domenica 28 gennaio 2024

Anticipo scandinavo - 28 gennaio 2024

In attesa che si concretizzi il viaggio verso il Nord, capita giustamente una cinquina scandinava, con due autori svedesi ed uno norvegese. Tra l’altro, gli svedesi ambientano le loro opere verso il Nord scandinavo, in quella regione che si spera presto di esplorare. Purtroppo, però, la lettura non è all’altezza delle premesse. Si salva il quinto episodio dell’avvocato Rebecka della scrittrice Åsa Larsson, come pure un romanzo non seriale del norvegese Nesbø. Mentre gli altri due di Nesbø ed una prova seriale di Arne Dahl scendono a livelli bassissimi di gradimento e realizzazione.

Åsa Larsson “Sacrificio a Moloch” Feltrinelli euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)

[A: 07/08/2019 – I: 20/08/2023 – T: 21/08/2023] - &&& --

[tit. or.: Till Offer åt Moloch; ling. or.: svedese; pagine: 380; anno 2012]

REBECKA05

La citazione finale è una specie di memento che si attaglia bene a tutta la vicenda legata alla lettura di questo libro della scrittrice svedese Åsa Larsson. Il libro dovrebbe essere stato scritto tra il 2011 ed il 2012 (le indicazioni in rete non sono univoche), ma sicuramente è nel 2012 che ne esce la prima traduzione italiana dell’ottima Katia de Marco. Dopo aver letto tra il 2010 ed il 2013 i primi quattro casi di Rebecka, ho aspettato la pubblicazione in economica (che tanto c’è molto altro da leggere), avvenuta solo nel luglio 2019. Motivo per cui vedete che è stato acquistato subito dopo. Tuttavia, non era nelle mie priorità di lettura, e quindi sono passati altri quattro anni prima che avessi voglia, e tempo, di dedicarmi a questa serie.

Tuttavia, nonostante i più di dieci anni passati, è una lettura che si colloca nel rango delle godibilità estive. Certo, qualche filo va riannodato, ma è poco funzionale ad una trama che si regge da sola. Inoltre, ma qui abbiamo il vuoto del futuro, questi anni Åsa è rimasta silente, e solo lo scorso anno è uscito in Italia il sesto volume della storia.

Come non pochi autori svedesi (e cito solo Lackberg e Nesser) Åsa circoscrive il suo mondo in una piccola porzione territoriale, la città di Kiruna. Che è certo un fenomeno interessante. Non solo per aver dato i natali a Åsa, o per le gare di sci di fondo che vi si disputano. Ma anche perché è una delle città più grandi a nord del Circolo Polare Artico, ed una delle maggiori enclavi di una sette luterana molto religioso denominata “Laestadianesimo” (dal nome del fondatore Lars Levi Læstadius). Un movimento che vi invito a studiare.

Di certo Åsa è sempre molto vicina alle scritture bibliche quando imbastisce le sue trame, così come in questa, partendo dal Levitico (ma passando di sicuro per le credenze cananee) si rifà ai sacrifici dei bambini che avvenivano nell’antichità, per condurci alla riflessione su quanto sia possibile sacrificare sull’altare delle brame personali.

Non ci meravigliamo poi, visto che è ormai una costante accettata in tutti i gialli, ed in quelli nordici in particolare, che abbiamo un rimbalzare tra passato e presente. Un passato sempre legato a Kiruna, alla presenza di Elina, una maestrina libera e disinibita ed alla sua storia d’amore con Hjalmar Lundbohm. Questi è un personaggio realmente esistito e usato dalla nostra scrittrice con molte forzature (cosa che se fossi un parente tenderei a contestare). Fatto è che i due generano un figlio, Franz, non riconosciuto (almeno ufficialmente) dal potente.

Venendo poi al presente, ovvio che molto ruota intorno alla protagonista, Rebecka, avvocato di grido, che sappiamo per una serie di motivazioni, anche personali, si è trasferita a Kiruna, lasciando il fidanzato a Stoccolma e forse (almeno sembra dal libro precedente) trovando uno spasimante in loco. A Kiruna, intanto si susseguono una serie di morti. Muore Franz, che poi viene sbranato da un orso. Muore il figlio di Franz, investito da una macchina. Muore la nuora di Franz, uccisa a colpi di forcone. Salvandosi solo il nipote Marcus, anche se molto provato.

