domenica 14 aprile 2024

Il giallo secondo Mondadori - 14 aprile 2024

Anche nei momenti di crisi bisogna in ogni caso portare avanti la vita di tutti i giorni. Vediamo così questa settimana un tipico esempio di letteratura con imprinting editoriale. Mondadori, che da quasi cento anni pubblica i suoi romanzi, quando affronta autori italiani ha un duplice versante d’attacco. Da un lato ci sono i romanzi “con”, cioè quelli che sviluppano personaggi seriali, spesso commissari o simili ma non solo. E che devono (dovrebbero) avere interessanti sviluppi sul lato privato degli stessi (qui, male con Luceri e bene con Fassio) ma sempre un po’ problematici. Poi ci sono quelli “senza”, un po’ cane sciolti, che si aggrappano a personaggi, spesso anche con vene thriller, ma spesso sono i meno riusciti.

Ad essere gentili, in effetti, c’è anche una terza via, quella dei personaggi che potrebbero diventare seriali e non lo sono ancora, per cui si rimane “tra color che son sospesi”.

Roberto Zannini “Il secondo modo di fare le cose” Mondadori euro 6,50

[A: 10/07/2023 – I: 22/11/2023 – T: 23/11/2023] && -   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2023]

Forse, a mente riposata, avrei da aggiungere qualche meno in più, che, più ci penso, meno sono convinto da questo romanzo. Sembra quasi la seconda puntata di una (probabile) trilogia, in cui si riprende qualcosa che è avvenuto prima, che di sicuro ha un’influenza sulle vicende attuali, ed alla fine si lascia uno spiraglio per ipotizzare una successiva puntata. Ipotesi che l’autore, intervistato, ha già ammesso.

Zannini è autore sperimentato, che, pur se di nicchia, pubblica con una certa costanza romanzi di vario genere. Ricordato soprattutto per alcune trame innovative, come gialli distopici e romanzi di fantalpinismo. Qui, appunto, si cimenta con un giallo “normale”, di buon successo di critica (infatti vince il Premio Tedeschi 2023), ma che a me pare irrisolto.

L’impianto, tra l’altro, sembra di buona fattura. Una interessante protagonista, Eva Carini, criminologa e patologa forense, che, scopriamo nel corso delle avventure, viene da un grosso problema: una caduta da un immobile in costruzione che le ha portato fratture multiple ed alcuni mesi di coma. Da cui è uscita, ma con forti dolori, che tenta di sopire con dosi massicce di oppiacei, ed un buco di due anni nella memoria. Uscita anche dal grosso giro. Con i soldi dell’assicurazione compra un impianto di cremazione e rimane a disposizione solo per un caso, l’ultimo cui ha partecipato prima dell’incidente.

Indagine che è poi il filo rosso del racconto: almeno quattro prostitute vengono uccise in modo barbaro, ma soprattutto vengono marchiate con un simbolo identico in tutte, motivo per cui si evince subito trattarsi di delitti collegati. Il simbolo, che va da scapola a scapola, è “∞”, da tutti conosciuto come simbolo dell’infinito. Che tuttavia l’autore, come molti divulgatori, descrive come 8 coricato (purtroppo la scarsa conoscenza matematica di molti scrittori e critici parla invece di 8 rovesciato, che tutti ben sanno, è ancora un 8). Descrizione anodina ma che serve a Zannini per mettere delle pulci nell’orecchio di non attenti lettori.

Intanto, Zannini deve anche introdurre il motivo del titolo. Per fare questo si serve di una mini-trama iniziale dove conosciamo una cara amica della nostra Eva, la lituana Irina, che gestisce un simpatico ritrovo, il “Bis Bus Libreria Caffè”, dove oltre alla ristorazione è presente una libreria con ottimi libri. Ad Irina sparisce la diciottenne figlia Vanja, che Eva, con rapidità ed insolita fortuna, riesce a risolvere brillantemente. Fornendoci la chiave: “C’è un primo modo, quello in cui si seguono tutte le procedure e poi c’è un secondo. Quello che mira al risultato.” Ovvio che il secondo metodo è fuori dalle leggi ordinarie, comporta uso spregiudicato dei ruoli nonché l’impiego di mezzi non ortodossi (droghe, finte torture, ricatti).

