Augusto De Angelis “Giobbe Tuama & C.”
Mondadori euro 6,50
[A: 03/07/2020 – I: 30/04/2023 – T:
01/05/2023] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 167; anno:
1936]
Era
però riuscito, tra il ’34 ed il ’43, a pubblicare sedici romanzi con
protagonista il commissario Carlo De Vincenzi. Benché De Angelis sia romano,
per motivi di lavoro si trasferisce al nord, ed è a Milano che ambienta la
maggior parte di questi romanzi. Non rinunciando mai a mettere piccoli indizi
di sé nella scrittura. Un libro ambientato a teatro (genere per cui scrisse un
testo), uno negli ambienti dell’EIAR, come allora si chiamava l’ente
radiofonico, uno che accenna alla presenza di ebrei. In effetti, il
commissario, scapolo, aveva in gioventù amato una ragazza ebrea. Ed uno in cui
tocca gli ambienti librari, questo.
Come
si estrapola dai romanzi, De Vincenzi, benché di umili origini, è un uomo
colto. Laurea in giurisprudenza, militare, poi entra in Polizia e diviene capo
della Squadra Mobile di Milano. Non si sposa, abita in Corso Sempione (a pari
distanza del Duomo dal Castello Sforzesco, seppur in direzione opposta),
accudito dalla fida Antonietta. Legge molto, conosce Freud, ama la letteratura
russa, legge e parla inglese, e ben conosce il cavalier Dupin di Poe. Anzi, è
un cavalier Dupin con la cultura di un Philo Vance, ma senza la sua
ostentazione.
Al
fine di creare un modello poliziesco italiano, De Angelis non lo fa agire per
indizi, non è un emulo di Sherlock Holmes. Piuttosto, un Maigret con buone
letture, e senza la pipa e la birra. Che il nostro, per le sue indagini, cerca
sempre di entrare nella psicologia dei personaggi. Come hanno agito? Quali
possono essere le motivazioni? Una volta chiaritosi questo in mente, tutto il
resto viene di conseguenza.
Come
detto, questo terzo libro è ambientato nel ’34, durante la Fiera del Libro che
si teneva nella Piazzetta dei Mercanti. Lì trova la morte un seguace della
chiesa evangelica, nonché venditore di Bibbie: Giobbe Tuama. Ovvio che De
Vincenzi è incaricato del caso, ed altrettanto ovviamente capisce che c’è
qualcosa in più di un semplice assassinio, quando viene trovato avvelenato in
un alberghetto milanese tal Giorgio Crestansen. Perché qualcosa in più? Dalle
carte di Crestansen si trova una lettera che parla di Giobbe.
Anche
se c’è urgenza di scoprire i retroscena, De Vincenzi si prende il suo tempo,
indaga negli ambienti evangelici, parlando a lungo con un sodale di Giobbe,
Beniamino O’ Garrich. Peccato che anche quest’ultimo muoia presto. Intanto
però, tramite la lettera, e gli interrogatori che porta in giro per la città
(De Vincenzi è refrattario ad interrogare gente in Questura), scopre che Giobbe
in realtà si chiamava Jeremiah Shanahan. Una specie di rogatoria internazionale
porta a disvelare che Jeremiah, Giorgio e Beniamino lavoravano insieme in una
miniera di diamanti in Sudafrica. Per poi fuggire, prima di essere accusati di
furto, e riparare in America.
Qui,
Jeremiah si invaghisce di Dorothy che tuttavia è sposata con O’Brien. Ordisce
un inganno, fa arrestare O’Brien, sposa Dorothy ed accudisce i di lei figli
Giacomo e Lolly. Ma la giustizia pare raggiungerlo anche lì. Per cui, mette nei
guai anche Giorgio, e fugge in Italia con Beniamino.
Ed è
lì a Milano che riprende la sua attività principale, quella di usuraio.
Ed è
lì, a Milano, che durante la Fiera del Libro convergono non solo i tre morti,
ma anche Dorothy, i suoi due figli, e Virginia, la sorella di O’Brien.
