Georges
Simenon “Dietro le quinte della polizia” Adelphi s.p. (Natale degli
Arabini)
[A: 25/12/2022 – I: 01/04/2023 – T:
03/04/2023] - &&& e ½
[tit. or.: originale (antologia italiana di testi
francesi); ling. or.: francese; pagine: 281; anno 2022]
Negli anni Trenta, Simenon aveva scritto
alcuni romanzi, e soprattutto alcuni romanzi con Maigret (ricordo che il primo
fu “Pietro il Lettone” scritto nel ’29 e pubblicato nel ‘31). L’allora capo
della Polizia Giudiziaria, Xavier Guichard propone quindi al giovane scrittore
(che, essendo del ’13, nel ’33 avena trent’anni, ma di Maigret ne aveva già
pubblicati 17) di visitare il quai des Orfèvres, sede della Polizia al numero
36.
Da quelle visite, e dall’interesse di Simenon
per la cronaca nera e per la cronaca in generale, nascono quindi una serie di
articoli, qui brillantemente riproposti da Adelphi, che ci mostrano una
particolarità veramente interessante. Anche da giornalista, Simenon è
intrinsecamente scrittore, così che non solo vengono alla luce i possibili
argomenti di un articolo, ma tutta quella sorta di elementi di contorno, che
poi saranno i fulcri di tanti e tanti romanzi.
Come dirà quarant’anni dopo: “Questi
reportage scritti di fretta, corretti ancora più rapidamente, contengono in
nuce tutti i romanzi che ho immaginato in seguito.”
La buona verve editoriale di Adelphi, ci
consente inoltre di seguire questi articoli nel loro andamento temporale. I
primi sono proprio quelli scritti a ridosso dell’invito. Infatti, si comincia
con “La carovana del crimine” (tit. orig. La carovane du crime) e
con “Una ‘prima’ all’Île de Ré” (tit. orig. Une 'premièr' à l'ile de
Ré) che narrano, da due diverse prospettive, l’imbarco dei forzati verso
isole di detenzione di là dell’Oceanio. Ed è già un modo per Simenon di
descrivere i vari personaggi che si imbarcano, con le loro manie, con i loro
vestiti e con i giornalisti che fanno la calca per avere qualche scoop.
Sempre del ’33 è il terzo “Polizia
Giudiziaria” (tit. orig. Police judiciaire) che ci fa entrare
direttamente nel mondo maigrettiano del lungo Senna (anche se Simenon ci fa
capire subito la differenza tra le sue invenzioni e la realtà quotidiana dei
poliziotti).
Abbiamo poi, l’anno successivo, “Dietro le
quinte della polizia dal Quai des Orfèvres a Rue des Saussaies” (tit. orig.
Les coulisses de la police: du quai des Orfèvres à la rue des Saussaies)
quello che poi dà il titolo al libro, e che inizia con una descrizione delle
scrivanie e degli uomini che vi lavorano, facendoci entrare subito nel mondo
poliziesco francese, e “Verranno commessi dei delitti…” (tit. orig. Des
crimes vont être commis…), una specie di compendio dove il nostro
giornalista inizia a seguire da vicino alcune indagini reali. Per fine nel 1937
con “Il Pronto Intervento o I nuovi misteri di Parigi” (tit. orig. Police
secours, ou Les nouveaux mystéres de Paris), dove per l’appunto, cercando
di avere in mente Eugène Sue, attraverso altre indagini delle squadre di Pronto
Intervento, tenta di costruire una mappa fisica di cosa stia diventando, di
come stia mutando il mondo criminale dall’inizio alla metà degli anni Trenta (e
come di pari passo, muti anche il mondo di coloro che il crimine lo perseguono).
Ricordiamo per iniziare che Simenon aveva
cominciato la sua carriera come giornalista già a sedici anni, nella natia
Liegi, dove, per farsi le ossa, si dedica a quelli che in argot vengono
chiamati “chiens écrasé”, metafora che indica il dedicarsi alla cronaca locale.
Un piglio giornalistico che ritroviamo in questi articoli. Dove vediamo
descritti i criminali con le loro manie (che spesso li tradiscono). Per non
parlare del lungo elenco di suicidi, dove Simenon ci rivela che il più alto
tasso lo si trova nella zona elegante di Passy (elegante tanto che si usano
barbiturici e non nodi scorsoi).
