
siti che vi ho descritto.
“[Lui] mi porta a vedere i posti, e io li
vedo. Siamo lì per me, non per lui. Lui li ha già visti.” (37)
Lorenza
Gentile “Le piccole libertà” Feltrinelli s.p. (regalo di Raul&Viviana)
[A: 07/05/2023
– I: 14/05/2023 – T: 15/05/2023] &&&
--
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 316; anno: 2021]
Stavo cercando un libro “leggero” per completare la rosa
dei regali che i miei amici bolognesi hanno avuto l’ardire di farmi, quando ho
visto da Feltrinelli, in cima alle uscite di vendita il libro “Le cose che ci
salvano” di Lorenza Gentile. Mi aveva incuriosito, ma ho poi deciso
di ripiegare su questo perché mi sembrava più promettente, perché parlava
sicuramente di Parigi, perché c’era un fenicottero in copertina.
Devo
dire una scelta indovinata per un libro rilassante, scritto con discreta cura,
forse a tratti prevedibile, anche se con qualche piccola sorpresa, ma
soprattutto un libro che mi ha fatto (di nuovo) fare un salto nella mia Parigi.
Come
in molti romanzi-relax la protagonista è una giovane donna non priva di
problemi. Lavoro precario, vive con i genitori e, già sui trent’anni, sta per
sposare un uomo affidabile e tranquillo (almeno per i suoi). Ma Oliva sa che
sta sull’orlo di tanti possibili punti critici. Soffre d’insonnia, di
tachicardia, ha tante paure che non confessa neanche alla sua analista.
Insomma, un equilibrio instabile che viene messo alla prova da una lettera che
la zia Vivienne, dopo quindici anni di silenzio, le invia.
Con
un biglietto per Parigi, dove vive la zia, e l’urgenza di un incontro. Zia che
le aveva trasmesso le sue uniche passioni, il teatro e l’arte pasticcera. Come
fare a dire di no? Ovvio che Oliva, pur piena di dubbi, parte. Ovvio che da qui
comincerà una sarabanda di avvenimenti che metteranno in discussione tutte le
(finte) certezze della nostra eroina.
Intanto,
l’appuntamento con la zia è in un luogo mitico, la famigerata libreria
“Shakespeare and Company”. Certo, non è più la libreria di Sylvia Beach, che
aveva visto aggirarsi tra gli scaffali Henry Miller e Samuel Beckett. Ma quella
rilevata nel ’51 da George Whitman, e che io visitai fin dal mio primo
soggiorno parigino. Una libreria che era più di una libreria. Un rifugio per
tutti gli “artisti” vagabondi e giramondo, cui George offriva ospitalità in
cambio di ore di lavoro alla libreria.
Ovvio
che Oliva non riesce ad incontrare la sfuggente zia, e con un’accumulazione di
sensi di colpa e di appuntamenti mancati/traditi, la storia prosegue e
s’ingarbuglia. Oliva non ha posti per dormire, ed allora accetta le proposte di
Whitman. E lì, tra letti rimediati, scaffali e lungosenna comincia a percepire
la vita altra. Che si può dormire senza tappi nelle orecchie, che si può essere
puliti anche senza lavarsi ogni cinque minuti, che degli snack orientali se ne
può fare a meno, che si può indossare un vestito anche con una macchia, che si
può andare con i capelli sciolti. Ma non si può fare a meno degli altri. E non
si può fare a meno di tutti questi piccoli spazi personali. Perché “Ci sono
piccole libertà che ci cambiano per sempre. Perché tante piccole libertà ne fanno
una grande.”
Oliva
sembra sempre sul punto di… Ma i suoi nuovi amici della Shakespeare and Company
la portano a guardarsi dentro. Farà di nuovo un provino teatrale, che tanto le
era mancato. Riuscirà? Non so Oliva, ma Lorenza sì che frequentò la Scuola Internazionale
di Arti Drammatiche Jacques Lecoq a Parigi. Troverà una pasticceria sodale dove
sperimenterà di nuovo le ricette della zia Vivienne. Con successo? Leggetene.
Come
leggete la parte finale del libro che riserva alcune sorprese, a noi e ad Olivia.
In una chiusura di libro leggera, che lascia un sorriso sulle labbra, dove, e
sarebbe ora, c’è un libro in cui il protagonista si prende sul serio e prende
sul serio la sua vita.
Ovvio,
da come ne parlo, che la co-protagonista della storia è Parigi, la mia Parigi.