Ovvio
che queste congiunture portano ai tre omicidi. Ma sono legati al passato dei
nostri o al presente da usurai? De Vincenzi parla, parla e parla, ed alla fine
ci porta la soluzione, spiegandoci, se ce ne fosse bisogno, che non esistono
assassini “nati” (alla faccia di Lombroso), ma che tutti possiamo diventarlo,
dove la differenza viene solo per la forza delle motivazioni.
Oltre
al piacere dell’intrigo, anche se non elevatissimo, è gradevole la descrizione
(che per noi diventa ricostruzione) della Milano d’allora. Una penna gentile,
dove si sentono gli echi giornalistici, pur se con qualche caduta qua e là
(poche invero). La più grave, per me, a pagina 99, dove si sostiene che nel ’34
gli Stati Federali siano 43, mentre a me ne risultano già 48 (mancano solo le
Hawaii e l’Alaska, annesse dopo la Guerra).
“La
passione nascosta di De Vincenzi erano i libri. Ne aveva una stanza piena nel
suo appartamentino, con grande disperazione della buona Antonietta, che si
ostinava a volerli spolverare uno per uno almeno una volta a settimana” (32)
[solo una stanza!].
Giuseppina Torregrossa “Il basilico di
Palazzo Galletti” Mondadori euro 11,50
[A: 07/02/2021 – I: 05/04/2023 – T:
07/04/2023] &&&
---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno:
2018]
Era più di qualche anno che non leggevo
qualcosa della scrittrice siciliana seppur vivente a Roma. Una decina di anni
fa ne avevo letto gli esordi letterari (con l’ottimo “Cunto delle Minne”),
finendo con quel libro tra giallo e cucina, “Panza e Prisenza”, dove si
introduceva il personaggio di Maria Teresa Pajno detta Marò. Cinque anni fa ne
ripresi un’uscita spuria seppur interessante imperniata sulle vicende di casa
Olivares. Un paio di anni fa, infine, sulla spinta di una riorganizzazione
della mia libreria, presi gli altri due episodi dedicati a Marò, di cui infine
leggo ora la seconda indagine.
Torregrossa ha sempre una scrittura
gradevole, soprattutto per le ambientazioni e per quel po’ di dialetto che
infarcisce e colora la sua scrittura. Tuttavia, le storie della commissaria
Pajno non sono decollate come ci si poteva aspettare. Cioè, il primo episodio
aveva delle punte di interesse, non tanto e non solo per la storia gialla, ma
per quegli inserti culinari che ne sorreggevano la prima parte. Inserti
culinari presenti anche nella vicenda Olivares, tanto che, a suo tempo, mi
fecero includere il libro più che nelle storie “noir” nella sezione “cucina ed
altro”.
Ora, a distanza di un congruo numero di anni,
la storia dei nostri poliziotti palermitani mostra tutti i suoi limiti. Certo,
si parla ancora di cucina, magari evolvendo verso manicaretti più raffinati,
che la nostra Marò ha ben imparato a cucinare. Anche se queste sue digressioni
(purtroppo non corredate da un supporto di ricettario che poteva essere utile)
sono molto “trasversali”, cedendo un po’ alla moda fusion della fine degli anni
’20. Condire spaghetti alle vongole con uno spruzzo di latte di mandorle ha
forse un suo perché, ma a me lascia freddo.
Inoltre, la storia “parallela”, quella dei
personaggi di contorno, lascia anch’essa a desiderare. Nel primo episodio c’era
tutto un fuoco che pervadeva il rapporto tra Marò e Sasà, ispettore focoso e
suo sodale, insieme al loro capo Lobianco, delle avventure calabresi per
sconfiggere la mafia locale. Purtroppo, nelle more, Lobianco è morto (e questo
lo sapevamo), ed i nostri due sembrano procedere verso un possibile rapporto di
coppia. Ma fin dall’inizio ne vediamo i limiti, anche se Torregrossa poco affonda
in quella direzione. Sasà ha i suoi problemi, anche sul lavoro, e ne riversa le
punte negative sul rapporto con Marò. Ed anche lei, non trova più quella
corrispondenza “d’amorosi sensi” che aveva caratterizzato lo sbocciare del loro
rapporto. Non ci meravigliamo quindi che lo sfilacciamento porterà i due a
strade diverse e divergenti, almeno in questo episodio. Dato che c’è il terzo
episodio che dovremmo leggere prima o poi.
