domenica 21 aprile 2024

Einaudi da leggere - 21 aprile 2024

Dopo una settimana dedicata a Mondadori ed i suoi gialli, eccoci salire di tono con una settimana dedicata ad Einaudi e con libri assolutamente da leggere. In testa a tutti, l’ottimo Paul Auster da me sempre amato e letto, con incollato nel gradimento Cormac McCarthy ed i suoi due ultimi libri. Né manca, anche se poco sotto, l’ultimo libro di Julian Barnes. Quattro libri di imprescindibile lettura.

A completare il quadro, un onesto libro italiano di Marco Balzano, che ricordo solo perché mi ha risvegliato ricordi milanesi.

Marco Balzano “Café Royal” Einaudi 14,50 (in realtà, scontato a 4,30 euro con i buoni di Alessandra)

[A: 01/08/2023 – I: 29/08/2023 – T: 30/08/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 120; anno: 2023]

In vista di un agosto di riposo, cercavo qualche libro che “ammodernasse” le mie letture, a volte troppo tese verso classici (seppur moderni). Una lunga seduta da Feltrinelli (che seppur cambio casa rimane la mia libreria di riferimento) mi porta alcuni libri, tra i quali questo, dove avevo sentito il nome dell’autore ma non ricordavo dove né perché.

A valle della lettura, ho ricordato che stava per vincere uno Strega qualche anno fa. Poi, spulciando, ho ricostruito che ne ho letto sul Corriere, che è milanese, insegnante nonché, visto che ne sto leggendo, scrittore.

Il fatto che sia milanese, poi, ben viene rappresentato da questo libro dove, ambientando il fulcro delle azioni in quel di via Marghera, ricostruisce un microcosmo milanese che solo chi ne ha vissuto riesce con pochi tocchi a rappresentare. Le vie di Brera, i negozi che c’erano e poi spariscono (tutto come nei miei trentacinque anni in Prati, quanti negozi “storici” ho visto andar via!), ma soprattutto concentrato la vicenda intorno ad un bar, quello preso in gestione dal Ghigo, e che ora si chiama “Cafè Royal”.

Un bar che non esiste, come non esiste in realtà un romanzo, che stiamo meglio parlando di un agglomerato di diciotto capitoli battezzati con il nome di diciassette personaggi, che costruiscono in modo corale una storia. Sono bozzetti, piccoli spaccati di vita, a volte legati o ricollegati tra loro, ma non sempre. L’unico tratto comune è il bar, dove si va a prendere caffè, cappuccini, cornetti, spritz e altro. Come tutti i caffè del mondo, ma in particolare come tutti i caffè italiani. Riflessione che riprenderemo più avanti.

Seppur alla fine questo frastagliamento si ricompone (abbastanza) il romanzo costruito su microracconti non mi ha consentito di immergermi completamente nella sua atmosfera, risultando al fine un po’ scollegato nella mia testa. Il diradarsi dei rimandi, laddove a volte non ricordavo i nomi degli attori, mi ha dato un po’ fastidio, forse non facendomene gustare al meglio le potenzialità.

Tutti i personaggi, chi prima chi dopo, chi con frequenza che saltuariamente, si ritrovano al “Café Royal”, ed imbastiscono le loro storie personali introno all’odore del caffè, un odore che per me è sempre stato evocativo dei miei momenti di riflessione.

In questo intreccio il là viene dato proprio da alcuni momenti che abbiamo vissuto da poco, al bordo della fine della pandemia che ha creato una barriera pesante, anche mentale, tra il prima ed il dopo. Modificando, a volte in maniera definitiva, molti dei nostri comportamenti.

Così, in un rondò schnitzleriano, vediamo salire e scendere dal palcoscenico personaggi isolati, come Federico medico indeciso. C’è Gabriele che immagina di imbastire una storia gay con Carlo, ma è un miraggio che nasce proprio dalla solitudine indotta dal lockdown. C’è Betti, vissuta da sempre nella via, dove ha cresciuto i figli, sola ed oppressa dalla tecnologia dei figli lontani, la cui storia sarà ripresa verso il finale da una bella lettera della figlia Carlotta. C’è la storia di Luca e Veronica (con Luca unico cui vengono dedicati due capitoli) amanti che si cercano all’uscita di matrimoni a rischio, ma che troveranno modo di esprimersi solo lontano dal caffè, a Torino, nell’unica puntata fuori della città.

C’è Noemi che cerca di vivere la propria giovinezza, osservando la madre Serena, capitata per caso nello stesso bar. E ci sarà Serena stessa che in quel bar capirà di aver paura di invecchiare, ma guardando i giovani (la figlia) capisce anche che non vuole essere ancora giovane.

Ci sono altre storie intrecciate: il manager africano Ahmed che torna dopo anni a Milano, dove era stato giovane e scapestrato, che incontra nel caffè la sua vecchia fiamma Barbara e non si palesa. E c’è Barbara che invece riconosce Ahmed ma volutamente si nega. Ci sono i problemi di Manuel e di Lisa. E ci sono le incomprensioni tra Beatrice e Michele.