Siamo negli anni ’10 di questo secolo. Quindi possiamo passeggiare intorno a
Notre-Dame, risalire rue de l’Odeon, mangiare da Polidor o da Chartier,
girellare per la “rive gauche”. Magari passare da “La fourmi ailée”, stupenda
thè-libreria a due passi da quella di Oliva. Entrare ancora una volta al Museo
d’Orsay, e fermarsi per ore davanti a Van Gogh e Cézanne.
Ed
alla fine, tra Oliva e Parigi, risulta una lettura distensiva, e moderatamente
gradevole.
Un
ultimo cenno ai frequentatori della libreria, che Lorenza, con il termine
inglese, battezza “tumbleweeds” che in effetti, in italiano, si dovrebbero
chiamare “rotolacampo”, una formazione vegetale caratteristica di alcune specie
di piante che, giunte a maturità, si staccano dalle proprie radici e rotolano
sospinte dal vento, processo che permette alla pianta di diffondere i propri
semi. Capite a me!
“Gli
amici sono parenti che ci scegliamo noi.” (113)
Attia Hosain “La casa delle donne”
Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)
[A: 18/03/2023 – I: 18/05/2023 – T: 21/05/2023] - && --
[tit. or.: Sunlight on a broken column; ling. or.: inglese; pagine: 335; anno 1961]
Sicuramente non è una lettura facile, né,
purtroppo, ben introdotta nel panorama italiano. Attia Hosain è stata una
donna, scrittrice, giornalista ed altro ancora, nata nell’India degli inizi del
secolo scorso (1913 per l’esattezza) e che ha vissuto sulla propria pelle i
cambiamenti che in meno di 40 anni hanno portato l’India da sottomessa colonna
britannica a subcontinente diviso prima in due e poi in tre nazioni.
In questo, che risulterebbe il suo unico
romanzo, ci cala nella realtà indiana degli anni ’30, con una narrativa
semi-autobiografica. Attia, figlia di un possidente di Lucknow, città
dell’Uttar Pradesh, equidistante (300 km) da Agra e da Varanasi, osservante
mussulmano ma aperto alle influenze occidentali, è la prima donna a laurearsi
all’Università di Lucknow. È anche lei molto “occidentale”, pur avendo presente
le regole islamiche e indiane. Tuttavia, si sposa con un cugino, contro il
volere famigliare. Per i casi della sorte, la sua famiglia viene inviata nel
’47 a Londra come responsabile dei commerci anglo-indiani. Ed è lì che vivono
il dramma della “partizione”, decidendo di rimanere in Europa, come dice lei
“pur avendo il cuore in una terra che ha più di 800 anni di storia per la mia
famiglia”.
Diventa un volto noto alla BBC, presentando
il programma “Writing in a Foreign Tongue”, ed una penna presente nel panorama
giornalistico inglese.
Venendo al libro, devo rimarcare la necessità
di un’edizione più accurata. Innanzi tutto, ci sarebbe stato bisogno di qualche
nota in più sulle nominalistiche locali. Che mettere in nota “Begum” intesa
come donna di alto rango sociale (cosa che è abbastanza conosciuta) e non dire
nulla di Taluqdar, gli aristocratici regnanti nelle regioni indiane del nord,
latifondisti e responsabili locali delle tasse, mi sembra un tantino poco
attento.
Secondo
poi, avrei dedicato una piccola nota al titolo, ovviamente quello inglese.
Infatti, il titolo originale viene da un verso di una poesia di T. S. Eliot
“Siamo gli uomini vuoti” (“Nel regno di sogno della morte … gli occhi sono /
luce di sole su una colonna infranta”). Verso che dà un senso al vuoto che si
prospetta nella vita delle donne indiane, aspettando quel raggio di sole che
potrebbe cambiare la vita, anche soltanto mettendo in luce “una colonna
infranta”, cioè persone con difficili futuri.
Invece
di addentrarsi nella possibile discussione, gli editori italiani hanno deciso
di mettere come titolo questo “la casa delle donne”, che già non rende
completamente il senso, anche e soprattutto se non si spiega né cos’è la “zenana”
(la zona del palazzo riservata alle donne reali di famiglie indù o musulmane)
né cosa sia la “purdah” (la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne; essa
si attua in due modi: segregazione fisica dei sessi o imposizione alle donne di
coprire i loro corpi al punto di nascondere la pelle e le loro forme”). Questi
sono due concetti fondanti del testo, e rendere il primo come “casa delle
donne” è non facilmente comprensibile.
