Giovanni Cocco & Amneris Magella “Morte
a Bellagio” Marsilio euro 10 (in realtà, scontato a 9,50 euro)
[A: 03/05/2022 – I: 16/04/2023 – T:
18/04/2023] && e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 235; anno:
2018]
È passata quasi un anno dall’ultima lettura
del duo lombardo di scritture gialle comasche, ma con abbastanza piacere ci
ritroviamo a seguire le vicende del commissario Stefania Valenti.
La “strana” coppia (ovviamente in senso
bonario) dello storico – linguista Cocco e del medico legale Magella, vi
ricordo, ha ordito alcune gradevoli storie ambientate nel comasco, tra,
appunto, Como, il suo lago e le città limitrofe. Che noi già conosciamo essendo
patiti lettori delle storie comasche ambientate a Bellano (sempre sul lago poco
a nord di Bellagio, teatro di questo romanzo) e scritte da Andrea Vitali.
Di questa serie, se pur in ordine sparso,
avevo letto i primi due romanzi, che andavano componendo la cosmogonia di
Stefania Valenti. Commissario donna in un ambiente maschile, un tempo contesa
tra il suo superiore Giorgio Allevi e l’architetto alternativo Luca Valli,
separata con figlia adolescente, Camilla, ne avevamo imparato le capacità ed
alcune doti di indubbia simpatia (sempre in ritardo, spesso de-centrata, ma
capace di andare al cinema e di fuggire in moto). Nel percorso iniziale, decide
di procedere verso Luca, anche se molto più giovane.
Tanto che qui li ritroviamo conviventi, con
frequenti schermaglie tra Luca e Camilla (perché, come dice Stefania, “Camilla
difficilmente ti accetta. Sei troppo giovane per fare il padre e sei troppo
vecchio per fare l’amico”). Nei primi due episodi, poi, erano entrati con buon
carattere i due sottoposti, il sardo Piras con la sua tenacia ed il toscano
Lucchesi con la sua capacità di trovare quasi tutto quello che chiede il
commissario. Purtroppo, in questa terza puntata Piras e Lucchesi sono un po’ in
sottotono, lasciando più spazio a Stefania ed ai nuovi possibili inciampi,
personali e professionali.
Dato che Allevi, precedentemente trasferito a
Milano, torna in quel di Como, forse anche per qualche motivo disciplinare, e
rischia di destabilizzare il già precario equilibrio della coppia Valli –
Valenti. Che tuttavia, e noi tiriamo un sospiro, alla fine, troverà, o
ritroverà, un equilibrio di vita che aveva un po’ ansiogenato il libro.
Ma il personale del commissario deve lasciare
il passo al professionale, al giallo ed ai suoi contorni. Che i gialli
“Cocco&Magella” hanno sempre qualche altro risvolto, sia come aspetti
psicologici dei personaggi coinvolti e sia, cosa altrettanto gradevole, come
aspetti territoriali. Giustamente, un giallo sul territorio deve (per essere
gradito) anche occuparsi delle strutture locali. Come in questo caso, la parte
imprenditoriale, con l’industria tessile, e la parte medica, con belle pagine
dedicate all’ospedale di Sondalo.
Ospedale di cui parlo subito, in quanto in
realtà, seppur oggi abbandonato, si tratta del “Villaggio Sanatoriale di
Sondalo”, il più rilevante esempio di architettura razionalista in Valtellina e
una delle più significative realizzazioni di edilizia sanitaria a livello
nazionale ed europeo per dimensione, mezzi, collocazione, per la meticolosa
gestione tecnica e la raffinata progettazione esecutiva. È patrimonio FAI e vi
invito ad andarlo a visitare.
Ma torniamo alla trama.
C’è una donna, Irene Castelli, che si
inabissa nel lago con il suo SUV. Erede dell’impero Castelli, tessili e affini,
sposata con Attilio, ma separata in casa. Il tutto verte verso l’omicidio,
trovando i freni dell’auto manomessi. Ma non è il solo mistero. Irene
frequentata una spigliata svizzera, Inge (cui versa ingenti somme in denaro), è
in cura psichiatrica da un altro svizzero, il dottor Meyer, ha molte
relazionali liberi, forse anche con Alexander il tutto fare.
