Anita
Nair “La ferocia del cuore” Repubblica Passione Noir 24 euro 7,90
[A: 25/11/2018 – I: 29/03/2023 – T:
30/03/2023] - && e ½
[tit. or.: Cut Like Wound; ling. or.: inglese; pagine: 425; anno 2012]
Dopo
aver letto la bella immersione nella realtà indiana delle “Cuccette per
signora”, eccoci ad una scrittura che si colloca una decina di anni dopo. Anita
Nair ha ben presente il mondo indiano in cui vive, e per parlare di un altro
fenomeno radicato nella società indiana, decide di cambiare genere, e di
utilizzare il “noir”, dovendo maneggiare una sostanza abbastanza scivolosa.
Operazione che, a parte il presente risultato, ha di sicuro dato una buona
risposta editoriale, dato che il personaggio principale diventa il protagonista
di almeno una seconda puntata. Che purtroppo ho già letto, e quindi forse,
tendo a mescolare un po’ i caratteri principali dei due scritti. E dove avete capito
cosa intendo per scivolosa.
Intanto, andiamo a menzionare due fatti
importanti e preliminari. Benché si classificato come inglese, lo scritto è
Indian English, che, molto vicino all’inglese, è comunque l’inglese parlato in
India (e molto incomprensibile, soprattutto nella pronuncia). Secondo, il
titolo originale parla di un taglio come una ferita, cosa che ha un suo senso
nel corso del libro. Mentre il titolo italiano è stranamente vicino al titolo
spagnolo (“El corazón es un lugar feroz”), anche se entrambi portano poca acqua
alla comprensione del testo (ovvio che potrebbe anche essere il contrario, che
lo spagnolo abbia ripreso dall’italiano).
Comunque, ripetendo quanto detto per l’altro
libro, qui assistiamo alla nascita del personaggio dell’ispettore Borei Gowda,
uomo molto corretto e poco corrotto. Per questo, emarginato nel corpo della
polizia, così che si dedica particolarmente a “bere, fumare e mangiare”. Ha un
figlio tossico che vive in un’altra città, dove, per la sua carriera e per
tenerlo d’occhio, s’è trasferita anche sua moglie Mamtha. I due personaggi che
si affiancano a Borei sono poi il giovane apprendista Santosh e la sua vecchia
fiamma Urmila, il suo amore di più di venti anni prima, che Borei non aveva
dimenticato, e che, ripresentatasi ora, fa rinascere scintille sopite nel
nostro.
Il giallo prende le mossa dall’uccisione di
un ragazzo che vende il suo corpo, ucciso per strangolamento con un laccio cui
sono incollati pezzi di vetro (tipico espediente utilizzato per i lacci usati
per le gare di aquiloni, come ci aveva insegnato Hosseini nel suo primo libro).
Un’uccisone che lascia un tipico segno di ferita sul collo, come dice il
titolo.
A questa prima si accavallano altri omicidi
di uguale stampo, e di simile ambientazione. Così che veniamo proiettati nel
mondo dei travestiti indiani, gli “hijra”, un fenomeno ben presente nel mondo
indiano, tanto che una legge del 2014 ne ha riconosciuto l’ufficialità come
terzo sesso. Anche se poi, più che transessuali, si tratta di “khoti”, ragazzi
che si vestono al femminile. All’inizio Borei stenta a trovare un fattore
comune alle morti, e solo la sua pazienza investigativa porta ad individuare la
strada maestra.
Strada che noi già intravediamo dalle prime
pagine, anche se Anita tenta di confonderci entrando in descrizioni, anche
magistrali, dei rapporti complessi, delle contraddizioni che, pur in un paese
teso al futuro, ne legano tradizioni ad un passato difficile da superare.
Comunque, nel proseguire delle descrizioni e delle indagini, apprezziamo il bel
modo di introdurre e descrivere i personaggi.
Ad esempio, il Consigliere Ravi Kumar detto
“Anna” (parola hindi per indicare la “grande madre protettrice”) corrotto come
tutti gli amministratori del distretto di Borei, ritratto nella sua
casa-fortezza con tutta la corte di malavitosi che vi girano intorno. O il bel
personaggio di Urmila, che, a parte il rapporto tra lei e Borei, ci fa entrare
nelle contraddizioni indiane, tra un passato ed un presente permeato di magia,
con le rigidità del sistema delle caste, rispetto ad un possibile futuro
moderno e “occidentale”.