Infine ci sono le ultime storie isolate: l’innamoramento platonico di Elena, la progressiva perdita della vocazione del prete Giuliano ed il disperato tentativo di stabilire un contatto esterno dell’ex-drogato Roberto.

Ho detto tanto, ma non ho voluto affondare le parole nel cuore dei racconti, cosa che lascio a voi ed alla vostra capacità di collegarli meglio di quanto abbia fatto io, dove a me rimane, oltre alla Milano che conosco, un senso di desolante solitudine.

Una solitudine che nasce proprio dall’anima dei bar frequentati soli e incomunicativi. A me invece, danno un senso di comunità. Il barista diventa quasi un confessore altro, cui si può parlare (quasi) di tutto. Così ripenso a tutti i miei bar, ripenso ai primi anni Ottanta ed al mitico bar Ottaviani (che non stava a via Ottaviano), e da lì a tutti gli altri, con il bar di Cristian che rimarrà sempre nel cuore per aver condiviso alcuni momenti bui, ed il bar Agostini che adesso culla le mie giornate, con il miglior pane caldo di Lariano che abbia mai assaggiato.

Ma questa è una trama per il Royal, o magari per la libreria Mondadori che mi si dice essere stata collocata lì in via Marghera, e che era uno dei punti di ritrovo del quartiere, forse ispirazione a Balzano di questo bel girotondo umano.

Paul Auster “Baumgartner” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Mario&Ines)

[A: 25/12/2023 – I: 12/01/2024 – T: 13/01/2024] - &&&& --  

[tit. or.: Baumgartner; ling. or.: inglese; pagine: 153; anno 2023]

Come al solito, non posso cominciare una trama di Paul Auster senza rivolgere un ringraziamento alla mia amica Luana che, ormai molti anni fa, mi convinse alla lettura della “Trilogia di New York”. Da allora ho (quasi) sempre intrapreso le letture del “cantore di New York”, avendo sempre ritorni positivi.

Certo, non ho ancora avuto voglia di affrontare “4 3 2 1”, che mi sembra un po’ troppo voluminoso, al momento. Tuttavia, quando ho visto il nuovo Auster in uscita natalizia, non mi sono potuto fermare. Anche perché avevo da poco letto un articolo – intervista con Siri Hustvedt (la moglie di Paul, di cui ricordo due piacevoli letture) che parlava della malattia del marito. Potrebbe non scrivere più, l’amato Paul, ed allora se ne legga subito.

E se ne legge in un libro tipicamente “austeriano” che mescola fiction e realtà personali, che fa in modo che il protagonista si interroghi su temi esistenziali che colpiscono lo scrittore Auster da sempre ed ora in special modo. Inserendo, ad esempio, accenni ad una meteora di madre del protagonista, che si chiama Ruth Auster. Ed altre amenità.

La bravura di Auster è quella di farci scivolare in un paio di anni della vita del professor Seymour T. Baumgartner detto Sy, con una prosa talmente delicata che il romanzo vola via con una facilità estrema. E mentre seguiamo il presente di Sy, le sue rimembranze ci permettono di ricostruirne la vita a tutto tondo, e di apprezzare questo momento particolare, in cui, per una serie di circostanze, Sy sente di diventare anziano e quindi di conseguenza di porsi, anche, le domande che si pongono gli anziani. Che vita ho fatto? Cosa ho realizzato? Cosa mi aspetta?

Il testo riesce a condensare riflessioni serie ed esistenziali, con momenti comici (o tragicomici) come succedono a tutti nella vita. Così vediamo l’anziano professore scottarsi le mani per prendere un pentolino dimenticato sui fornelli accessi, cascare dalle scale buio del seminterrato, aspettare l’arrivo quotidiano della postina dell’UPS, che porta libri che non leggerà mai ma che ordina solo vederla, angosciarsi per il viaggio in macchina di una sua possibile allieva, tanto da avere lui stesso un incidente di macchina.

E mentre sfilano questi piccoli disastri quotidiani, si svolge il filo della memoria dell’anziano Sy, professore sulla settantina, segnato profondamente dalla tragica morte, dieci anni prima, dell’amata moglie Anna. Ma non si crogiola in quel lutto, anzi lo sfrutta per andare avanti. Per leggere gli scritti di Anna (poetessa e traduttrice) con cui ha vissuto quarant’anni di quieta felicità ed intenso amore. Usa anche quegli scritti per rinverdirne la memoria e chissà anche per aiutare la studentessa di cui sopra a farne una tesi dottorale di alto profilo.