L’ultimo
elemento che avrebbe meritato una maggiore attenzione è la proliferazione dei
nomi delle persone coinvolte nella narrazione. Non solo per il numero, ma anche
perché, nella tradizione indiana, ci sono nomi hindi e nomi islamici, che per
noi hanno poca valenza, e che, tuttavia, l’hanno nella storia. Per cui, senza
poterne dirimere la provenienza, vediamo personaggi assumere atteggiamenti
consoni con la tradizione ma con difficile comprensione immediata per il
lettore occidentale.
Comunque,
Attia ci narra la storia della sua alter-ego Laila, per 4/5 del testo tra i 17
ed i 20 anni, intorno alla prima metà degli anni ’30. Prima nella struttura
piramidale ma aperta del nonno, poi in quella fintamente aperta governata dallo
zio. Laila ha frequentazioni esterne, va a scuole occidentali, poi in casa
segue la purdah ed i rituali “ortodossi”. Ma i libri che l’hanno forgiata le
danno anche una visione aperta del mondo.
Con
piglio sicuro, Attia ci descrive i contorni, appunto. Le zie ortodosse, i
cugini che divergono uno aperto all’integrazione, l’altro schierata per la
segregazione. E poi le amiche, quelle anch’esse ortodosse che si affidano ai
matrimoni combinati, quelle aperte che lottano con sacrifici personali sulla
via di Gandhi, quelle occidentali che rimarranno fedeli al territorio, quelle
occidentali che scapperanno via.
Laila
non è mai in prima linea, spesso anzi si nasconde, pur avendo piccoli moti di
ribellione, in particolare se vede trattare male le altre donne. Fino a che
l’amore per Ameer non le farà scattare la molla della coscienza, rifiutandosi
di lasciarlo, pur se povero e di casta inferiore.
L’ultimo
quinto ci fa fare un salto di quindici anni, presentandoci lo scenario
successivo alla partizione, con Laila che torna nelle case paterne, e ci fa un
piccolo riassunto di come e dove siano andati a finire i vari personaggi. Non
molto altro vi dico, che uno dei punti forti e positivi e proprio il finale
aperto che la scrittrice ci lascia e che, appunto, non vi descrivo.
La
bellezza del libro sta in alcuni spunti, interessanti pur se datati. la
descrizione dei padri padroni, le lotte per l’indipendenza, la battaglia per
l’autodeterminazione femminile. Come detto, e non posso che ripetermi, il punto
debole è che vengono date per scontate situazioni che mettono in difficoltà chi
non conosce la realtà indiana. Per questo, il giudizio un po’ scende, non
ultimo anche a causa della vetustà di alcuni modi espressivi, che rallentano il
ritmo della scrittura.
Francesca
Melandri “Sangue giusto” Bompiani s.p. (regalo di Anto&Paolo)
[A: 07/05/2023
– I: 06/06/2023 – T: 08/06/2023] &&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 566; anno: 2017]
Francesca
Melandri è forse meglio nota come sceneggiatrice (di lei, oltre ai film
della Comencini si ricordano episodi della serie televisiva “Don Matteo”), ma,
evitando indebiti inserimenti in ambiti familiari, ha anche prodotto alcune
opere di narrativa. Non molte, ma spesso premiate. In particolare, dedite ad un
approfondimento, con al centro una figura paterna, di alcuni momenti della
Storia italiana. Con il primo “Eva dorme” si parla del Sud Tirolo e della sua
annessione all’Italia. Con il secondo “Più in alto del mare” si tocca il tema
del terrorismo.
Qui,
in un ben affollato librone, affronta una non piccola mole di problematiche,
alcune minute, altre macigni difficili da muovere. Con una scrittura sempre
gradevole, mai respingente, a volte con qualche allungamento, ma abbastanza
auto contenitiva per riuscire a dimenticare poco di quello di cui scrive. Anche
se poi, il nodo centrale è la guerra italiana in Etiopia durante il fascismo.
Entriamo
ed usciamo dal mondo della famiglia Profeti con i due capitoli 0, il primo e l’ultimo,
dedicati alla morte ed al funerale del personaggio centrale della storia,
Attilio Profeti detto Attila, classe 1915. Il romanzo, poi, va su e giù nel
tempo, con l’abilità della scrittrice di non farci mai perdere la bussola.