Poi ci sono i casi famosi: Landru, colpevole
di undici femminicidi, o Stavisky, il celebre truffatore, per finire con la
descrizione dei rapinatori della banca Baruch e della loro cattura. Il lungo
articolo del titolo è poi una carrellata all’interno di Parigi: i quartieri
malfamati, le periferie, le strade eleganti, tutta una città che stava
scomparendo. Simenon è sempre curioso, sempre affamato di storie, che qui
nascono e si esauriscono nel volgere di poche righe, ognuna tuttavia con
qualcosa che ci rimane, in fondo all’occhio, in fondo al cuore. Rimanendo
sempre quel geniale artigiano della penna, che mi fece innamorare e continua a
tenermi compagnia.
Finisco con una piccola nota privata.
Parlando di una serie di omicidi, descrivendoli con il secco gergo poliziesco
dell’epoca, e ricordando una prostituta, il cui delitto rimase insoluto,
annota: “Pierrette strangolata il 12 maggio 1931…”. Che leggo e penso subito al
mio amico Pietro nato lo stesso giorno ma più di venti anni dopo.
Georges
Simenon “Quand j’étais vieux” Presses de la cité s.p. (Regalo dei 12
amici per un compleanno)
[A: 08/05/2023 – I: 28/06/2023 – T:
04/07/2023] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 408; anno 1970]
Un regalo particolare per un anniversario
molto particolare. Conoscendo infatti la mia devozione per lo scrittore belga,
i miei dodici amici (Luciano, Cristina, Gianna, Renato, Franco, Giovanna,
Luciana, Nino, Pietro, Tiziana, Giuzzo, Donatella) hanno trovato questo raro
libro di Simenon per omaggiare il mio augusto compleanno. Una ricorrenza
biblica, essendo 12 gli apostoli di Gesù e 70 i discepoli di Gesù secondo Luca.
La seconda particolarità del testo è che, a
quanto mi risulta, non esiste tuttora una sua traduzione in italiano.
La terza, ed ultima, legata a questo libro in
particolare è il fatto che il libro stesso contiene una dedica autografa di
Simenon al suo amico Jean-Pierre Richard, un famoso critico letterario
francese, appartenente alla cosiddetta “Scuola di Ginevra”, in cui fu sodale di
Jean Starobinski. E per chi sa di letteratura, di bridge e di amicizia, sa
l’importanza di tutto ciò, nella memoria.
Il testo è un ricordo autobiografico di
Simenon che riporta il suo personale diario che va dal 25 giugno 1960 al 12
aprile 1962. È la prima opera “dettata” da Simenon, dove però è ancora in forma
manoscritta. Sarà solo dieci anni dopo che comincerà ad usare un registratore.
La scrittura avviene nella sua residenza del Castello di Echandens nel cantone
svizzero di Vaud. Sarà poi rivisto verso la fine degli anni Sessanta, quando
l’autore si è già trasferito a Épalinges, la prima casa che lui si fece costruire
interamente dalle fondamenta.
In questi quasi tre anni, al filo della
scrittura, pur se non sempre espressamente citati, Simenon scrive 4 romanzi
“duri”: Betty (ottobre ’60), Il Treno (marzo ’61), La Porta (giugno ’61), Gli
Altri (novembre ’61) e 3 “Maigret”: Maigret e il ladro pigro (gennaio ’61), Maigret
e la famiglia felice (settembre ’61), Maigret e il cliente del sabato (febbraio
’62).
Inoltre, dalla sua scrittura (e dalle mie
ricerche collaterali) emergono i fatti salienti del periodo. A luglio del ’60
passa quasi due settimane in vacanza con la famiglia al Lido di Venezia. Nel
settembre dello stesso anno viene operato di appendicectomia, e, in seguito
alla difficile convalescenza, decide di consultare uno specialista per curare
un specie di labirintite di cui soffre. Prima della fine dell’anno poi riceve
la visita di Henry Miller e della famiglia Chaplin. Nel marzo del ’61 si registra
l’acquisto di due auto al Salone di Ginevra: una Chrysler-Ghia per Denyse ed
una Rolls-Royce Blue Mist per sé stesso. Cui seguirà un viaggio a Liegi
nell’ottobre dello stesso anno, nonché, poco prima della fine del libro, la
nascita di Serge Georges Paul, il suo primo nipote.