Auster riesce, con le sue brevi frasi e la strabiliante facilità inventiva, a farci seguire i percorsi mentali di Sy. Che sfrutta la memoria di Anna, il rapporto (durato un paio di anni) con l’amica Judith, nonché la tesi con la giovane Babe, per farci entrare nella sua vita. Ne ripercorriamo il passato, di difficile interpretazione, dalle origini ebreo-ucraine, l’incontro con Anna, la nascita dell’amore, la vita, quotidianamente vissuta, tra le sue lezioni ed i suoi libri di filosofia e la presenza della moglie, con tutte quelle scintille di vita che Anna gli portava.

Certo, è un libro sempre pervaso da questa mancanza, ma che proprio questa mancanza lo spinge ad andare avanti. Che non si compiange: non risponde alla domanda “perché capita tutto a me?”, ma la blocca con “Le persone muoiono”. Quindi si va avanti, con una dote impagabile, la gentilezza. Sy è gentile, al limite dell’impalpabilità del rapporto con gli altri per non dare fastidio. Ma fermo. E si accorge che sta avanzando a grandi passi verso la fine della sua esistenza. Una fine che porterà anche quella di tutte le persone che vivono nella sua memoria. Per cui, lui, bene o male artista, vuole continuare a lasciare segni nella vita (continua a scrivere libri) e farlo anche per Anna (pubblicandone poesie e forse altri scritti). Perché, e lo dice espressamente, “la memoria piò tradire, la scrittura no”.

Sono rimasto solo dubbioso dal modo tronco in cui termina il romanzo, forse indice di quel modo tronco che sembra essere vicino all’autore stesso. Un libro – testamento per esorcizzare la morte del figlio Daniel (di overdose) e riflettere sulla propria (in cura oncologico ma non ancora fuori dal pericolo).

A me, alla fine, a valle di tutte le domande, ed i giri di valzer, Auster ha restituito la riconoscenza per aver vissuto. Abbiamo fatto tante cose fino ad oggi, ne faremo altre in futuro, fino a che si potrà. Comunque, e sempre, siamo grati di averle fatte, di aver incontrato tante persone e magari di aver seminato dei piccoli semi che germoglieranno altrove. Come quel piccolo seme che cito all’inizio, involontariamente piantato da Luana, ma che tanto ha germogliato in me.

In finale, un (lungo) accenno al baseball, che compare qua e là nel testo e che è onorato di una menzione a Paolo Castagnini per le spiegazioni fornite alla pur brava traduttrice, Cristiana Mennella, che forse dello sport americano sa pochino. Orbene, io avrei comunque messo una nota con indicazione [N.d.T.] quando un personaggio dice di aver giocato a baseball e militato in “Singolo A”. In quella nota avrei spiegato che la suddivisone dei diversi campionati di baseball, dove c’è la Major League (quella che conosce tutto il mondo) e la Minor League. Quest’ultima a sua volta suddivisa in diverse serie (Singolo A, Doppio A, Triplo A, Alto A). Quindi il nostro tipo avrebbe militato in una delle più basse serie. Come se, parlando di calcio, avesse detto di aver partecipato ad un campionato di Serie D. Ovvio che mi permetto di parlare a lungo di baseball, essendo in realtà l’unico sport da me praticato a livello agonistico (dilettantesco, ma pur sempre in serie B, nei campi di Piazza Mancini a Roma)

“A cosa bisogna credere quando è impossibile appurare la veridicità di un fatto?” (125)

Julian Barnes “Elizabeth Finch” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 18/01/2024 – T: 20/01/2024] - &&& e ½   

[tit. or.: Elizabeth Finch; ling. or.: inglese; pagine: 176; anno 2022]

Personalmente, e fino ad ora, Barnes non mi ha mai deluso. Alti e bassi di sicuro, ma di interesse certo. Come in questo libro, che avrebbe meritato anche più gradimento se non fosse stato intarsiato da un capitolo che, pur interessante per sé, sarebbe stato meglio altrove.

Un libro particolare, dove non c’è una vera e propria storia da raccontare, ma due punti in cui si gira intorno, cercandone un approfondimento. C’è “l’amore” dell’io narrante verso Elizabeth Finch (che, come Neil, indicheremo solo con EF). Non un amore fisico, ma un sentimento che Neil si porta avanti da quando conosce EF fino ed oltre la morte della studiosa. E c’è il tentativo di Neil di scavare in sé stesso per diventare da “Re dei Progetti Incompiuti”, come lo etichetta la figlia, al realizzare di (almeno) un progetto.

Inciso: leggendone, mi sono sentito parallelo a Neil, ma più come “Re dei Progetti Pensati”, che tra pensare e cominciare a compiere c’è comunque un passo da fare.

Attraverso le parole sempre vicine di Barnes al lettore ci introduciamo in tre momenti di vita, non biografie che, come dice l’autore, è praticamente impossibile descrivere la vita delle altre persone, si può solo parlare di quello che hanno detto e di quello che hanno fatto.