Ma ovviamente al centro, ritorna la figura di
Borei, troppo alcool, troppe sigarette, un cinquantenne trasandato, con la
carriera bloccata da superiori corrotti. Una persona onesta, bloccata per la
sua onestà, e messa in disparte perché le sue intuizioni mettono quasi sempre
sotto accusa personaggi che sarebbe bene “non toccare”.
Fortunatamente, la scrittrice ci riserva un
piccolo colpo di scena finale, che dà un tocco di interesse maggiore all’ultima
parte, a volte (spesso) troppo in fretta scritta e presentata. Tuttavia, pur
essendo un libro con poco suspense, ha un suo interesse per le descrizioni di
un mondo di cui difficilmente si sa qualcosa, un mondo di prostituzione che, a
leggere i giornali, anche ora, a dieci anni della scrittura, è attuale. Che i
casi di stupro e di morte (oltre quelli vicini a noi) riempiono pagine e pagine
dei giornali indiani.
Un piccolo inciso finale. Borei viaggia per
la città su di una Royal Enfield Bullet, una moto molto diffusa in India, ma
nota soprattutto per il tempio “Om Banna” a lei dedicato vicino a Jodhpur. È
una storia complessa e molto indiana quella di questo tempio. Ne potete cercare
in rete, oppure leggere il piccolo allegato a questa trama.
Drago Hedl “Silenzio elettorale” Repubblica
Passione Noir 26 euro 7,90
[A: 07/12/2018 – I: 09/04/2023 – T:
10/04/2023] - &&
[tit. or.: Izborna šutnja; ling. or.: croato; pagine: 362; anno 2014]
Se la
memoria, ed i miei file, non dicono menzogne, credo sia il primo libro scritto
in croato che entra nelle mie trame. Una nuova lingua, ma sentimenti “antichi”,
che, seppur mescolati ad altri, escono con le lingue di tutti i paesi
dell’ex-Jugoslavia. Lingue che magari non rispettano l’andamento sociopolitico
del territorio, ma che, ad ora, possiamo elencare come: bosniaco, croato,
macedone, serbo e sloveno. Più, ovviamente, dialetti riconducibili ai paesi
limitrofi.
Qui,
per l’appunto, abbiamo uno scritto croato, ed uno scritto post-militare. Non si
parla della grande tragedia degli anni Novanta, ma ci si immerge nella vita
quotidiana di una cittadina, Osijek, incuneata tra Bosnia, Serbia ed Ungheria.
Cittadina che è anche il luogo natale dell’autore, Drago Hedl.
Drago
è un giornalista investigativo croato, noto per le sue forti inchieste che
spesso hanno fatto tremare i palazzi del potere, e non solo. Dalla metà degli
anni ’10 ha completato la sua scrittura con la pubblicazione di alcuni romanzi
“gialli”, che cercano (anche) di potere a galla problematiche sociali. Ma che
soprattutto sono imperniate su alcune figure investigative interessanti. In
particolare, già qui (e ho letto che si ripresenteranno anche in altri scritti)
due sono gli elementi cardine: l’ispettore Vladimir Kovač ed il giornalista
Stribor Kralj. Dove il secondo sembra ricalcare abbastanza la vita stessa di
Drago, soprattutto nel momento in cui Stribor, per una serie di motivi, lascia
i quotidiani locali, per passare alla “grande investigazione” nel giornale
nazionale “Jutarnji List”, proprio come Drago stesso.
Qui,
in questa prima uscita, vediamo appunto la nascita dei due personaggi. Stribor,
con una piccola carriera alle spalle che gli ha fornito molti ed utili
contatti, sposato con Lena che all’inizio del romanzo gli confessa di essere
incinta. Vladimir invece è più grande, e lo vediamo alle prese con il triste
divorzio da Magda, dopo quattordici anni che sembravano dover proseguire per
sempre. È Magda che lo lascia, lui rimanendone innamorato, e confortato solo da
lunghe chiacchierate e bevute con la collega Vesna. Che fin dall’inizio sembra
avere una cottarella per Vladimir, ma sono storie che è ancora troppo presto
per sviluppare.