Salvo l’ultimo, sicuramente omicidio, gli altri sono fortuiti o intenzionali? E nel caso che motivi ci sono? Certo, la nuora era di facili costumi, ed aveva amanti, per giunta sposati. Vendetta di una moglie tradita?

Nelle more delle indagini, si instaura anche una lotta di potere tra Rebecka e il procuratore che vede di cattivo occhio i successi della nostra eroina. Åsa mescola il tutto, condendolo con un po’ di vita contadina, con qualche cane che si aggira tra guardie e ladri. Ma soprattutto con la nascita di rancori, di ferite mai sopite. Aggiungendo però del sale, con i bei rapporti di alcuni adulti verso Marcus. Rebecka, emarginata e sola, riesce a trovare una pista sghemba che, alla faccia di chi le vuole male, porta alla soluzione del mistero, alla cattura dei colpevoli, allo scorno del procuratore. E, forse, alla rottura del fidanzamento. Vedremo, forse, nel capitolo da poco uscito come si evolve e se si evolve il lato privato.

Åsa riesce ancora una volta a mostrare i due lati della vita nelle sconsolate terre del nord della Svezia. Il lato cattivo, che cerca solo rivincite, soldi e potere, ed il lato buono, della solidarietà tra le persone di buona volontà. Lasciandoci però quel dubbio su Moloch. Fortunatamente non ci sono bambini sacrificati ad un Dio malvagio. Rimane la cattiveria di chi, per denaro, calpesta diritti e affetti.

“La vita passa così maledettamente in fretta.” (161)

Jo Nesbø “Il cacciatore di teste” Repubblica Essenza Noir 15 euro 8,90

[A: 03/12/2022– I: 21/09/2023 – T: 22/09/2023] - &&& --

[tit. or.: Hodejegerne; ling. or.: norvegese; pagine: 300; anno 2008]

Torniamo dopo esattamente quattro anni a leggere un libro del simpatico norvegese. Simpatico perché, oltre a scrivere, ha giocato a calcio nelle giovanili del Molde, ed è tuttora cantante e chitarrista nel gruppo pop norvegese “De Derre” (a proposito del quale, se ben sapete il norvegese, il nome significa “Quelli lì”, perché all’inizio, non avendo trovato un nome, quando salivano sul palco, qualcuno domandava: “Chi suona ora?” a cui rispondevano “Suonano quelli lì” cioè “Jet er de derre”).

Venendo invece alla sua carriera di scrittore. Pur avendo scritto 13 romanzi con il suo miglior protagonista, cioè Harry Hole, io ho fermato la mia carriera di lettore della serie al volume 10 (“Polizia”), dove mi sembrava che il personaggio e la vena dell’autore si fossero abbondantemente esauriti. Forse se ne ritroverà la lettura, ma non ora.

In parallelo, ha scritto due romanzi con protagonista tal Olav Johansen, che non ho ancora letto, e cinque romanzi isolati, di cui questo è il primo che leggo. E dove ritrovo una parte del modo di scrivere, di presentare i personaggi, di imbastire le storie che risale alle sue prime opere. Con anche qualche componente diversa, tanto che, leggendo questo romanzo viene in mente un film di Tarantino girato da Woody Allen.

Perché è un film, pardon un libro, dalle spiccate venature comiche, tanto che Roger Brown, il protagonista potrebbe essere definito un “persona cronicamente sfortunata”. Cioè, se ci fosse Allen ed un po’ di yiddish americano, uno “schlimazel”. Questo per un centinaio di pagine, poi Jo impone una brusca svolta alla vicenda, e da lì in poi si trasforma in un pulp-book, dove alla fine si conteranno, se non vado errato, almeno otto morti di morte cruenta.

Tutta la prima parte serve a costruire l’ambiente di riferimento, introdurre personaggi, e fare in modo che noi ci si domandi dove sia il giallo (o il noir?). Veniamo introdotti nel mondo dei “Cacciatori di teste”, quei personaggi che, nel mondo del lavoro, cercano persone adatte a determinati posti, in generale di notevole rispetto economico. Roger è un genio nel suo campo, per una serie di motivi basati sulla necessità di una rivincita agli scherzi del caso.

