domenica 28 aprile 2024

Italiani più saggi dei giapponesi - 28 aprile 2024

Non una battuta, ma la costatazione a valle di una settimana dedicata ad alcuni saggi o di letteratura poco classificabile. Ci sono due giapponesi storici, Murakami e Yoshimoto, con libri un po’ datati, e con un po’ di delusione per la scrittura di Banana. Mentre a lato ci sono due italiani, D’Avenia e Bianchi. Il primo con un viaggio insieme ad Ulisse che mi ha scaldato il cuore. Enzo Bianchi con due libri dedicati alla morte ed alla vecchiaia che ho letto con attenzione che le riflessioni dell’ex-priore di Bose non lasciano mai indifferenti. Unico cruccio, per ragioni di acquisiti disordinati, ho letto prima la morte e poi la vecchiaia. Ma credo che le mie personali riflessioni ne possano prescindere.

Insomma, alcuni libri che consiglierei senz’altro di leggere. Magari possiamo avere reazioni diverse, ma non sono certo libri banali (in senso matematico).

Alessandro D’Avenia “Resisti, cuore” Mondadori s.p. (regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 29/09/2023 – T: 03/10/2023] &&&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 415; anno: 2023]

Non c’è dubbio: Alessandro D’Avenia è un professore. Conosce le corde affinché la letteratura, tutta, possa entrare in sintonia con l’altro da sé, sia esso studente o lettore. Poiché inoltre conosce bene ciò di cui parla, la resa stilistica è di alto profilo.

Avevo cominciato anni fa con il suo primo romanzo, di buona ma normale fattura. Passati anni, ho letto la sua arte della fragilità, dove mi restituiva un Leopardi finalmente umano. Ora, con decisione e passione, arriva al cuore del suo viaggio, come Ulisse di cui ci parla. Ci arriva perché intreccia la letteratura alla vita, alla sua vita (e d’altra parte è sempre così, la letteratura, il libro è parte di noi, basta lasciarsi cullare dalle pagine, ed accettare che quello che viene detto è per noi e non per altri, come in modo illuminante vien fuori dalle parole di Chesterton che metto in fondo). Ma non dimentico anche che, non sempre ma con sovente curiosità, segue le sue parole periodiche sul Corriere.

Intanto, riprenderei il titolo completo che recita: “resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali”. D’Avenia, da fine conoscitore del greco e profondo amante della scrittura omerica, ripercorre nel testo il modo di porre il poema epico alle sue classi liceali. Certo, è difficile che ci faccia fare lo stesso percorso, visto che non può indurci a leggere l’Odissea integralmente. Si accontenta di narrarcela, smembrandola e ricomponendola. Intrecciandola poi, come sempre avviene con i libri, con la sua vita personale.

Piena di aneddoti e di rimandi a tutta la sua storia, in realtà non ho interesse ad addentrarmi nel suo personale. Se non per un punto. Alessandro confessa di essere riuscito a porre mano ed a terminare il testo solo avendo nel frattempo incontrato un amore felice, con il quale, mentre noi ne leggiamo, sappiamo ha convolato in giuste nozze. Con l’augurio mio personale di aver trovato quello che vi ho trovato io, che, vi confesso, non è poco.

Tuttavia il personale dell’autore non mi interessa ripercorrere in queste righe. Ne potete leggere, ne potete trarre i vostri giudizi, le vostre simpatie e antipatie. Io vorrei accompagnarmi ad Alessandro in alcune sue osservazioni, che hanno aperto squarci di conoscenza in una materia che, pur presente nel fondo della mente, non è mai risultata così viva come ora che ne ho riletto i punti esaltanti.

Una piccola premessa. In gioventù, era un patito dell’Iliade, ma non per la guerra in sé, né per la figura di Achille, che mai mi ha sedotto. Ma per quell’inarrivabile “Catalogo delle Navi” compreso nel secondo libro. Un elenco che stimolava la mia fantasia di viaggio. Lì di fronte a Troia v’era un concentrato del mondo com’era conosciuto. Ed il catalogo portava a sognare l’esistenza di tutte quelle terre che, se fossi stato allora un viaggiatore, avrei visitato.

Avevo quindi riservato ad Ulisse solo dei piccoli posti speciali e specifici, su cui tornerò. Qui, Alessandro mi spalanca un mondo. Prima di tutto perché mi fa ragionare che, dal punto di vista temporale, l’Odissea si spande in realtà per 40 giorni, dalla partenza di Ulisse da Ogigia dove aveva vissuto con la dea Calipso all’arrivo ad Itaca ed al consumarsi della vendetta e della riconciliazione con Penelope e Laerte. Numeri importanti, che Ulisse sono 20 anni che è lontano da Itaca, i dieci della guerra ed i dieci necessari al ritorno. E 20 è un’unità ciclica ricorrente in molte datazioni (ad esempio nel calendario Maya).