L’altro
elemento che appare è un reduce della guerra, Igor, perseguitato dalla vista
dei cadaveri incontrati durante i grandi massacri degli anni Novanta, che lo
hanno portato ben dentro la follia, da dove un valente psichiatra lo ha tirato
fuori (o quasi).
Igor
è quello che trova i cadaveri, Vladimir (con Vesna) indaga e Stribor, facendo
il suo lavoro giornalistico, collabora con Vladimir e scrive pezzi di fuoco sul
giornale.
I
cadaveri sono di due giovani, sui quattordici anni, ospitate dall’orfanotrofio
locale, che, disinibite e comunque desiderose di accrescere le poche risorse
economiche personali, si danno a piccole avventure pseudo-pornografiche. Ma
che, ad un certo punto, diventano qualcosa in più. Che Ivana rimane incinta, e
viene trovata morta, forse annegata, sulle rive della Drava (il fiume di
Osijek). Che Sanja la sua amica e sodale sa qualcosa, ne inizia a parlare a
Stribor, prima di finire anche lei, morta sulle rive della Drava, con una
siringa sul braccio sinistro (peccato che sia mancina). Tutti puntano su
suicidi per varie ragioni, meno i nostri “eroi”.
Il
tutto immerso nel clima politico croato. Perché siamo vicini alle elezioni, ed
il politico di punta è fin dall’inizio avvolto in torbide faccende. Allora,
complotti, sicari, mafie più o meno palesi, con i nostri che, nonostante i
colpi che subiscono, non possono che arrivare, stanchi e malconci, alla verità.
Di facile immaginazione, anche se con qualche piccolo colpo di scena (ad
effetto).
Insomma,
un impianto decente, personaggi simpatici, vicenda che promette, ma che alla
fine il tutto rimane a livelli di scarsa sufficienza. Con qualche punta poco
credibile. Dei sicari che riescono a mettere a segno colpi magistrali, ma che
alla fine si perdono in un bicchier d’acqua. Con una vicenda finale venata da
colpi rancorosi del tipo visto che non mi aiuti, ti affosso. Quindi, buon
inizio ma una vicenda alla fine abbastanza prevedibile.
Sono
comunque curioso di vedere come si possano evolvere i personaggi, per cui
credo, che, prima o poi, qualche altro romanzo del buon Drago potrà forse
entrare nella mia libreria.
Minna Lindgren “Mistero a Villa del Lieto
Tramonto” Repubblica Passione Noir 27 euro 7,90
[A: 07/12/2018 – I: 20/04/2023 – T: 22/04/2023]
- & e ½
[tit. or.: Kuolema Ehtoolehdossa; ling.
or.: finlandese; pagine: 315; anno 2013]
Non sono certo molti gli autori finlandesi
sia in generale sia nella mia biblioteca. Ed in genere, più sul versante
narrativo in generale (Paasilinna, Waltari e pochi altri). Nella parte “noir” a
mente non ne ricordo, come se non fosse un genere usuale. Tanto che anche
questo, catalogato come racconto “di indagine”, in realtà, nella parte di
studio dei comportamenti criminali risulta essere non dico carente, ma
addirittura nullo.
Intanto, visto le nostre poche conoscenze,
diciamo che l’autrice, Minna Liisa Gabriela Lindgren, è un personaggio
discretamente noto in patria: da sempre all’interno della radio televisione
nazionale (Yleisradio, che tra l’altro viene spesso citata nel romanzo e dove
ha lavorato sino al 2008, prima di dedicarsi alla scrittura), è un’esperta
melomane (ed anche qui, notevoli sono i riferimenti alla musica classica sparsi
tra le pagine), autrice anche di libretti d’opera. Tra il 2013 ed il 2015
pubblica tre romanzi, di cui questo è il primo, e che ruotano intorno alle
vicende di persone che vivono in un ricovero per anziani, il “Bosco del
Crepuscolo”. Erroneamente classificati come “noir”, sono in realtà momenti,
schizzi di vita, dedicati a persone anziane, che, per la loro età, non possono
che, talvolta, morire. Ma su questo torneremo. Constatando, di passaggio, che
in patria i libri sono noti come “Trilogia di Helsinki” (e ci si tornerà
anche).
