A completare il
quadro, un onesto libro italiano di Marco Balzano, che ricordo solo perché mi ha
risvegliato ricordi milanesi.
Marco Balzano “Café Royal” Einaudi 14,50
(in realtà, scontato a 4,30 euro con i buoni di Alessandra)
[A: 01/08/2023
– I: 29/08/2023 – T: 30/08/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 120; anno: 2023]
In
vista di un agosto di riposo, cercavo qualche libro che “ammodernasse” le mie
letture, a volte troppo tese verso classici (seppur moderni). Una lunga seduta
da Feltrinelli (che seppur cambio casa rimane la mia libreria di riferimento)
mi porta alcuni libri, tra i quali questo, dove avevo sentito il nome
dell’autore ma non ricordavo dove né perché.
A
valle della lettura, ho ricordato che stava per vincere uno Strega qualche anno
fa. Poi, spulciando, ho ricostruito che ne ho letto sul Corriere, che è
milanese, insegnante nonché, visto che ne sto leggendo, scrittore.
Il
fatto che sia milanese, poi, ben viene rappresentato da questo libro dove,
ambientando il fulcro delle azioni in quel di via Marghera, ricostruisce un
microcosmo milanese che solo chi ne ha vissuto riesce con pochi tocchi a
rappresentare. Le vie di Brera, i negozi che c’erano e poi spariscono (tutto
come nei miei trentacinque anni in Prati, quanti negozi “storici” ho visto
andar via!), ma soprattutto concentrato la vicenda intorno ad un bar, quello
preso in gestione dal Ghigo, e che ora si chiama “Cafè Royal”.
Un
bar che non esiste, come non esiste in realtà un romanzo, che stiamo meglio
parlando di un agglomerato di diciotto capitoli battezzati con il nome di diciassette
personaggi, che costruiscono in modo corale una storia. Sono bozzetti, piccoli
spaccati di vita, a volte legati o ricollegati tra loro, ma non sempre. L’unico
tratto comune è il bar, dove si va a prendere caffè, cappuccini, cornetti,
spritz e altro. Come tutti i caffè del mondo, ma in particolare come tutti i
caffè italiani. Riflessione che riprenderemo più avanti.
Seppur
alla fine questo frastagliamento si ricompone (abbastanza) il romanzo costruito
su microracconti non mi ha consentito di immergermi completamente nella sua
atmosfera, risultando al fine un po’ scollegato nella mia testa. Il diradarsi
dei rimandi, laddove a volte non ricordavo i nomi degli attori, mi ha dato un
po’ fastidio, forse non facendomene gustare al meglio le potenzialità.
Tutti
i personaggi, chi prima chi dopo, chi con frequenza che saltuariamente, si
ritrovano al “Café Royal”, ed imbastiscono le loro storie personali introno
all’odore del caffè, un odore che per me è sempre stato evocativo dei miei
momenti di riflessione.
In
questo intreccio il là viene dato proprio da alcuni momenti che abbiamo vissuto
da poco, al bordo della fine della pandemia che ha creato una barriera pesante,
anche mentale, tra il prima ed il dopo. Modificando, a volte in maniera
definitiva, molti dei nostri comportamenti.
Così,
in un rondò schnitzleriano, vediamo salire e scendere dal palcoscenico
personaggi isolati, come Federico medico indeciso. C’è Gabriele che immagina di
imbastire una storia gay con Carlo, ma è un miraggio che nasce proprio dalla
solitudine indotta dal lockdown. C’è Betti, vissuta da sempre nella via, dove
ha cresciuto i figli, sola ed oppressa dalla tecnologia dei figli lontani, la
cui storia sarà ripresa verso il finale da una bella lettera della figlia
Carlotta. C’è la storia di Luca e Veronica (con Luca unico cui vengono dedicati
due capitoli) amanti che si cercano all’uscita di matrimoni a rischio, ma che
troveranno modo di esprimersi solo lontano dal caffè, a Torino, nell’unica
puntata fuori della città.
C’è
Noemi che cerca di vivere la propria giovinezza, osservando la madre Serena,
capitata per caso nello stesso bar. E ci sarà Serena stessa che in quel bar
capirà di aver paura di invecchiare, ma guardando i giovani (la figlia) capisce
anche che non vuole essere ancora giovane.
Ci
sono altre storie intrecciate: il manager africano Ahmed che torna dopo anni a
Milano, dove era stato giovane e scapestrato, che incontra nel caffè la sua
vecchia fiamma Barbara e non si palesa. E c’è Barbara che invece riconosce
Ahmed ma volutamente si nega. Ci sono i problemi di Manuel e di Lisa. E ci sono
le incomprensioni tra Beatrice e Michele.
Infine
ci sono le ultime storie isolate: l’innamoramento platonico di Elena, la
progressiva perdita della vocazione del prete Giuliano ed il disperato
tentativo di stabilire un contatto esterno dell’ex-drogato Roberto.