Secondo apporto di conoscenza è la tripartizione del poema, rispetto all’usuale divisione in cinque stadi. Così che vediamo più concisamente divisi i 24 canti del poema, otto per ogni parte. La prima, etichettata partire, ci fa immergere prima nel mondo di Telemaco e della sua partenza da Itaca, e poi nella partenza di Ulisse da Ogigia. La seconda, che si vuol ricordare come viaggiare, è riempita dalla narrazione che fa Ulisse ai Feaci, descrivendo come ha passato gli ultimi dieci anni dopo aver lasciato Troia. Questa è poi quella che rimane nell’immaginario collettivo come la vera “odissea”, nome che diventa eponimo. Infine la terza, tornare, quando sia Ulisse che Telemaco tornano a Itaca. E dove si consuma il finale annunciato dell’Odissea.

Non il finale di Ulisse, che, come sappiamo dalle parole di Tiresia che Ulisse incontra nel breve viaggio tra i morti, il nostro è destinato ad altri viaggi, per infine morire in un lugo lontano dal mare.

L’altra idea dell’autore che mi ha fatto riflettere è la decisione di Ulisse, quando sta da Calipso, di rinunciare all’immortalità, per seguire la sua vena mortale, e ricongiungersi con gli affetti. Penelope, Telemaco, Laerte. Non Anticlea, la madre, che lui sa già essere morta. Ma è l’affacciarsi della morte come elemento della vita che permea tutto il poema e la decisione di Ulisse. Solo perché sappiamo di morire, possiamo dare un senso alla nostra vita. Solo viaggiando verso la morte possiamo nascere ogni giorno nel nostro immenso quotidiano. In modo che il nostro cuore (là dove è la sorgente di tutto il nostro essere, l’anima forse) possa resistere. Filosoficamente, come ci insegna il professor D’Avenia, nel senso di ri-esistere.

A ben guardare, il ritorno verso Itaca è meglio da intendere come un viaggio verso Itaca. Ulisse non vuole tornare all’Itaca del suo passato, ma arrivare ad Itaca per costruire il suo futuro. Ulisse, e noi con lui, invece di fuggire torna, arriva. Ulisse, e noi con lui, invece di morire, nasciamo alla vita.

Abbandonando D’Avenia, ma non Ulisse, questo percorso veloce che lui mi ha concesso di fare insieme, riprende alcuni punti che, nel corso degli anni, hanno saldato il me stesso con la vita che sto vivendo. Legandomi prima (grazie professor Morganti) al canto XXVI ed alla terzina che recita: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Per cui lo studio e le novità hanno sempre legato la mia passione nell’esistere.

Passando poi, durante i turbolenti venti anni, all’amore per Foscolo ed al suo passaggio su Zacinto: “bello di fama e di sventura / baciò la sua petrosa Itaca Ulisse”. Avrei voluto essere bello, ma in fondo, baciando la mia Itaca certificavo una volontà di non arrendersi.

Finendo quindi, dopo tanti viaggi anche mentali, ad approdare a Konstantinos Kavafis: “Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze”.

Parole che racchiudono, per me, il senso di Itaca e di questo libro. Con il viaggio ad Itaca bisogna avere la capacità di accogliere il viaggio (la vita) per quello che è. Esperienze uniche, irripetibili, casuali, caotiche. Insieme di momenti che modellano in modo unico la nostra unicità di essere umani.

“Ho imparato a leggere prima di andare alle elementari … i libri hanno segnato la mia infanzia … così mi sono messo a rileggere le avventure di Asterix.” (39)

“Raymond Carver: E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? /Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.” (81)

“Chesterton: Ogni storia … ha qualcosa che appartiene all’universo. Ogni storia, per quanto breve, comincia con la creazione e termina con il giudizio finale.” (153)

“Bibbia (Salmo 90): Insegnaci dunque a contare i nostri giorni, per ottenere un cuore saggio.” (169)

“Niente come la morte dei genitori, e soprattutto la morte della madre, fa prendere coscienza di non essere immortali.” (245)

Haruki Murakami “Underground” Corriere – Murakami 6 euro 8,90

[A: 18/06/2020 – I: 23/12/2023 – T: 25/12/2023] - &&      

[tit. or.: アンダーグラウンド Andāgurando & 約束された場所で―underground 2 Yakusoku sareta basho de: Underground 2; ling. or.: giapponese; pagine: 502; anno 1997-8]

Una premessa: pur andando avanti nella lettura dell’opera dell’autore, ho inserito questo volume in una trama di scrittura varia, che non solo non è un romanzo, ma è un’opera che diverge dal solco tradizionale delle scritture di Murakami, per cui ne preferisco questa collocazione.