La vita che attraversa tutto il romanzo è quella del narratore, Neil, di cui, in realtà poco lo stesso Neil ci dice. Due matrimoni, almeno una figlia, lavori diversi ma mai realmente redditizi. Studi, quelli sì, forse inconcludenti, almeno fino a che non incontra EF. Un incontro che segnerà tutta la vita di Neil. Lo fa riflettere, lo fa pensare e studiare, perché nei confronti di questa austera (almeno all’apparenza) insegnante non ci si può nascondere dietro le parole.

Un amore, come si diceva, di certo platonico, ma che farà sentire EF sempre vicino a Neil. Che lo spronerà ad andare avanti, anche quando non si sa quale sia questa direzione. Che lo porterà a terminare almeno un progetto (e vedremo quale). E che, alla fine, lo porterà a cercare di capire chi sia stata EF. E perché, se a lui ha fatto un effetto benefico, non sempre alle altre persone incontrate nel corso della vita è successo altrettanto.

La seconda vita è, ovvio, quella di EF. Un’insegnante che ha le sue ferme idee sul mondo, e che assume un atteggiamento euristico verso i suoi allievi. Neil la incontra quando decide di seguire un corso dal promettente titolo “Cultura e civiltà”. Corso ed insegnante che segneranno per sempre Neil. Di cui però non viene dato un racconto continuo, ma pennellate che, spesso, vanno anche su e giù nel tempo.

La vediamo entrare in classe, parlare come un libro stampato, cioè senza quelle pause che caratterizzano chi non è sicuro delle sue idee. Vestita formale, quasi triste. Con le sue lezioni sulla storia risveglia le curiosità di Neil, tanto che i due cominceranno a vedersi, saltuariamente, al ristorante. E lo faranno, ogni tre, quattro, cinque mesi, nel corso di venti anni.

Veniamo anche a conoscenza del dramma “pubblico” di EF quando espone le sue idee in una conferenza, a valle della quale subisce un linciaggio mediatico, dopo di che si ritira nel suo insegnamento senza più “uscire dal guscio”. Immaginiamo che possa aver avuto una vita sociale, ha un fratello, seppur poco frequentato. È stata vista vicino ad un uomo (conoscente? Amante? Altro?). Neil indaga e si interroga, ma, come è giusto che sia, niente trapela.

Anche se Neil potrebbe avere dei mezzi per approfondire le ricerche, che EF, nel suo testamento, lascia tutte le sue carte a Neil, che le legge, non sa cosa esattamente farne, se non essere spronato nel compiere almeno un progetto.

Nasce così la terza vita del testo, quando nel lungo secondo capitolo Barnes ci presenta un breve lavoro di Neil che analizza la vita, le opere e la fama del personaggio centrale delle riflessioni di EF: Giuliano l’Apostata.

Ora, questa parte è la più debole del testo, non tanto per le cose che dice, quanto per essere un corpo estraneo alla narrazione generale. L’idea di base può anche essere stimolante. EF sostiene che la sconfitta di Giuliano, ultimo imperatore romano d’Occidente, nel 363 d.C. dando via libera al cristianizzazione del mondo occidentale, ha segnato un punto di svolta negativo per lo sviluppo degli avvenimenti che portano al mondo come lo viviamo oggi.

Non perché EF sostenga il paganesimo dell’Imperatore, che tuttavia andrebbe letto meglio e meglio contestualizzato. Quanto per l’avvicendarsi delle due culture. Giuliano, non cristiano, dedito al culto di molti dei e di molti vaticini, era una persona in ogni caso tollerante, come si capisce dalla citazione che riporto. Gli imperatori cristiani d’Oriente e d’Occidente che lo seguiranno saranno invece dittatori del pensiero unico. Perché EF, e noi con lei, è contraria a tutti gli ismi del mono: monocultura, monogamia, monocromia, monolinguismo, monopolio, monotematico, monotono.

Barnes fa un lungo viaggio con Giuliano, dal sorgere delle sue idee, dalle sue battaglie, dalla sua morte, fino a tutta la sua fama postuma, nel bene e nel male. Ma tutto ciò rimane un corpo estraneo alla narrazione globale. Ci può far riflettere, mi ha permesso di andare in rete a cercare testi e collegamenti. Ma non coinvolge, né dà luce diversa a Neil ed EF.

Rimane quindi alla fine il filo dell’amore, inteso nel senso globale che si diceva e non nel senso (anche) fisico. Quello che ci fa muovere, che ci fa agire, che ci fa sentire migliore, che ci permette di andare avanti, a sognare, pensare ed a volte realizzare progetti e noi stessi. Quasi a chiosare con Dante, “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”.

Finisco con due brevi accenni di ricerca e domanda. Forse Julian Barnes si sente vicino per onomanzia a Giuliano l’Apostata. Forse, nella figura di EF, Barnes riversa qualche carattere della sua amica Anita Brookner, di cui scrisse nel commento funebre: “Nessuno era anche lontanamente come lei”. Forse.