Certo anche che qualche cosa Simenon la tace,
come ad esempio l’ingresso nel ménage familiare di una nuova segretaria, Teresa
Sburelin, che sarà la compagna dell’ultima parte della sua vita.
Quello che però ci interessa meglio nella
scrittura, è la facoltà che ci concede Simenon di entrare nei suoi pensieri. Di
sentire i suoi commenti alla quotidianità che vive. Al dolore che prova non
riuscendo a risollevare Denyse da tutti quei momenti depressivi che porteranno
a poco a poco la coppia ad allontanarsi e poi a separare le proprie strade.
Altro elemento che esce potente dalle righe è
il rapporto di Simenon con la scrittura. Le sue riflessioni su quello che va
componendo, su come si evolve il romanzo nella sua mente e nelle sue pagine. Di
un romanzo da poco terminato si dice di sentirsi nauseato, di averlo voluto
abbandonare, per poi proseguire ed alla fine pensare che forse è uno dei suoi
romanzi più riusciti (si tratta di “Maigret e i vecchi” per essere precisi).
Poi confessa che al ritorno da un festival di Cannes aveva in mente di scrivere
un romanzo solare pieno di tenerezza, aveva in mente già il set dell’azione, ne
scrive tre pagine per poi abbandonarlo.
Simenon, quando decide di imbarcarsi in una
nuova scrittura, non sempre entra in uno “stato di grazia”, non sempre, pur
avendo una scrittura veloce, sono sempre momenti di fluidità. Vive istanti ed
ore di angoscia, di blocco, si ferma, lì nella sua stanza, lì dove sta isolato
dal resto del mondo. Si accende la pipa, fuma, pensa. Stacca. Confesserà, verso
il fiale del libro di non sentirsi uno scrittore, uno cui tutto riesce facile.
Ma di essere un romanziere, e, per la sua personale percezione, un romanziere
“non conosce la gioia della scrittura”.
Poi ci sono i momenti esterni che entrano
nella vita del Castello. I giornali, le immagini, per lui dolorose, degli
scioperi di quegli anni. E poi Cuba, Kennedy e Krusciov, la Guerra Fredda,
l'assassinio di Lumumba, i conflitti mortali e la mortalità infantile in Congo.
Ma quello che a lui preme è sé stesso e la sua immagine, che analizza
costantemente, con la costante paura di essere frainteso, di presentare, con le
immagini, con le interviste, un Simenon che non è Simenon.
Ed è, finalmente e con ostentazione, una
scrittura personale e privata. Non analizza mai oggettivamente le situazioni,
ma ne presenta solo il suo personale punto di vista. Bello, ben riuscito,
scritturalmente a tutto tondo. Ma sempre e soltanto ego centrato.
Ho letto con trasporto queste pagine che mi
hanno consentito di entrare ancora di più nello spirito dello scrittore belga.
Sperando di riuscire, nelle mie trame, a farvelo sentire un po’, come io l’ho
sentito vicino quando, a pagina 125 racconta di seguire alla televisione i
Giochi Olimpici di Roma!!
“Ce que les jeunes ne peuvent pas comprendre, c’est qu’à cinquante-sept
ans, à soixante, à soixante-dix … on a exactement les mêmes aspirations
qu’eux.” (132) [Quello che i giovani non riescono a capire è che a
cinquantasette, sessanta, settant'anni... abbiamo esattamente le loro stesse
aspirazioni]
“Chaque roman est pour moi un enrichissement, une expérience que je vis.” (160)
[Ogni romanzo è per me un arricchimento, un'esperienza che vivo]
“Pourquoi la vie paraît-elle bonne après qu’elle a été vécue?” (333)
[Perché la vita sembra bella dopo che è stata vissuta?]
Amos Oz “Resta ancora tanto da dire”
Feltrinelli euro 9
[A: 16/05/2023 – I: 23/06/2023 – T: 23/06/2023]
- &&&&
[titolo: Kol ha-ḥeshbon ʻod lo nigmar; lingua: ebraico; pagine: 56;
anno: 2019]
L’ultimo lascito, quasi un
testamento, di Amos Oz. Il testo del suo intervento al convegno sul sionismo
tenuto all’Università di Tel Aviv il 3 giugno 2018. Pochi mesi dopo, il 28
dicembre, Oz moriva per un tumore. È un testo intenso, come sempre sono state
le parole di Oz, sia nei suoi romanzi, sia, in special modo nelle ultime fasi
della sua vita, negli interventi politici e polemici.
