domenica 15 ottobre 2023

Multietnica - 15 ottobre 2023

Una trama all’insegna del coinvolgimento di tante realtà diverse, sperando che alla fine, non solo nei libri, ma anche nel nostro martoriato mondo, si riesca a convivere e vivere la pace. Allora, abbiamo uno splendido Peter Pan, che non avevo mai letto nella sua versione integrale, un confort book giapponese, una dissertazione di Pif da cui mi aspettavo di meglio. Ma soprattutto il libro di Colum McCann di una cocente attualità e l’altrettanto storico libro di Carlos Fuentes, che ripercorre alcune vicende del mitico Ambrose Bierce, un autore americano che incontrammo in gioventù con il mio amico Luciano.

Pif “La disperata ricerca d’amore di un povero idiota” Feltrinelli s.p. (Regalo della sig.ra Laura)

[A: 25/12/2022 – I: 30/01/2023 – T: 01/02/2023] &&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 217; anno: 2022]

Sinceramente pensavo meglio. Non è che mi aspettassi la verve delle Iene, o del bellissimo film. Almeno pensavo a qualcosa come il sabato di Radio Capital. Invece, seppur la scrittura è sempre gradevole, quasi come il parlato, la storia in sé non prende e tutto rimane un po’ freddo e con poca suspense. Non che sia un giallo, ma si inizia con delle aspettative, che vengono frustrate per tutto il romanzo.

Tra l’altro, per una serie di descrizioni e di narrazioni, sempre quasi che sia stato sponsorizzato da un’agenzia di viaggi o da una pro-loco. Certo, l’idea di fondo cerca di colpire qualche obiettivo sensibile alle coscienze, ma, ripeto, non sembra colpire il bersaglio.

L’idea di fondo è di mettere alla berlina uno smodato uso delle app di internet, specialmente quelle che consentono, facilitano, promettono incontri con persone cui potrebbe essere interessante costruire un rapporto. Ovvio che Pif è troppo maliziato per prendere di petto cose tipo Tinder, Once o The Inner Circle. Quindi inventa una possibile app che ti indica quale possa essere la tua anima gemella.  

Prima però facciamo la conoscenza con l’idiota del titolo, che più che idiota sembra uno sempre un passo indietro alla realtà. Lo vediamo alla pari in Inghilterra, lo rincontriamo in una multinazionale venti anni dopo. Sapremo qualcosa di lui e della sua giovinezza durante lo svolgersi del libro. Ogni volta senza che riesca a fare un passo nella direzione giusta. Ogni volta infognato in situazioni che prima lo mettono in difficoltà e poi lo lasciano sconfitto sul campo.

Arrivato, inutilmente, ai quarant’anni, un ex compagno di liceo (che gli aveva soffiato la ragazza cui mirava, e che poi l’aveva anche sposata) avendo sviluppato l’app di cui sopra, lo convince ad usarla appunto per trovare l’anima gemella. Peccato che lui avrebbe trovato qualcuno cui interessarsi. La simpatica Olivia della mensa aziendale. Ma non è tra le possibili anime, quindi, andando alla ricerca di queste, perderà invariabilmente anche quella.

L’app gli fornisce un elenco di sette possibili “gemelle”. Due in Italia (Siena e Lecce), una italiana a Dubai, una in Svezia, una in Groenlandia, una a Brighton ed una a Instabul (forse voleva dire Istanbul con qualche “n” ballerina).

Con l’aiuto di un simpatico collega, comincia ad organizzare incontri e viaggi. Anche se noi ci domandiamo quante cavolo di ferie abbia e come mai gliele fanno prendere a rate e ravvicinate (ma avete mai lavorato in una multinazionale?). Fatto sta che, soprattutto per Siena, ma anche per i paesi scandinavi ed in parte per Lecce, l’organizzazione degli incontri procede di pari passo con la descrizione del posto, appunto come fosse una pro-loco che fa marketing.

In particolare, su Siena si dilunga (anche non senza qualche divertimento) sul Palio, sulle Contrade e sulla vita cittadina durante l’evento. Tra l’altro Pif narra della vittoria della Pantera nel 1951, e non ha inventato nulla. Inventa invece la vittoria attuale, che la Pantera non vince dal 2006 (anche se nel Palio del 2022, la Pantera è di rincorsa come dice Pif).