L’idea, che non condivido, è la machiavellica “il fine giustifica i mezzi”. Ma siccome non siamo né in un trattato filosofico, né in un manuale di battaglie, faccio l’affermazione sopra riportata e, se si vuole, sono pronto ad aprirne un dibattito in altra e più acconcia sede, dove potremo parlare di principi e di tiranni, fino ad arrivare alle sentenze concise di De Sanctis.

Il ritrovamento di Vanjia convince Oleg, il nonno, detenuto a Milano, a parlare del protettore della prima morta, poi morto a sua volta. Ma è un filo, cui Eva si aggrappa per risalire, passo dopo passo, la catena degli avvenimenti e delle responsabilità

Ma da questa metà in poi, il testo si involve. Ovvio che ci siano poteri dello Stato deviato che mettono i bastoni tra le ruote, ovvio che ci siano mafie di vario tipo che si muovono nel panorama pedemontano (con un accenno a fantastici e poi mai ritrovati “lupi di Vilnius”), ovvio che ci sia anche un africano buono (pur se sempre con qualche piede in affari poco leciti), ovvio che ci siano potenti che hanno interesse ad insabbiare tutto. Quello che è meno ovvio è un maxi-collegamento con le pratiche onirico – religiose sudamericane, con il candomblé brasiliano, gli shauru ecuadoregni ed altre realtà poco chiare. Tutto ciò viene riportato in quel Veneto che stiamo seguendo nella trama, ma con molti salti logici, che sembra servano all’autore per arrivare al finale.

Aveva messo troppa carne al fuoco, per far sì che il povero lettore immaginasse chissà che, ma il tutto si sgonfia come un pallone bucato, rimandando tutto ad un epilogo che spiega poco e serve per lanciare quella seconda puntata di cui dicevo. Mentre sarebbe stato interessante (magari Zannini ne può prendere spunto) scrivere un prequel invece che immaginare un sequel.

Enrico Luceri “Il tempo corre piano” Mondadori euro 6,90

[A: 10/09/2023 – I: 10/12/2023 – T: 11/12/2023] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 200; anno: 2023]

Non so se ho perso il conto, ma credo che questo sia il quinto romanzo di Luceri che vede protagonisti il commissario Tonio Buonocore e l’ispettore capo Lina Garzya. Che probabilmente è anche protagonista di racconti, visto che in coda a questo non lungo romanzo, c’è anche una piccola storia, “Un gusto un po’ amaro di cose perdute” dove vediamo all’opera, anche se in solitaria, il nostro Bonocore.

Come al solito in Luceri c’è un buon elemento di contorno, descrizioni, atmosfere, citazioni, ma quando andiamo a stringere sulla trama, il giallo perde quasi sempre consistenza. Di certo ricordate che siamo a Napoli, e quindi ci si muove tra il Vomero e Posillipo, senza dimenticare, in finale, una puntata cimiteriale a Poggioreale, tra il Monumentale e la Pietà. Inoltre, abbiamo il nostro investigatore principe, il commissario Buonocore, reduce da un problema polmonare che lo ha costretto a smettere di fumare, anche se con non pochi rimpianti.

Il nostro è un osservatore, che individua le piccole discrepanze sulle scene criminali e su queste riflette. Come ripete spesso, quasi ad afferrare il filo dell’aquilone prima che questi si stacchi dalla mano e voli via per sempre. In questa puntata, Garzya compare molto da spalla, con aiuti su ricerche al computer, al nostro sono sempre aliene. Per altro, oltre a servire come cassa di risonanza alle elucubrazioni commissariali, non interviene in modo decisivo nelle indagini.

Le indagini partono dalla morte della signora Lucia, catalogata per suicidio, ma che Buonocore stenta a confermare. Con le famose dissonanze. Lucia è una persona pignola e altera, è vestita in modo formale, in frigorifero ci sono pronte delle melanzane al funghetto per una possibile cena, ed un foglio del blocchetto è strappato in modo irregolare. Forse poco, ma abbastanza per il nostro affinché si attivi alla ricerca del mondo della morta.