Ho
detto tanto, ma non ho voluto affondare le parole nel cuore dei racconti, cosa
che lascio a voi ed alla vostra capacità di collegarli meglio di quanto abbia
fatto io, dove a me rimane, oltre alla Milano che conosco, un senso di
desolante solitudine.
Una
solitudine che nasce proprio dall’anima dei bar frequentati soli e
incomunicativi. A me invece, danno un senso di comunità. Il barista diventa
quasi un confessore altro, cui si può parlare (quasi) di tutto. Così ripenso a
tutti i miei bar, ripenso ai primi anni Ottanta ed al mitico bar Ottaviani (che
non stava a via Ottaviano), e da lì a tutti gli altri, con il bar di Cristian
che rimarrà sempre nel cuore per aver condiviso alcuni momenti bui, ed il bar
Agostini che adesso culla le mie giornate, con il miglior pane caldo di Lariano
che abbia mai assaggiato.
Ma
questa è una trama per il Royal, o magari per la libreria Mondadori che mi si
dice essere stata collocata lì in via Marghera, e che era uno dei punti di
ritrovo del quartiere, forse ispirazione a Balzano di questo bel girotondo
umano.
Paul Auster “Baumgartner” Einaudi s.p.
(inserito nel regalo di Natale di Mario&Ines)
[A: 25/12/2023 – I: 12/01/2024 – T: 13/01/2024]
- &&&&
--
[tit. or.: Baumgartner; ling. or.: inglese;
pagine: 153; anno 2023]
Come
al solito, non posso cominciare una trama di Paul Auster senza rivolgere un
ringraziamento alla mia amica Luana che, ormai molti anni fa, mi convinse alla
lettura della “Trilogia di New York”. Da allora ho (quasi) sempre intrapreso le
letture del “cantore di New York”, avendo sempre ritorni positivi.
Certo,
non ho ancora avuto voglia di affrontare “4 3 2 1”, che mi sembra un po’ troppo
voluminoso, al momento. Tuttavia, quando ho visto il nuovo Auster in uscita
natalizia, non mi sono potuto fermare. Anche perché avevo da poco letto un
articolo – intervista con Siri Hustvedt (la moglie di Paul, di cui ricordo due
piacevoli letture) che parlava della malattia del marito. Potrebbe non scrivere
più, l’amato Paul, ed allora se ne legga subito.
E
se ne legge in un libro tipicamente “austeriano” che mescola fiction e realtà
personali, che fa in modo che il protagonista si interroghi su temi
esistenziali che colpiscono lo scrittore Auster da sempre ed ora in special
modo. Inserendo, ad esempio, accenni ad una meteora di madre del protagonista,
che si chiama Ruth Auster. Ed altre amenità.
La
bravura di Auster è quella di farci scivolare in un paio di anni della vita del
professor Seymour T. Baumgartner detto Sy, con una prosa talmente delicata che
il romanzo vola via con una facilità estrema. E mentre seguiamo il presente di
Sy, le sue rimembranze ci permettono di ricostruirne la vita a tutto tondo, e
di apprezzare questo momento particolare, in cui, per una serie di circostanze,
Sy sente di diventare anziano e quindi di conseguenza di porsi, anche, le
domande che si pongono gli anziani. Che vita ho fatto? Cosa ho realizzato? Cosa
mi aspetta?
Il
testo riesce a condensare riflessioni serie ed esistenziali, con momenti comici
(o tragicomici) come succedono a tutti nella vita. Così vediamo l’anziano
professore scottarsi le mani per prendere un pentolino dimenticato sui fornelli
accessi, cascare dalle scale buio del seminterrato, aspettare l’arrivo
quotidiano della postina dell’UPS, che porta libri che non leggerà mai ma che
ordina solo vederla, angosciarsi per il viaggio in macchina di una sua
possibile allieva, tanto da avere lui stesso un incidente di macchina.
E
mentre sfilano questi piccoli disastri quotidiani, si svolge il filo della
memoria dell’anziano Sy, professore sulla settantina, segnato profondamente
dalla tragica morte, dieci anni prima, dell’amata moglie Anna. Ma non si
crogiola in quel lutto, anzi lo sfrutta per andare avanti. Per leggere gli
scritti di Anna (poetessa e traduttrice) con cui ha vissuto quarant’anni di
quieta felicità ed intenso amore. Usa anche quegli scritti per rinverdirne la
memoria e chissà anche per aiutare la studentessa di cui sopra a farne una tesi
dottorale di alto profilo.
Auster
riesce, con le sue brevi frasi e la strabiliante facilità inventiva, a farci
seguire i percorsi mentali di Sy. Che sfrutta la memoria di Anna, il rapporto
(durato un paio di anni) con l’amica Judith, nonché la tesi con la giovane
Babe, per farci entrare nella sua vita. Ne ripercorriamo il passato, di difficile
interpretazione, dalle origini ebreo-ucraine, l’incontro con Anna, la nascita
dell’amore, la vita, quotidianamente vissuta, tra le sue lezioni ed i suoi
libri di filosofia e la presenza della moglie, con tutte quelle scintille di
vita che Anna gli portava.