Sebbene siano belle le pagine su Siena, meritano un plauso le reminiscenze della Lecce barocca. Ma soprattutto, per me, rimangono impresse le descrizioni del mondo freddo della Groenlandia, con paesaggi che mi sembrano un’Islanda tutta ricoperta di ghiaccio.

Comunque, il protagonista riesce a fallire tutti gli incontri. Una volta l’anima è innamorata di un altro, un’altra è stonata ed il protagonista non sa stare con persone sgraziate (ma allora com’è che doveva essere gemella?). Poi una risulta un maschio, ma non ci sono pulsioni gay in vista, un’altra è una sua vecchia compagna di liceo che non si ricorda per nulla di quel coetaneo la cui unica risorsa era sparare citazioni a raffica. Una è troppo ambientalista ed una vuole fare un figlio, ma non con lui. Infine, dopo sei fallimenti, la settima neanche va a cercarla.

Certo, oltre che guida turistica, il libro è un piccolo riassunto di “cattive” posizioni da assumere verso le donne, un campionario di non corretta educazione comportamentale. Come se fosse il terzo elemento della campagna che Pif intraprende con lo scritto.

L’unica cosa che mi ha divertito è l’happy end finale, che non ti aspetti e che è talmente ben costruito da sembrare la fine che Pif aveva in mente quando ha iniziato a scrivere.

Come corredo, ho preso mentalmente nota dell’enorme massa di citazioni che farciscono il testo, anche se non so e non mi interessa sapere quali siano vere e quali inventate. Forse è la seconda cosa divertente del testo, che però, alla fine, convince poco e soddisfa meno.

“Perché uno crede che a invecchiare siano sempre gli altri?” (18)

Colum McCann “Apeirogon” Feltrinelli s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 30/01/2023 – I: 12/04/2023 – T: 15/04/2023] - &&& e ½  

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 518; anno 2020]

Pur non convincendomi mai tantissimo, McCann è uno scrittore che merita una lettura. Che raggiunge un buon livello di gradimento, anche se poteva forse migliorare ancora se non si fosse intrappolato in una scrittura che più complicata non si può.

Intanto, e per fortuna, migliora il rapporto con gli editori, visto che qui non è possibile modificare il titolo originale, che “Aperiogon” può solo essere indicato come “Aperiogon”, che, derivato dal greco, indica un poligono con un numero infinto numerabile di lati (“apeiros” illimitato “gonios” angoli). Un poligono difficile da immaginare, pensatelo come un cerchio visto da lontano, dove, se ci si avvicina, invece della curva si individuano infinitesime piccole rette.

Un invito, da parte dell’autore, di vedere le cose da diversi punti di vista, da diversi lati, e non da uno solo. Ovviamente, Colum non poteva scrivere un numero infinito di capitoli, ed allora è ricorso ad un altro simbolo, il bellissimo “Al-kitab alf layla wa layla”, cioè il libro delle 1001 notte, dividendo il testo in 1001 capitoli, 500 ascendenti sino alla storia dell’israeliano Rami Elhanan e 500 discendenti a partire dalla storia di Bassam Aramin, più un capitolo centrale di raccordo. Ed è altrettanto ovvio che, conoscendo Colum, non è il solo simbolo presente.

In effetti, ci sono due letture, due filoni da seguire nell’affabulazione di Colum: la storia ed i contorni. La storia, come accennato, è quella di Rami e Bassam, colpiti entrambi da un lutto indicibile. Nel ’97, nell’attentato di Ben Yehuda street muore dilaniata dalle esplosioni Smadar, la figlia di Rami. Nel ’07, colpita in testa da un proiettile di gomma, muore Abir la figlia di Bassam. Colum cerca di illustrare il percorso dei due, prima e dopo i luttuosi avvenimenti, che non vogliono vendette, ma cercano di trovare una via comune per la pace. Sappiamo tutti, e soprattutto chi ha girato a lungo in Medio Oriente, come sia una via non solo difficile, ma a tratti impossibile. Viene tutto da talmente lontano che è praticamente impossibile dipanare la matassa imbrogliata. E l’autore cerca di rappresentare come fare passi indietro sia (forse) l’unica strada. Un po’ come nel vecchio film “Wargames”: l’unico modo di vincere è non giocare.