Collegandomi al nome del ricovero, che in
finlandese suona “Ethoolehdon”, diamo anche una tirata d’orecchie ai
responsabili editoriali che, a parte il cambio del nome della villa, modificano
“Kuolema” che significa “morte”, con un anodino “mistero”. Altro inganno per i
lettori, appunto, che di misteri ce ne sono pochi, mentre di morti, provocate,
accidentali o naturali, è pieno il testo. La modifica del nome della villa in finlandese
è dovuta all’uso delle declinazioni e delle agglutinazioni che in questa lingua
sono pane quotidiano. Mentre il titolo originale, più che alle morti siano esse
sospette o meno, si riferisce anche agli anziani della casa di riposo che
aspettano una morte che sembra non arrivare mai.
Eliminando qui il “noir”, vediamo al centro
le nostre tre protagoniste ben al di là dei novanta anni, che trascorrono gli
ultimi sprazzi della loro vita nel “Bosco del Crepuscolo”, giocando a carte,
bevendo alcolici, prendendo pillole e usando girelli e pannoloni. Abbiamo Anna
Liisa puntigliosa ex professoressa di finlandese, Irma estroversa ed
imprevedibile e Siiri, la protagonista, riflessiva, metodica, una volta
velocissima dattilografa.
Certo, nelle prime pagine c’è un morto, il
cuoco Tero, e sembra che dietro la morte ci sia qualche mistero. Ma le nostre
tre nonnine non indagano realmente sul crimine, ma su quello che accade nella
Villa. Aiutate dal misterioso tassista Mika, le nostre eroine riusciranno,
anche in maniera diagonale, a sventare le storture del welfare finlandese,
dove, per avere sussidi, i responsabili della Villa aumentano a dismisura i
farmaci alle vecchiette, con mancamenti ed improvvise perdite di memoria, che
fanno rinchiudere le più “pericolose” (per il sistema fraudolento) nei reparti
d’isolamento.
È quindi un viaggio nel mondo degli anziani
quello che ci propone Minna. Anziani spesso abbandonati dai familiari che
neanche trovano il tempo di andarli a trovare, che vengono relegati in queste
strutture solitarie, dove sì cercano conforto reciproco, ma che comunicano un
forte senso di disperazione. Dove non ancora peggio, che dietro le belle parole
ci sono violenze, fisiche e verbali, un modo infantile di trattare l’anziano,
anche quando sembra ragionare ben meglio degli infermieri importati da mezzo
mondo. Anziani di cui non ci si fida, anche quando (o soprattutto quando)
denunciano queste storture.
Mentre le nostre tre continuano, con
accanimento, a vivere una loro vita. Anna Liisa trova l’amore. Irma, superato
un brutto periodo, torna a fare la svampita, tra shopping e whisky. Siiri,
anche se forse con qualche colpo di demenza senile (a 92 anni!) è quella che dà
il colpo giusto alla vicenda, dando fiducia allo sbandato Mika, e trovando la
via d’uscita alle situazioni ingarbugliate che si andavano accumulando nella
Villa.
Il tutto si scioglie senza un vero finale,
laddove Irma finirà con il ripetere ancora una volta il suo ritornello che
richiama il tempo che passa: "Tic tac, tic tac, tic tac".
Ci sono due cose finali da sottolineare, che
riprendo dal bell’intervento della traduttrice Irene Sorrentino sulle
difficoltà e sulle scelte effettuate per tradurre il romanzo. Il primo riguarda
la cantilena di Irma, che nell’originale era in svedese (seconda lingua del
paese) ed era espressa coma “döden döden döden”, che, come tutti i conoscitori
delle lingue, significa “morte, morte, morte”. Nella difficoltà sia di
lasciarlo in svedese, sia di tradurlo banalmente, Irene trova questa soluzione,
rifacendosi al coccodrillo di Capitan Uncino.
Altro punto è le (forse eccessive) gite in
tram di Siiri, che servono a Minna quasi a farci fare un giro turistico in
Helsinki, parlandoci delle strade, ma anche delle case e degli architetti. In
questa edizione non rende molto, mentre, come ho potuto vedere in libreria,
nell’originale Sonzogno, corredato da una mappa della città, ha una ben altra
resa. Peccato queste scelte.