Certo,
è un libro sempre pervaso da questa mancanza, ma che proprio questa mancanza lo
spinge ad andare avanti. Che non si compiange: non risponde alla domanda
“perché capita tutto a me?”, ma la blocca con “Le persone muoiono”. Quindi si
va avanti, con una dote impagabile, la gentilezza. Sy è gentile, al limite
dell’impalpabilità del rapporto con gli altri per non dare fastidio. Ma fermo.
E si accorge che sta avanzando a grandi passi verso la fine della sua
esistenza. Una fine che porterà anche quella di tutte le persone che vivono
nella sua memoria. Per cui, lui, bene o male artista, vuole continuare a
lasciare segni nella vita (continua a scrivere libri) e farlo anche per Anna
(pubblicandone poesie e forse altri scritti). Perché, e lo dice espressamente,
“la memoria piò tradire, la scrittura no”.
Sono
rimasto solo dubbioso dal modo tronco in cui termina il romanzo, forse indice
di quel modo tronco che sembra essere vicino all’autore stesso. Un libro –
testamento per esorcizzare la morte del figlio Daniel (di overdose) e
riflettere sulla propria (in cura oncologico ma non ancora fuori dal pericolo).
A
me, alla fine, a valle di tutte le domande, ed i giri di valzer, Auster ha
restituito la riconoscenza per aver vissuto. Abbiamo fatto tante cose fino ad
oggi, ne faremo altre in futuro, fino a che si potrà. Comunque, e sempre, siamo
grati di averle fatte, di aver incontrato tante persone e magari di aver
seminato dei piccoli semi che germoglieranno altrove. Come quel piccolo seme
che cito all’inizio, involontariamente piantato da Luana, ma che tanto ha
germogliato in me.
In
finale, un (lungo) accenno al baseball, che compare qua e là nel testo e che è
onorato di una menzione a Paolo Castagnini per le spiegazioni fornite alla pur
brava traduttrice, Cristiana Mennella, che forse dello sport americano sa
pochino. Orbene, io avrei comunque messo una nota con indicazione [N.d.T.]
quando un personaggio dice di aver giocato a baseball e militato in “Singolo
A”. In quella nota avrei spiegato che la suddivisone dei diversi campionati di
baseball, dove c’è la Major League (quella che conosce tutto il mondo) e la
Minor League. Quest’ultima a sua volta suddivisa in diverse serie (Singolo A,
Doppio A, Triplo A, Alto A). Quindi il nostro tipo avrebbe militato in una
delle più basse serie. Come se, parlando di calcio, avesse detto di aver
partecipato ad un campionato di Serie D. Ovvio che mi permetto di parlare a
lungo di baseball, essendo in realtà l’unico sport da me praticato a livello
agonistico (dilettantesco, ma pur sempre in serie B, nei campi di Piazza
Mancini a Roma)
“A
cosa bisogna credere quando è impossibile appurare la veridicità di un fatto?”
(125)
Julian Barnes “Elizabeth Finch” Einaudi
s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)
[A: 25/12/2023 – I: 18/01/2024 – T: 20/01/2024]
- &&&
e ½
[tit. or.: Elizabeth Finch; ling. or.: inglese; pagine: 176;
anno 2022]
Personalmente,
e fino ad ora, Barnes non mi ha mai deluso. Alti e bassi di sicuro, ma di
interesse certo. Come in questo libro, che avrebbe meritato anche più
gradimento se non fosse stato intarsiato da un capitolo che, pur interessante
per sé, sarebbe stato meglio altrove.
Un
libro particolare, dove non c’è una vera e propria storia da raccontare, ma due
punti in cui si gira intorno, cercandone un approfondimento. C’è “l’amore”
dell’io narrante verso Elizabeth Finch (che, come Neil, indicheremo solo con
EF). Non un amore fisico, ma un sentimento che Neil si porta avanti da quando
conosce EF fino ed oltre la morte della studiosa. E c’è il tentativo di Neil di
scavare in sé stesso per diventare da “Re dei Progetti Incompiuti”, come lo
etichetta la figlia, al realizzare di (almeno) un progetto.
Inciso:
leggendone, mi sono sentito parallelo a Neil, ma più come “Re dei Progetti
Pensati”, che tra pensare e cominciare a compiere c’è comunque un passo da
fare.
Attraverso
le parole sempre vicine di Barnes al lettore ci introduciamo in tre momenti di
vita, non biografie che, come dice l’autore, è praticamente impossibile
descrivere la vita delle altre persone, si può solo parlare di quello che hanno
detto e di quello che hanno fatto.
La
vita che attraversa tutto il romanzo è quella del narratore, Neil, di cui, in
realtà poco lo stesso Neil ci dice. Due matrimoni, almeno una figlia, lavori
diversi ma mai realmente redditizi. Studi, quelli sì, forse inconcludenti,
almeno fino a che non incontra EF. Un incontro che segnerà tutta la vita di
Neil. Lo fa riflettere, lo fa pensare e studiare, perché nei confronti di
questa austera (almeno all’apparenza) insegnante non ci si può nascondere
dietro le parole.