Scopriamo così che era sposata con Mario, con cui aveva cercato di fare figli, senza riuscirci, forse per problemi di insufficienza spermatica del marito. Così che, una volta incontrato Osvaldo, proprietario di una galleria d’arte, divorzia e sposa il più pimpante dei due, anche se tardi per procreare. Osvaldo muore, lasciandole una rendita presso la Galleria, che viene venduta a Massimo, conoscitore d’arte un po’ borderline, con tendenze truffaldine. Prende anche Raffaella per aiutarla in casa, una domestica anch’essa tendente al passaggio dei limiti dell’onestà.

Il tutto complicato dalla presenza di una malattia degenerativa, che non faceva prevedere grossi orizzonti di vita a Lucia. Fatto sta che, nei giorni precedenti la morte, Lucia cerchi una sua amica di gioventù per rivelarle qualcosa che né noi né Nunzia comprendiamo. Fatto sta che il giornalaio sotto casa di Lucia qualcosa ha visto, ma non parla. Fatto sta che Buonocore scopre Lucia aver fatto degli esami genetici i cui risultati, secondo le sue conoscenze, le hanno cambiato atteggiamento.

Quando, a valle del funerale in cui sono tutti presenti, anche il giornalaio, e dove Nunzia sempre avere una agnizione sulle parole di Lucia, avvengono due morti violente, in cui muoiono sia Nunzia che il giornalaio, Buonocore riesce ad afferrare il filo del suo aquilone. Perché Lucia era morta non per sapere troppo, come in genere si suppone, ma per sapere troppo poco. E con questo vi lascio nel mistero più nero. Un mistero collegato anche con la morte nel passato di tal Pino, che a tutti rischiara le idee, ma a me le ha lasciate confuse e insoddisfatte.

Tra l’altro, Luceri ha la mala creanza di auto citarsi, laddove in alcuni punti dei ragionamenti del commissario si fa riferimento alle precedenti puntate della serie, indicandole in nota, ma che, se non le avete lette, vi lasciano ignoranti come prima. L’unico altro punto positivo è l’accenno a canzoni varie, in particolare ad alcuni motivi italiani anni ’60, cosa a me sempre gradita.

Accenno ripreso nel piccolo racconto che chiude il libro, il cui titolo riconduce ad una frase della canzone di Paoli (spero abbiate capito quale). E dove Buonocore si muove in solitaria, essendo in vacanza a Sorrento per i suoi problemi polmonari. Lì dove viene uccisa una turista. In modo anomalo (nessuna violenza, né altri motivi palesi). Il nostro è in vacanza, ma un commissario rimane sempre tale, così che spinge per fare ricerche in tutta la regione e scopre morti analoghe, nell’esecuzione, e similari nelle scarse motivazioni. Un solo fatto sembra legare il tutto: la presenza di foto ben fatte in tutte le situazioni. Un filo assai labile, che porta ad una soluzione scontata, che non fa che ribadire la scarsa propensione di Luceri a trame poliziesche complicate. Rimane anche qui un paio di pennellate sorrentine che farebbero bene a spingere, chi non conosce i luoghi a visitarli. Meritano.

Meno merita Luceri, che, come dissi altrove, riesce ad entrare nelle mie letture senza un vero motivo valido. Ma si sa, sono sempre molto attento ed attratto dagli autori italiani.

Enrico Luceri “Il giorno muore lentamente” Mondadori euro 5,90

[A: 05/05/2022 – I: 13/12/2023 – T: 14/12/2023] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 186; anno: 2022]

Nella confusione di questo dicembre movimentato, tra partenze e programmi di viaggio, ho pensato bene di invertire le due ultime avventure del commissario Buonocore. Quindi ora mettiamo mano all’episodio precedente, dove, come spesso in Luceri, accanto al romanzo c’è anche un breve racconto, “La fine della nottata”.

Volendo fare un piccolo ordine cronologico, diciamo che il romanzo si svolge nel dicembre 2016, il racconto nel gennaio 2017, mentre il precedente romanzo è quasi un anno dopo, nel novembre 2017, ed il racconto conclusivo del luglio 2018.