“[La funzione della ferrovia è] quella di consentire alla gente di andare da A a B in modo da poter manifestare la propria stupidità in posti diversi.” (29)

“La storia favorisce i tempi lunghi.” (32)

“Sono un tipo solitario … essere soli è una forza; sentirsi soli una debolezza.” (69)

“Giuliano: È con la ragione che dobbiamo persuadere ed educare gli uomini, e non a furia di botte, ingiurie e torture.” (120)

“Kafavis: da ciò che ho fatto e da ciò che ho detto / nessuno cerchi di scoprire chi sono stato.” (123)

“Epitteto: le cose sono di due maniere, alcune in potere nostro, altre no. [Le prime] sono di natura libere, non possono essere impedite … [le altre] sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.” (140)

Cormac McCarthy “Il passeggero” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 28/01/2024 – T: 31/01/2024] - &&&& ---  

[tit. or.: The Passenger; ling. or.: inglese; pagine: 385; anno 2022]

Penultimo libro di Cormac McCarthy che, con il successivo “Stella Maris” costituisce un dittico testamentario dell’opera del grande scrittore americano. Uno scrittore difficile, di cui ho letto tutto il leggibile, ma che qui diventa altro, più difficile, quasi un’opera-mondo. Senza rinunciare alle particolarità della sua scrittura, ma innervandola con tutta una serie di divagazioni che ne fanno un libro quasi senza trama. Da leggere, da seguire nei suoi risvolti, ma anche da allontanare da sé, quando le divagazioni cominciano ad entrare in terreni impervi e sconosciuti.

Eravamo abituati al Cormac delle prime grandi epopee western, per seguire fino al monumento apocalittico del suo precedente romanzo, “La strada”, dopo il quale ci sono più di dodici anni di silenzio prima di arrivare a questi ultimi testi. Anche se, stando agli appunti di Cormac ed a quanto ne lessi durante il tempo trascorso, questo testo (non il successivo) era in gestazione sin dai primi anni ’80, per poi diventare un frutto quasi maturo nei primi anni di questo secolo, fino a sbocciare solo adesso. E non a caso.

Ritroviamo, ed ormai ci siamo abituati, la scrittura solita di Cormac, con salti di tono, dialoghi non virgolettati, come fossero un flusso di pensiero, descrizioni di paesaggi, minuziose e piene di termini che non solo in inglese, ma anche in italiano mi danno vertigine. In più, qui abbiamo due nuovi elementi che servono a comporre il libro-monumento: le digressioni che durante gli incontri del protagonista con i vari personaggi del romanzo si addentrano su tanti e difficili temi e le parti in corsivo, dedicate ai deliri schizofrenici della co-protagonista essenziale del libro.

Rispetto al solito andamento dei vecchi libri di Cormac, c’è una sorta di filo conduttore, anche se slabbrato e forse ricostruibile a posteriori. Ma un filo appunto che a volte si spezza, non porta forse da nessuna parte, servendo forse soltanto a dar fondo ai pensieri dell’autore, ed alla domanda fondamentale che, lui vecchio, ma anche noi solo anziani, ci si pone (come da libro di Enzo Bianchi da poco letto): cosa c’è di là?

La trama-contesto segue le vicende dei due protagonisti, uno più in vista, l’altra presenza-ombra (ma c’è). Da seguire intanto i loro nomi: Bobby ed Alice Western; cognome che riporta alle tematiche da sempre nelle corde di Cormac (come dimenticare i non-western alla “Meridiano di sangue”) e nome, Alice, che rimanda al libro di Carroll. E la storia della famiglia Western come esce dai vari colloqui lungo il romanzo.

Western senior dovrebbe essere stato un grande fisico, sodale di Oppenheimer nel Progetto Manhattan (quello della bomba atomica), motivo che fa nascere spesso negli incubi della famiglia le immagini di Hiroshima. Bobby il maggiore, anche lui inizialmente fisico, poi, quando la piccola Alice (dieci anni tra i due) manifesta doti importanti nella matematica, si ritira dagli studi, lasciando spazio alla sorella. Verso cui ha un grande amore, sempre platonico sembra. Nelle more, Bobby parte per il Vietnam come mitragliere.

Alice si immerge nello studio, anche lei innamorata di Bobby, ma poi la sua mente si sfalda (forse ne sapremo di più in “Stella Maris”?). Irrompe una schizofrenia prima latente, che la porterà (ed è l’incipit del romanzo) a togliersi la vita. Ma la sua presenza rimarrà per tutto il libro, sia nella mente di Bobby, sia in quei corsivi (nove capitoli) dove Cormac cerca di dar corpo alla sostanza alienante di Alice. Dove entrano personaggi strambi, quasi presi da favole nere di Tim Burton, ma soprattutto prende la scena Talidomide Kid, piccolo essere con delle pinne al posto degli arti superiori. Scelta emblematica (e forse una delle tante denunce contro i vari sistemi americani) che la Talidomide in realtà era un farmaco, in uso negli anni Cinquanta come sedativo e ipnotico, poi sospeso per la scoperta della sua teratogenicità: le donne trattate con talidomide davano alla luce neonati con gravi alterazioni congenite dello sviluppo degli arti.