Rami e Bassam, non potendo fare altro, si impegnano in tutti i modi possibili a raccontare la loro storia. A cercare di far capire l’assurdità di tutte e due le morti. Che seguiamo anche nel percorso personale dei due. Rami ha fatto la guerra del Kippur, Bassam è stato sette anni in carcere accusato (forse eccessivamente) di possibili azioni terroristiche. I loro racconti, con tutta la difficoltà del caso, mostrano appunto l’insensatezza della vendetta, ma anche la follia di come tutto possa essere cominciato. Il ritiro degli inglesi nel ’48 (quando gli israeliani facevano atti terroristici verso gli inglesi). La Nakba palestinese di poco successiva, costretti a lasciare le loro case per rifugiarsi in Giordania.

Non entro nei particolari di questi settanta anni di storia, a tutti, spero, ben chiari in mente. Lodo solo il tentativo, di Colum attraverso le parole di Rami e Bassam, di mostrare la possibile pace attraverso un’accettazione della convivenza.

Leggete tutte le pagine dure sugli atteggiamenti estremi dei militari israeliani e dei radicali islamici. Sono sempre e comunque pugni nello stomaco.

Poi c’è il contorno, pieno di tante piccole cose, di tanti spunti. Alcuni consoni al racconto, altri che mi hanno lasciato perplesso. Come tutte le storie degli uccelli che forse potrebbero far felice mio cugino ornitologo, ma che io non riesco a seguire.

Mentre seguo Borges che passeggia per Gerusalemme. Mentre seguo un altro motivo ricorrente di Colum, la passeggiata funambolica di Philippe Petit da Gerusalemme Est a Gerusalemme Ovest (ricordo che nel precedente libro “Questo bacio vada al mondo intero”, descrive il funambolismo di Petit tra le Torri Gemelle). Anche qui, con punte che capisco a tratti, a volte solo per emozione personale. Come la descrizione del famoso “4:33” di John Cage, che mi riporta alla mente quel seminario romano cui partecipai (a metà degli anni ’70), dove Cage fece le sue performance bellissime. Dove c’erano amici che solo in parte ritrovo. C’era Laura. C’era Vito. Che bella esperienza.

E poi il salto nei numeri, sia con il titolo di cui ho parlato, che con il numero di prigioniero di Bassam. Aveva il “220-284”, che dà modo a Colum di fare una digressione sui numeri amicabili, come sono appunto i due citati. In matematica, infatti si chiamano numeri amici due numeri per cui la somma dei divisori propri di uno (quindi escluso il numero stesso) è uguale all'altro e viceversa. I due citati, 220 e 284 sono gli unici inferiori a 1000. I numeri seguenti essendo 1184 e 1210. Ma qui stiamo uscendo dal seminato.

È un libro non facile, sfaccettato, che lancia un messaggio altrettanto complicato. Non dico sia sempre riuscito, ma mi ha dato una speranza in fondo al cuore. Quella che sorgeva dai testi di Amos Oz o da quelli di Mahmoud Darwish. Spero di tornare ancora anch’io a Gerusalemme con più pace nel cuore.

Un ultimo cenno assolutamente casuale: le due frasi che mi sono rimaste impresse sono entrambe del capitolo 280, la prima in salita e la seconda in discesa. Potenza della simmetria di un poligono infinito!

“[Scrisse] una frase del poeta persiano Rumi: Ieri ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Oggi sono saggio e ho cominciato a cambiare me stesso.” (150)

“Le formule dei matematici … devono essere belle … La bellezza è la prima prova: la brutta matematica non ha alcun posto stabile nel mondo.” (368)

Satoshi Yagisawa “I miei giorni alla libreria Morisaki” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 09/04/2023 – I: 27/04/2023 – T: 28/04/2023] - &&      

[tit. or.: 森崎書店の日々 – Morisaki shoten no hibi; ling. or.: giapponese; pagine: 149; anno 2010]

Satoshi Yagisawa è un piccolo mistero che Wikipedia & co non risolvono. Se si cercano notizie su di lui si trovano invece su un omonimo compositore nato due anni prima. Se si leggono le terze di copertina sembra che l’autore, qui alla sua prima opera, abbia poi fatto una sua carriera di scrittore, ma non se ne trova altra traccia in rete. L’unica notizia altra è il film che ne fu tratto sempre nel ’10, che probabilmente portò soldi e gloria all’autore.