Tornando a noi, bisogna quindi dire che in questo episodio (anzi questi) è ancora ben presente e motivata l’ispettore capo Lina Garzya, che invece nella precedente trama era un po’ defilata. C’è anche il sovraintendente Michelino Macchia, laddove i tre sembrano costituire una famiglia ben assemblata, ognuno con il suo ruolo, la sua posizione, i suoi compiti. Anche perché Tonino, il commissario, ha sì due figli, ma sono sposati e lontani. Aveva la consolazione di fumare a tutto spiano, cosa che il medico ora gli ha proibito, e che lui sopperisce succhiando bastoncini di liquerizia.

Ma venendo alla trama in sé, devo dire che è abbastanza deludente. Ci sono morti vari, di cui si dirà, ma fin da subito, noi e Buonocore capiamo che ci deve essere qualcosa che viene da lontano e che unisce le morti. Ma anche qualcosa da vicino che le morti stesse sono tutti ravvicinate in questo approssimarsi al Natale.

Via via che la trama scorre abbiamo i primi due morti: Rosario e sua madre Addolorata. Povera gente che vive nel degradato rione Ponticelli. Vivono del sussidio, e di sicuro non avevano in casa elementi che spingevano per rapine od altro. Inoltre, non solo vengono uccisi con un colpo di coltello all’addome, ma a Rosario vengono bruciate le mani ed alla madre viene spappolata una gamba, quella malata, con il bastone stesso con cui si appoggiava.

Poi, a ruota, viene ucciso un tassista e gli viene recisa la lingua, ed un’infermiera tecnica odontoiatrica, cui vengono tolti i bulbi oculari e posti in una mano. Buonocore è sempre più convinto che ci sia un filo che leghi tutte le morti. Il famoso filo dell’aquilone che, una volta preso al volo, lo avrebbe portato alla soluzione del caso.

Proprio indagando sul passato delle vittime, al fine si riesce ad isolare un episodio in cui erano tutte presenti. In un Pronto Soccorso, alcuni anni prima, Rosario porta la madre dolorante alla gamba. Contemporaneamente arriva un motociclista che ha perso il controllo della moto e sbattuto la testa. La collera di Rosario, pur avendo la madre meno diritto del giovane, porta il medico a medicare la gamba della vecchia. Peccato che, avendo perso tempo, il motociclista muore. Ma tutti fanno finta che sia già morto all’arrivo: il medico, il guidatore dell’ambulanza, l’infermiera, nonché Rosario e sua madre.

Non svelo certo molto, che non c’è un assassino da trovare. Solo da vedere se l’assassino arrivi ad uccidere tutti o meno. Siamo quindi un po’ sul versante thriller più che sul noir. E purtroppo senza neanche tanti patemi. Che non vengono alimentati neanche dalla storia parallela di una signora che decide di trasferirsi in un residence sul Vomero, dove vive appartata, forse intrattenendosi con un amante segreto. Ma di sicuro, aggirandosi per il residence in modo circospetto, scatenando la curiosità dei due guardiani della struttura.

Luceri è di facile scrittura, e si legge scorrevolmente. Sappiamo sempre che Buonocore è lì che osserva e che Garzya cerca i dati mancanti qua e là in rete, mentre Macchia è più uomo del territorio. E seppur aspettiamo che vengano sciolti i motivi e le azioni dei vari personaggi, non è che si riesca a farsi coinvolgere più di tanto.

Come non ci coinvolge lo scarno racconto finale, con Tonino e Lina alla ricerca del colpevole di un sembrerebbe facile omicidio, dietro al quale, tuttavia, c’è forse di più. Forse una faida familiare, forse figli naturali che non sanno di esserlo, forse qualcuno è uno strozzino, di sicuro uno è l’omicida. Ma rimane un racconto anch’esso poco attraente.

Come tutta la confezione, che, ed è facile ricostruirne le tracce e le differenze, offre un tributo palese ad uno dei migliori romanzi thriller della fine degli anni Quaranta. Il bellissimo “Appuntamenti in nero”, dove l’autore, Cornell Woolrich ci fa seguire per anni la vendetta che il giovane John organizza a seguito della morte della sua amata, colpita da una bottiglia lanciata da un Piper che volava a bassa quota in un giorno di festa.