L’altro punto forte degli scritti di
Giuseppina è l’ambientazione palermitana, con quel misto di amore e repulsione
che spesso ho trovato nei miei amici siculi. Con piacevole trasporto, infatti,
segue le vicende che ci portano a Mondello, ed alle spiagge palermitano (la
vicenda si svolge in un torrido agosto), ma soprattutto a Piazza Marina con il
suo Ficus monumentale, alla Kalsa, non dimenticando Santa Maria della Catena,
una delle chiese a me più care.
Ed è proprio la piazza uno dei protagonisti,
anche se non come piazza ma come uno dei palazzi che la delimitano, il Palazzo
Galletti di San Cataldo, preso nel momento di passaggio tra la ristrutturazione
e l’uso che ora ne viene fatto per gli Uffici dell’Amministrazione comunale.
Palazzo in cui vive Giulia, giovane affetta da una particolarissima dermatosi
debilitante. Giovane disinibita tuttavia, ma che pensiamo fin dall’inizio farà
una brutta fine.
Omicidio la cui indagine viene affidata alla
nostra Marò, che non ha molti elementi al suo arco. Giulia non sembra
frequentare nessuna, ha rapporti solo con la sua amica Marina e Maria una
“bottana” che staziona sotto il palazzo. C’è anche un minus habens, Pinuccio
che bazzica la casa per mettere a posto il disordine di Giulia ed aver cura
delle povere piante di basilico del titolo.
Pur con questi pochi elementi, facendo leva
sulla sua empatia con Maria e riuscendo a conquistare la fiducia di Pinuccio,
Marò trova gli elementi per scardinare il castello ombroso di carte che si
andava costruendo intorno a Giulia. La seconda parte del romanzo però scivola
via senza prendere troppo, arrivando ad una conclusione scontata e prevedibile,
almeno a grandi linee, sin dalle prime pagine. Quello che è meno prevedibile è
l’evoluzione di Marò, cui torneremo spero con più cognizione nel terzo episodio.
Ultimo punto positivo è invece la tensione
verso il 2 settembre e la festa di Santa Rosalia, con le descrizioni
dell’agosto palermitano e del modo di approcciare la santa che vi lascio
gustare.
Infine, un punto che avrebbe potuto essere
positivo, ma che si rivela poco elaborato, è il glossario finale di termini
siciliani, che, pur avendo un suo senso, è messo lì senza criterio, senza
nessun ordine logico particolare, saltando pagine e commenti vari. Un’altra
occasione perduta per confezionare un prodotto più dignitoso.
Giuseppina Torregrossa “Il sanguinaccio
dell’immacolata” Mondadori euro 12
[A: 25/02/2021 – I: 06/09/2023 – T:
08/09/2023] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno:
2019]
Come detto nella precedente trama, ecco il
terzo episodio di Maria Teresa (Marò) Pajno, vice questora ora passata a
dirigere la sezione “anti-femminicidio” della questura di Palermo. Torregrossa
è sempre piacevole nella sua scrittura, con alcune punte di gradimento, per
l’ambientazione (Palermo è sempre una cara città) e per i periodi in cui fa
dipanare le sue trame. Anche se, nel computo finale, non risulta un grandissimo
libro. Interessante, ma in alcune parti, forse, leggermente prevedibile
Come tutte le storie seriali, vediamo anche
l’evoluzione dei personaggi. Avevamo lasciato Marò in rotta totale con Sasà,
rotta che continua e si fa incolmabile. Anche perché lei cede per un po’ alle
lusinghe della bella Marina. Un rapporto un po’ di testa, che fin dalle prime
battute capiamo abbia poco sviluppo futuro. E nella vita fluida odierna, si
intuisce, forse, che verso altri interessi si svilupperà la sua sessualità. Non
nego, infatti, di ipotizzare un possibile avvicinamento con il suo burbero superiore.