Morti i genitori, Bobby torna e seguendo le direttive della nonna, Bobby recupera un tesoro in monete d’oro, che vende per un milione di dollari, lasciandone la metà alla sorella, la quale li usa per comprare un raro violino “Amati” (il primo violino in assoluto). Bobby invece si trasferisce in Europa per diventare pilota di formula 2, fino a che un grave incidente lo ferma. Da lì comincia una sua esistenza errabonda, che lo porta a conoscere emarginati di tutte le risme, che vedremo comparire nel corso della narrazione. Per poi finire a fare il subacqueo di recupero per salvataggi in mare.

Qui, nel 1980, lo vediamo cominciare la sua narrazione diretta, durante il recupero di un aereo da turismo inabissatosi. Dove torva nove passeggeri mentre dovevano essere dieci. Ed è da questo mistero (che non sarà mai sciolto da Cormac) che comincia la sua odissea. Il governo federale lo bracca supponendo che sappia più di quanto dica. Lo perseguita chiudendogli i conti in banca, sequestrandogli auto e bloccando il passaporto. Bobby chiede aiuto ad uno strano avvocato di New Orleans, Kline, a suo tempo sodale della famiglia Kennedy.

Tutto il nucleo del romanzo è il girovagare di Bobby per capire i motivi di questa persecuzione, gli incontri e le discussioni con i vari “dropout” conosciuti nella vita, ed alla fine, aiutato da Kline, cambiare identità. Lo troviamo alla fine, rifugiatosi a Ibiza, portare avanti una vita poco utile, contemplando il mare, pensando ad Alice, e con un finale di assoluto lirismo stilistico che riecheggia il finale de “La Strada”: “le età dell’uomo che corrono di tomba in tomba”.

Questo, seppur lungo, è quanto emerge dalle pagine, ma non è, per Cormac, che il contorno di quello che lui vuole esprimere. Perché la trama è forse solo un contenitore dove lui espone riflessioni personali ed anche interessanti, di carattere storico-filosofico, scientifico, religioso. Cito a volo di uccelli alcuni temi che tocca: i principi della meccanica quantistica (con un excursus sulla teoria delle stringhe che mi ha incuriosito, e sulle riflessioni kantiane di Paul Dirac), la bomba atomica e le sue conseguenze fisiche e morali, l’assassinio di Kennedy (dove il suo avvocato Kline espone la sua personale visione dei motivi dell’uccisione, compresi i coinvolgimenti con la mafia italo-americana), il disagio odierno della nostra vita, che porta a ragionare sulle ragioni dell’esistenza umana e sulla fede in Dio.

Per fare un cenno, Western afferma che la fisica cerca di fornire una rappresentazione numerica del mondo. E Cormac aggiunge da scrittore onnisciente che non si può spiegare tutto e non si può, a parole e con il linguaggio, illustrare l’ignoto.

Una scrittura potente dicevo, che non tradisce le sue origini (di Cormac) che mentre Bobby parla con i suoi amici, Cormac non manca di illustrare a parole molti tratti della vita americana e tanto paesaggio americano. Bobby viaggia in lungo e in largo per gli States (bellissimi i paesaggi dell’Idaho). E poi inserisce un dialogo: perché non ci facciamo dei crostacei; innaffiandoli con del Montrachet (se non lo conoscete, un gran cru bordolese a 500€ la bottiglia).

Un libro anche, come per il Talidomide, di denuncia. Bello, ad esempio, l’accenno a Józef Rotblat, fisico polacco aggregatosi al progetto della bomba, ma poi allontanatosi avendone capito le potenzialità distruttive, e perseguendo da allora un suo percorso di denuncia delle aberrazioni insite nelle ricerche umane. Attività che lo portò al Nobel per la pace nel 1995.

Non possiamo non accennare al fatto che, sull’impianto originario degli anni ’80, le costruzioni e gli intarsi di Cormac sono senza dubbio derivati dalla sua frequentazione del Santa Fé Institute, una istituzione del New Mexico, interdisciplinare, dove convergono scienziati, filosofi e letterati per una ricerca interdisciplinare intorno ai sistemi adattativi complessi. Quale migliore palestra per discutere della complessità del mondo moderno? Una palestra da dove Cormac fece uscire un suo breve saggio dal titolo “The Kekulé Problem” (non tradotto in italiano ma reperibile in rete), dove si pone il problema della distinzione tra inconscio e linguaggio a partire dall’analisi del sogno dello scienziato August Kekulé von Stradonitz che nel 1865 sognando un serpente che si morde la coda ebbe l’intuizione della forma delle molecole di benzene. Dove, brevemente, l’inconscio è una macchina incontrollabile, che fa agire gli animali, mentre il secondo è una creazione culturale umana che cerca di formulare e portare alla realizzazione le infinte possibilità dell’inconscio stesso.