Tutto sembra quindi convergere sul marito,
complice anche il possibile cambio testamentario verso Inge. E si tratta di
somme notevoli. Tuttavia, Stefania non è convinta, e cerca di capire meglio la
psicologia di Irene, chi sia stata, cosa la rendeva irrequieta ed instabile.
Aiutata da un simpatico giornalista in
pensione, e da altri accidenti che vi lascio scoprire, risale a poco a poco nel
passato, anzi nell’infanzia di Irene, e nel clima che regnava in casa Castelli,
dominata dal padre padrone. Risale alla morte della madre, forse un incidente,
forse un suicidio, ma di certo in situazione strana, in quanto disturbata ma
ricoverata nell’ospedale di cui accennavo prima.
Molti sembrano colpevoli, andando avanti le
indagini. Tutto però alla fine si risolve, sempre sotto la spinta di Stefania,
anche se l’ultima parte è decisamente troppo veloce e sbrigativa. Tra l’altro
non è chiaro come un nuovo morto sia imputabile ad omicidio laddove si parla di
ictus e sue complicanze. Certo, i tasselli vanno al loro posto, ma il finale
andava meglio organizzato e di certo meglio spiegato.
Rimane una lettura agevole, discretamente
gradevole e propedeutica al quarto episodio.
Rosa Teruzzi “Ombre sul Naviglio”
Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 11/05/2023 – I: 13/05/2023 – T:
14/05/2023] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 157; anno:
2021]
Sarebbe dovuto entrare tra i regali
del compleanno, ma non era disponibile subito. Per cui, pur non essendo dono,
ma volendo esaurire i regali, ed avendo lì il capitolo successivo, mi vedo
“costretto” a leggerne solo due giorni dopo l’entrata in biblioteca.
Per chi avesse perso “La saga di
Libera” che ho pubblicato per l’ultimo Natale, faccio un piccolo riassunto dei
brevi romanzi seriali di Rosa Teruzzi. Una scrittrice milanese non ancora
sessantenne, che ha di certo pubblicato altri lavori, ma che per me è legata
indissolubilmente a questa serie. Che gli editor continuano ad etichettare “I
delitti del Casello”, anche se, pur essendo gialli, di delitti non ce ne sono
tanti. Inoltre, è vero che le protagoniste abitano in un casello ferroviario
dismesso, ma lì non avvengono né sono avvenuti delitti. Tanto che io avevo
proposto di cambiare il titolo con “Le detective del casello”. Anche se
il Dog, poi vi dirò chi è, preferisce chiamarle “le Miss Marple del Giambellino”.
Allora, quelle che vediamo e seguiamo
è la stirpe della famiglia Deidda. Nonno Spartaco ex-ferroviere viveva nel
casello passato in eredità alla sua prole. Sposa con Ribella, che poco dopo la
nascita della figlia Iole, muore e nelle puntate precedenti seguiamo le
indagini a posteriori per scoprirne cause e motivi. Iole cresce libera e
ribelle, un po’ figlia dei fiori, con tante storie senza legami negli anni
“caldi” della contestazione, da cui riceve in dono una figlia. Cui non può
mancare di mettere il nome Libera. Figlia che poi è il centro, in soggettiva,
dei romanzi.
Libera sposa Saverio, poliziotto in
gamba e onesto, e mettono al mondo Vittoria. Saverio muore in servizio, ed
anche qui le prime cinque puntate ci mettono in grado di arrivare alla
soluzione anche di questo mistero. Rimane Libera, una piccola attività di
libraia senza successo, ora dedita ai fiori ed al confezionamento di bouquet da
sposa. Vittoria intanto aveva seguito le orme paterne, entrando in polizia,
sotto la guida di Gabriele, il più caro amico di famiglia coetaneo dei
genitori.