Perché Roger è bassino (un metro e sessantotto) in un mondo che è sempre almeno dieci centimetri più alto, ha una bassa estrazione sociale ed ha sposato una donna colta ed affascinante di cui “non si sente all’altezza”. Ma sul lavoro è un “mago”, sfruttando, nelle sue interviste lavorative, i metodi degli interrogatori americani, basati su quello che viene chiamato “interrogatorio a nove fasi, di Inbau, Reid e Buckley” (esiste davvero, è un po’ lungo da descrivere, ma se volete lo trovate su Wikipedia inglese).

Oltre ad avere un ego smisurato, Roger ha anche un altro difetto. Per mantenere il suo alto tenore di vita, si dedica al furto di opere d’arte, aiutato dal suo amico Ove, casualmente a capo di una organizzazione di “security”. Per completare il quadro ha una bella moglie Diana, che ha convinto ad abortire, non ritenendo ancora il momento di avere figli, e per compensazione, le ha regalato una galleria d’arte di alto livello (ed alto costo). Ed ha avuto, episodicamente, una strana amante, Lotte, danese, dolce, remissiva, ma con qualche ombra strana.

Tutto si coagula quando, per un posto importante, si imbatte in Clas Greve, esattamente il suo opposto. Alto, aitante, determinato. Insomma un fico da paura, che ha anche un Rubens in casa. Durante la rapina organizzata con Ove, trova il quadro, ma anche il cellulare della moglie. Qualcosa scricchiola. Il mattino dopo trova anche Ove drogato o forse morto nella sua macchina (sua di Roger). Comincia alla grande il pulp. Roger è in caccia, poi è cacciato. Non si capisce più chi sia a tirare le fila. E soprattutto, Jo ci fa capire che, in fondo, nessuno dei personaggi gli sta simpatico. Per fortuna che lo salva l’ironia, che gli consente di mescolare così tanto le carte, che ogni volta che sembra si capisca qualcosa, tutto va a gambe all’aria.

Con un colpo di reni finale, nelle ultime cinquanta pagine ripercorre, con l’aiuto della polizia, tutta la vicenda. Se avevamo qualche dubbio, lì ce lo togliamo. Ma vediamo anche la bravura di continuare ad ironizzare, che, se è vero che noi lettori capiamo, è altrettanto vero che la polizia, almeno per noi, non fa una bella figura.

Mi rimangono due domande al fine. Jo per tutto il libro sembra non amare nessun personaggio. È vero che può capitare (ad esempio, Carlotto in questo è un maestro), ma l’effetto nordico rimane un po’ freddo. E poi sul titolo, che, stando al dizionario norvegese, dovrebbe essere plurale (“I cacciatori di teste”) mentre qui viene declinato al singolare. Può essere un appunto di poco conto, ma forse anche no.

Vediamo se si ritorna primo poi anche ad Harry Hole.

“Non c’è nulla al mondo che faccia sentire un uomo invincibile quanto una donna che gli dice di amarlo.” (93)

Jo Nesbø “Sole di mezzanotte” Repubblica Profondo Noir 7 euro 8,90

[A: 28/08/2023– I: 06/10/2023 – T: 07/10/2023] - && e ½

[tit. or.: Mere blod; ling. or.: norvegese; pagine: 200; anno 2015]

Come capita quando si è in ritardo di lettura con un autore, ecco che, a ruota, escono altri libri dello stesso, al fine di colmare non dico un vuoto, ma un percorso, mio, di comprensione degli scritti. Qui, inoltre, siamo di fronte ad alcune difficoltà ulteriori. Tra il 2010 ed il 2016, Nesbø, forse sazio della sua saga con Harry Hole, si dedica ad altre scritture. Decidendo, tra l’altro, di scrivere una trilogia leggermente più pulp de “Il cacciatore di teste”.