Un
amore, come si diceva, di certo platonico, ma che farà sentire EF sempre vicino
a Neil. Che lo spronerà ad andare avanti, anche quando non si sa quale sia
questa direzione. Che lo porterà a terminare almeno un progetto (e vedremo
quale). E che, alla fine, lo porterà a cercare di capire chi sia stata EF. E
perché, se a lui ha fatto un effetto benefico, non sempre alle altre persone
incontrate nel corso della vita è successo altrettanto.
La
seconda vita è, ovvio, quella di EF. Un’insegnante che ha le sue ferme idee sul
mondo, e che assume un atteggiamento euristico verso i suoi allievi. Neil la
incontra quando decide di seguire un corso dal promettente titolo “Cultura e
civiltà”. Corso ed insegnante che segneranno per sempre Neil. Di cui però non
viene dato un racconto continuo, ma pennellate che, spesso, vanno anche su e
giù nel tempo.
La
vediamo entrare in classe, parlare come un libro stampato, cioè senza quelle
pause che caratterizzano chi non è sicuro delle sue idee. Vestita formale,
quasi triste. Con le sue lezioni sulla storia risveglia le curiosità di Neil,
tanto che i due cominceranno a vedersi, saltuariamente, al ristorante. E lo
faranno, ogni tre, quattro, cinque mesi, nel corso di venti anni.
Veniamo
anche a conoscenza del dramma “pubblico” di EF quando espone le sue idee in una
conferenza, a valle della quale subisce un linciaggio mediatico, dopo di che si
ritira nel suo insegnamento senza più “uscire dal guscio”. Immaginiamo che
possa aver avuto una vita sociale, ha un fratello, seppur poco frequentato. È
stata vista vicino ad un uomo (conoscente? Amante? Altro?). Neil indaga e si
interroga, ma, come è giusto che sia, niente trapela.
Anche
se Neil potrebbe avere dei mezzi per approfondire le ricerche, che EF, nel suo
testamento, lascia tutte le sue carte a Neil, che le legge, non sa cosa
esattamente farne, se non essere spronato nel compiere almeno un progetto.
Nasce
così la terza vita del testo, quando nel lungo secondo capitolo Barnes ci
presenta un breve lavoro di Neil che analizza la vita, le opere e la fama del
personaggio centrale delle riflessioni di EF: Giuliano l’Apostata.
Ora,
questa parte è la più debole del testo, non tanto per le cose che dice, quanto
per essere un corpo estraneo alla narrazione generale. L’idea di base può anche
essere stimolante. EF sostiene che la sconfitta di Giuliano, ultimo imperatore
romano d’Occidente, nel 363 d.C. dando via libera al cristianizzazione del
mondo occidentale, ha segnato un punto di svolta negativo per lo sviluppo degli
avvenimenti che portano al mondo come lo viviamo oggi.
Non
perché EF sostenga il paganesimo dell’Imperatore, che tuttavia andrebbe letto
meglio e meglio contestualizzato. Quanto per l’avvicendarsi delle due culture.
Giuliano, non cristiano, dedito al culto di molti dei e di molti vaticini, era
una persona in ogni caso tollerante, come si capisce dalla citazione che
riporto. Gli imperatori cristiani d’Oriente e d’Occidente che lo seguiranno
saranno invece dittatori del pensiero unico. Perché EF, e noi con lei, è
contraria a tutti gli ismi del mono: monocultura, monogamia, monocromia,
monolinguismo, monopolio, monotematico, monotono.
Barnes
fa un lungo viaggio con Giuliano, dal sorgere delle sue idee, dalle sue
battaglie, dalla sua morte, fino a tutta la sua fama postuma, nel bene e nel
male. Ma tutto ciò rimane un corpo estraneo alla narrazione globale. Ci può far
riflettere, mi ha permesso di andare in rete a cercare testi e collegamenti. Ma
non coinvolge, né dà luce diversa a Neil ed EF.
Rimane
quindi alla fine il filo dell’amore, inteso nel senso globale che si diceva e
non nel senso (anche) fisico. Quello che ci fa muovere, che ci fa agire, che ci
fa sentire migliore, che ci permette di andare avanti, a sognare, pensare ed a
volte realizzare progetti e noi stessi. Quasi a chiosare con Dante, “l’amor che
muove il sole e l’altre stelle”.
Finisco
con due brevi accenni di ricerca e domanda. Forse Julian Barnes si sente vicino
per onomanzia a Giuliano l’Apostata. Forse, nella figura di EF, Barnes riversa
qualche carattere della sua amica Anita Brookner, di cui scrisse nel commento
funebre: “Nessuno era anche lontanamente come lei”. Forse.