Per completare il quadro dei
personaggi fissi, abbiamo Irene giornalista di nera, ben presto sodale di
Libera, e di puntuta intelligenza. Scrive per lo scandalistico “La Città”,
diretto da Temperante Cagnaccio, detto Dog (quello di cui sopra). Infine, c’è
Furio, chef un po’ pingue, un po’ amico di Libera, ed un po’ no. Di certo in
concorrenza con il Gabriele di cui sopra, che invece parrebbe proprio
innamorato della nostra eroina.
Libera e compagnia, quasi senza
volerlo, si trovano sempre invischiate in possibili trame gialle, dove devono
navigare tra le spinte di Dog che le vorrebbe sempre sulla breccia, e la
difficoltà di non intralciare il lavoro ufficiale di Vittoria e di Gabriele.
Qui, per non perdere i fili di scorsi
iniziati, Rosa riprende quella trama sghemba che avevo accennato ne “La memoria
del lago”, dove c’erano degli strani furti perpetrati da rapinatori mascherati,
con maschere significanti, forse: il Gatto con gli Stivali e la Fata Turchina.
Il libro continua di poco le vicende
precedenti, essendo sempre ambientato nel ’14. Dove vediamo le nostre coinvolte
con Irene nella ricerca di capire chi siano e perché facciano le rapine i
nostri soggetti mascherati. Poiché non è propriamente un giallo, vediamo ogni
tanto il tutto dalla prospettiva del Gatto e della Fata. E mentre seguiamo le
nostre anche in trasferta a Cesenatico, si cerca di capire cosa lega tutte le
rapine, che il Gatto sembra programmare seguendo un foglio in ordine
cronologico.
Sarà un’intuizione di Irene che
riuscirà a collegare i furti con delle attività poco pulite dei rapinati,
scoprendo che forse il Gatto più che un ladro è forse un Robin Hood. Sempre
nell’understatement delle vicende poi, vediamo che le rapine avvengono nelle
periferie, a Villasanta (città natale dell’autrice) e Rosate, oppure a
Calvairate tra le case a schiera di via degli Etruschi e il dopolavoro per
pensionati in piazza Insubria.
Nelle more ci godiamo anche i vari
personaggi, la cura con cui li descrive Rosa (belle le pennellate sulla vita
della Fata). Ma soprattutto ci godiamo le intemperanze hippies di Iole, le
scorbuticherie di Vittoria ed i tormenti amorosi di Libera. Arriveremo ad una
conclusione, un po’ alla Simenon, con il Gatto, che ormai sappiamo chiamarsi
Dario, che si invola e che forse ha qualche altra sorpresa in giro,
probabilmente che si svelerà in successive puntate.
Non mancano le solite puntate
letterarie che mi fanno cara la scrittura. Una presenza ad una festa in
libreria di Andrea G. Pinketts, che nel ’14 era ancora vivo, ma che ci ha
lasciato pochi anni dopo, rimanendo uno scrittore di rara capacità nell’uso delle
parole. Ed una menzione della poco nota scrittrice per ragazzi Giana Anguissola
e la sua trilogia di Giulietta.
A me piace quest’aria pulita che si
respira tra le pagine, profumata dalle ricette di Libera (e dello chef Furio) e
dai negozi di fiori. Un giallo poco giallo, senza spari e senza sangue,
gradevole come una bibita fresca in un’estate torrida (che ancora non vediamo
all’orizzonte). Anche perché, infine, da donna tratta con garbo il mondo delle
donne con le sue complesse relazione e gli equilibri delicati. Di certo, visto
che l’ho detto all’inizio, ne leggeremo ancora.