Detto ciò, torniamo invece a questo “comfort book”, come vengono chiamate le opere che sono rilassanti, mediamente (o poco) impegnative, scritte in maniera gradevole. Che tra l’altro è un segno distintivo della scrittura giapponese. Infatti, se mi avessero dato il libro in un “blind check”, come si usa per i vini, avrei scommesso per un libro di Banana Yoshimoto. Sia per la forma, sia per la delicatezza, sia per il fatto che chi scrive parla in prima persona, immedesimandosi nel personaggio femminile di Takako.

Avrei sbagliato, ma, e qui lo ribadisco, continuo ad essere perplesso quando si mescolano i generi tra scrittore e scrittura. Tanto che anche qui ci sono passaggi che non mi hanno convinto particolarmente. Mentre ci sono ambientazioni e descrizioni che lasciano una carezza a chi ha visto ed apprezzato squarci giapponesi in generale e paesaggi della capitale in particolare. Io poi sono innamorato di Jinbōchō, il quartiere delle librerie, incuneato tra il Palazzo Imperiale a sud e Akihabara, la zona di manga ed elettronica a nord.

La storia, dicevo, è esile e, come indicato dai due capitoli che compongono il testo, distinta in due zone, consecutive nel tempo e nello spirito, ma distinte negli intenti e nella psicologia dei personaggi. In un certo senso, il meglio del libro è nelle prime pagine quando Hideaki dice a Takako che si sposa. Ora, Takako dovrebbe essere la ragazza di Hideaki, invece lei scopre di essere solo un passatempo, e che il “furfantello” ha una fidanzata che appunto sta per sposare.

Da qui parte l’intreccio. Takako è depressa, si licenzia e si isola. A salvarla è lo zio, Satoru, che gestisce una libreria di libri usati a Jinbōchō. Satoru la convince a stare un po’ da lui, ad aiutarlo, a riprendersi. Cosa che farà Takako in nove mesi.

Anche perché Satoru è triste, sentendo la mancanza della moglie Momoko, che si è allontanata anni prima, senza più dare notizie di sé. Ma qui seguiamo il percorso di Takako, che, circondata dai libri, dopo un paio di mesi di ignavia, comincia a leggerne e ad uscire dal bozzolo che si era costruita. Frequenta il vicino caffè, diventando amica della cameriera Tomoko e del cuoco Takano (e facendo loro da Cupido). Lavora nella libreria, si fa amica dei clienti.

Sarà solo però quando lo zio riesce a tirarle fuori tutto il dolore verso il “faccia di tolla” di cui all’inizio, che Takako veramente esce dal suo bozzolo. E come tutte le farfalle, deve allontanarsi per poter vivere la sua vita.

Nella seconda parte, c’è la restituzione dei favori verso lo zio. Dopo cinque anni, torna Momoko, Satoru non sa come comportarsi, ma sarà appunto Takako, che torna a frequentare Jinbōchō che riuscirà a far breccia nella voluta solitudine di Momoko. Scopriremo altri dolori, che si possono pensare, ma solo quando l’autore comincia a scoprire delle carte. Ma scopriremo anche la bellezza di “essere positivi”. Seppur con tutte le difficoltà, ad esempio nel rapporto tra Takako e Wada (di cui non vi dico nulla, ma è un modo intrigante di descrivere l’approccio tra due persone). Seppur con tutti i dolori, che alla fine anche Momoko si apre.

Perché la speranza di una esistenza migliore per sé e per i propri cari, è una fiamma che non può, non deve mai essere spenta.

Dicevo sin dall’inizio, quella di Satoshi è una scrittura forse fin troppo facile, ma tipicamente giapponese. Molto complementare ai giovani giapponesi che conosco. Tanto, però, che viene voglia di tornare ancora una volta nel paese del Sol Levante.

Rimane sempre il dubbio su chi sia realmente Satoshi, sul perché, se si scrive che “è nato a”, qualcuno sospetta che sia una donna e non uno scrittore. Idea corroborata dall’essere donna la protagonista del libro. vogliamo parlare ancora dei miei dubbi sulla scrittura in soggettiva con cambio di genere? Ormai sapete che mi pone interrogativi, che qui non vengono risolti.