Per la parte “personale” spero che l’accenno
a pagina 48 “Avrebbe dovuto leggere “La vita, istruzioni per l’uso” di Georges
Perec, ma non lo aveva finito tanto era noioso, prolisso e macchinoso”, sia
ironico, altrimenti il giudizio finisce molto sotto lo zero.
Rimane un libro intrinsecamente finlandese,
quindi anche con qualche difficoltà per noi “sudisti” di entrare in questo tipo
di ironia. Che tra l’altro scatta con difficoltà. Mentre però in altri autori
la verve riscatta il tutto, qui, alla fine, rimane tutto un po’ piatto.
Mai Jia “Il fatale talento del signor Rong”
Repubblica Spy 11 euro 7,90
[A: 27/03/2019 – I: 24/06/2023 – T: 26/06/2023] - &
[tit. or.: 解密 - Decoded; ling. or.: cinese; pagine: 379; anno 2002]
Ecco un altro prodotto che non soddisfa né le
premesse né si modifica nell’andar di lettura, risultando anzi lento e fuori centro.
Ma andiamo con ordine.
Non capita sovente di leggere di autori
cinesi – cinesi, cioè escludendo gli espatriati ed i fuggitivi. In realtà,
l’unico che ho veramente letto è il Nobel Mo Jan, e non mi piacque. Come
scrissi per Mo, altra caratteristica dei cinesi è l’uso di pseudonimi nella
scrittura. Veniamo così a sapere che il nostro si chiama Jiang Benhu, è un
sessantenne, a lungo arruolato nell’Esercito e che scrisse questo testo in
dieci anni, dal ’91 al ’01. Ed in effetti, la struttura del romanzo è assai
complessa, e possiamo quindi capirne la difficoltà di nascita.
Il primo elemento che mi ha prima storto e
poi reso difficile una piena comprensione del testo è la sua vicenda
editoriale. Intanto, qui viene inserito in una collana di spionaggio dopo
essere stato portato in Italia, con grande sforzo, dalla casa editrice
Marsilio. Che nella sua edizione confessa di aver usato la traduzione inglese
del testo cinese. Ho visto altre volte questi passaggi, e li ho sempre trovati
forieri di impoverimento alla fruizione del libro.
Il secondo mal punto, sempre nell’ottica
editoriale, è il titolo, che in italiano sottolinea una delle caratteristiche
fondamentali di quello che si rivelerà il protagonista della vicenda. Ma sia in
inglese che in cinese (stando ai traduttori online) il titolo tradotto in
italiano sarebbe “Decifrato”. Un titolo ovvio meglio aderente all’idea del
testo, che parla (ma vedremo come) di crittografia. E dove, forse, la
decrittazione non attiene solo ai codici segreti, ma anche al personaggio
stesso del romanzo.
Venendo al testo, è vero che l’autore si
industria di utilizzare molte forme di scrittura, come ad esempio l’uso, molto
da feuilleton francese dell’Ottocento, di finire i capitoli con delle frasi che
dovrebbero portare il lettore a chiedersi: e dopo? Mi si dice, ma non sono un
esperto, che è una tecnica cinese millenaria. Come cinese è l’uso del sogno in
quanto rivelatore di verità nascoste, anche questo tipicamente usato nei
racconti cinesi del XV secolo.
Giò tutto ciò porta pesantezza al testo. Se
poi aggiungiamo che non c’è un briciolo di tensione in tutte le circa
quattrocento pagine del testo, e che i personaggi paiono al più dei
bassorilievi piuttosto che degli attori a tutto tondo, abbiamo ulteriori
elementi di criticità. Perché in fondo certo sembra che lo spionaggio debba
avere dei momenti nella trama, visto che si parla a lungo, ma solo dopo la metà
del libro, di codici crittografati, dai nomi “colorati”, Porpora e Nero. Ma a
che servono? Come vengono impiegati? Qual è lo sforzo del signor Rong per
entrare nel codice e svelarlo? Nulla di tutto ciò esce dal racconto, ed allora,
che spionaggio è?