La trilogia si dovrebbe intitolare “Sangue sulla neve” (“Blod på snø” in norvegese), riprendendo il primo titolo della serie. Viene pubblicato anche in Italia, dove il titolo cambia in “Sangue e Neve” (solito mistero). Un libro che mi è sfuggito nelle pieghe delle diverse acquisizioni. Anche perché, dopo il decimo volume di Hole anch’io volevo una pausa, non da Hole ma da Nesbø.

Poco dopo il primo, esce il secondo volume, che, per seguire il filone indicato dall’autore, si intitola “Mere blod” (cioè “Più sangue”). Ovviamente, i destini editoriali italiani si sono focalizzati sul titolo inglese “Midnight Sun” e lì sono rimasti.

Altro mistero, in molte traduzioni viene indicata come la saga di Olav Johansen, detto “Il Pescatore”. Detto che non avendo letto il primo non mi pronuncio per quello, ma in questo il personaggio compare in un capitolo ed aleggia in altri. Io sarei tornato sul titolo della saga originario, cioè “Blod på snø”. Ma quant’è.

Infine, dovrebbe essere una trilogia, ma a me ne risultano usciti due. Forse l’autore ce lo farà sapere, prima o poi.

Venendo al romanzo, lo stile riprende più i timbri dei non-Hole, dove, pur toccando temi “pesanti”, il tono è più leggero, quasi volesse spostare l’attenzione su altro del testo. Non sul giallo, che giallo non è, e poco sul noir, che quello c’è in maniera copiosa. Ma sui personaggi, sulle loro interazioni, sulle loro personalità.

Sempre in prima persona, seguiamo la vicenda di Jon, uno spacciatore di mezza tacca, che si trova in una vicenda più grande di lui, dove sembra sempre non sapere che direzione prendere, che decisioni affrontare. Avrei visto bene come sottotitolo “L’indeciso”.

Per una serie di circostanze, si trova coinvolto nel piccolo spaccio, si trova con una figlia a carico e senza aiuti. Quando la piccola Anna si ammala di una leucemia mortale, prova a trovare i soldi rubando al suo capo, il Pescatore, ma scoperto, si deve adattare a fare il contabile (cosa che gli riesce) ed il killer (cui non è adatto, che non sa uccidere). Avvengono altre cose in quel di Oslo, fatto sta che per sfuggire ai killer del Pescatore (cui ha fatto un altro sgarbo) decide di fuggire verso il Nord, verso i luoghi dove c’è, d’estate, il sole a mezzanotte.

Qui incontra una famiglia, Lea e suo figlio Knut, e la loro comunità di laestadiani (su cui torneremo), una setta particolarmente bigotta. E sempre dalla voce, un po’ scanzonata e un po’ angosciata di Jon che seguiamo le sue vicende nella terra dei sami. Dovrà affrontare pericoli mortali, cui cercherà (e vedrete se ce la piò fare) di sfuggire. Dovrà anche affrontare la giovinezza spensierata di Knut e la maturità religiosa di Lea. Chi vincerà?

Su questo interrogativo vi lascio alla vostra sana lettura, mentre torno su alcuni aspetti.

La scrittura di Nesbø è sempre gradevole. Mentre, però, nella serie di Harry Hole, dopo un inizio discretamente coinvolgente, si incarta e si incupisce, in questi ultimi volumi rimane sempre ad un livello decisamente più solare. I tre personaggi principali del romanzo vengono fuori con decise caratterizzazioni, e forse qualche passaggio a vuoto. Ma Jon è umano, con tutte le contraddizioni insite in ogni uomo, e con una bontà di fondo che, pur se con difficoltà, viene fuori a tratti e con piacevolezza.

I passaggi sul rapporto grande – piccolo tra Jon e Knut hanno un buon risultato. Mi faccio solo una domanda: la battuta sui cinque elefanti in una cinquecento, è una battuta che in Italia circola da quando avevo dieci anni. È possibile circoli anche in Norvegia, o hanno italianizzato una freddura che, se ben conosco i norvegesi, potrebbe essere intraducibile? Penso che la domanda avrà difficilmente risposta.