Se conoscete il libro, capirete subito le analogie e le differenze. Altrimenti, è assai facile trovarne riassunti in rete, che vi consiglio di leggere (sono ben fatti). Ovviamente parlo di Woolrich. Per Luceri si spera solo che le future avventure di Buonocore siano un po’ più attraenti.

Annamaria Fassio “I volti del mistero” Mondadori euro 5,90

[A: 09/10/2021 – I: 07/01/2024 – T: 09/01/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2021]

Come di certo sapete se seguite le mie trame, oltre ad avere un debole per autori ed autrici italiani, ho una (immotivata) simpatia per Annamaria Fassio, che seguo fin dalle prime avventure della sua eroina, il commissario Erica Franzoni. Avevo quindi colto con gioia una nuova uscita nei Gialli Mondadori, che si è poi rivelata non tanto gioiosa. Non per la scrittrice né per la scrittura, ma per la presenza di quindici racconti, che, pur in parte gradevoli, non riescono a sostituire una bella storia di Franzoni e Maffina.

Una delle cose migliore del libro è l’introduzione, dove non solo scopriamo alcuni modi di affrontare i testi da parte dell’autrice, ma è soprattutto la scoperta che anche lei, come il sottoscritto, è del Toro, un segno, una garanzia. Oltre alla lunga e fruttuosa amicizia professionale con Ed McBain, uno degli autori più simpatici del secolo scorso, inventore del “procedural thriller” con le storie dell’87° Distretto.

Per i racconti, invece, abbiamo una duplice faccia: i primi nove, non a caso raccolti sotto il sottotitolo di “Racconti sparsi” sono storie piccole o grandi senza un centro fisso, mentre gli ultimi sei sono storie, più o meno lunghe, con al centro, per fortuna, l’ottima Erica. Tuttavia, devo riconoscere a chi ha curato il volume la buona creanza non solo di averli messi in ordine cronologico, ma anche di averne indicato la data ed il luogo di prima pubblicazione, indicazioni fondamentali per un maniaco come me.

Nella prima parte, quella dei racconti sparsi, in realtà c’è un tentativo di coerenza, magari ricostruito solo a posteriori. In ogni racconto c’è un personaggio, un viso, un volto che, se non di mistero sa di sicuro attrarre l’attenzione del lettore.

C’è la prostituta bionda che attua una strana vendetta (“La via Emilia”), c’è il disabile abbandonato (“Mammina cara”), c’è una parafrasi mortifera della sindrome di Stoccolma nella donna riavutasi dalle sevizie di un pedofilo (“Andamento lento”), c’è la giovane Hanna coinvolta nella guerriglia di Genova e poi nel massacro della caserma Diaz (“Sangue giovane”), c’è il lungo viaggio dell’immigrato e la sua non integrazione sul suolo italiano (“Africa”), c’è il tentativo di parlare del terrorismo islamico (“Sacrificio”, uno dei meno riusciti), ci sono i vampiri, forse (“Pranzo reale”, anche questo molto in fondo alla lista). Si parla anche della tragedia del ponte Morandi (“La terra degli altri”).

Lascio per ultimo, anche se non cronologicamente, quello che più mi ha intrigato, pur nella non linearità della trama. Un racconto lungo ambientato tra Berlino e l’Italia, ruotando, come azione drammatica, intorno al luglio del ’69 dello sbarco sulla Luna (“L’anno dello sbarco”), dove si consuma un vero caso di spionaggio, con possibili spie, finti delatori, veri traditori, e messa in scena dell’ultimo atto drammatico con una valente maestria. Un tentativo interessante.

Passando alle gesta di Erica, preferisco essere più veloce e meno didascalico. Come primo elemento, anche grazie alla mania di Annamaria di sentir musica scrivendo, molti di questi racconti rimandano a brani di canzoni: “Angela, Angela, angelo mio” (Luigi Tenco), “La donna cannone” (De Gregori), “Un lupo alla porta” (Radiohead). Ma anche rimandi letterari: “Stella del mattino” (da una poesia di Sergio Altieri) e “La gatta sul caso che scotta” (parafrasi dal dramma di Tennessee Williams).