Rosa Teruzzi “Gli amanti di Brera”
Feltrinelli s.p. (Regalo di Raul&Viviana)
[A: 07/05/2023 – I: 17/05/2023 – T:
18/05/2023] &&& --
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 153; anno:
2022]
Eccoci allora, forti dei regali di compleanno
al settimo ma non ultimo episodio delle detective del casello (che sapete
essere la mia etichetta della serie). Una solita scrittura veloce e discreta,
come sembra esserlo Rosa Teruzzi, capace di giungere al settimo libro senza
troppe sbavature. Non ci siamo persi pezzi, si aggiunge ogni volta un nuovo
ingrediente, e si gusta seduti in poltrona (non ancora sotto gli ombrelloni,
purtroppo è ancora freddo nonostante sia maggio).
Dato che la scrittrice è un’esimia cultrice
del giallo, sembra che abbia, tra le altre cose, digerito la letteratura –
feuilleton dell’Ottocento, da Victor Hugo a Charles Dickens. Certo i livelli
sono altri, ma quelli scrivevano capitoli lasciando in sospeso il lettore. Rosa
scrive romanzi lanciando interrogativi che, prima o poi si risolveranno. Anzi,
con estrema perizia, a volte il mistero si risolve non il libro successivo, ma
il secondo o il terzo. Segno di un tener conto di tutte le sbavature, con un archivio
del romanzo degno del buon Simenon.
Avendo comunque parlato da poco del trio
centrale del romanzo, non ritorno molto sulla loro natura, come personaggi
centrali del casello ferroviario vicino al Giambellino (quello del mitico
Cerutti Gino di Gaber). Possiamo solo dire che Vittoria (la piccola) è sempre
più sfuggente, continuando a riempire di frottole la madre. Si inventa
pedinamenti notturni, quando il suo capo, il famoso spasimante Gabriele,
avverte la madre che invece è in ferie. Primo nodo da risolvere.
Il secondo è Iole, la nonna, che dopo aver
buttato un sasso nello stagno, si è un po’ ritirata sulle sue, tanto che
sentiamo un po’ la mancanza delle sue esternazioni esuberanti. Da due romanzi,
infatti, seguiamo, prima da lontano, poi da vicino, ora di nuovo da lontano, le
gesta del Gatto con gli Stivali, al secolo Dario Capistrano. Che Iole confessa
aver frequentato nei suoi venti ruggenti, e che potrebbe essere addirittura il
padre di Libera. Secondo nodo da risolvere.
Nelle more, Dario aveva come nome di
battaglia Sendic, il patronimico di Raul Sendic Antonaccio, mitico capo dei
Tupamaros uruguaiani, nonché di suo figlio Raul Sendic Rodriguez, per alcuni
anni vicepresidente dell’Uruguay. Un passato molto politico per Dario che pare
(secondo Irene la Smilza) essersi rifugiato a Cuba. Vedremo.
Il terzo nodo è proprio Irene, che da diversi
libri ha una condotta altalenante. Brava e puntuale, a volte geniale nelle sue
opere investigative, quanto sfuggente sulla sua vita privata, dove pare (pare?)
ci sia un uomo nell’ombra che l’aspetta. Vedremo anche qui.
Libera, al contrario, ha pochi misteri
nascosti. Ma molte turbe palesi. Ha finalmente deciso di dichiararsi a
Gabriele, ed i due hanno, qua e là nella trama, alcuni incontri, che Rosa vela,
ma che sono di sicuro molto erotici. Tuttavia, Libera non solo si sente, ma
deve essere libera. Non se la sente di legarsi (vedere Gabriele tutte le
mattine con il caffè in mano? Non se ne parla). Non se la sente di mettere in
difficoltà Vittoria di cui Gabriele è il capo. Insomma, nel privato Libera è un
grande casino.
Nel pubblico, anche qui viene coinvolta,
obtorto collo, in una nuova indagine. Lasciati da parte la ricerca dl forse
padre e le fuitine con il forse fidanzato, si trova tra le mani il caso della
sexy prof Viviana Crescenzaghi (bella la ricerca nominalistica di Rosa). La
signora in questione, poco più che quarantenne, parrebbe esser fuggita con un
suo alunno, tal Davide, quasi diciottenne, di bell’aspetto e di sicure maniere.