Intanto, come si dovrebbe capire dal titolo originale, questo volume racchiude due saggi di Murakami, intitolati “Underground” e “Underground 2”, dedicati (e vedremo come) ad un momento topico della storia giapponese recente: l’attentato al sarin avvenuto il 20 marzo 1995 nella metropolitana di Tokyo, che provocò 13 morti ed oltre 600 intossicati. Gli attentati vennero ideati da Shōkō Asahara, fondatore dalla setta religiosa dell'Aum Shinrikyō, ed eseguiti da alcuni membri della setta stessa.

L’idea di Murakami, all’epoca da poco tornato in Giappone dopo lunghi soggiorni in Europa, è stata di intervistare le persone colpite dall’attentato, riprodurre più o meno fedelmente le interviste stesse, al fine di far uscire un quadro sulla quotidianità giapponese, su come furono gestiti i soccorsi, visti dalla parte delle persone colpite, e su come, dopo, le stesse persone stessero vivendo quel momento. Murakami ha cercato di non intervenire in prima persona, ma soltanto di organizzare i testi in modo fruibile al lettore.

Una volta però pubblicato “Underground” fu da un lato sommerso di critiche perché, appunto, non erano presenti analisi e considerazioni sull’accaduto, dall’altro (ma questo fu una sua sensazione personale) perché, anche se volutamente, non c’era nessun accenno a chi fosse e cosa pensassero gli adepti della setta. Motivo per cui, decide di dedicare una seconda tornata di interviste ad alcune persone sia ancora appartenenti ad Aum, sia essendosene, per motivi vari, allontanati. Esce così “Underground 2”, dove Murakami è più presente, che ci sono le domande, ed alcune considerazioni dell’autore stesso, anche se il tessuto del testo è fatto delle parole e delle considerazioni dei discepoli di Asahara.

Comunque, il “documentario” (perché sembra quasi una sequenza di immagini piuttosto che un libro scritto) nella prima parte è diviso in sette capitoli, corrispondenti alle diverse linee della metro dove sono avvenuti gli attentati. L’attenzione di Murakami ai dettagli ci introduce con la descrizione e l’operatività del commando per ognuna delle linee della metro interessate. Dopo di che passa alla testimonianza di chi, utilizzando quella linea, era stato colpito dal gas.

Si ha così l’impressione di condividere con i malcapitati i momenti d’angoscia in cui ci si comincia a sentire male e non se ne capiscono i motivi. Si vive una situazione di estrema confusione in tutte le stazioni, dove nessuno riesce a prendere un comando operativo (ma da lì, i giapponesi faranno tesoro ed ora sono molto attrezzati). Si vedono persone mandate in ospedale, ma le ambulanze non arrivano ed allora ci vanno da sole o in taxi. Si vedono gli ospedali sovracaricati di lavoro che non sanno come affrontare. Sarà solo la perizia di un medico, che aveva analizzato pochi mesi prima casi di avvelenamenti da gas tossici, che permetterà di individuare l’elemento scatenante. Da lì sarà tutto più facile, che l’avvelenamento da sarin, se riconosciuto, è facilmente neutralizzabile. Peccato che tra intossicazioni troppo forti e mancanza di cure specifiche immediate, alla fine ci siano 13 morti e più di 6000 intossicati.

In questa prima parte, Murakami è praticamente trasparente. Non entra nelle interviste, si limita a registrare le sofferenze di chi ha subito un danno senza capirne i motivi. Certo, l’impatto è forte, e mi domando, e forse è anche questo che ci chiede Murakami, cosa avremmo fatto noi. Noi, qui, ora, non lo so. Ma leggendone mi viene in mente che a fronte di situazioni eccezionali, i nostri genitori hanno fatto scelte e hanno saputo cosa fare.