Viene solo risolta la spinta a non buttarsi mai via. C’è sempre qualcosa da salvare in ognuno di noi. Cosa che anche alla nostra venerabile età continueremo a perseguire.

James Matthew Barrie “I romanzi di Peter Pan” Mondadori euro 10

[A: 13/12/2019 – I: 16/08/2023 – T: 18/08/2023] - &&& e ½    

[tit. or.: vedi sotto; ling. or.: inglese; pagine: 235; anno 1902-1911]

Sir James Matthew Barrie, I Baronetto, meriterebbe un firmamento di stelle e di librini per aver condensato nella figura di Peter Pan sia una serie di comportamenti umani, sia una storia ed una favola che aveva lo scopo principe di togliere ai bambini quell’istintiva paura di diventare adulti che tutti abbiamo avuto nella nostra primissima infanzia.

Tuttavia, qui parliamo di libri, ed in quanto tali, pur interessanti, pur con degli spunti che sono diventati eponimi, il risultato, di certo sopra la media, non può che attestarsi ad un livello poco sotto i miei massimi di lettura.

Brevemente, ricordo che Barrie nasce in una famiglia scozzese, nono di dieci figli, ha un infanzia travagliata, dove rimane molto colpito dalla morte del fratello David. Comunque studia, si laurea, comincia a fare il giornalista, fino a che, a 25 anni, si sposta a Londra ed inizia la sua carriera di scrittore. Barrie non è bello, è piuttosto basso (il passaporto riporta un’altezza di 161 cm), ma discretamente socievole, avrà sempre molti amici, ma soprattutto sarà sempre contornato da bambini, in particolare quando fa le sue lunghe passeggiate nei giardini di Kensington, vicini alla sua casa londinese. Scriverà molti romanzi, novelle e pezzi teatrali, che riceveranno una buona riuscita di critica e di pubblico (ed anche economica).

La frequentazione dei fanciulli (inciso: non fu mai sospettato né sospettabile di atteggiamenti scorretti verso di loro), la necessità di comunicare, adeguandosi al loro livello di fantasia (esercizio che chi ha avuto voglia di entrare realmente in contatto con i bambini sa bene di cosa stiamo parlando), lo invogliano quindi a scrivere favole fantasiose per veicolare piccoli messaggi destinati alla loro formazione.

Scrive così nel 1902 una piccola favola, “L’uccellino bianco”, dove, in alcuni capitoli, compare la figura di un bambino metà uomo e metà uccello. Da questa costola, attraverso vari passaggi che non abbiamo interesse a produrre, si trova a pubblicare i due romanzi fondamentali qui riuniti, gli unici invero che hanno per protagonista Peter Pan.

Ne parliamo in ordine inverso rispetto al libro Mondadori, che ritengo filologicamente più corretto esaminare quello prima pubblicato e poi quello fondante il mito di Peter Pan. Tra i due, Barrie realizzò un estrapolazione teatrale del primo testo, con il titolo “Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere”, che poi verrà rielaborato nel secondo testo romanzato.

“Peter Pan nei giardini di Kensington” (pag. 177 – 235)

[tit. orig.: Peter Pan in Kensington Gardens; anno: 1906]

La storia si dipana seguendo una strana coppia, il capitano (alter ego di Barrie) ed un bambino, David, che passeggiano per i giardini alla ricerca dei loro mille angoli strani e delle storie che vi sono legate. David (che ha lo stesso nome del fratello morto di Barrie) essendo un fanciullo è l’unico che può vedere “le cose che non ci sono”, cioè quelle che gli adulti hanno scordato. Gli viene in aiuto, spesso, il capitano che, benché adulto, ricorda ancora.

Da queste passeggiate viene a conoscere la storia di Peter Pan. È un bambino di sette giorni, di cui seguiamo la storia, volato via da casa e ritrovatosi nei giardini. Qui incontra il saggio corvo Salomone che gli dice che, in quanto ancora metà uomo e metà uccello, in realtà non potrà tonare più a casa. Così vive nei giardini, si avventura sul laghetto a bordo di un nido di uccello ed ha gli incontri con le fate e con gli animali del bosco. Nonché i Bambini Perduti, quelli che sono caduti per sbaglio dalla carrozzina e che sono rimasti all'interno dei giardini dopo l'orario di chiusura. I Bambini possono morire se Peter non li soccorre in tempo e li riporta dai genitori. Se muoiono, sarà sempre Peter a provvedere per loro una piccola tomba.