Ad innescare le nostre Miss Marple del
Giambellino è nientemeno che lo chef Furio, che si era allontanato da Libera
proprio dopo aver conosciuto Viviana. Furio non si perita che la bella sia
fuggita per amore, e sospetta stalkeraggi ed omicidi vari. Le nostre, dove un
summit nel loro bar di riferimento (ovviamente il Bar Agatha Christie & co)
si mettono alla caccia, seguendo le intuizioni di Irene, scoprendo le storie
passate e presenti di Viviana, altri accompagnamenti pericolosi, e storie di
contorno. Avendo poi la prova che non sono le sole a seguire le tracce dei due
fuggitivi, la cui fuga finirà in quel di Roma, con un finale non proprio
prevedibile, cosa che ci fa salire di altri punti le capacità tramatorie della
scrittrice.
Proprio il finale mi ha dato un bel colpo di
ricordi, che i due vengono ritrovati in un albergo in quel dell’Aventino, dopo
che li abbiamo seguiti nel Giardino degli Aranci e nella Piazza dei Cavalieri
di Malta (quella progettata da Piranesi e dove dal portone del priorato c’è una
serratura da cui si vede San Pietro). Un luogo che mi vede giovane bimbo
frequentare, con i miei cugini la casa della mia adorata nonna Bianca. Ma
questa è tutta un’altra storia.
Per tornare allo scritto, al solito, la brava
Teruzzi non ci fa mancare qualche stoccata gialla, anche qui con il sentimento
di comunanza di chi ama i nostri libri. A pagina 21 si cita Precious Ramotswe,
la detective africana uscita dalla penna di Alexander McCall Smith. Mentre a
pagina 48 c’è un omaggio alla regina del mistery vittoriano, Anne Perry,
scrittrice da me molto amata e che ci ha lasciato lo scorso mese di aprile (e
su cui scriverò a breve una grande trama).
Infine, c’è un doveroso omaggio alla
purtroppo scomparsa grande cultrice milanese del genere, Tecla Dozio, citando
un suo scritto “Le interviste possibili di Irene Adler”. Dove tutti sappiamo
che Irene Adler è, forse, l’unica donna amata da Sherlock Holmes, nonché,
secondo biografie non certificate, la madre, insieme a Sherlock, del
montenegrino Auguste Lupa, che, trasferitosi a New York, assume il nome di Nero
Wolfe.
L’omaggio a Tecla si chiude, insieme alla mia
trama, con la seguente citazione: “Non esistono letterature di serie A o
B, esistono bei romanzi e brutti romanzi.”
Sarah Savioli “La banda dei colpevoli”
Feltrinelli euro 11 (in realtà, scontato a 10,45 euro)
[A: 07/06/2023 – I: 12/08/2023 – T:
13/08/2023] &&& +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 238; anno:
2022]
Avevo letto con discreto piacere i
primi due capitoli delle avventure di Anna Melissari, investigatrice dilettante
con un particolare bernoccolo in testa. Devo dire che questo terzo romanzo
conferma la facile lettura del testo, non disgiunta da alcuni momenti
esilaranti. Certo Sarah Savioli non riesce ad imbastire una trama gialla di
altrettanto spessore. Ma non è male, ogni tanto, leggere qualcosa di leggero in
ambito mystery, dove spesso le atmosfere cupe servono a dare il via a racconti
dal profilo angosciante.
Per chi avesse saltato la mia
presentazione dell’ex-perito del RIS, nonché docente universitaria, e financo
libera professionista, riporto che, dopo tutto il percorso lavorativo, dal 2020
inizia una produzione interessante di libri gialli. Dove il punto centrale è la
figura di Anna Melissari, da sempre attirata verso l’investigazione, cui riesce
ad inserirsi nell’agenzia del cupo Cantoni. Anna è sposata con Alessandro, che
in genere si occupa di lei, ma in questo episodio è in missione di lavoro in
Islanda (e ci ritorneremo), ha un simpatico ora cinquenne figlio di nome Luca
(che qui ha meno modo di esprimersi), ma soprattutto ha quel fatale bernoccolo,
che le permette di comunicare con piante e animali. Questo è l’atout della
serie, ed anche in questo romanzo è un elemento che viene sfruttato al meglio.