“[La
funzione della ferrovia è] quella di consentire alla gente di andare da A a B
in modo da poter manifestare la propria stupidità in posti diversi.” (29)
“La
storia favorisce i tempi lunghi.” (32)
“Sono
un tipo solitario … essere soli è una forza; sentirsi soli una debolezza.” (69)
“Giuliano:
È con la ragione che dobbiamo persuadere ed educare gli uomini, e non a furia
di botte, ingiurie e torture.” (120)
“Kafavis:
da ciò che ho fatto e da ciò che ho detto / nessuno cerchi di scoprire chi sono
stato.” (123)
“Epitteto:
le cose sono di due maniere, alcune in potere nostro, altre no. [Le prime] sono
di natura libere, non possono essere impedite … [le altre] sono deboli,
schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui.”
(140)
Cormac McCarthy “Il passeggero” Einaudi
s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)
[A: 25/12/2023 – I: 28/01/2024 – T: 31/01/2024] - &&&& ---
[tit. or.: The Passenger; ling. or.: inglese; pagine: 385; anno 2022]
Penultimo
libro di Cormac McCarthy che, con il successivo “Stella Maris” costituisce un
dittico testamentario dell’opera del grande scrittore americano. Uno scrittore
difficile, di cui ho letto tutto il leggibile, ma che qui diventa altro, più
difficile, quasi un’opera-mondo. Senza rinunciare alle particolarità della sua
scrittura, ma innervandola con tutta una serie di divagazioni che ne fanno un
libro quasi senza trama. Da leggere, da seguire nei suoi risvolti, ma anche da
allontanare da sé, quando le divagazioni cominciano ad entrare in terreni
impervi e sconosciuti.
Eravamo
abituati al Cormac delle prime grandi epopee western, per seguire fino al
monumento apocalittico del suo precedente romanzo, “La strada”, dopo il quale
ci sono più di dodici anni di silenzio prima di arrivare a questi ultimi testi.
Anche se, stando agli appunti di Cormac ed a quanto ne lessi durante il tempo
trascorso, questo testo (non il successivo) era in gestazione sin dai primi
anni ’80, per poi diventare un frutto quasi maturo nei primi anni di questo
secolo, fino a sbocciare solo adesso. E non a caso.
Ritroviamo,
ed ormai ci siamo abituati, la scrittura solita di Cormac, con salti di tono,
dialoghi non virgolettati, come fossero un flusso di pensiero, descrizioni di paesaggi,
minuziose e piene di termini che non solo in inglese, ma anche in italiano mi
danno vertigine. In più, qui abbiamo due nuovi elementi che servono a comporre
il libro-monumento: le digressioni che durante gli incontri del protagonista
con i vari personaggi del romanzo si addentrano su tanti e difficili temi e le
parti in corsivo, dedicate ai deliri schizofrenici della co-protagonista
essenziale del libro.
Rispetto
al solito andamento dei vecchi libri di Cormac, c’è una sorta di filo
conduttore, anche se slabbrato e forse ricostruibile a posteriori. Ma un filo
appunto che a volte si spezza, non porta forse da nessuna parte, servendo forse
soltanto a dar fondo ai pensieri dell’autore, ed alla domanda fondamentale che,
lui vecchio, ma anche noi solo anziani, ci si pone (come da libro di Enzo
Bianchi da poco letto): cosa c’è di là?
La
trama-contesto segue le vicende dei due protagonisti, uno più in vista, l’altra
presenza-ombra (ma c’è). Da seguire intanto i loro nomi: Bobby ed Alice
Western; cognome che riporta alle tematiche da sempre nelle corde di Cormac
(come dimenticare i non-western alla “Meridiano di sangue”) e nome, Alice, che
rimanda al libro di Carroll. E la storia della famiglia Western come esce dai
vari colloqui lungo il romanzo.
Western
senior dovrebbe essere stato un grande fisico, sodale di Oppenheimer nel
Progetto Manhattan (quello della bomba atomica), motivo che fa nascere spesso
negli incubi della famiglia le immagini di Hiroshima. Bobby il maggiore, anche
lui inizialmente fisico, poi, quando la piccola Alice (dieci anni tra i due)
manifesta doti importanti nella matematica, si ritira dagli studi, lasciando
spazio alla sorella. Verso cui ha un grande amore, sempre platonico sembra.
Nelle more, Bobby parte per il Vietnam come mitragliere.
Alice
si immerge nello studio, anche lei innamorata di Bobby, ma poi la sua mente si
sfalda (forse ne sapremo di più in “Stella Maris”?). Irrompe una schizofrenia
prima latente, che la porterà (ed è l’incipit del romanzo) a togliersi la vita.
Ma la sua presenza rimarrà per tutto il libro, sia nella mente di Bobby, sia in
quei corsivi (nove capitoli) dove Cormac cerca di dar corpo alla sostanza
alienante di Alice. Dove entrano personaggi strambi, quasi presi da favole nere
di Tim Burton, ma soprattutto prende la scena Talidomide Kid, piccolo essere
con delle pinne al posto degli arti superiori. Scelta emblematica (e forse una
delle tante denunce contro i vari sistemi americani) che la Talidomide in
realtà era un farmaco, in uso negli anni Cinquanta come sedativo e ipnotico,
poi sospeso per la scoperta della sua teratogenicità: le donne trattate con
talidomide davano alla luce neonati con gravi alterazioni congenite dello
sviluppo degli arti.