Non ho sinceramente la capacità di entrare in tutti i meandri che questo libro-mondo apre su tutti questi campi, per cui mi fermo qui, elogiando senza riserve questo testamento esistenziale non riconducibile a null’altro. Una prova di scrittura densa e significante. Dove, tuttavia, l’assoluta alta valutazione viene mitigata dall’impervio seguire di alcuni punti, e dall’esaurirsi nel nulla di alcune piste ed altri momenti narrativi. Congiunta a tutta la fase onirica di Alice che non è riuscita a coinvolgermi in nessun punto.

“Condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue.” (143)

“Ho studiato molto e imparato poco.” (349)

Cormac McCarthy “Stella Maris” Einaudi s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 09/02/2024 – T: 11/02/2024] - &&&& --- 

[tit. or.: Stella Maris; ling. or.: inglese; pagine: 194; anno 2022]

Libro fondamentale e conclusivo. È l’ultima scrittura di Cormac McCarthy che, pochi mesi dopo la consegna alle stampe del testo, un mese prima dei suoi novant’anni, si spegne serenamente per cause naturali nella sua residenza di Santa Fé nel New Mexico.

Ma non solo perché ci ha lasciato, conclusivo anche perché chiude il dittico iniziato con il precedente, facendone un complemento ed una chiusa. Ed indicandoci una via. Che la stella del mare è uno dei nomi della stella polare, che serve ai naviganti per seguire le giuste rotte quando tutti gli altri punti di riferimento sono saltati, o oscurati dalla notte (della ragione?). Ed è anche un appellativo di Maria, madre di Gesù, anche se nasce per errore, e viene mantenuto per amore. Inciso: Myriam in ebraico significa “goccia del mare” che San Girolamo, in suo omaggio, giustamente traduce con “Stilla Maris”. Ovviamente, andando di copista in copista, ad un certo punto stilla fu mutato in stella. Che, come detto, è giusto ed appropriato.

Il libro, poi, è la più completa rarefazione della scrittura di Cormac, che riesce a riempire quasi duecento pagine solo di un dialogo, quello tra Alice Western (un cognome, un programma, riferimento all’occidente ma anche a tutti i precedenti mondi di Cormac) ed il suo terapeuta, il dr. Cohen (ovviamente ebreo, come tutti gli psicoterapeuti). Certo non è il primo libro costruito in questo modo (mi vengono in mente “Il signor Mani” di Abraham B. Yehoshua o “Il bacio della donna ragno” di Manuel Puig), ma questo discende direttamente dai dialoghi socratici di Platone. Il dottore pone domande, cerca di stanare Alice, mentre Alice sfrutta le sue risposte per creare la visione di una sua cosmogonia, inserendoci, in maniera abilissima da parte dell’autore, anche pensieri e riflessioni che Cormac stesso ha fatto o stava facendo nell’ultimo periodo della sua vita.

Intanto, facciamo un salto di otto anni indietro rispetto al precedente (laddove ancora mi interrogo su quale sia l’ordine giusto di lettura dei due libri), e troviamo Alice (che sappiamo poi morirà) decidere di entrare in una struttura psichiatrica (appunto la Stella Polare che guida noi “western people”) traumatizzata dal coma del fratello Bobby (che sappiamo poi si salverà). Alice ha quindi bisogno di esternare, di tirar fuori tutta la sua genialità, ma anche la sua malattia, le sue paure, le sue pulsioni, consce e inconsce, tirando fuori, spezzettate le sue allucinazioni, anche se il Talidomide Kid del primo libro fa delle comparsate nelle parole di Alice, rimanendo in secondo pieno rispetto ai temi che Cormac vuole tramandarci.

Perché entrambi vogliono dare un senso alle cose (entrambi, Alice e Cormac) talvolta facendo lo scrittore quasi un’estremizzazione dei suoi pensieri che escono dalla bocca di Alice. Sappiamo infatti che negli ultimi sette-otto anni, Cormac è stato un membro attivo del “Santa Fé institute”, un luogo dove si discute in termini multidisciplinari di tutto (e ne ho già parlato altrove). Così che il libro svaria su (quasi) tutto, interrogandosi sulla natura delle cose fondamentali: il linguaggio, l’inconscio, la matematica, la fisica, finendo con la musica che secondo Cormac è l’unica cosa che rimarrà quando tutto scomparirà (in realtà Cormac scrive “Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica”).