Qui era stato inviato a parlare
intorno al sionismo, ma, come disse in un’intervista poco dopo, preferì non
avere tracce, preferì sentire le vibrazioni dell’aula, salire sul palco, e
parlare a braccio per 50 minuti.
Ora, finalmente, nella bella
traduzione di Elena Loewenthal, e grazie agli sforzi dei figli Fiona e Daniel,
la sua ultima lezione, uscita in inglese, è anche presente nel suo testo
italiano. Ma prima di entrare nel testo stesso, i miei dubbi mi portano ad
interrogarmi sui titoli. Il titolo italiano, infatti, dovrebbe riprendere una
frase di un testo dello scrittore ebraico Yosef Haim Brenner (frase che riporto
in ebraico che, purtroppo non è una lingua alla mia portata). Ma Feltrinelli
riporta anche il titolo inglese che recita “The Reckoning is not over yet”, che
suona come “La resa dei conti non è ancora finita”. Titoli complementari, ma
non identici.
Per venire al brevissimo testo due
sono i messaggi politici che lancia ed uno, trasversale, il messaggio
letterario, forse anch’esso politico, ma anche legato alla profonda conoscenza
della lingua e della letteratura ebraica di Oz.
Intanto veniamo al primo contesto, un
seminario sul sionismo, termine derivato dal nome del monte Sion, il primitivo
nucleo della città di Gerusalemme, e legato al movimento, nato alla fine
dell’Ottocento, che rivendicava la costituzione di uno stato ebraico in
Palestina. Non voglio entrare in una disamina di cosa sia stato e cosa sia ora,
ma mi lego alle parole di Oz: può esistere il ritorno in una casa che non hai
costruito? Mi torna subito in mente un altro bellissimo libro “Ritorno ad
Haifa” di Ghassan Kanafani. Un libro che vi consiglio di cercare.
Ora, tornando a Oz, qual è il suo
primo messaggio politico? È che non ci potrà mai essere uno stato ebraico che
cacci gli arabi dalla terra palestinese né uno stato arabo che cacci gli
israeliani dalla terra d’Israele. L’unica soluzione è allora quella dei due
Stati, come in parte si vive ora in quei luoghi. Perché bisogna evitare le
reciproche sopraffazioni, che sono soprusi che vanno fermati con la forza.
Infatti, Oz non è un pacifista, non sostiene a spada tratta “make love not
war”. Infatti, dice: “Ci vuole un bel bastone per tenere a freno, per reprimere
la sopraffazione, la madre di tutte le violenze del mondo”.
Per sottolineare il suo pensiero, Oz
ci ricorda anche come sono andati a finire gli stati multietnici (con etnie
molto contrastanti): Cipro, Libano e Iraq, quelli da lui citati. Anche se noi
sappiamo quanti altri ce ne sono.
Ma quell’affermazione sui due stati
non è disgiunta dall’altra posizione politica forte su cosa significa essere un
leader (perché ci vuole un leader per portare avanti qualsiasi azione
politica). Elaborando un’altra frase forte: “Un leader è colui che dice alle
persone che cosa nel profondo del proprio animo sanno di dover fare, ma non ne
hanno voglia”. Una frase esemplare.
Tuttavia Oz non può dimenticare di
essere uno scrittore. E da scrittore fa due citazioni a sostegno delle sue
tesi. Una è appunto la frase di Brenner usata come titolo. L’altra è citare
l’esempio della poesia di Uri Zvi Greenberg, che riavvolge il nastro del tempo,
ed esprime fortemente il suo afflato nazionalista scrivendo memorabili poesie.
Andando un po’ in quella direzione,
per chi conosce poco l’ebraismo, rammento che Brenner è stato uno scrittore
israeliano di nascita ucraina, inventore di linguaggi nuovi, dove insieme
all’ebraico moderno usava una mescolanza di ebraico antico, aramaico, yiddish,
inglese e arabo. Brenner muore a quarant’anni, il 2 maggio del 1921 durante una
delle prime rivolte arabe verso gli insediamenti ebraici.