Marò è anche depressa, tanto che sta
prendendo peso oltremisura, e le diete non sembrano sortire alcun effetto.
Anche se viene aiutata dalla sorella Nanà, ma poco aiutata dal tempo del
racconto, dove ci si avvicina al Natale. Anzi, la trama è scandita da tre feste
dicembrine: l’Immacolata, Santa Lucia e il Natale. Per ognuna, poi, come usuale
nelle ultime fatiche della nostra, si presentano piatti interessanti, questa
volta corredati da ottime ricette ben descritte: il cuccidatu (un impasto di
pasta frolla, con una sfoglia abbastanza spessa, farcito con fichi secchi,
mandorle, scorze d'arancia e uva passa), la cuccìa (dolce tipico siciliano, a
base di grano bollito e ricotta di pecora) e la cannola (nome originario dei
cannoli siciliani come dal dizionario di Michele Del Bono del 1530).
Passando alla trama gialla, questa volta la
scrittrice si butta a capofitto nella sicilianità, affrontando, pur se da vie
traverse, il tema della presenza mafiosa sul territorio. Che tutto inizia con
la scoperta di un omicidio: nella sua pasticceria viene trovato, colpito da due
proiettili di cui uno mortale, la titolare Saveria Russo. Sembrerebbe una
banale rapina se, primo nulla è stato rubato e secondo, Saveria era la figlia
del boss della zona, Fofò Russo, e chi si metterebbe in testa di fargli uno sgarbo?
Intanto si capisce il senso del titolo, che
sarebbe tradizione locale mangiare sanguinaccio nel giorno dell’Immacolata. Ma
il sanguinaccio, quello vero, è messo al bando dai percorsi virtuosi del
mangiare odierno. Solo Saveria continuava a farlo seconda la ricetta
tradizionale, protetta dal fatto di essere la figlia di Fofò. Ed è per questo
che quella benedetta mattina era andata prima nel negozio. Doveva essere
aiutata dal fratello, Roberto, che il boss non riteneva essere adatto a
succedergli, e quindi lo usava per piccole commissioni.
L’intreccio tra storia e tradizioni locali
viene nel corso dei giorni svelato dalla scrittrice. Che dal 7 dicembre al 7
gennaio, a Palermo c’è tutto un intrecciarsi di cerimonie pubbliche e private,
che si svolgono in tutti i quartieri della città, ed hanno sempre al centro il
gioco. È un mese dove spesso fortune familiari cambiano addirittura di mano.
Marò non può che muoversi in questa
confusione, affastellando piccoli indizi. La depressione di Roberto, lo
scontento di Saveria verso il padre, l’idea che forse volesse fuggire via da
Palermo, con o senza il marito, di cui vengono spesso ricordate le liti (vere o
finte?), la presenza, discreta, di Manlio, che molti vorrebbero amante di
Saveria, ma che in pochi sanno che è il suo più caro amico gay. Tanto amico che
di sicuro sa qualcosa e quindi non ci meravigliamo quando anche lui ci lascia
le penne.
Personaggi positivi e personaggi malavitosi
si contrappongono nelle pagine. Di sicuro sono buoni la magistrata Palumbo, che
avalla le richieste di Marò, ed il questore Bellomo che, nonostante non sia
limpido, sembra voler spingere la nostra a fare carriera. Sicuramente Fofò e le
“famigghie” sono tra i cattivi. Ma dove si collocano realmente Saveria, il di
lei marito, il fratello Roberto e l’amico Manlio?
Con caparbietà ed intuizione, Marò arriverà
alla fine del percorso di questo dicembre “sanguinoso” più che sanguinaccio.
Lasciandoci a Capodanno per … una nuova puntata?
Dicevo che non raggiunge grosse punte di
coinvolgimento, ma ribadisco che la scrittura italo-siciliana di Giuseppina fa
piacere alla lettura, in egual modo delle descrizioni, della città e del cibo.