Come detto, sentendo il libro monco, Murakami decide di intervistare seguaci della setta Aum. Vediamo così un confronto immediato, non con i colpevoli ma con chi, senza prendere posizione, stava da una parte e non si rendeva conto di quale baratro stava aprendosi. C’erano professionisti, cittadini integerrimi e stimati, che salgono sulla metro con il sarin, e spargono la morte nei vagoni. Il mistero è che anche il leader della setta, durante il processo, non ha mai voluto confessare i motivi del gesto criminale. Certo, il Giappone attraversava un periodo di grande crisi, con una pessimistica visione del futuro. Tra l’altro si avvicinava quell’inutile spauracchio del “Millenium”. Così che possiamo immaginare che menti fragili possono decidere di affidarsi senza contraddittorio ad una persona forte. È capitato nel passato, capita nel presente, capiterà nel futuro.

Non è un caso, e questo esce dalle interviste dove Murakami si fa presente ed instaura un contraddittorio, che quando le ragioni filosofiche e di vita vengono meno, le persone si allontanano dalla setta, o rimangono anche se Aum sembra cambiare profilo, dandosi un’aria più meditativa. Anche se a me rimangono perplessità, laddove, ad esempio, ora, nel nostro presente storico, Aum risulta particolarmente presente ed attiva in Russia.

Alla fine, Murakami riesce ad imbastire un percorso complesso, che parte dalle vittime del gas, attraversa i colpevoli, per arrivare alle vittime della setta. Cioè abbiamo le terribili esperienze delle vittime e le reazioni di coloro che stavano con i cattivi senza saperlo, e probabilmente senza esserlo.

Un libro difficile, con molti spunti di riflessione anche su quanto accade qui ed ora. Ma soprattutto un libro che ci dà uno spaccato del mondo giapponese, una visione complessa della psiche nipponica, una fotografia che non può mancare nel nostro immaginario se vogliamo veramente comprendere quel mondo lontano e pur sempre affascinante. Ma pur se interessante è anche un libro abbastanza pesante da portare fino in fondo.

Banana Yoshimoto “Che significa diventare adulti?” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 11,40 euro)

[A: 02/04/2024 – I: 11/04/2024 – T: 12/04/2024] - &      

[tit. or.: 大人になるとはどういう意味ですか Otonani narutte donna koto?; ling. or.: giapponese; pagine: 90; anno 2015]

Ho sempre letto con interesse la delicata scrittura di Banana Yoshimoto, che anche quando nei suoi romanzi affronta tematiche complesse, risulta di gradevole e coinvolgente lettura. Quasi ci si potesse mettere intorno ad un tavolo, con alcune buone tazze di tè e ci si scambiasse pensieri su tutto.

Qui, però, non siamo in un romanzo, ma in qualcosa che verrebbe da definire saggio, ma forse sarebbe più calzante definire appunti di memoria sul filo di pensieri che vanno e vengono nella nostra mente. Il risultato, tuttavia, è decisamente deludente. Se non si conoscesse l’autrice, sembrerebbe essere caduti di peso in un libro di auto-aiuto anche un po’ debole nella scrittura. Senza voler essere troppo critici (o caustici) sembra di voler iniziare a leggere un libro di Tolstoj e trovarsi tra le mani un testo di Coelho.

Certo, Banana mette subito le mani avanti dicendo di voler scrivere qualcosa che si possa sfogliare senza impegno, che si possa prendere ed aprire a caso, lasciandoci sfiorare dalle parole, magari riuscendo a farcele sentire vicine nel momento di quel bisogno.

Perché Banana si pone (ci pone) alcune domande e su quelle imbastisce un discorsetto morale che però rimane talmente in superfice che a me ha dato l’impressione quasi si volesse fare un fioretto pubblicando parole a ruota libera.

Ci sono, è vero, alcuni elementi che un po’ squarciano il basso velo del testo. Da un lato sono gli accenni al personale di Banana. Quando, per parlare dell’argomento del capitolo, tira fuori qualche elemento personale, di certo il livello sale. Ma sarebbe salito più e meglio con un percorso al contrario. Ti parlo di me, ti racconto brani del mio vissuto, e li intercalo con le questioni che pongono, che mi hanno posto.

Ad esempio, parla del me bambino o quasi adolescente, l’ambiente della scuola, il rapporto con gli altri, e capisco (ti faccio capire) che sto diventando adulto perché ho una piccola indipendenza economica e mi preoccupo non solo di me, ma dei miei affetti, ed anche del mondo in cui vivo. Purtroppo, il libro non è così.

L’altro elemento è il tocco lieve della matita di Goto Tomomi, che, in fondo alla pagina, con pochi tratti disegna montagne, prati, fiori, alberi ed altro. Un tratto che è puro ed essenziale e rimanda sensi di pacificazione. Disegni complessi avrebbero dovuto essere interpretati ed avrebbero appesantito e non alleggerito il testo.