Perché è proprio la “banda” dei
vegetali e degli animali che darà ad Anna i bandoli per risolvere la matassa.
Che sul versante giallo abbiamo Lucia che ingaggia l’Agenzia Cantoni non
essendo convinta dell’indagine sulla morte della zia Ines. Apparentemente,
morta per una crisi respiratoria durante una rapina in casa (come molte rapine
che avvenivano in zona), ma con molti punti non chiari. Legata ad una sedia
senza braccioli (tutte le rapine erano su sedie comode), un pezzo di federa
stracciata come bavaglio (invece di comodi fazzoletti), cassetti in disordine
(mentre gli altri erano andati diritti su beni e bancomat). Insomma, Lucia non
è convinta, anche perché c’è un retroterra familiare e storico non proprio
limpido.
Ines aveva accumulato una fortuna dal
padre strozzino, che aveva rovinato molti vicini di casa (tra cui l’odiosa
dirimpettaia Rosina), nonché diseredato i fratelli di Ines. Che conosceremo
nelle loro varie attività, ma che sono accumunati dal sospetto che Ines,
malata, voglia usare tutti i suoi soldi per curarsi in America. Ci sono motivi
a iosa per trovare sospetti in quest’ambito.
Ma i sospetti non bastano, bisogna
indagare. E per l’indagine Anna non può che coinvolgere i suoi animali
informatori. Andiamo così a conoscere tutta una serie di personaggi che sono il
punto forte del libro. Così abbiamo la gatta portinaia Lulù, che controlla chi
entra ed esce dal palazzo di Ines, meno il giorno del delitto, quando viene
sostituita dalla sorella, la gatta G, pacifista, vegana, impegnata
politicamente con i topi in difficoltà (bello il contrappasso). Gatta G che
darà un contributo notevole, anche se compreso molte pagine dopo. Ci sono gli
animali che hanno visto le altre rapine e che servono per confermarne la
diversità. Le gazze che aiuteranno Anna solo dopo che lei avrà fatto da paciere
tra loro e i topi di fogna gangsta. Ci sono due pappagallini che danno una mano
in un altro momento dell’indagine, anche se non si sopportano e continuano a
litigare. Ci sono i cani del nipote, due doberman violenti, ma fondamentalmente
scemi (laddove violenza e intelligenza è raro vadano in sintonia, ed i loro
duetti sono degni delle migliori battute di Tarantino). C’è il coniglio
Tucidide, dalle lunghe orecchie, racchiuse in improbabili turbanti che lo fanno
somigliare ad un fachiro in piena crisi dopata. Infine, c’è il simpaticissimo
geco mitomane, Giasoneh (l’h finale è il suo tocco artistico), che si inventa
assurdi modi di uccidere tutti, ma che darà l’ultimo e definitivo consiglio ad
Anna per risolvere il caso.
Un caso risolto con qualche amaro in
fondo, ma dove tutto torna al suo posto (anche le spiegazioni, che nelle altre
prove mi avevano lasciato un po’ in sospeso).
Ma non dimentico il resto della banda
non umano che, pur non partecipando all’azione, è il coro greco che sostiene la
vita di Anna. Otto, l’alano arlecchino, Banzai, il gatto di casa, l’altra
coppia impossibile delle tartarughe Tarta e Rughina, il cane meticcio Bergerac,
sempre pronto alla rima, il ficus adolescente in cerca di emancipazione, e
l’Erbaccia, ormai matura e riflessiva. Per finire (ma forse sarebbe meglio dire
iniziare visto che compare nell’avvio del libro), la psicologa Giuditta, una
rana toro che fa riflettere Anna sui suoi sensi di colpa, sul suo senso del
dovere, così che anche la nostra inadeguata mamma-moglie-detective capisce che l’affetto
si riceve per ciò che si è e non per ciò che si fa.