Aspetteremo comunque altri scritti.
Giovanni Valentini “La sirena delle
Azzorre” Mondadori euro 6,50
[A: 30/08/2022 – I: 21/07/2023 – T:
23/07/2023] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 150; anno:
2022]
Giovanni Valentini è stato per anni
nell’orbita di Repubblica, giornalista, editorialista, vicedirettore del
giornale e direttore de “L’Espresso”, per poi allontanarsene quando Repubblica
entra nell’orbita della famiglia Agnelli, rientrando nella carta stampata come
editorialista per “Il Fatto quotidiano”. Dopo una vita passata a parlare della
quotidianità, dal 2018 comincia anche a scrivere romanzi. Ovvia la scelta di
usare il genere giallo per impostare un discorso che tocchi tempi sensibili,
lasciando un certo grado di libertà nelle parole proposte al lettore.
Comincia così la storia di Alfonso Delgado,
eteronimo dell’autore e giornalista in pensione, che, come molti pensionati,
decide di trasferirsi altrove per godere al massimo i proventi di una vita.
Così Alfonso e la moglie Marianna si trasferiscono in Portogalli, da dove
partono le inchieste dei suoi due primi romanzi. Qui, siamo alla terza uscita
di Alfonso, motivo per cui troviamo la sua struttura romanzesca già formata,
così come ben strutturata è Marianna, ed altrettanto il loro rapporto. Non
avendo letto i precedenti episodi, ci accontentiamo di quanto si desume da
questo, e tutto sommato, è un ritratto di personaggi credibili e che hanno poco
bisogno di farci sapere del loro passato.
Certo, alcune cose potrebbero essere più
chiare. I rapporti con la polizia portoghese, ad esempio, qui utilizzati ma non
spiegati (forse nei primi libri…), e le consuetudini con il giornale lasciato
in Italia, per il quale qualche bell’articolo può ancora uscire fuori.
La storia inizia con la volontà, visto che
siamo in terra lusitana, di visitare le splendide isole dell’arcipelago delle
Azzorre, isole che prima o poi cercherò di visitare anche io. Qui Alfonso
incappa in un primo mistero: nell’albergo prima tappa del suo tour isolano
trova una sottoveste insanguinata con un taglio all’altezza del petto. Da buon
giornalista, fiuta qualche possibile storia torbida, e comincia, con
discrezione, ad indagare su chi avesse occupato la stanza, e sui motivi della
sottoveste nascosta.
Pur con fatica, trova nomi e indirizzi, che
sembrano tutti finire nel nulla, senza particolari conseguenze, se non che, la
donna della stanza (che tuttavia risulta viva sebbene introvabile) ha lo stesso
nome di un’infermiera italiana, fuggita in quanto ricercata per possibili
omicidi di anziani nelle strutture ospedaliere dove lavorava.
Parte allora una trama che si allarga a
macchia d’olio, coinvolgendo elementi diversi (appunto, polizia locale,
giornali italianai in cerca di scoop), e dove Alfonso, con arguzia e metodo,
riesce a rannodare tutte le fila. A trovare i motivi della sottoveste, a
trovare la donna, a convincerla a costituirsi ed a subire un processo, la cui
fine sembra già scontata dalle prime battute.
Ma sarà proprio così, o ci saranno (ci
saranno di sicuro) colpi di teatro a ripetizione, che servono al “vecchio”
giornalista Valentini (virgolettato che ha solo cinque anni più di me) per
lanciare i suoi strali sulla malasanità e sulla malagiustizia italiana.
L’andamento dello scritto, tuttavia, non è
dei più accattivanti, che la storia si srotola a salti: a volte accelera
inopinatamente, a volte rallenta e si perde in momenti poco utili al contesto.