Ma cosa ci (e si chiede) Banana? Che significa diventare adulti? Si deve studiare per forza? Che cos’è la normalità? Eccole, alcune delle domande. E non sono certo di poco peso.

Lasciando la prima ad una diversa e finale riflessione, sono d’accordo che “non si deve studiare per forza”, ma di certo studiare per dare delle basi alla propria esistenza è fondamentale. Come seguire la propria indole, a parte di capire quale essa sia veramente.

E come definire la normalità, in un mondo dominato dal “politically correct”, per cui più che normalità si parla di appiattimento verso una linea di comportamento mediana che non crei problemi agli altri. Oppure vogliamo parlare dell’amicizia? Non ci vuole certo Banana per dirci che l’amico è uno che ci accetta per quello che siamo, che capisce dove possiamo modificarci, e che possiamo non vederci per anni, ma che nel momento in cui ci si ritrova si sente quel flusso di consapevolezza e di fiducia reciproca.

Certo, dovremmo anche contestualizzare il libro nell’ambiente giapponese, che è competitivo, isolante, scostante, e difficilmente amichevole. Forse lì, una saggia sessantenne, di acclamati onori, può essere ascoltata, e può dare qualche input di riflessione magari a quei giovani malati di social che, chi come me ha visto varie volte il Giappone, ne capisce l’esistenza e ne teme la solitudine.

Poi ci sono capitoli di cui anche leggendo, poco capisco il senso. Come “che succede quando si muore?” o “che vuol dire darsi da fare?”. Già dall’enunciazione mi sento provenire da un mondo diverso. Per non parlare, e qui ne finisco l’enunciazione, con un capitolo intitolato “Qual è il senso della vita?”.

Ma volevo prima di chiudere tornare sull’argomentazione del testo. Ebbene, in Giappone ci sono fior di siti che fanno la predica morale ammonendo i giovani (e non solo) che bisogna pensare di più. Che elencano, in modi accattivanti per quei divoratori di manga, le cose da tenere in considerazione per “crescere”.

Facendone una collazione, si evince che, per i Giapponesi, le regole per diventare adulti sono: ragionare con la propria testa, essere finanziariamente indipendente, poter vivere da solo senza essere solitario, avere senso della responsabilità, fare del proprio meglio per il mondo e per gli altri, e, per chiudere, un monito che non esito a definire “fintamente amicale”, cioè, avere buon senso.

Credo proprio che Banana leggendo queste corbellerie in patria, abbia sentito il bisogno di rivoltarle, di affiancarle con la propria esperienza (la felicità dell’infanzia, il rapporto con la madre e le sue ambizioni, le malattie affrontate e superate) e di presentarle ai suoi connazionali con viva preghiera di meditazione.

Io avevo comprato il libro sperando vivamente in un florilegio di appunti e note per accompagnare momenti non direi di tristezza, ma di riflessione matura certo. Un acquisto poco felice.

“Non è necessario diventare adulti, l’importante è che rimaniate fedeli a voi stessi.” (7)

“La salute si può trascurare solo se c’è ancora.” (65)

Enzo Bianchi “Cosa c’è di là” Il Mulino s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 30/08/2023 – I: 14/09/2023 – T: 16/09/2023] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 147; anno: 2022]

Mi accosto sempre con gran piacere, e rispetto, agli scritti di Enzo Bianchi. Ne ho letti e meditati molti, anche se mi dispiace aver saltato “La vita e i giorni”, il suo scritto sulla vecchiaia (che avrei volentieri compulsato con a fronte quello di Norberto Bobbio, per me un punto altissimo di riferimento e riflessione).

Avendo quindi saltato la vecchiaia, ecco che mi ritrovo a pensare su queste parole di Bianchi che toccano un punto fondamentale dell’esistenza umana: la morte e quanto viene (può venire) dopo. Bianchi affronta il suo percorso con brevi capitoli, con piccole riflessioni, che non intendo, non ho la capacità di affrontare unitariamente. Per cui cercherò di fare un colloquio con l’essenza e le sensazioni che mi ha suscitato la lettura.

Cominciando con un pensiero rivolto ad uno dei capitoli centrali, dal titolo: “So che morirò…”. Qui si apre un discorso mentale enorme. Tutti sappiamo di dover morire. Abbiamo visto, anche se giovani o come ora anziani, morire delle persone. Soprattutto persone a noi vicini. Ma è sempre una visione altra. Mia madre è morta (quasi sei anni fa, ormai) ed io sapevo che il suo fisico si stava spegnendo. Ma lei è un altro da me, e se io so che morirò, come lei, come papà, come Giuliano, come Carlo, non riesco a figurarmi la mia morte personale.