Uri Zvi Greenberg, invece, fu poeta,
nato a fine Ottocento in Galizia, che introdusse molte espressioni del parlato
nelle sue poesie. È anche considerato il più grande poeta israeliano in yiddish
ed ebraico. Andrebbe letta e studiata una sua profonda poesia, scritta nel 1923,
“Nel Regno del Crocifisso”, dove descrive già l’olocausto ebraico in terra
europea.
Mi piace finire con una frase che Oz
pronunciò ad una commemorazione di Simon Peres: “There are some who say that
peace is not possible. But peace is not only possible, it is inevitable.” Una
frase che, ora, penso sia applicabile non solo alla terra d’Israele, ma a tutte
le terre martoriate, Ucraina e Russia in testa.
Penso che non avrò modo di leggere
altro di Oz, che per molti anni ha accompagnato le mie più felici letture sulle
vicende personali e politiche israeliane. להתראות, עמוס
Frédéric Lenoir “Vivere è un’arte” Repubblica
Filosofia Viva 10 euro 9,90
[A: 06/05/2020 – I: 28/07/2023 – T: 30/07/2023] - &&
[tit. or.: Petit traité de vie intérieure; ling. or.: francese; pagine: 170; anno 2010]
Avevo già scritto, parlando del libro di
Lenoir sulla gioia, che, più che di filosofia mi sembravano scritti quasi di
auto-aiuto, scritti per fare dei percorsi verso consapevolezze raggiungibili
attraverso i percorsi personali che ognuno (può fare) fa con l’aiuto di una
riflessione sul proprio agire personale. Altro punto, già detto a suo tempo, e
qui da ribadire, la poca incisività degli inserti personali. Ci fa piacere che
l’autore abbia sperimentato su di sé molti dei percorsi che suggerisce con i suoi
scritti. Ma questi “confessioni” aggiungono poco al testo in sé, ed a volte ci
fanno perdere di vista il percorso logico che si sta seguendo.
Ma prima di tutto voglio fermarmi un attimo
sul mistero, per me sempre insondabile, della titolazione italiana. Il testo
francese porta come titolo “Piccolo trattato di vita interiore”. Un titolo che
in italiano diventa un piacevole sottotitolo, per essere soppiantato da quel
“Vivere è un arte”, che serve soltanto come specchietto per attirare lettori
incauti. Forse pensando che quel “vita interiore” possa spaventare il possibile
acquirente.
Ora, è innegabile che Lenoir abbia uno stile
accattivante, ed una scorrevolezza invidiabile, unita ad una buona dose di
riferimenti. Non è un caso che per tutto il testo si appoggia a sicuri maestri,
di filosofia, di religione, di vita. Così con lui, possiamo ripassare alcuni
passi salienti di Buddha, Confucio, Socrate, Aristotele, Epicuro, Epitteto,
Gesù, Montaigne, Spinoza, fino a Schopenhauer e Lévinas (il filosofo francese
di origini lituane, forse meno noto di altri, ma che produsse delle riflessioni
notevoli sul tempo). Tuttavia, a me rimane sempre sospesa la sua non incisività
di fondo. Di buoni propositi sono lastricate le vie del mondo, ma bastano?
Certo, uno dei punti di partenza è constatare
che il mondo è irto di difficoltà. Affrontarle è il nostro modo di trasformare
queste sfide in possibilità. Dedicando tempo ad una serie di momenti che
sembrano collaterali ma sono fondanti: la cura dello spirito, lo studio, la
conoscenza (anche se non dovremmo mai cadere nel delirio di onniscienza, poco
posso sapere ma quel poco lo affronto con tutto me stesso).
Quindi, tutto deve, dovrà tendere a vivere
una buona vita, accettandola ma non in maniera induista remissiva, quanto in
modo propositivo. Accettarla ed attraverso il proprio vissuto arrivare alla
conoscenza di sé (Socrate), avere il buon senso di accettare quello che non
posso cambiare (falsamente attribuita a San Francesco, in realtà è la
“Preghiera della serenità” del teologo Karl Paul Reinhold Niebuhr, scritta
negli anni ’30), portandoci a vivere “qui e ora” (come mi hanno insegnato i
miei due maestri comportamentali Maria Luisa Aversa e Luciano Marchino).