In tutti c’è l’onnipresenza di Erica, ma anche la vicinanza con Maffina, i rapporti non sempre idilliaci con la sua sottoposta Ida. Ed ovviamente delitti, spesso mafiosi, vendette, storie di droga, storie di soldi. Ci sono storie che sembrano semplici: un ragazzo con l’arma del delitto in mano vicino ad un cadavere; ovvio che la soluzione sarà più complessa e dura, in un rimando di casualità forse un po’ forzate. Altre che fanno riflettere sul rio destino: la morte per omicidio stradale di una ex-tossica a suo tempo salvata da Erica dalla droga (ma che ci faceva con ventimila euro in contanti in borsa…).

Per finire con l’ultimo, il cui titolo non rimanda ad altro, “L’omino di neve”, ma che è un omaggio ad Agatha Christie, dove avviene un delitto in una cabina chiusa dell’Orient Express. Un omaggio interessante, anche se la soluzione è leggermente macchinosa.

Ma l’egregia Fassio ben si destreggia tra tutti i misteri, mantiene un discreto profilo di lettura, unito ad un alto profilo di simpatia. Per me, tuttavia, rimane sempre meglio quando si lascia andare ai romanzi pieni con il commissario Franzoni in spolvero.

Una curiosità: dalla lettura di uno dei racconti finali ho scoperto che esiste una via Tolemaide anche a Genova.

Annamaria Fassio “Desaparecidos” Mondadori euro 6,90

[A: 11/12/2023 – I: 02/02/2024 – T: 04/02/2024] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2023]

Qui, finalmente, ritorniamo sia alla dimensione romanzo, seppur non lunghissimo, ma soprattutto ad avere al centro i personaggi eponimi di Annamaria Fassio. Con un’operazione sul giallo in cui sia l’autrice che i suoi personaggi dichiarano da che parte stanno, moralmente e politicamente. Con due menzioni da ricordare perché danno il quadro del romanzo. La dedica alle madri ed alle nonne di Plaza de Mayo, ed il ringraziamento a Massimo Carlotto per il suo libro “Le irregolari”, da cui traggo questa citazione da condividere con voi e con Annamaria: “Sono stanco di accumulare sconfitte, sia personali che generazionali. Ogni tanto mi piacerebbe vincere qualche battaglia.” (108)

Intanto, prima della trama vera e propria, come detto, ritroviamo la tribù della Omicidi di Genova. Ovvio, il commissario capo Erica Franzoni, con i suoi tormenti (ormai sono diversi libri che frequenta regolarmente lo psicanalista Marchi) ed il suo compagno, il vicequestore Antonio Maffina, di dieci anni più anziano, voglioso della pensione, ed anche disposto ad avventure extra Erica (che incidono il morale ma non la trama). Defilata, ma sempre presente, l’agente Ida Merenghini, in tensione per la ricerca di un affidamento congiungo di Liv, la bambina che salvò qualche episodio fa.

Questa pur affiata compagine si trova ben presto immersa in un dramma che viene da lontano, nello spazio e nel tempo. Come fa supporre il titolo, viene dall’Argentina, e coinvolge immigrati di ritorno (ora) e tutto uno strato di popolazione al tempo dell’inizio della vicenda (che si colloca ad Avellaneda, quartiere periferico di Buenos Aires, a partire dal dicembre ’79).

La consueta abilità della scrittrice ci porta tra i due spazi temporali senza troppa fatica, anche se io ho sempre le mie riserve. Certo, qui c’è una necessità di non scoprire tutte le carte, così che l’up and down temporale può essere giustificato. Ma noi rompiamo il cerchio.