Un ultimo accenno ad un punto che mi
trova in disaccordo. Il marito Alessandro, in quel di Islanda, solo verso la
fine ne sottolinea le bellezze (cosa che io avrei fatto sempre e comunque
parlando dell’isola magica). Non mancando di parlar male dell’hákarl. Ora,
capisco che lo squalo fermentato non sia cibo per tutti. Ma è un cibo da
provare, per il suo intenso sapore, anche se coperto dall’ammoniaca che serve
per depurare dall’urea la carne di squalo. Ha un gusto di formaggio stagionato,
e di sicuro effetto se accompagnato da un sorso di acquavite islandese. Non
sono assolutamente d’accordo né con Alessandro né con chef stellati che lo
hanno definito: “la cosa peggiore che abbia mai assaggiato”.
Con questo vi lascio, aspettando una
nuova puntata di Anna.
Cristina Cassar Scalia “Sabbia nera”
Einaudi euro 13,50
[A: 06/08/2020 – I: 11/10/2023 – T:
13/10/2023] &&& e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 392; anno:
2018]
Finalmente, nella grande roulette delle mie
letture, trova spazio la giovane scrittrice siciliana. In effetti, giovane è un
concetto lato, visto che ha quarantacinque anni, e pur tuttavia ha cominciato
la scrittura di questa serie di gialli solo cinque anni fa. Nata nella Sicilia
barocca (ed esattamente a Noto), di professione oculista (beh, ad essere
precisi, oftalmologa), comincia una decina di anni fa a dedicarsi alla
scrittura, per poi trovare il suo filone del cuore nelle avventure gialle del
vicequestore Giovanna Guarrasi detta Vanina (più per amore di Sandra Milo del
film di Rossellini che della storia da cui è tratto, il libro di Stendhal).
Sono già ben otto i libri della serie, ma io,
fedele alle mie ricerche filologiche, comincio dal primo, e poi vedrò come
procedere con gli altri. Che di sicuro se ne leggerà, visto che questo è stato
gradito nella scrittura, nella trama e nell’ambientazione.
Facciamo così conoscenza con la burbera
Vanina, che sta a primo colpo simpatica, anche se ne impariamo a conoscere i
vari lati un po’ alla volta, e magari non tutti nel primo libro. Intanto, lei
nata a Palermo ora si trova vicequestore a Catania. Per chi conosce la Sicilia,
sa che sono due mondi, due modi di vivere le città completamente diversi. Non
solo, lei accetta la destinazione provenendo da un passaggio per Milano e,
probabilmente, attraverso una storia, non si sa quanto andata sino in fondo,
con un magistrato preso di mira dalla mafia. Non ci si meraviglia quindi che
Vanina sia scontrosa, spesso chiusa in sé stessa, refrattaria alle serate
mondane che le propone l’amica Giuli. Muovendosi dal proprio guscio solo sotto
la spinta dell’amico gay Adriano e del suo compagno, che tra l’altro è il suo
(di Vanina) anatomo-patologo di riferimento.
Ovvio che, come capo squadra, ha con sé una
squadra ben messa: il vice Spanò, memoria storica della questura, la nordica
Marta Bonazzoli, un po’ timida un po’ forse con una storia nascosta alle
spalle, il rampante Lo Faro, che qui fa solo la figura del rompiscatole, ma
penso avrà una sua dimensione. Altri sono i comprimari, ma chi salirà ben
presto nella scala d’affetto di Vanina è il questore in pensione, Biagio Patanè
(e ne vedremo i motivi). Ultimo accenno, ininfluente per ora, ma non si sa mai,
sopra a tutti c’è il commissario Macchia.