Se poi seguiamo il testo, vediamo che per
buona metà ci viene narrata la saga familiare della famiglia Rong, a partire
dalla capostipite, Nonna Rong, e dalla trasferta in America del nipote per
diventare un esperto analista di sogni. Nonna muore, e Rong, cambiato il suo
nome in Vecchio Lillie (?), al contrario, diventa un esimio matematico che
tornato in patria, fonda una Università dal fulgido prestigio.
Avremo
poi tutta una serie di matematici, a partire da una donna dolicocefala, Rong
Abaco Lillie, un nipote che segue le orme dei matematici, il Giovane Lillie,
fino (e siamo quasi a metà libro) ad incontrare un ulteriore nipote (mi sono
perso negli intrecci), Rong Jinzhen. Quasi autistico, anche lui con il cranio
sviluppato, capace di ricostruirsi la matematica a partire dalla somma di due
numeri. Abbiamo tanto tempo da seguirlo nelle lezioni con un tutore polacco,
con la sua laurea in tre settimane, fino al suo arruolamento nell’unità 701,
che si occupa, per l’appunto, di decifrazione. Vediamo il polacco riparare in
America e sviluppare Porpora. Leggiamo, che non capiamo come, Jinzhen entrare
nei segreti di Porpora. Vediamo gli altri (i cattivi?) sviluppare allora Nero.
E vediamo come Jinzhen perderà la ragione poco prima di risolvere il problema.
Ma
non capiamo chi ci sia, cosa faccia il polacco, perché l’unità 701 è così
importante. Insomma, forse il verso mistero da decifrare è chi sia (chi sia
stato?) Rong Jinzhen.
Lo
scrivente cerca di portarci in tutti questi meandri, con testimonianze,
interviste, salti temporali, e tante altre opere d’ingegno stilistico. Non
ultimo, con la trascrizione di una serie di appunti desunti dai taccuini di
Jinzhen, che avrebbero permesso ad un suo collaboratore di finire l’opera del
sommo. Noi li leggiamo, e capiamo solo che, oltre a pensieri sparsi, ci sono
citazioni varie, tra cui alcune, pur pregevoli, del “Cantico dei Cantici”.
E il
mistero? Lo spionaggio? Poteva benissimo essere inserito in una collana di
saghe familiari, o rimanere un testo isolato, senza etichette. Forse ne avrebbe
giovato. Come, di certo, avrebbe giovato una sua traduzione diretta dal cinese.
Un
ultimo accenno: in un’intervista Mia Jia dice di non conoscere Alan Turing e la
sua storia. Primo, mi sembra una bufala. Secondo, se citi ad un certo punto
Nash, lo ritengo una bufala. Terzo, se oltre a Nash parli di Intelligenza
Artificiale, beh, finisco i commenti.
“Quando
la gente parla del proprio paese si riferisce ai parenti, agli amici, alla
lingua, al ponte che attraversa quando va a lavorare … non a una particolare
fetta di terra delimitata da confini prestabiliti, né agli interessi di un
partito … o alla venerazione nei confronti di un demagogo.” (199)
J.K. Rowling (Robert Galbraith) “Bianco
Letale” Repubblica Emozione Noir
3 euro 7,90
[A: 01/07/2019– I: 06/08/2023 – T:
09/08/2023] - && e ½
[tit. or.: Lethal White; ling. or.: inglese; pagine: 839; anno 2018]
Da
una decina di anni ormai, la “mamma” di Harry Potter ha dedicato i suoi sforzi
letterari alla costruzione dell’universo del detective Cameron Strike. Dopo un
buon esordio, ha poi proseguito con libri di alterne fortune, arrivando con
questo al quarto episodio. E noi sappiamo che dopo di questo, sono usciti già
altri due libri. Che tuttavia non hanno ancora la forza di entrare nella mia
biblioteca. Il mondo di Strike è interessante, ben costruito, ma a volte tende
ad incartarsi su sé stesso. Come in questo caso.
Intanto,
da protagonista unico, sta correggendo il tiro in un duetto, dove al nostro
“cormorano” si affianca un “pettirosso”, la sua ormai socia Robin Ellicott.
Sviluppo potenzialmente interessante, che in questo lungo romanzo mostra
tuttavia i suoi possibili limiti.