Nel ’79 si era nel pieno della dittatura militare di Videla, iniziata con il colpo di stato del marzo ’76, da subito caratterizzato dalla ferocia repressiva dei militari e della polizia. I non allineati, in base ad un piano generale concordato con la CIA, venivano sistematicamente uccisi. In questo contesto vediamo una coppia Sofia e Agustin senz’altra colpa di voler una riqualificazione del lor quartiere, presa, torturata e uccisa dopo la denuncia a loro carico dell’insospettabile Omero Rossi. In particolare, Sofia viene fatta partorire prima di essere uccisa, ed il bimbo dato in adozione coatta ad esponenti vicini alla giunta. Il tutto organizzato tal Giacinto Verano.

Quando l’azione si sposta nel presente, vediamo una serie di argentini di origine ligure tornare in Italia. C’è il proprietario di case Manuel Sacchi, c’è il tuttofare Tommaso Torre, c’è Estrella Costa Padilla, vedova di un’alta carica della polizia argentina, e c’è Omero Rossi. Anche se per poco, che la prima cosa che vediamo è il suo assassinio. Un’uccisione senza nessuna traccia particolare, e senza agganci che noi sappiamo la storia di Omero, ma Erica no, e la deve ricostruire per più di metà libro.

Tracce che seguiamo anche nelle telefonate tra Estrella ed il figlio Ruben, anche lui in polizia ma rimasto a Baires. Dove è subito chiaro che Ruben è stato adottato ed Estrella sa più di quanto vuol dire, anche al figlio.

Fatto sta, che, tra un ritaglio di giornale, un collegamento con i Rossi genovesi ed i Rossi argentini, Erica comincia ad avere un panorama più ampio e più chiaro della vicenda. Soprattutto dopo due vicende: la scoperta di una foto in cui ci sono Sacchi, Torre e Rossi e la morte anche di Estrella, senza che Ruben abbia appurato la storia della sua infanzia.

Un dubbio viene forte a noi lettori: saranno vendicatori delle torture subite quaranta anni prima o elementi collusi che hanno paura che la verità venga a galla, anche dopo tanti anni?

Per la soluzione, leggete il libro fino alla fine.

Per le atrocità di Videla e compagnia, qui avete alcuni altri spunti, oltre a quelli di Carlotto già citati, e, se posso indicarne uno, “I vent’anni di Luz” di Elsa Osorio. E non credo ci siano molte altre parole da aggiungere. Ah, se avete uno stomaco forte potete anche vedere il film “Garage Olimpo” di Marco Bechis del ’99.

Da parte mia, vado invece finendo con uno scarto di lato. Il libro è pieno di ottime citazioni tanghere da far felice la mia amica Mariella. Ma anche di altra musica che serve alla concentrazione dei personaggi. Io cito solo che, ad un certo punto, Erica ascolta “My way” interpretata da Frank Sinatra. Solo che ne cita una strofa, pur presente nel testo, che generalmente né Sinatra né altri interpreti cantano mai.

In una settimana densa di avvenimenti gravi sul lato politico, mi piace intanto ricordare alcuni passi di una grande scrittore e di un grande libro. Se non lo avete (ancora) letto vi consiglio vivamente “Il vagabondo delle stelle” del grande Jack London. C’è qualcosa di generale come “la memoria è quella cosa con cui si dimentica” (56) o anche “io sono il risultato dell’intero mio passato” (299).

E poi si parla dell’altra parte della coppia:

“La presenza di una donna nella vita di un uomo spiega molte cose” (96).

“Se parlando di una donna, l’unica difficoltà fosse quella di renderne il fascino, mi proverei ad offrire una descrizione di …, ma come si fa a trasformare l’emozione in parole?” (263).

“A volte penso che la storia dell’uomo sia la storia del suo amore per la donna. Queste stesse memorie che oggi vado scrivendo sono il ricordo del mio amore per lei. Nelle diecimila esistenze che ho vissuto, nelle forme che ho prese, l’ho sempre amata e tuttora la amo. Il mio sonno se ne nutre, le fantasie che mi colgono da sveglio possono muovere chissà da dove, ma è sempre a lei che mi conducono” (352)

Non è questo il momento del privato, che tutto passa in secondo ordine nella speranza, tenue ma incrollabile, che esistano al mondo persone ragionevoli, che non vengano prese dalla spirale bambinesca “la mia macchinina è più bella della tua”. Per questo l’unico modo è di stringerci in un caldo abbraccio.

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