La storia parte decisamente come un cold
case: in una parte di una casa abitata solo in alcune stanze da Alfio Burrano,
in seguito a piogge insistenti, c’è un crollo che fa scoprire un montacarichi
dove viene trovato un cadavere che non si fa fatica a far risalire a decenni e
decenni prima. L’elemento che fa subito scattare qualche campanello (a noi
lettori, non alla polizia) è il fatto che in quella casa, nel 1959, venne
ucciso Gaetano Burrano, ricco gaudente dell’epoca, nonché marito di Teresa, zia
di Alfio.
Della morte fu incolpato Masino, il tuttofare
di Gaetano, anche senza troppe prove circostanziali. Ma era tutto legato a
questioni di mafia, con famiglie mafiose che premevano per la costruzione di un
acquedotto, con il beneplacito di Gaetano. Non se ne sa la posizione, ma
l’acquedotto fu fatta, anche sa da altre ditte. Comunque, della morta non si
riesce a trovar traccia, che non ci sono documenti né altri elementi che
aiutano l’indagine.
Ma Vanina è un cane da tartufi, e quando
sente una pista si butta con tutta l’anima. Coinvolge, seppur all’inizio non
con gran convinzione, il buon Patanè, capo delle indagini nel ’59. Setaccia
tutte le possibili scomparse dell’epoca, fino a risalire a tal Maria Curtò, ex
prostituta. Da lì, si ricostruisce in breve molta della storia.
Gaetano aveva deciso di trasferirsi a Napoli
con Maria, là dove c’era la loro figlia Rita, anche se non riconosciuta dal
padre. Per far ciò aveva fatto un testamento che divideva i suoi beni tra la
moglie Teresa e l’amante Maria. Inoltre aveva stretto un patto con la mafia di
Masino per l’acquedotto, lasciando così nelle peste anche il notaio Renna, tra
l’altro amante di Teresa. Ovvio che il notaio e l’amante non la stavano
prendendo bene, ma come e chi avesse realmente ucciso Gaetano e Maria è un
garbuglio di accidenti che vi lascio scoprire.
Tutto ciò sarebbe finito in una bolla, se ad
un certo punto con la pistola che uccise Gaetano viene uccisa anche l’arcigna
Teresa. Morte che fa scoprire come, a parte i beni ereditati, Teresa riuscisse
a tirare avanti con un ricco giro di usura, coinvolgente una buona fetta della
borghesia catanese, dai baroni decaduti sino al figlio del notaio Renna.
In una serie di finali ben orchestrati,
Vanina viene a capo di tutti i misteri. Anche se riamane in sospeso la fine che
abbia fatto la piccola Rita. E con un tocco da maestra del giallo che conosce
Victor Hugo, la nostra scrittrice ci lascia nelle ultime pagine un amo per
andare a leggere i libri successivi.
Una buona trama, e, come detto, una bella
Sicilia che ci fa da sfondo. Da Catania ricoperta dalla sabbia nera delle
eruzioni etnee, ai paesini sulle pendici del vulcano (non a caso Cristina vice
ad Aci Castello), fino a Noto ed alle spiagge del ragusano a me sempre care nel
ricordo della mia amica Marina. Una prova che mi ha convinto e che mi convince
a continuare.
“Angelina era una santa donna … il fatto
che fosse parecchio più giovane di lui, dettaglio che quando se l’era sposata
l’aveva esaltato, da qualche anno a questa parte gli si stava ritorcendo contro,
producendo in lei la convinzione di doverlo sorvegliare.” (100)
Visto che parliamo
di italiani, nel nostro paese rimane anche la mia citazione del mese che viene
da Enrico
Brizzi e i suoi giri nella sua
città descritti in “La vita
quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco”: “Credetti di intuire che gettarsi
nelle situazioni a testa bassa potesse essere una buona tecnica per non covare
rimpianti.” (77)
Continuiamo a barcamenarci tra possibili viaggi ed organizzazioni relative. Accumulo informazioni, messaggi ed altre amenità, senza ancora sciogliere riserve. Vedremo. Intanto le avventure calano di giorno in giorno, non restandoci altro che scambiarci un abbraccio.
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