Sappiamo
ormai da lunga frequentazione che le serie tendono a sviluppare la loro trama
sui due binari maggiori: il personale, che rimbalza di libro in libro, e la
trama in sé, che si esaurisce nel corso del romanzo stesso.
Qui,
come sempre più spesso nella Rowling, il personale si concentra più su Robin
che su Cormoran. Del detective principe sappiamo quasi tutto. Ex-militare,
gamba amputata e sostituita da protesi al ginocchio, intelligenza pronta, ma
soprattutto un difficile rapporto con l’altro sesso. Ha avuto molte donne (beh,
in partica una nuova ad ogni libro), ed anche qui a lungo si rapporta con una
poco attraente (letterariamente parlando) Lorelei. Arriverà la rottura,
inevitabile, ed un nuovo bivio: compare, come fa a tratti, la sua prima ed indimenticata
fiamma, Charlotte, verso la quale ha un conflittuale rapporto, e si rinsalda un
rapporto che non è ancora (e forse non lo sarà mai) di amore verso Robin.
Riuscirà, prima o poi, la nostra scrittrice a decidere se i due possono fare
una coppia fissa?
Sull’altro
versante c’è Robin che inizia il libro con il suo matrimonio con Matthew, anche
se, per come si comporta il tizio, io avrei divorziato il giorno dopo. Se tu ti
permetti di cancellare i miei SMS non hai dignità di condividere la mia vita.
Lei invece, pur combattuta, continua per quasi seicento pagine a cercare di
rimetterlo in piedi, anche se poi dovrà finalmente arrendersi all’inconsistenza
del tizio. Ma a quel punto, nella sua mente, torna il tarlo che la tormenta da
libri e libri: “sono forse innamorata di Strike?”. Un dubbio che anche questa
volta non avrà una risposta definitiva.
La
trama in sé ruota invece intorno ad un bel garbuglio di personaggi, per
districare i quali alla Rowling sono necessarie appunto le più di ottocento
pagine del libro.
Molto
ruota intorno alla famiglia (allargata) di James Chiswell. Lui è un Ministro
conservatore del governo britannico. Ha tre figli avuti dalla prima moglie:
Freddie, morto in guerra in Iraq, Izzy, nubile e sua segretaria e Fizzy,
sposata ma in secondo piano nella trama. Poi c’è un figlio fuori dal
matrimonio, Rapahel, da poco uscito di prigione dopo aver scontato una pena per
aver ucciso una donna in un incidente automobilistico guidando sotto
stupefacenti. Ed anche una seconda moglie, Kinvara, il cui unico interesse pare
siano i cavalli.
Allargata
anche a due giovani, un tempo alle dipendenze di Chiswell, Jimmy e Billy
Knight. Il primo un patetico estremista, dedito a donne e droghe. Il secondo
psicotico a seguito di un trauma infantile, del tempo in cui il loro padre
faceva cose forse poco limpide per i Chiswell.
Il
tutto nasce da Billy, che in una crisi, contatta Cormoran per parlargli di uno
strangolamento di un bambino. Poi scompare. Strike e Robin cominciano ad
indagare, scoprendo che James è sotto ricatto da Jimmy per una storia che si
chiarirà nelle ultime pagine. Da qui comincia la ronda che attraversa tutto il
libro. Robin si intrufola nel Ministero, dove scopre alcuni altarini, di
interesse laterale rispetto al libro. Ma anche i comportamenti strani dei
Chiswell: James sempre alterato, Izzy preoccupata, Raphael piacione verso tutte
le donne con un fare un po’ losco, Kinvara con alti e bassi umorali, a seconda
di chi le è vicino.
Collante
a varie vicissitudini, poi, è il bianco del titolo. Primo, perché in diversi
punti del libro, i protagonisti si trovano a bere a dei pub che, come spesso
accade laggiù, sono dedicati al “White Horse”. Poi, visto che i Chiswell, e
Kinvara in particolare, sono legati ai cavalli, c’è il bianco del titolo, il
“Lethal White”, che è una sindrome equina, dove i puledri nascono esteriormente
normali, ma con il mantello bianco e gli occhi azzurri. Questo indica una
anomalia del colon, per cui nel giro di pochi giorni muoiono. Sindrome che è
ben rappresentata in un quadro presente nella magione dei Chiswell, che ad un
certo punto (forse sì, forse no) potrebbe essere attribuita a George Stubbs. Che
tutti voi vi domanderete chi sia. Ho scoperto che è uno dei più grandi pittori
di cavalli inglese, ed un suo dipinto ignoto potrebbe valere decine di milioni
di sterline.