Morti
i genitori, Bobby torna e seguendo le direttive della nonna, Bobby recupera un
tesoro in monete d’oro, che vende per un milione di dollari, lasciandone la
metà alla sorella, la quale li usa per comprare un raro violino “Amati” (il
primo violino in assoluto). Bobby invece si trasferisce in Europa per diventare
pilota di formula 2, fino a che un grave incidente lo ferma. Da lì comincia una
sua esistenza errabonda, che lo porta a conoscere emarginati di tutte le risme,
che vedremo comparire nel corso della narrazione. Per poi finire a fare il
subacqueo di recupero per salvataggi in mare.
Qui,
nel 1980, lo vediamo cominciare la sua narrazione diretta, durante il recupero
di un aereo da turismo inabissatosi. Dove torva nove passeggeri mentre dovevano
essere dieci. Ed è da questo mistero (che non sarà mai sciolto da Cormac) che
comincia la sua odissea. Il governo federale lo bracca supponendo che sappia
più di quanto dica. Lo perseguita chiudendogli i conti in banca,
sequestrandogli auto e bloccando il passaporto. Bobby chiede aiuto ad uno
strano avvocato di New Orleans, Kline, a suo tempo sodale della famiglia
Kennedy.
Tutto
il nucleo del romanzo è il girovagare di Bobby per capire i motivi di questa
persecuzione, gli incontri e le discussioni con i vari “dropout” conosciuti
nella vita, ed alla fine, aiutato da Kline, cambiare identità. Lo troviamo alla
fine, rifugiatosi a Ibiza, portare avanti una vita poco utile, contemplando il
mare, pensando ad Alice, e con un finale di assoluto lirismo stilistico che
riecheggia il finale de “La Strada”: “le età dell’uomo che corrono di tomba in
tomba”.
Questo,
seppur lungo, è quanto emerge dalle pagine, ma non è, per Cormac, che il
contorno di quello che lui vuole esprimere. Perché la trama è forse solo un
contenitore dove lui espone riflessioni personali ed anche interessanti, di
carattere storico-filosofico, scientifico, religioso. Cito a volo di uccelli
alcuni temi che tocca: i principi della meccanica quantistica (con un excursus
sulla teoria delle stringhe che mi ha incuriosito, e sulle riflessioni kantiane
di Paul Dirac), la bomba atomica e le sue conseguenze fisiche e morali,
l’assassinio di Kennedy (dove il suo avvocato Kline espone la sua personale
visione dei motivi dell’uccisione, compresi i coinvolgimenti con la mafia
italo-americana), il disagio odierno della nostra vita, che porta a ragionare
sulle ragioni dell’esistenza umana e sulla fede in Dio.
Per
fare un cenno, Western afferma che la fisica cerca di fornire una
rappresentazione numerica del mondo. E Cormac aggiunge da scrittore onnisciente
che non si può spiegare tutto e non si può, a parole e con il linguaggio,
illustrare l’ignoto.
Una
scrittura potente dicevo, che non tradisce le sue origini (di Cormac) che
mentre Bobby parla con i suoi amici, Cormac non manca di illustrare a parole
molti tratti della vita americana e tanto paesaggio americano. Bobby viaggia in
lungo e in largo per gli States (bellissimi i paesaggi dell’Idaho). E poi
inserisce un dialogo: perché non ci facciamo dei crostacei; innaffiandoli con
del Montrachet (se non lo conoscete, un gran cru bordolese a 500€ la
bottiglia).
Un
libro anche, come per il Talidomide, di denuncia. Bello, ad esempio, l’accenno
a Józef Rotblat, fisico polacco aggregatosi al progetto della bomba, ma poi allontanatosi
avendone capito le potenzialità distruttive, e perseguendo da allora un suo
percorso di denuncia delle aberrazioni insite nelle ricerche umane. Attività
che lo portò al Nobel per la pace nel 1995.
Non
possiamo non accennare al fatto che, sull’impianto originario degli anni ’80,
le costruzioni e gli intarsi di Cormac sono senza dubbio derivati dalla sua
frequentazione del Santa Fé Institute, una istituzione del New Mexico,
interdisciplinare, dove convergono scienziati, filosofi e letterati per una
ricerca interdisciplinare intorno ai sistemi adattativi complessi. Quale
migliore palestra per discutere della complessità del mondo moderno? Una
palestra da dove Cormac fece uscire un suo breve saggio dal titolo “The Kekulé
Problem” (non tradotto in italiano ma reperibile in rete), dove si pone il
problema della distinzione tra inconscio e linguaggio a partire dall’analisi
del sogno dello scienziato August Kekulé von Stradonitz che nel 1865 sognando
un serpente che si morde la coda ebbe l’intuizione della forma delle molecole
di benzene. Dove, brevemente, l’inconscio è una macchina incontrollabile, che
fa agire gli animali, mentre il secondo è una creazione culturale umana che
cerca di formulare e portare alla realizzazione le infinte possibilità dell’inconscio
stesso.