Ad un certo punto si incontra con Mamie, una ragazzina di quattro anni, rimasta oltre l’ora di chiusura dei giardini per assistere al ballo delle fate. Mamie salva una fatina, Brunella che sta per affogare e da Brunella sarà salvata quando si addormenta e rischia di morire di freddo nella neve. Brunella e le fate le costruiscono intorno una casa che la proteggerà.

Al risveglio Mamie incontra Peter, e tra i due nasce una simpatia. Peter non sa nulla delle cose e dei desideri umani, così che quando Mamie gli vuole dare un bacio di ringraziamento rimane interdetto, e sarà Mamie a risolvere la situazione dandogli un ditale e dicendo che questo si chiama bacio. Tuttavia, Mamie vuol tornare a casa, sconsigliata da Peter che aveva cercato anche lui di tornare, ma aveva trovato la finestra chiusa e dentro la mamma con un altro bambino in braccio. Invece Mamie ritrova la mamma, il fratello, e tornerà una sola volta da Peter per dargli un regalo d’addio.

Come vedete dalla trama, ci sono già molti elementi che, per noi, diventeranno il marchio di fabbrica di Peter Pan. Altri sono accennati o involuti, e sarà la gestazione tra teatro e nuova stesura che porterà al libro cardine di Peter Pan ed alle sue avventure.

“Peter e Wendy” (pag. 9 – 174)

[tit. orig.: Peter and Wendy; anno: 1911]

Come detto, il tempo porta a maturazione il personaggio di Peter Pan, e qui, allora, troviamo ben formati tutti gli elementi che noi consociamo del personaggio.

La storia è più articolata, e comincia con la lunga descrizione di come Wendy ed i suoi fratelli Michael e John incontrano Peter Pan e vivono con lui grandi avventure. Conosciamo quindi anche degli adulti, i signori Darling, ed un cane, Nana, che fa da babysitter ai piccoli.

Senza entrare nelle complicate descrizioni, per alcune fortuite coincidenze, Peter convince i tre fratelli a volare con lui verso l’Isolachenonc’è, un posto raggiungibile solo passando per i giardini di Kensington. Peter qui ha dodici anni, ma anche qui, sarà l’età che avrà per sempre.

È un bambino bivalente, con momenti di grande altruismo ed altri di egoismo e direi quasi cattiveria. È sempre con una fatina vicino, Trilli (o Campanellino o Tinker Bell in inglese), che, contrariamente al mio immaginario, è molto dispettosa, e gelosissima di Wendy.

Sull’Isola incontriamo gli altri protagonisti della storia. I Bambini Perduti che, se non reclamati dai genitori entro sette giorni, non muoiono e vanno sull’Isola. I pirati, comandati dal cattivissimo Capitan Uncino coadiuvato dal suo secondo, Spugna, ma inseguito dal Coccodrillo che lo vuole mangiare. I pellerossa guidati da Giglio Tigrato.

Wendy e i suoi arrivano in volo, e lei viene colpita a morte da una freccia di un Bambino Perduto. Per salvarla, le fate le costruiscono una casa, dove lei si riprende. La freccia aveva colpito quello che si era scambiato con Peter: un bacio, cioè un ditale.

Poi ci sono mille avventure, con i Pirati che catturano Wendy e tutti i bambini e vogliono ucciderli, con Giglio Tigrato che guida la riscossa, coadiuvata da Peter. C’è la lotta mortale tra Peter e Capitan Uncino, che muore mangiato dal Coccodrillo. Ed altre piccole fantasie.

Wendy, benché innamorata di Peter, decide di tornare a casa con i fratelli. Dove crescerà, anche se, ogni tanto Peter la verrà a trovare. Inoltre, nell’ultimo capitolo, vedremo anche la figlia di Wendy e la figlia della figlia di Wendy che incontreranno Peter. Peter che, invece, rimane sempre uguale, e sempre senza memoria. Per lui sarà sempre la prima volta, ed ogni volta se ne andrà scordandosi tutto. Meno il fatto di rimanere sempre bambino ed innocente.