Con un corollario che è quanto di più
difficile si possa praticare nella vita: saper scegliere e saper perdonare.
Ovviamente, sarebbe tutto bello e lucido, se
non ci fossero forse contrarie che, a prescindere dalle difficoltà di cui
sopra, si ostinano a mettere bastoni tra le nostre ruote. Senza ostacoli
potremmo dedicarci al saper essere, mentre tutto intorno a noi ci porta a
doverci concentrare sul saper fare. Fino all’epigono berlusconiano che la
cultura non dà da mangiare.
Atteniamoci dunque alla regola d’oro della
vita, di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi (a parte
la discussione storica e religiosa di chi siano “gli altri”). E ragioniamo
ancora con Aristotele che alla fine ci suggerisce che tutto, anche la felicità,
deriva dalla fortuna, solo in seconda battuta aiutata dalla saggezza che rende
possibile adattarci alla vita.
Finendo con quello che i titolatori italiani
hanno voluto riportare nel titolo: perché esistere è un fatto, e non dipende da
noi, mentre vivere è un’arte.
Finisco con una spigolatura che esula dal
testo, ma non dall’autore, e sulla quale mi trovo discretamente concorde.
Lenoir in un’intervista si definisce “flexitariano”, una definizione che trovo
consona anche al mio stile di vita. La parola deriva dall’unione di “flexible”
e “vegetarian”, cioè un vegetariano flessibile che non rinuncia ad alimentarsi
saltuariamente di proteine animali. Non c’entra, ma serve a ragionare su di sé.
“Le quattro virtù [tibetane] della parola:
non mentire, non dire parole che possono ferire, non dire parole di discordia e
non dire parole futili.” (67)
“Aristotele: senza amici nessuno
sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni.” (90)
“Diogene: le cose necessarie costano poco,
le cose superflue costano care.” (115)
Francesco Piccolo “La bella confusione”
Einaudi euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)
[A: 30/05/2023 – I: 03/08/2023 – T:
05/08/2023] &&&&
---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 281; anno:
2023]
Francesco
Piccolo, per me, è sempre una sicurezza. Può scrivere cose più o
meno interessanti, più o meno coinvolgenti, ma ha una scrittura che mi riesce
gradevole seguire. Ed ogni volta c’è qualcosa che stuzzica i miei poveri
neuroni.
In questo libro, abbastanza inclassificabile,
riesce a ricreare un’atmosfera ed un sentimento di interesse, verso un momento
particolare della storia del cinema. Non mancando mai, come sempre fa, e come
sempre tende a sottolineare, di fare anche qualche spunto personale alla
narrazione, che alla fine non risulta autobiografica, ma di certo con piccole
puntate nel suo universo, che non fa mai male percorrere insieme a lui.
Certo, il 1963 non è un anno in cui è già
presente (il nostro farà 60 anni l’anno prossimo), ma è certo l’anno del suo
concepimento, avvenuto, secondo le sue leggende familiari, il 15 giugno di
quell’anno, a Roma, a valle di una partita amichevole rimasta nella storia:
Roma – Santos 3 a 4, con doppietta di Pelé (e goal della Roma di De Sisti).
Cosa numericamente possibile, essendo Francesco nato esattamente nove mesi
dopo, il 12 marzo 1964.
L’altro elemento che mi ha colpito, oltre
alla passione per i libri nata sui banchi del liceo, e quella del cinema, nata
subito dopo, è la svolta personale che fa nella sua mente la storia che va a
narrare, di cui gli girava in testa un filo già da tempo, ma che non riusciva a
focalizzare, a valle (o durante) la lettura di un libro bellissimo, “La
famiglia Manzoni” di Natalia Ginzburg.
Tutto ciò per entrare nella narrazione di
cose altre. Perché qui si narra e si percorrono i sentieri che hanno portato
alla realizzazione di due capolavori cinematografici: “Il Gattopardo” di
Luchino Visconti e “8 e ½” di Federico Fellini. Due film eponimi, sia per i
loro autori che per la storia del cinema in sé.