Non
ho sinceramente la capacità di entrare in tutti i meandri che questo
libro-mondo apre su tutti questi campi, per cui mi fermo qui, elogiando senza
riserve questo testamento esistenziale non riconducibile a null’altro. Una
prova di scrittura densa e significante. Dove, tuttavia, l’assoluta alta
valutazione viene mitigata dall’impervio seguire di alcuni punti, e
dall’esaurirsi nel nulla di alcune piste ed altri momenti narrativi. Congiunta
a tutta la fase onirica di Alice che non è riuscita a coinvolgermi in nessun
punto.
“Condividere
la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più
potente del sangue.” (143)
“Ho
studiato molto e imparato poco.” (349)
Cormac McCarthy “Stella Maris” Einaudi
s.p. (inserito nel regalo di Natale di Alessandra)
[A: 25/12/2023 – I: 09/02/2024 – T: 11/02/2024] - &&&& ---
[tit. or.: Stella Maris; ling. or.: inglese; pagine: 194; anno 2022]
Libro
fondamentale e conclusivo. È l’ultima scrittura di Cormac McCarthy che, pochi
mesi dopo la consegna alle stampe del testo, un mese prima dei suoi
novant’anni, si spegne serenamente per cause naturali nella sua residenza di
Santa Fé nel New Mexico.
Ma
non solo perché ci ha lasciato, conclusivo anche perché chiude il dittico
iniziato con il precedente, facendone un complemento ed una chiusa. Ed
indicandoci una via. Che la stella del mare è uno dei nomi della stella polare,
che serve ai naviganti per seguire le giuste rotte quando tutti gli altri punti
di riferimento sono saltati, o oscurati dalla notte (della ragione?). Ed è
anche un appellativo di Maria, madre di Gesù, anche se nasce per errore, e
viene mantenuto per amore. Inciso: Myriam in ebraico significa “goccia del
mare” che San Girolamo, in suo omaggio, giustamente traduce con “Stilla Maris”.
Ovviamente, andando di copista in copista, ad un certo punto stilla fu mutato
in stella. Che, come detto, è giusto ed appropriato.
Il
libro, poi, è la più completa rarefazione della scrittura di Cormac, che riesce
a riempire quasi duecento pagine solo di un dialogo, quello tra Alice Western
(un cognome, un programma, riferimento all’occidente ma anche a tutti i
precedenti mondi di Cormac) ed il suo terapeuta, il dr. Cohen (ovviamente
ebreo, come tutti gli psicoterapeuti). Certo non è il primo libro costruito in
questo modo (mi vengono in mente “Il signor Mani” di Abraham B. Yehoshua o “Il
bacio della donna ragno” di Manuel Puig), ma questo discende direttamente dai
dialoghi socratici di Platone. Il dottore pone domande, cerca di stanare Alice,
mentre Alice sfrutta le sue risposte per creare la visione di una sua
cosmogonia, inserendoci, in maniera abilissima da parte dell’autore, anche
pensieri e riflessioni che Cormac stesso ha fatto o stava facendo nell’ultimo
periodo della sua vita.
Intanto,
facciamo un salto di otto anni indietro rispetto al precedente (laddove ancora
mi interrogo su quale sia l’ordine giusto di lettura dei due libri), e troviamo
Alice (che sappiamo poi morirà) decidere di entrare in una struttura
psichiatrica (appunto la Stella Polare che guida noi “western people”)
traumatizzata dal coma del fratello Bobby (che sappiamo poi si salverà). Alice
ha quindi bisogno di esternare, di tirar fuori tutta la sua genialità, ma anche
la sua malattia, le sue paure, le sue pulsioni, consce e inconsce, tirando
fuori, spezzettate le sue allucinazioni, anche se il Talidomide Kid del primo
libro fa delle comparsate nelle parole di Alice, rimanendo in secondo pieno
rispetto ai temi che Cormac vuole tramandarci.
Perché
entrambi vogliono dare un senso alle cose (entrambi, Alice e Cormac) talvolta
facendo lo scrittore quasi un’estremizzazione dei suoi pensieri che escono
dalla bocca di Alice. Sappiamo infatti che negli ultimi sette-otto anni, Cormac
è stato un membro attivo del “Santa Fé institute”, un luogo dove si discute in
termini multidisciplinari di tutto (e ne ho già parlato altrove). Così che il
libro svaria su (quasi) tutto, interrogandosi sulla natura delle cose
fondamentali: il linguaggio, l’inconscio, la matematica, la fisica, finendo con
la musica che secondo Cormac è l’unica cosa che rimarrà quando tutto scomparirà
(in realtà Cormac scrive “Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse
l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica”).