Vedete quindi come si evolve il personaggio (e la storia). Peter passa da avere una settimana ad avere dodici anni. I Bambini non muoiono ma vanno nell’Isola. Poi abbiamo Mamie e Wendy che sono una l’evoluzione dell’altra, con la costante di scambiare con Peter baci come ditali. Ci sono poi le costanti: il volo per fuggire di casa, la costruzione di una casa per salvare dalla morte la fanciulla, la presenza delle fate.

Insomma, è un bel volo di fantasia, quello che ci propone Barrie, anche se, non nego, il film della Disney rimane talmente alla memoria che si sovrappone al libro e lo oscura. Merito, comunque, dello scrittore aver realizzato questo personaggio, che non vuole crescere, lui per rimanere innocente, altri per non affrontare le responsabilità della vita.

È una favola per bambini, e spesso il linguaggio ne risente. Ma è anche un libro che non avevo mai letto e che, con tutti i suoi più di cento anni, ha ancora molte frecce al suo arco.

Carlos Fuentes “Il gringo vecchio” Repubblica Latino-americana 22 euro 9,90

[A: 30/06/2020 – I: 19/09/2023 – T: 21/09/2023] - &&& ---    

[tit. or.: Gringo viejo; ling. or.: spagnolo; pagine: 205; anno 1985]

Torniamo alla letteratura latino-americana con un altro esponente, e di punta, di un paese che ha ospitato molti scrittori, ma che non ha prodotto molti letterati autoctoni. Forse, a memoria, cito Juan Rulfo (autore del bellissimo “Pedro Paramo”) ed il premio Nobel Ocatvio Paz. E senza dubbio anche questo Carlos Fuentes, uomo poliedrico di mille iniziative, penalizzato da molta critica perché non aveva bisogno della scrittura per vivere, ma viveva per scrivere. Figlio di un diplomatico, ambasciatore lui stesso, peripatetico per il Sud America, ma anche per l’Europa, con una inclinazione (che traspare dai suoi libri) verso i poveri ed i diseredati, che cerca di comprendere attraverso la sua scrittura.

Tra l’altro con una vita che si sposta di quattro anni in avanti rispetto a mio padre, per tutta la sua durata. Ed è, in un certo senso, altrettanto attento a cose alte, pur occupandosi anche di cose “basse”. Così che ho ben apprezzato l’accenno al Cristo del Mantegna negli affastellati pensieri di Harriet che ripensa alle ultime fasi della sua esperienza messicana.

Dicevo anche della scrittura, una scrittura da “realismo magico”, non sempre facile da seguire che spesso si parla per iperboli, si cambia soggetto, si esprimono stati d’animo e sensazioni, senza seguire il filo ordinato della narrazione, ma seguendo il filo disordinato dei pensieri. Bisognerà quindi fare un passo laterale per ricostruire il filo della storia, che nelle parole di Fuentes è invece un accavallarsi di momenti da cui bisogna lasciarsi cullare per seguire un flusso ordinato di avvenimenti.

Fuentes prende spunto dalla misteriosa fine di un grande scrittore americano, Ambrose Bierce, per narrarci tre storie, tre destini incrociati. Il primo è proprio Ambrose, uno scrittore di grande spessore che scrisse le sue cose migliori nell’ultima parte dell’Ottocento, visse pericolosamente, si sposò ed ebbe tre figli, di cui due morirono giovanissimi. Poi, nel pieno del suo spirito curioso e “folle” a 71 anni, nel 1913, decide di farsi inviare come corrispondente per seguire le vicende della Rivoluzione Messicana. Sì, proprio quella di Villa e di Zapata, di cui queste pagine sono piene negli aspetti più duri e crudeli. È lui il “vecchio gringo”, che (e lo dice lui stesso) è venuto lì per vedere e per morire, che la sua vita la sente giunta al termine. Morte che lo raggiunge, con Fuentes che ne immagina un possibile esito. Morte che non sappiamo realmente come sia avvenuta. Fucilato dopo un diverbio con Villa? Perito in seguito a ferite riportate in battaglia? Fuentes ce ne presenta sempre la figura dolente (con i rimpianti di cose che sarebbero potute essere ma che ormai non potranno essere più). Ma una figura integra, che non si piega a nessun compromesso e che per questo, secondo Fuentes, nel diverbio finale non con Villa ma con il giovane generale Tomas Arroyo, avrà la peggio. In questo, l’autore mescola anche un altro fatto reale. La doppia uccisione del britannico William Benton, avvenuta per mano di un sodale di Pancho Villa.