Un calderone dove, in forme spesso dualistiche, si discetta di matematica e fisica, sulla differenza tra psicologia e psichiatria, sull’esistenza di Dio e sulla presenza del diavolo, c’è la voglia di vivere e quella di suicidarsi, c’è la morte, con le sue paure ma anche con la consapevolezza che senza la morte non si comprende la vita. Anche se Alice e Cohen stanno fermi in una stanza, con le loro parole girano ovunque: ad un’asta dove Alice acquista uno dei violini più costosi al mondo, a Los Alamos dove il padre di Alice lavorava alla bomba atomica con Oppenheimer, nel Messico dove il padre andrà a morire, in Italia dove il fratello Bobby è in coma in seguito ad un incidente automobilistico, in Romania, dove Alice vorrebbe andare a morire ma non ci andrà. Non torno sul rapporto mentalmente incestuoso tra Alice e Bobby, una delle cose che meno mi ha coinvolto e di cui meno ho capito il senso.

Il tutto per arrivare a farci ragionare sul rapporto fra percezione soggettiva, coscienza umana ed esistenza del mondo. Argomenti da far tremare le gambe ad ognuno. Perché in un mondo insensato il cui unico scopo sembra camminare verso la morte, dove non c’è nessuna medaglia però nell’essere bravi a morire, quello che Cormac sembra salvare è l’inconscio. Che ripropone con il solito accenno al dotto Kekulé che sognando un serpente che si morde la coda, intuì la costituzione molecolare del benzene. E si interroga senza fine e senza una fine sul ruolo della mente e sul suo rapporto con la realtà.

Un romanzo che va letto perché è orrendamente sublime, dove non posso non fare un plauso alla splendida traduzione di Maurizia Balmelli che riesce a rendere una splendida frase di Cormac “because this is what people do when they’re waiting for the end of something” con “perché questo è quello che la gente fa quando aspetta la fine di qualcosa”.

Un romanzo che ci riporta al quesito filosofico fondamentale dove non sono importanti le risposte ma le domande che ci poniamo. Penso quindi che il mio commento finale non possa che essere una frase del Dottor Cohen: “non credo di aver capito”.

“Non penso che di norma i bambini prendano seriamente in considerazione il fatto che un giorno saranno degli adulti.” (106)

Poiché siamo in una settimana Einaudi, mi è obbligato di trarre citazioni da un altro bel libro di questa casa editrice, scritto da una persona veramente interessante e degna di essere conosciuta e letta. Parlo di Goliarda Sapienza e del suo “L’arte della gioia”, da dove ho tratto le seguenti frasi.

“Zio Jacopo diceva che il lutto è una barbarie … che se si è veramente addolorati lo si porta nel cuore senza bisogno di inutili esibizionismi.” (64)

“Perché non cerchi di pensare anche ai lati positivi di quello che accade? Niente è completamente negativo nella vita.” (98)

“Sono … i vantaggi del viaggiare. Bisogna periodicamente allontanarsi da qualsiasi luogo dove la consuetudine ha ucciso l’obiettività.” (160)

“L’amore si fa in due… Io ti amo … ti amo e ti stimo. Solo che non ci siamo incontrati carnalmente. O forse avevo scambiato il fascino che tu avevi e hai ancora quando parliamo, per amore.” (167)

“Ma non è amore il sesso? L’amore il sesso sono figli l’uno dell’altro. L’amore senza sesso che cosa è? Una venerazione di statue, di madonne. Il sesso senza l’amore che cos’è? Una battaglia di organi genitali e basta.” (168)

“Tante cose si possono insegnare: andare a cavallo, fare all’amore, ma la propria esperienza a nessuno si può dare. Ognuno la propria, con gli anni, si deve fare, sbagliando e fermandosi, tornando indietro e ricominciando il cammino.” (210)

“Se ci impediscono la libertà di morire, la costrizione di vivere diviene una prigione atroce.” (305)

“Perché non si può essere felici sempre?” (345)

“C’è un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti invisibile, non c’è che volontà di imporre il proprio modo d’essere.” (389)

“Il matrimonio… è un contratto assurdo che umilia l’uomo e la donna insieme. Per me se si incontra un uomo che ci piace lo si ama fino a quando, beh finché dura… E poi ci si lascia, se possibile, da buoni amici.” (399)

“- La giovinezza e la vecchiaia non sono che un’ipotesi. – E che vuol dire? – Vuol dire che anche l’età è quella che ti scegli, che ti convinci di avere.” (435)

“Il giovane serve, produce, sgrava i figli… Ma a quarant’anni, a cinquanta, l’essere umano diventa pericoloso, si pone dubbi, richiede libertà, riposo, gioia.” (481)

Anche se i bagliori di guerra non sono né assopiti né, purtroppo, allontanati, questa settimana spero vi abbia portato su riflessioni altre e più intime. Per me è stato così, e nell’avvicinarsi di un mese che si preannuncia pieno, vediamo di ricordarci che siamo e chi abbiamo intorno, uniti tutti nel nostro solito, immancabile abbraccio settimanale.

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