Tuttavia, oltre agli strali di cui si potrebbe discutere (tanto per
esemplificare: sanità italiana non più all’altezza dell’eccellenza passata,
giustizia che viene fatta prima sui giornali e poi nelle aule, ed altro),
l’interesse è anche dato dal contesto: la descrizione dell’ambiente naturale
delle Azzorre, che suscita la voglia di prendere il primo aereo ed andare a
vedere, tocchi culturali che colpiscono alcune corde a me care, come i racconti
di Antonio Tabucchi, uno degli scrittori del mio pantheon privato, ma anche le
dotte citazioni delle poesie di Luìs de Camões. Nonché un contorno di relax e
piccole manie: le camminate sui campi da golf di Alfonso (mai capito questo
sport), le partite a burraco di Marianna (dove ogni volta mi torna in mente
l’anziano accanimento della signora Laura). Ma anche le scivolate verso
elementi poco correlati con la trama, come le turbe amorose-erotiche di Alfonso
e le risposte costruttive di Marianna.
Non un risultato riuscito a tutto tondo, ma
un libro che non sfigura tra le possibili letture estive, sotto un ombrellone o
sotto una magnolia, decidete voi. Di Valentini, poi, non si cercherà
affannosamente altro, ma nel caso, se ne potrà leggere ancora.
Matteo Guerrini “Zōo – La rabbia” Mondadori
euro 6,50
[A: 13/07/2022 – I: 08/09/2023 – T:
10/09/2023] &
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno:
2022]
Matteo Guerrini, quarantacinquenne biologo
milanese, imprime una svolta alla sua vita sposando una signorina giapponese ed
andando a vivere nel paese del Sol Levante. Probabile che anche in precedenza
abbia avuto interessi per quel mondo (e non nego che lo capisco). Di certo, ora
aumentano, si approfondiscono, e si uniscono alla passione per la scrittura.
Ne esce così un libro poliziesco con alcuni
accenni (che io ho capito poco) alla sua professione ed ambientato in Giappone.
Anzi, ad essere precisi a Kanagawa, cittadina a sud di Tokyo che ben ricordo
dovendoci passare ogni volta che da Tokyo si va a visitare il Grande Buddha di
Kamakura.
Purtroppo, però, benché partendo da buone
premesse, il romanzo non si sviluppa armoniosamente, e devo dire sono stato un
po’ sorpreso che abbia ricevuto il Premio Tedeschi 2022, assegnato agli inediti
che pervengono alla Mondadori.
Perché è un po’ slegato, e la storia sembra
fatta a cipolla, ogni volta che si arriva a scoprire qualcosa, c’è dell’altro
che ricopre il cuore duro delle vicende. Ma è una cipolla strana, come se si
ricoprisse una cipolla bianca con della buccia rossa, per far finta che sia di
Tropea.
C’è un nucleo investigativo che si mette
all’opera a fronte di fatti delittuosi, composto dal commissario Jo Hara (nome
un po’ bizzarro, che mi riporta alla mente il quadrato di Johari ed in
particolare il quadratino a sinistra, quello del “cieco”) e dal suo assistente
Suzuki (nome forse solo apparentemente bizzarro, ma comune in Giappone). Le
parti migliori sono quelle in cui Jo evoca il suo passato e di come sia nata e
maturata la sua amicizia con Suzuki.
Il fattore scatenante è il ritrovamento, nei
corridoi di una stazione della metropolitana di Tokyo, del cadavere di un uomo.
Aveva un trolley passatogli da una misteriosa signorina mascherata. Poi, nella
folla, l’uomo viene pugnalato, ed il trolley e la signorina spariscono i
diverse direzioni.
Con solo questo in mano, i nostri indagano,
vagliano le immagini, scoprono, con un po’ di fortuna, prima un altro morto,
poi la signorina che viene a parlare di come sia stata incastrata. Mattone dopo
mattone, Jo ricostruisce questa parte della storia: droga importata, comprata,
rivenduta, soldi legati alle transazioni che spariscono, uomini anch’essi
legati alle transazioni che anch’essi spariscono o muoiono.
Sembra tutto semplice, ma non è così. Che si
passa agli altri strati della cipolla. Ci sono infatti collegati ai precedenti,
morti misteriose, anche un po’ pulp, inspiegabili seguendo la logica. Poi si
ipotizza la presenza di qualche altra droga che altera l’equilibrio psicofisico
degli assumenti, portandoli ad azioni inconsapevoli e trucide.