Fellini e Visconti sono due maestri
indiscussi del cinema, non solo italiano. E sono due registi che sono sempre
stati, direttamente o per interposto intervento, antagonisti. O quanto meno su
due piani diversi di sensibilità e realizzazione. Divisi anche dalla critica, e
dalla politica, che negli anni ’50 vedeva Visconti sostenuto
dall’intellighenzia comunista e Fellini acclamato dalla élite democristiana.
Una contrapposizione che, a ben vedere, ha poco senso, che entrambi sono
(sarebbero) inclassificabili nell’uno e nell’altro schieramento. Tanto che poi,
in realtà, riescono a porsi entrambi fuori da questi schemi. Producendo opere
che ora l’uno ora l’altro formazione (come si direbbe in termini calcistici)
avrebbero visto come il fumo negli occhi.
La loro contrapposizione nasce già nel ’54,
alla Mostra di Venezia, dove si contendono il premio “Senso” di Visconti e “La
strada” di Fellini. Piccolo ricostruisce caparbiamente quel momento, con la DC
tutta schierata per sbarrare la strada all’aristocratico di sinistra, riuscendo
a far avere il Leone d’Oro ad un film discreto ma di certo meno valido dei due
(“Giulietta e Romeo” di Renato Castellani). Con il pubblico schierato a
fischiare l’operato della giuria (guidata da Ignazio Silone) e comandato da uno
scatenato Franco Zeffirelli.
Il testo è poi, e non a caso, pieno di
citazioni e di rimandi, di piccoli tratteggi di figure importanti nella
storiografia del cinema. Dai vari assistenti dei registi (da Zeffirelli a Rosi,
per esempio), degli sceneggiatori (da Suso Cecchi D’Amico a Ennio Flaiano),
fino agli attori (da Sordi a Delon, da Mastroianni a Lancaster, da Sandra Milo
a Claudia Cardinale, e l’elenco potrebbe essere ancora più lungo). Rimanendo a
quest’ultima, uno degli elementi scatenanti il testo è proprio la bella
Claudia: nel ’63 si dividerà tra i due set, romano e palermitano, per
interpretare Angelica per Visconti e Claudia per Fellini.
Ma l’intento di Piccolo, nato da tanti
piccoli accadimenti, è soprattutto un altro: mostrare la genesi di due
capolavori, e di come questi stessi abbiano influenzato e modificato la vita
dei due registi. Fellini riesce a fare un film dichiaratamente autobiografico,
in cui Mastroianni interpreta un regista che vuole fare un film ma non sa che
film fare, e nel mentre ripercorre, visivamente, oniricamente e realmente,
tutti i momenti della sua vita, per decidere alla fine che la vita va (e può
essere vissuta), con quel finale da circo in sfilata, omaggiato da una colonna
sonora indimenticabile di Nino Rota (e come non richiamare alla mente, ora, in
questi anni, l’analogo seppur diverso finale de “Il sol dell’avvenire” di Nanni
Moretti).
Visconti, invece, parte dal libro, da una
sceneggiatura quasi religiosa, in cui non si può spostare una virgola per non
cambiarne il senso, per poi, aiutato da una maiuscola interpretazione di Burt
Lancaster, arrivare certo a mostrarci interamente la bellezza del capolavoro di
Tomasi di Lampedusa. Ma facendo un’operazione (consapevole?) di immedesimazione
con l’ambiente, andando a descrivere, traslatamente, la fine del suo mondo
aristocratico. Che esemplifica con due stupende frasi. Una di Tancredi (Alain Delon):
“Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”. L’altra di Don
Fabrizio (Burt Lancaster): “Dopo tutto sarà diverso, ma sarà peggiore”.
Ci sarebbe tanto altro da riportare, tante
discussioni da cominciare sull’uno e sull’altro fronte di questi due colossi,
che, alla fine, avranno parole di stima reciproca, pur rimanendo sempre ostili
nel fondo. Io mi accontento di questo finale, come nella frase che riporto,
lasciando a voi il privilegio di gustare le opere della volpe Fellini e del
riccio Visconti.
“[Da Archiloco nella versione di Isaiah
Berlin] La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande … [così] gli
esseri umani si dividono in volpi e ricci. Ricci sono quelli che si rifanno a
un unico principio ispiratore, sulla base di una visione morale del mondo.