Consentendoci, anzi, alla fine di fare mentalmente una ricapitolazione della
storia, riannodando tutti i fili sparsi nelle quasi seicento pagine.
Vediamo
allora la figura del capostipite, Ernani Profeta, capostazione in quel di Lugo
di Romagna, nota per altro avendo dato i natali all’eroe italiano della Prima
Guerra mondiale, Francesco Baracca. Ernani, patito verdiano oltre che
ferroviere, sposa Viola, instaurando un rapporto asimmetrico. Lui da sempre
innamorato, lei mai, ossessionata dal culto della bellezza, superficiale, esemplare
di quel mondo femminile affascinato da Mussolini. I due mettono al mondo due
figli, che il verdiano chiama Otello il primo e vorrebbe Attila per secondo, ma
Viola impone la variante Attilio. Viola muore durante la guerra. Ernani muore
d’infarto il giorno in cui dovrebbe andare in pensione.
Otello,
intelligente ma non bello, sarà sempre ossessionato dal fratello, che di lui è
il contrario. Non solo di bell’aspetto, ma dotato di una gran fortuna che lo fa
attraversare il Novecento come personaggio di una storia minore, sempre sul
bordo della Storia, ma troppo “pesce piccolo” per esserne veramente colpito (e
affondato).
Attilio
che parte volontario per la grande avventura in Abissinia. Dove fa molti
incontri fortunati, che gli serviranno nel futuro italiano e non vi dico come.
Che per caso si aggrega alla spedizione etnografica di Lidio Cipriani (una
delle figure reali del testo). Colui che redigerà il famigerato “Manifesto
della Razza”, che fornirà un rifugio post-bellico ad Attilio. Ma soprattutto, nella
spedizione il nostro incontra la bellissima Abeba, di etnia amhara. Con la
quale vivrà quattro anni, per poi dover fuggire quando gli inglesi liberano
l’Etiopia, senza sapere che la lascerà incinta.
Un
figlio che scoprirà solo negli anni Ottanta, in diverse circostanze, anche
senza incontrarlo mai. Nel frattempo, tornato in Italia sposa Marella con la
quale farà tre figli, due maschi inutili, ed Ilaria, che è il motore primo di
tutta la narrazione. Attilio che intanto per lunghi anni vive da bigamo (senza
farsi scoprire, data la sua proverbiale fortuna). Ma la nascita di un figlio
dalla moglie nascosta farà precipitare tutto. Separazione da Marella,
matrimonio con Anita, convivenze con i figli.
Fino
a quando a casa di Ilaria si presenta un “richiedente asilo”, un etiope che la
chiama zia, e che fa scoprire tutta l’altra storia del padre. In realtà è qui
che comincia il narrato, con tutte le vicissitudini (una delle parti più belle)
del racconto del nipote e della sua fuga dall’Africa. Non solo, le storie di Shimeta
Ietmgeta Attilaprofeti ci fanno fare anche un nuovo viaggio nell’Italia dei CIE
(Centri di Identificazione ed Espulsione), dei clandestini, della Roma
multietnica che gravita intorno a Piazza Vittorio, l’Italia di Berlusconi e
Gheddafi e degli accordi con la Libia.
L’Italia
dove Shimeta spera di avere il “sangue giusto” per rimanere in Italia, mal
traducendo lo “ius sangunis” e dimenticando, come tutti i politici, lo “ius
solis”. Ve ne lascio scoprire il senso nella lettura, ribadendo fortemente che
non esiste sangue giusto e sangue non giusto, perché non si deve frapporre tra
i due nessuna linea divisoria.
Ribadiamo,
al fine, che non è un romanzo storico, pur essendo ben documentato. Ma di
sicuro è, potrebbe essere, un romanzo che accende l’interesse per momenti che
molti tendono a dimenticare: l’Italia delle sciagurate guerre di conquista,
delle stragi con l’iprite (cercatene in rete), della rivalità tra Graziani e
Badoglio, delle leggi razziali, dei “matrimoni” fittizi tra invasori ed invasi
(e non entriamo nelle polemiche tra Angelo del Boca e Indro Montanelli).
È un
libro forte contro l’intolleranza, contro la guerra ed ogni tipo di violenza,
contro le mistificazioni, storiche e politiche (ci sarebbe da analizzare tutto
il percorso di Ilaria e Pietro, ma forse andremmo troppo lontano), contro
quella che a me ancora fa ribollire il sangue, la cultura del privilegio.