Enzo si interroga sulla ineluttabilità della morte, tra l’altro iniziano la sua riflessione dal Salmo 90 che riporto in fondo. Inciso: poco tempo fa ho letto il libro di D’Avenia sull’Odissea ed anche lui citava lo stesso salmo, anche se qualche verso successivo, che dice “Insegnaci a contare i nostri giorni, e acquisteremo un cuore saggio.” Io non so se il mio cuore è saggio, ma la scadenza che ci ricorda Bianchi si lega a quella di Alessandro. Contare i propri giorni significa affrontare, ogni giorno, la vita prima che voli via. Come?

L’antidoto, in tutti e due i libri, è l’amore, come ci ricorda la chiusa del libro stesso. Amore che vince la paura e la solitudine. Amore che ci permette di passare da “io” a “io e tu” a (questo deve essere l’arrivo) “noi due insieme”.

Ritornando anche a Bobbio, un’altra considerazione che condividiamo tutti e tre (io, Enzo e Norberto) riguarda la vecchiaia che deve essere considerata un tempo molto importante da vivere per prepararsi a morire. Solo da anziani, realmente, si percepisce la possibile (e vicina) fine. Mette angoscia ma soprattutto per chi rimane. Certo, personalmente sono atterrito dall’idea di provare dolore, ma ancor di più dalla consapevolezza che chi resta avrà del dolore (ovvio che noi, io, voi, sappiamo che non tutti quelli che restano avranno la stessa reazione, ma a noi interessano alcune razioni specifiche, e di quelle sappiamo).

Un’altra considerazione mi nasce quando Bianchi, citando e parafrasando Hannah Arendt, ci ricorda che non siamo fatti per morire, ma per nascere. Stranamente (ma forse non tanto) è la stessa considerazione che viene dal libro di D’Avenia. Perché Ulisse, eponimo di noi tutti, sceglie di essere mortale (e quindi di accettare che ci sia una fine corporea, anche se non sarà, non potrebbe essere una fine dei neuroni cerebrali) per poter nascere all’amore di Telemaco e Penelope. Rimane quindi la forte considerazione che ci rimanda ad un egloga virgiliana: Omnia vincit amor: et nos cedamus amori (cioè: “L'amore vince tutto, arrendiamoci anche noi all'amore”).

Finisce (cioè finisce il discorso, anche se non è la parte finale del testo) il nostro abate con una considerazione: credere o non credere nell’al di là cambia qualcosa nell’al di qua? No, perché in ogni caso la nostra vita presente, scandita dalle due date che faranno ricordo di noi, deve essere vissuta. Sapendo poi che la morte ci segue ad ogni passo, dobbiamo impegnarci a rafforzare l’altro corno della fiamma antica, quello dell’amore. Dobbiamo immaginare una vita, dubitare delle nostre certezze, meditare sulle nostre azioni al fine di essere creativi. Dobbiamo sperare sempre e lavorare, qui, ora, per costruire la nostra vita d’amore.

Ed alla fine, come ci dice Enzo Bianchi e chi ricorda la morte di Mosè, dobbiamo arrenderci al bacio.

“Salmo 90 (versetto 10): I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni; o, per i più forti, a ottant'anni; ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto, e noi ce ne voliamo via.” (9)

“Rainer Maria Rilke: concedi a ciascuno la sua morte frutto di quella vita in cui trovò amore, senso e pena.” (41)

“È l’amore … che permette di sostenere l’enigma della morte e che rende il vivere una vita.” (146)

Enzo Bianchi “La vita e i giorni” Corriere euro 8,90

[A: 20/03/2024 – I: 19/04/2024 – T: 20/04/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 138; anno: 2018]

Un libro che cercavo, essendo quasi uscito dal catalogo de “Il Mulino”, ma, fortunatamente, riproposto da una collana del Corriere della Sera dedicata alla “Longevità”. Ed allora, visto, comprato e subito letto. Ha qualcosa in meno di quanto mi aspettavo, tuttavia è, come al solito nelle letture del priore (o ex) di Bose, un momento di sana (e personale) riflessione.