Ho
dimenticato di dirvi che ad un certo punto, James Chiswell muore, e passeremo le
ultime duecento pagine prima a capire che è stato ucciso, poi come è stato
ucciso e poi da chi è stato ucciso. Questo per rimarcare la forse eccessiva
lunghezza della Rowling. Inoltre, come spesso negli altri libri di questa
serie, nel finale Robin si mette in situazioni pericolose, dove viene salvata
all’ultimo istante dal nostro Cormoran Superman. Che per soprammercato,
riuscirà a risolvere anche i motivi delle angosce di Billy.
Ci
sarebbero altri rivoli minori da analizzare, ma penso che abbiate capito che la
lunghezza del testo è un po’ stancante, anche per noi che raccontiamo le trame.
Per cui, con la speranza che la scrittura potteriana migliori, metto anche io
un punto fermo.
Non ci si può esimere da ricercare qualche
frase utile dall’universo della “crime fiction”, come direbbero gli inglesi. Ecco
allora che trovo una serie di frasi ricavate dal libro “Le perfezioni provvisorie” di Gianrico Carofiglio. Che
cominciano e terminano con citazioni di citazioni, da Paul Valery a Theodor Adorno,
per poi passare a florilegi che toccano l’universo dei libri e quelle delle
relazioni tra persone.
“Paul
Valéry: il modo migliore per realizzare i propri sogni è svegliarsi” (14).
“Io
ho voglia di condividere quello che leggo. Quando ripeto una frase che ho
letto, o un concetto, o una poesia, mi sembra un po’ di esserne l’autore” (15).
“Talvolta
pensavo che mi sarebbe piaciuto incontrare una persona che mi piacesse come mi
erano piaciute loro … Il pensiero mi metteva un po’ di tristezza … [ma mi
dicevo] che non potevo lamentarmi. Avevo il lavoro, lo sport, qualche viaggio
da solo, qualche uscita, ogni tanto, con amici cortesi e distanti. E poi i
libri, naturalmente. Mancava qualcosa, certo. Ma io ero uno che da piccolo
restava molto impressionato, quando gli dicevano di pensare ai bambini
dell’Africa che muoiono di fame” (48).
“Chi
legge troppi libri, speso fa cose di cui non c’è bisogno” (75).
“A
volte mi viene da piangere … a pensare che il ricordo delle donne che ho amato
non mi fa soffrire. Al massimo mi dà una vaga tristezza, fiacca e remota” (77).
“Tanti
anni prima mi riusciva molto facile ripetere a memoria le parole dei film,
delle canzoni, dei libri, delle poesie. Poi avevo cominciato a trovarlo sempre
più difficile. Niente come assistere allo sgretolamento di un’abilità che davi
per scontata riesce a evocare con più forza l’idea inquietante del tempo che
passa.” (233).
“L’ultima
volta con… Margherita… era stato tre anni prima. Eravamo andati a Berlino …
Berlino mi era piaciuta pazzamente e avevo pensato che, se non fosse esistito
l’inverno, avrei volentieri vissuto in quella città” (254).
“Come
cazzo parli? La prossima volta che esci con una ragazza le chiedi se è propensa
a prendere in considerazione la prospettiva di instaurare una relazione
implicante anche saltuari intrattenimenti sessuali?” (262).
“Adorno
diceva che la forma più alta di moralità è non sentirsi mai a casa, nemmeno a
casa propria. Sono d’accordo. Non bisogna mai sentirsi troppo a proprio agio.
Bisogna sempre essere un po’ fuori posto” (333).
I tempi esterni sono cupi e non invogliano pensieri sereni. Abbiamo sempre l’ottimismo dalla nostra, ma Gramsci c’è molto vicino. Speriamo che anche questa volta ci salvino i nostri abbracci.
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