Mi
rimangono due considerazioni sul testo. La constatazione che Attilio in fondo
attraversa tutta la vita con una visione inconsapevole degli avvenimenti.
Visione che non hanno quelli che, coscientemente, fanno delle scelte, anche
difficili, ma scelte.
L’altra
è una fotografia culturale che mi rimanda la lettura del Manifesto che Attilio
fa ad Abeba. Lui la espone per sottolineare la supremazia dei bianchi sui
negri. Abeba la reinterpreta come supremazia degli amhara sugli oromo, i due
gruppi etnici maggioritari dell’Etiopia.
Comunque,
un libro bello e che sono ben contento di aver letto.
Julie
Otsuka “Venivamo tutte per mare” Corriere Giappone 7 euro 8,90
[A: 22/06/2021 – I: 13/07/2023 – T:
15/07/2023] - &&&
[tit. or.: The Buddha in the Attic; ling. or.: inglese; pagine: 142; anno 2011]
Prima
di addentrarci nell’interessante testo, c’è bisogno di qualche “delucidazione”
ed interpretazione. Cominciamo dall’autrice, una scrittrice di origine
giapponese, ma nata in America da genitori giapponesi di diversa ascendenza. Il
padre era un “issei”, cioè un immigrato nato in Giappone, mentre la madre era
una “nisei”, cioè una persona nata in America da genitori giapponesi. Quindi,
ovvio il legame con il Giappone, ma Julie è americana.
Sebbene
poi questo che abbiamo di fronte è un testo che narra di una peculiare
esperienza del mondo giapponese, nasce dalle ascendenze personali di Julie e
soprattutto è scritto in inglese. Motivo per cui, non lo inserisco nell’analisi
della letteratura giapponese ma in quella della scrittura femminile.
Altro
mistero è il titolo che varia in maniera significativa da un paese all’altro.
Come vedete abbiamo sopra il titolo italiano, che parla della provenienza delle
protagoniste. Ma ad esempio il titolo francese riporta “Certaines n'avaient
jamais vu la mer”, cioè “Alcune non avevano mai visto il mare”, entrando nello
stato d’animo di alcune protagoniste. Il titolo tedesco, invece, recita “Wovon
wir träumten”, cioè “Quello che abbiamo sognato”, entrando proprio nello
specifico delle donne del libro. Poi, lo confrontiamo con il titolo originale
inglese “The Buddha in the Attic”, e ci domandiamo: perché gli editor di tutto
il mondo vanno a modificare ed incidere nelle intenzioni originali della
scrittrice? Il mio solito mistero.
Veniamo
ora al testo. Che è un vero e proprio romanzo corale, in cui non abbiamo
protagonisti individuali, ma collettivi. Agli inizi del Novecento ci fu una
forte immigrazione di manodopera giapponese verso l’America. Partirono molti
uomini in cerca di lavoro, facile da trovare nel Nuovo Mondo. Ma difficile
restò (e resterà sempre) l’integrazione con i locali, gli immigrati essendo
sempre tenuti un po’ distanti (come ben sappiamo tuttora). Ecco che
intermediari di facile guadagno e svelta parlantina, organizzano matrimoni per
lettera. Noi seguiamo quindi uno di questi convogli, che porta una gran massa
di donne verso un destino che non conoscono, verso dei matrimoni con degli
sconosciuti, verso una vita che non sanno come sarà, che le spaventa alquanto,
che non sempre (come vedremo) manterrà le promesse.
Abbiamo
così le loro voci, le voce delle donne e delle ragazze che si imbarcano, nessuna
approfondita, o seguita come protagonista, ognuna descritta ed individuata da
una o due frasi. Sono le loro voci che, capitolo dopo capitolo, ognuno
battezzato con un qualche significativo avvenimento, ci portano nell’incontro
con il nuovo mondo, con lo scontro con una diversa civiltà, con speranze spesso
tradite, con delusioni quasi sempre insormontabili.