Il testo è una, purtroppo, breve riflessione sulla vecchiaia e sul modo di viverla. Intanto, si potrebbe iniziare ricordando che, secondo Seneca, la vecchiaia è una malattia inguaribile. Dicevo modo di viverla, perché c’è tutto Bianchi nell’excursus che fa. Che non si dimentica mai della sua biografia, da dove proviene, dalla sua terra, e del suo bisogno di vicinanza ad essa, tanto che l’orto, ora, diventa uno dei suoi amici più cari.

Affetto della terra che si lega a chi cominciò con lui i passi su questa terra. Parenti in prima fila, ma fin dall’inizio, gli amici. Ed ecco che il senso dell’amicizia è quello che, amorevolmente, sorregge l’impalcatura di vita del filosofo, come ricorda il bellissimo verso attribuito ad Alfonso XI di Castiglia che riporto in finale. Con quel tocco, che sempre a me risuona, della differenza tra solitudine, a volte di peso anche se ci consente meditazioni, e solitario, una persona che può stare solo, anche e soprattutto perché gli altri, gli amici, gli amori, sono con lui e lui con loro quando realmente servono. Perché, come diceva Gabriel García Márquez: «La morte non arriva con la vecchiaia, ma con la solitudine».

Gli amici che poi cita per nome, e che anche a me risuonano, essendo amici e sodali anche di mio padre, pur non sapendo io (ma ormai è troppo tardi) se papà avesse incrociato nei suoi lunghi giri politici e cristiani anche il priore di Bose. Ma Enzo li cita, ed io con lui ricordo padre Davide Maria Turoldo (e le sue poesie) ed Ernesto Balducci. Persone (ed altre con loro) che se ne sono andate ma che sono sempre vive dentro di noi.

La filosofia di Bianchi, che sempre a me ricorda il Gesualdi di “Sobrietà” è molto impostata sul “lasciare la presa”, che non è una resa passiva all’avanzare del tempo, né un pianto per le cose che si lasciano o si devono lasciare. Né infine, la vecchiaia, può essere una sopravvivenza a sé stessi (quanti esempi orrendi abbiamo di fronte a noi…). Lasciare la presa significa fare un bagno di realtà e capire cosa si può ottenere dal proprio corpo e dalla propria mente. Significa, brevemente, prepararsi. Come?

Fondamentalmente, direi, con l’ascolto. Il primo è l’ascolto del proprio corpo, quando ci accorgiamo, ad esempio, del calo dell’udito. O delle variazioni nelle visioni laddove il nitido diventa opaco ed il vicino, a volte, risalta meglio (e questo lo dico per me, che a voi, invece, succede il contrario). La riduzione della forza che non sparisce ma si affievolisce. Io me ne accorgo camminando, laddove molta gente con passo spedito mi lascia sul posto, sebbene io cammini e non poco. ma non è in piano che si manifesta, ma salendo e scendendo le scale, come spesso mi ricordava mia madre.

Il secondo è l’ascolto della propria mente, ed allora ben venga il nutrimento della propria vita interiore leggendo, scrivendo, ascoltando (molta musica) e vedendo. Anche la televisione, che stiamo parlando di vecchiaia per tutti, e molti anziani solitari trovano conforto in visioni televisive, che non siano i programmi demenziali che ben conosciamo e di cui taccio.

Non posso non ricordare poi che Bianchi, da ottimo credente, sottende al suo discorso un filo rosso cristiano, dove la Bibbia diventa, anche, il metodo interpretativo degli avvenimenti pubblici e privati. Dove, ad esempio, oltre ai momenti ed ai motivi personali, il calo dell’udito per Enzo rimanda subito alla “Lettera ai Romani” dove Paolo si lamenta che chi ascolta non sente. E dove, sempre partendo da San Paolo, rovescia il senso della “nemica morte” della “Lettera ai Corinzi” nella “sorella morte” di San Francesco.

Certo, tautologicamente, è difficile avere una vecchiaia serena se non si ha avuto una vita “bella, buona e felice”. Che anche qui, non significa una vita priva di asperità, ma una dove, affrontare e superare le prove, porta ad un maggiore coscienza di sé, consentendoci di invecchiare mantenendo quella speranza che l’autore ci suggerisce nella penultima frase che riporta. Dove anch’io vorrei riuscire ad aggiungere vita ai giorni futuri.

La vecchiaia, affrontata con tutte queste speranze, poi, non potrà che finire. Ma è proprio la fine che dona un senso a quanto succede prima. Ed in questa fine, tornerei alle parole di Bianchi, all’amore che sostiene tutte le nostre azioni, sia nella sua visione cristiana, ma anche in tutte le visioni eticamente corrette, perché solo attraverso l’amore si vince la morte. E questo è un messaggio per cui vale la pena di vivere, già qui e già ora.