Volpi sono quelli che si appassionano a modelli diversi e contraddittori, senza
un faro etico.” (270)
Con il primo scritto di novembre andiamo ad
elencare le dense, densissime letture di agosto, che per quest’anno è (e credo
rimarrà) il mese a più alta densità di pagine (d’altra parte si era di riposo a
Soriano…). Tutte letture di buon livello, nessuna veramente brutta, su cui si
ergono il libro di Piccolo, di cui avete la trama più in alto, ed il piccolo
gioiello giapponese delle storie di Genji. Senza dimenticare a ruota, il Peter
Pan di Barrie, l’ispettore Linley di George ed un buon libro dell’ottimo
Murakami.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Arne
Dahl |
Il
tempo del male |
Feltrinelli
|
12 |
3 |
2 |
Francesco
Piccolo |
La
bella confusione |
Einaudi |
20 |
4 |
3 |
Roberto
Alajmo |
Io
non ci volevo venire |
Repubblica
Essenza Noir |
8,90 |
2 |
4 |
J.K. (Robert Galbraith) Rowling |
Bianco
Letale |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
2,5 |
5 |
Simonetta
Agnello Hornby |
Il
pranzo di Mosè |
Corriere
Oggi |
8,90 |
2 |
6 |
Murasaki
Shikibu |
Il
racconto di Genji |
Bompiani |
s.p. |
4 |
7 |
Yokomizo
Seishi |
Il
detective Kindaichi |
Sellerio |
13 |
3 |
8 |
Sarah
Savioli |
La
banda dei colpevoli |
Feltrinelli |
11 |
3 |
9 |
Massimo
Mongai |
Memorie
di un cuoco d’astronave |
Mondadori |
6,99 |
3 |
10 |
Camilla
Grebe |
La
sconosciuta |
Corriere
Profondo Nero |
7,90 |
2 |
11 |
Massimo
Carlotto |
E
verrà un altro inverno |
Repubblica
Essenza Noir |
8,90 |
3 |
12 |
James
Matthew Barrie |
I
romanzi di Peter Pan |
Mondadori |
10 |
3,5 |
13 |
Camilla
Läckberg |
Il
figlio sbagliato |
Marsilio |
s.p. |
3 |
14 |
Åsa
Larsson |
Sacrificio
a Moloch |
Feltrinelli |
11 |
3 |
15 |
Haruki
Murakami |
Nel
segno della pecora |
Corriere |
8,90 |
2,5 |
16 |
Yokomizo
Seishi |
La
locanda del Gatto Nero |
Sellerio |
13 |
3 |
17 |
Haruki
Murakami |
A
sud del confine, a ovest del sole |
Corriere |
8,90 |
3,5 |
18 |
Roberto
Centazzo |
Operazione
sale e pepe |
Repubblica
Emozione Noir |
7,90 |
2,5 |
19 |
Elizabeth
George |
Punizione |
Superpocket |
6,90 |
3,5 |
20 |
Marco
Balzano |
Café
Royal |
Einaudi |
14,50 |
2 |
21 |
Giovanni
Ricciardi |
L’undicesima
ora |
Fazi
editore |
16 |
3 |
La
citazione del mese coinvolge uno scrittore e poeta poco noto ma di molta
intensità nei suoi brevi scritti. Mi riferisco a Franco Arminio che nel
gustoso “Nevica e ho le prove” parla di vecchiaia, amicizia ed altro
contorno con le seguenti due frasi:
“Speravo
di arrivare alla vecchiaia con un pessimismo luminoso … ma nessuno arriva in
luoghi diversi da quelli in cui è partito, siamo sempre gli stessi. … Io sono
sempre uno che voleva cambiare la sua vita, adesso ho capito che la mia vita è
stata sempre la stessa” (54)
“Certe
volte non litighiamo con gli amici perché abbiamo paura che poi viene poca
gente al nostro funerale” (101)
Per il resto invito ancora una volta a leggere e rileggere Amos Oz e gli altri scrittori sia arabi che ebrei, come faccio ora con una grande pena nel cuore. Uniamoci tutti ancora una volta per il Medioriente e per l’est slavo in una grande speranza di pace, come detto più volte nel corso di questa trama. Non posso che sperare in un abbraccio, con voi e tutti loro.
Nessun commento:
Posta un commento