Jo risale la catena degli eventi, arriva ai
laboratori producenti la droga sintetica, assiste ad altre morti, ma alla fine
avrà un quadro più chiaro degli avvenimenti. Avere un quadro più chiaro non
significa però risolvere tutto, assicurare i cattivi alla giustizia, o altri
possibili finali. Che anche il finale è molto ingarbugliato.
Dato che c’è un’incursione verso l’Italia non
particolarmente chiara, dove seguiamo un tizio effettuare delle azioni a fronte
delle quali noi lettori diciamo: ecco un altro tassello, vediamo come si
incastra. Ma non si incastra che il tizio non compare più, o se compare è
talmente nascosto nelle pieghe del testo che io me lo sono perso.
Dato che c’è un collegamento con il passato
giapponese di campi di concentramento, di unioni tra nipponici e nazisti, di
medici irresponsabili, ed altre storie proveniente da un passato forse chiaro
ai nativi, ma di cui io sono rimasto spiazzato nel ricordo.
Insomma, ogni tanto dalla cipolla nasce un
piccolo fiore, pensiamo che sia il fiore definitivo, quello che ci fa smettere
di piangere. Invece no, si rimescola di nuovo in un calderone che, per aver
messo troppe pietanze sulla brace, alla fine un po’ sono bruciate ed un po’
sono crude.
Non mi ha fatto quindi una grande
impressione, se non per i ricordi delle visite giapponesi che mi restano in
cuor sempre gradite. Né penso che, al momento, sia il caso di seguire la
carriera editoriale del pur bravo Guerrini.
Dimenticavo, il titolo, pur non conoscendo io
il giapponese, è molto pertinente alla trama, una volta tanto. Come dice il
cantante, lo scoprirete solo leggendo.
Al solito cercando una legge di omogeneità,
ad una trama di libri italiani fa da contorno un piccolo florilegio di una
autrice italiana. Veniamo quindi alla non particolarmente nota Valentina Brunettin ed al suo unico libro a me noto “I cani vanno avanti” (che ho letto quasi quindici anni fa). Si
parlava di scritture, e “spesso sembra che tu sia capace di scrivere
grandi cose senza veramente capirle. Di questo non dispiacerti, perché nessun
lettore vuole comprendere quanto sai, ma solo quanto sei in grado di dimostrare
di sapere” (122). Poi dei rapporti tra le persone sulle vesti e sugli amori. “Emma
predilige gli abiti che la fanno sentire a suo agio (e il suo agio è
vulnerabile e volubile, oltre che mimetico) mentre Virgilio predilige gli abiti
che fanno sentire a loro agio coloro che lo circondano” (145) “È troppo
bruttina per innamorarsene ed è troppo intelligente per evitarla del tutto”
(153).
Infine, un bel pensiero sui cani (visto che
il libro era dedicato alla cagnetta Laika), anche prima che i cani entrassero
nella mia vita: “oggi mi accorgo che la cosa più importante nella nostra
esistenza non è dire, ma tacere. E questo me l’hanno insegnato i cani. I cani
stanno zitti: quando li accarezzi, quando dai loro da mangiare, quando li stai
per sopprimere con una puntura. I cani mi hanno fatto capire che nessuno di noi
deve avere sempre qualcosa da dire” (156).
Un novembre transitivo, in cui si celebrano
una messe enorme di compleanni (come sarà anche nei prossimi mesi), ed in cui (anche
dopo incontri con le strutture preposte) non si intravedono viaggi nel breve
termini. O quanto meno, viaggi di lunga gittata.
Per cui, insieme ad amici fidati, ci si dedica alle occupazioni solite dei nostri tempi, con il solo pensiero che, forse, si riuscirà ad auto-organizzare qualcosa, ma non prima di marzo. Anche se il freddo non incalza, tuttavia, meglio stringerci assieme in un abbraccio.
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