La seconda storia, che lega nel filo dei suoi pensieri tutta la vicenda (“lei ora siede da sola e ricorda”), è quella di Harriet Winslow. Una trentenne newyorchese che si reca in Messico per il motivo opposto a Bierce. Lei è in cerca della vita, che non trova nel comodo Nord America, e che immagina poter essere nel posto di istitutrice presso l’hacienda Miranda. Peccato che l’hacienda sia stata distrutta dai rivoluzionari con la famiglia Miranda rifugiatasi in Europa. Ma lei non si tira indietro. È lì che incontra il gringo vecchio, con cui condivide l’essere “gringo” con tutto quanto la cultura del Nord porta con sé. Ed è lì che incontra il terzo lato del triangolo, il fittizio generale Tomas Arroyo.

Figlio illegittimo dei Miranda, per desiderio di riscatto, si unisce a Villa e Zapata, si autonomina generale, e rappresenta l’immagine “sporca” della rivoluzione. Voglia di riscatto, ma anche “ignoranza” (non in senso volgare, ma perché sono ignorate alcune maniere civile dell’essere). Nella lotta morale tra la democrazia americana (Harriet) e la rivoluzione messicana (Tomas) si dipana l’anima forte del testo. Con il gringo che c’è guarda, forse interviene. Di sicuro muore, o sceglie di morire, che non crede più né in Harriet né in Tomas.

Le parole di Fuentes riescono a portarci laddove una descrizione ordinata non può arrivare. Con lui entriamo nell’anima messicana, nell’anima della rivoluzione sempre presente in quella nazione (non a caso il Partito per decenni al potere si chiamava Partito Rivoluzionario Istituzionale). E con le parole di Fuentes percorriamo i deserti, sentiamo la polvere, il sudore, vediamo gli uomini nudi e le donne mai depilatesi. Parole forti, che portano al fine Fuentes, probabilmente, ad empatizzare per Ambrose, ed a consentire ad Harriet di tornare alla fine verso il Nord. Con tutti i ricordi dentro la propria memoria.

Per me non è mai facile leggere i libri latino-americani che ti trascinano in lungo ed in largo, con la mia difficoltà a staccare la testa da una necessità di narrazioni ordinate. Me Fuentes è potente, non sempre riuscito (per le mie corde), ma, tra l’altro, mi ha riportato alla mente Ambrose Bierce, che tanti anni fa compulsai con il mio amico Luciano, per quel “Dizionario del diavolo” che tante immagini iconoclaste ci portava alla mente. Ve ne riporto solo (a mente) una duplice definizione: “ACCADEME (in italiano Accademia o comunque parte aulica di una Università): Un'antica scuola dove si insegnavano moralità e filosofia. Una scuola moderna dove si insegna il calcio.”

Buona lettura.

“La morte è solo quello che succede dentro di noi.” (193)

Direi che per tempi odierni ed espressioni dell’autore, questa settimana ci stanno bene due citazioni di Vauro Senesi tratte da “Il mago del vento”. La prima, sempre valida, ha alcuni notevoli momenti di attualità: “Sordo non è colui che non sente, sordo è chi non ascolta” (168).

La seconda, pur lunghetta, ha una chiosa che fa riflettere: “Tutto ciò che devi sapere è già dentro di te. Nessuno può insegnartelo perché ti appartiene. Solo che devi scoprire di averlo, accettarlo e imparare a usarlo. Forse in quest’ultima cosa sì, io posso aiutarti, come la vita stessa nel suo accadere ti aiuta segnalandoti un cammino, il tuo cammino. Ma tu devi cogliere i segnali che ti dà, non dolertene o lamentartene perché altrimenti ti perderai per strada e sarai sempre infelice, ché quando non si conosce ciò che si ha si desidera continuamente altro e il desiderio acceca lo spirito” (198).

Non vorrei dire altro, in questi tempi che pur cupi sono illuminati da lampi di intensa gioia. Vogliamo tutti un pensiero affinché le barbarie del mondo non finiscano di travolgerci. Non smettiamo mai di essere solidali tra noi e con gli altri, per cui ancora una volta vi abbraccio.

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