A me leggere le sue parole, a prescindere dalla bellezza degli scritti, dà sempre un senso di pace e di riflessioni. Non mi par poco.

“A ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio,” (12)

“[C’è] una vecchiaia nella quale l’intelligenza viene a mancare perché durante il resto della vita non la si è esercitata.” (43) [Dal Siracide o Libro di Sira]

“Per la società, la vecchiaia appare come una sorte di segreto vergognoso di cui non sta bene parlare.” (61) [Simone de Beauvoir]

“Occorre avere il coraggio di invecchiare perché … la vecchiaia è un compito e una sfida.” (62)

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.” (72) [Gabriel Garcia Marquez]

“Per i vecchi … la lettura è un pellegrinaggio.” (94)

“Voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.” (105)

“Bruciate legna vecchia / bevete vini vecchi / leggete libri vecchi / abbiate vecchi amici.” (122) [Alfonso XI di Castiglia]

Per riscattarmi del (mal) trattamento inflitto ai miei comunque cari giapponesi, propongo allora due serie di citazioni tratte da due loro romanzi.

Da Banana Yoshimoto traggo dal suo “Tsugumi” i seguenti pensieri legati all’amore, alla coppia al crescere:        

“-Tu hai un animo molto forte e una grande tenacia, così che se anche dovessi rimanere qui per sempre, riusciresti a vedere molte più cose tu, di quelli che fanno il giro del mondo. … -Mi sono innamorata di te.” (81)

“Per quanto uno possa invecchiare, l’amore è qualcosa che nel momento in cui te ne rendi conto, ormai lo stai già vivendo. Ce ne sono di due tipi, quelli di cui si riesce a vedere la fine e quelli di cui non è possibile. Siamo soltanto noi stessi che possiamo dire di quale dei due si tratti.” (91)

“Mi piace così tanto che quando lo guardo negli occhi, mi viene voglia di spiaccicargli un gelato in faccia.” (92)

“Le cose ci passavano davanti agli occhi, e noi diventavamo grandi.” (104)

“Quando penso a lei, senza accorgermene, mi viene da riflettere su cose più grandi di me … I miei pensieri vanno ad impegolarsi in questioni immense. Come, per esempio, la vita o la morte. Ma non perché lei è debole fisicamente. Quando la guardo negli occhi … vengo pervaso da un senso di rigore.” (131)

Mentre faccio una grande riverenza, perché di Haruki Murakami estraggo pensieri da quello che per me rimane il suo libro più bello “Norwegian Wood”:

“Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle” (6)

“Non [leggi] proprio gli autori del momento. – È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo” (41)

“Sei proprio un tipo strano, tu. Fai battute con l’aria di chi dice la cosa più seria del mondo.” (93)

“Comunque, sai che cosa ho pensato? Come sarebbe bello se il primo bacio della mia vita fosse stato questo! … Non sarebbe bello, arrivare, che ne so, a cinquantotto anni, pensare: chissà dove sarà adesso … il ragazzo che per la prima volta mi diede un bacio sulla terrazza tra i fili per stendere la biancheria?” (221)

“Ho bisogno di tempo … Tempo per pensare, per fare ordine dentro di me, per capire. Mi rendo conto che non è giusto nei tuoi confronti, ma per adesso è tutto quello che posso dire…. – Va bene, aspetterò… Ma quando mi prenderai, dev’essere solo me che prendi. E quando mi stringerai dev’essere a me che pensi.” (337)

“La morte non è qualcosa di opposto ma di intrinseco alla vita, che questo fosse vero era fuori di dubbio. Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte. Ma questa era solo una parte della verità che dobbiamo imparare…. Per quanto uno possa raggiungere la verità, niente può lenire la sofferenza di perdere una persona amata. Non c’è verità, sincerità, forza, dolcezza che ci possa guarire da una sofferenza del genere. L’unica cosa che possiamo fare è superare la sofferenza attraverso la sofferenza, possibilmente cercando di trarne qualche insegnamento, pur sapendo che questo insegnamento non ci sarà di nessun aiuto la prossima volta che la sofferenza ci colpirà all’improvviso.” (349)

Con quest’ultima frase che si ricollega ai discorsi sopra fatti insieme ad Enzo Bianchi.

Inoltre, per una serie di motivi non ho voglia né tempo di aggiungere altro. Se non un abbraccio (uno solo)

Nessun commento:

Posta un commento