Cominciamo dal primo capitolo che narra delle
donne imbarcate in Giappone ed in rotta verso la California per sposare persone
che hanno visto solo in fotografia. Credono che stiano per sposare uomini
ricchi con una carriera avviata, ma, appena scendono dalla nave, rimangono
profondamente deluse, scoprendo la vita misera che le attende, con un marito
povero, stanco e non più giovane. Nel secondo, “Prima notte” vediamo consumarsi
i matrimoni, spesso con persone assai diverse dalle foto, che gli intermediari
di cui sopra avevano ovviamente messo belle ed attraenti persone, quasi sempre
diverse da quelle che troveranno a San Francisco. Poi c’è il capitolo dedicato
all’interazione con i bianchi. Rapporti difficili, così che alcune vanno a
vivere in campagna per sfuggire il contatto con i WASP, altre faranno le
domestiche, relegate negli alloggi della servitù. La maggior parte, poi, si
riunirà in zone “tutte Nippo”, creando le prime “Japantown”. Poi c’è il momento
in cui nascono i figli, ma soprattutto quando i figli crescono, si vergognano
dei genitori che non parlano inglese, ma sono discriminati dai loro compagni di
classe, “americani puri” (ma che noi sappiamo non esistere, essendo un paese in
cui tutti provengono da altrove).
Il punto forte arriva quando scoppia la
guerra tra America e Giappone: i “gialli” vengono isolati, visti con sospetto,
arrestati senza preavviso, deportati i campi di concentramento, certo meno
disumani di quelli nazisti, ma sempre isolati. Queste partenze sono le più
desolanti descrizioni del testo, laddove, solamente, riesco ad isolarne nomi ed
atteggiamenti. Iyo parte e c’è una sveglia che suona nella sua valigia, ma non
si ferma per spegnerla, Kimiko lascia la sua borsa in cucina, ma lo ricorda
quando è troppo tardi. Per finire con Haruko che ha lasciato un piccolo Budda
in ottone, un Buddha che rideva, lasciandolo in un angolo della soffitta della
casa in cui viveva, un angolo dove Buddha sta ancora ridendo. Così capite anche
da dove viene il titolo.
Fino alla “sparizione”: le famiglie bianche
parlano della sparizione dei domestici, dei vicini, degli amici giapponesi, ne
sentono la mancanza, poi, a poco a poco, si dimenticano di loro. Riuscendo in
questa parte la scrittrice, senza alzare nessuna accusa, a descrivere il vuoto
assordante che lascia questa fine delle illusioni.
La scrittura è potente, e credo abbia avuto
necessità di una lunga gestazione per riuscire ad essere univoca e molteplice.
Manca un po’ nella parte di denuncia, ma forse è nell’intento della scrittrice
non recriminare, non giudicare, solo descrivere. Sta a noi capire, decidere,
pensare.
Sta a noi ancora una volta arrivare a capire
che gli americani non sono gli Al Pacino o i Sylvester Stallone, che pur
rappresentano due antitetici modi di recitare, ma sono i John Smith della
prateria, sono, purtroppo, i razzisti alla Donald Trump.
In un mese al femminile, non potevo mancare
un serie di citazioni di un'altra signora della scrittura (anche se non solo
scrive). Non è prolifica, ma ha creato un bel personaggio di detective al
femminile. Parlo di Grazia Verasani dove, nel suo “Di tutti e di nessuno”, alcune
frasi hanno lasciato un segno. Una donna che parla dell’amore dalla parte della
donna, anche con qualche ironia, ma tutte da riflettere. Ve lo porgo così,
senza commenti.
“[Nelle
cose d’amore] ho imparato che ci vuole più fegato che cuore … per buttarsi a
pesce in una nuova storia, anche se un giorno finirà come le altre, perché il
bello deve ancora venire”. (59)
“Io lo appesantivo e lui mi alleggeriva.
Ognuno tirava la fune dalla propria parte. Come si fa a cambiare quando ci hai
messo una vita per essere così?” (106)
“Ripenso
alla liceale impegnata che sono stata, a quel libro di Marx di cui avevo
sottolineato la frase: ‘Il ruolo sociale della donna è il primo termometro
per misurare il progresso della società’, e mi chiedo se il mondo è un
luogo dove si passa la vita ad azzerare e a ricominciare, visto che niente,
nessuna piccola o grande conquista, sembra al riparo da assurdi passi indietro”
(125)
“Una
moglie può sempre tornare comoda, quando ci si sente soli o arrivano i primi
acciacchi… Ci si sposa per questo, no?” (137)
“Molti
ricordi del mio passato sono inesatti o solo vagamente verosimili” (235)
“C’è
una strofa di ‘Rusholme Ruffians’ degli Smiths che fa così: ‘E sebbene cammini
tutto solo verso casa, la mia fede nell’amore è ancora intatta…’” (237)
Ribadendo quindi la difficoltà di programmare idee ed azioni al di là del raggio di una scarsa settimana, velocemente vi abbraccio.
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