Un
calderone dove, in forme spesso dualistiche, si discetta di matematica e
fisica, sulla differenza tra psicologia e psichiatria, sull’esistenza di Dio e
sulla presenza del diavolo, c’è la voglia di vivere e quella di suicidarsi, c’è
la morte, con le sue paure ma anche con la consapevolezza che senza la morte
non si comprende la vita. Anche se Alice e Cohen stanno fermi in una stanza,
con le loro parole girano ovunque: ad un’asta dove Alice acquista uno dei
violini più costosi al mondo, a Los Alamos dove il padre di Alice lavorava alla
bomba atomica con Oppenheimer, nel Messico dove il padre andrà a morire, in
Italia dove il fratello Bobby è in coma in seguito ad un incidente
automobilistico, in Romania, dove Alice vorrebbe andare a morire ma non ci
andrà. Non torno sul rapporto mentalmente incestuoso tra Alice e Bobby, una
delle cose che meno mi ha coinvolto e di cui meno ho capito il senso.
Il
tutto per arrivare a farci ragionare sul rapporto fra percezione soggettiva,
coscienza umana ed esistenza del mondo. Argomenti da far tremare le gambe ad
ognuno. Perché in un mondo insensato il cui unico scopo sembra camminare verso
la morte, dove non c’è nessuna medaglia però nell’essere bravi a morire, quello
che Cormac sembra salvare è l’inconscio. Che ripropone con il solito accenno al
dotto Kekulé che sognando un serpente che si morde la coda, intuì la
costituzione molecolare del benzene. E si interroga senza fine e senza una fine
sul ruolo della mente e sul suo rapporto con la realtà.
Un
romanzo che va letto perché è orrendamente sublime, dove non posso non fare un
plauso alla splendida traduzione di Maurizia Balmelli che riesce a rendere una
splendida frase di Cormac “because this is what people do when they’re waiting
for the end of something” con “perché questo è quello che la gente fa quando
aspetta la fine di qualcosa”.
Un
romanzo che ci riporta al quesito filosofico fondamentale dove non sono
importanti le risposte ma le domande che ci poniamo. Penso quindi che il mio
commento finale non possa che essere una frase del Dottor Cohen: “non credo di
aver capito”.
“Non
penso che di norma i bambini prendano seriamente in considerazione il fatto che
un giorno saranno degli adulti.” (106)
Poiché siamo in una settimana Einaudi, mi è
obbligato di trarre citazioni da un altro bel libro di questa casa editrice,
scritto da una persona veramente interessante e degna di essere conosciuta e
letta. Parlo di Goliarda Sapienza
e del suo “L’arte della gioia”, da dove ho tratto le seguenti frasi.
“Zio
Jacopo diceva che il lutto è una barbarie … che se si è veramente addolorati lo
si porta nel cuore senza bisogno di inutili esibizionismi.” (64)
“Perché
non cerchi di pensare anche ai lati positivi di quello che accade? Niente è
completamente negativo nella vita.” (98)
“Sono
… i vantaggi del viaggiare. Bisogna periodicamente allontanarsi da qualsiasi
luogo dove la consuetudine ha ucciso l’obiettività.” (160)
“L’amore
si fa in due… Io ti amo … ti amo e ti stimo. Solo che non ci siamo incontrati
carnalmente. O forse avevo scambiato il fascino che tu avevi e hai ancora
quando parliamo, per amore.” (167)
“Ma
non è amore il sesso? L’amore il sesso sono figli l’uno dell’altro. L’amore
senza sesso che cosa è? Una venerazione di statue, di madonne. Il sesso senza
l’amore che cos’è? Una battaglia di organi genitali e basta.” (168)
“Tante
cose si possono insegnare: andare a cavallo, fare all’amore, ma la propria
esperienza a nessuno si può dare. Ognuno la propria, con gli anni, si deve
fare, sbagliando e fermandosi, tornando indietro e ricominciando il cammino.”
(210)
“Se
ci impediscono la libertà di morire, la costrizione di vivere diviene una
prigione atroce.” (305)
“Perché
non si può essere felici sempre?” (345)
“C’è
un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti
invisibile, non c’è che volontà di imporre il proprio modo d’essere.” (389)
“Il
matrimonio… è un contratto assurdo che umilia l’uomo e la donna insieme. Per me
se si incontra un uomo che ci piace lo si ama fino a quando, beh finché dura… E
poi ci si lascia, se possibile, da buoni amici.” (399)
“-
La giovinezza e la vecchiaia non sono che un’ipotesi. – E che vuol dire? – Vuol
dire che anche l’età è quella che ti scegli, che ti convinci di avere.” (435)
“Il
giovane serve, produce, sgrava i figli… Ma a quarant’anni, a cinquanta,
l’essere umano diventa pericoloso, si pone dubbi, richiede libertà, riposo,
gioia.” (481)
Anche se i bagliori di guerra non sono né assopiti né, purtroppo, allontanati, questa settimana spero vi abbia portato su riflessioni altre e più intime. Per me è stato così, e nell’avvicinarsi di un mese che si preannuncia pieno, vediamo di ricordarci che siamo e chi abbiamo intorno, uniti tutti nel nostro solito, immancabile abbraccio settimanale.
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