Come detto sopra, una parte non piccola del romanzo è collegata al movimento laestadiano. Lo abbiamo già incontrato in altre opere ambientate nel mondo sami (che è il nome corretto della popolazione del nord della Scandinavia che noi si chiama, erroneamente, lapponi). Ma vale bene ripetere che è un movimento cristiano, derivato dal luteranesimo nordico, con una spiccata tendenza ad essere aperti all’interno della comunità (la confessione può essere fatta anche ad un altro membro) e di avere spesso nel linguaggio comune la tendenza a nominare Dio (il saluto normale per loro è “la pace di Dio”). I laestadiani, inoltre, considerano la danza, guardare la televisione, il controllo delle nascite, la musica rock, il trucco, gli orecchini, i film e i tatuaggi come peccati. Capite quindi come Jon spacciatore e poco credente, abbia difficoltà ad interagire con i locali. Interessante è seguire il modo in cui Nesbø affronta tutto ciò.

Comunque, rimango sempre in attesa di un nuovo Harry Hole interessante da leggere.

Jo Nesbø “Macbeth” Corriere Profondo Nero 6 euro 7,90

[A: 13/09/2019 – I: 16/10/2023 – T: 18/10/2023] - & --

[tit. or.: originale; ling. or.: norvegese; pagine: 612; anno 2018]

Due delusioni, di cui, però, una è solo una conferma. Questa collana del Corriere dedicata alle opere “noir” più scure (profonde come dice il titolo) continua ad essere deludente, ed anche quando (seconda delusione) viene proposto un autore che potrebbe (dovrebbe) fornire prove quanto meno interessanti, si cade nello sconforto. Un’occasione interessante che produce un risultato insoddisfacente.

Tutto comunque nasce da un progetto della Hogarth Press, mitica casa editrice fondata nel 1917 da Virginia Wolf, ma ora di proprietà del colosso Penguin Random House, di sviluppare un progetto commerciale coinvolgendo autori contemporanei nel riscrivere, aggiornandole, le opere di Shakespeare.

Come parte del progetto, quindi, Nesbø si impegna in questo Macbeth, lasciando di lato sia Harry Hole che il Pescatore, le sue opere seriali, prendendo l’intera trama shakespeariana e trasportandola negli anni ’70, con un ambiziosa idea di aggiornamenti.

L’idea è senz’altro degna di nota, come anche la fantasia realizzativa dell’autore. Tuttavia il risultato non è all’altezza delle ambizioni. Ricalcando con assoluta fedeltà l’andamento shakespeariano, il testo è realmente fruibile solo da chi padroneggia pienamente l’opera teatrale. Non esiste il romanzo se non si tengono a mente le continue referenze e citazioni. Questo, però, invece di insaporire la trama la appiattisce. I personaggi diventano maschere di altro, non se ne riesce a percepire uno spessore diverso da quello originale. Così che non solo sappiamo cosa succederà, ma sappiamo (dopo aver capito il meccanismo narrativo dell’autore) anche come, con quali implicazioni, con quali modalità.

La base traspositiva di Nesbø è ambientare la vicenda in un immaginario paese intorno agli anni ’70, dove, in una descrizione che rimanda spesso al primo “Blade Runner” (ma anche a “1999: fuga da New York”) si aggirano i personaggi shakespeariani. La città (forse l’idea migliore) è corrotta, e i nobili scozzesi qui sono rappresentati con differenti gradi della polizia locale. Il soprannaturale originario scompare completamente, sostituito dalla droga che pervade il mondo. Sono le lotte di potere, le lotte economiche, la corruzione gli assi portanti del nuovo ambiente. Un’idea certo buona ma forse poco veramente originale.

Per fare un parallelo, quindi, abbiamo Duncan, il re scozzese, trasposto come Commissario Capo, Macbeth a capo della SWAT (e se vedete le serie tv capite subito il motivo), McDuff, abbreviato in Duff, capo dell’Anticrimine, e Lady Macbeth diviene una ex-prostituta che ora gestisce il più esclusivo casinò della città. La strega Ecate, infine, diventa il capo del cartello criminale dedito allo spaccio della droga.

Duncan, come Capo della Polizia, vuole combattere la droga e la corruzione. Macbeth (una giovinezza da drogato) sventa l’arrivo di nuova droga e viene nominato da Duncan numero due, suscitando la gelosia di Duff (compagno di Macbeth nella scuola di polizia). Ecate, tramite suoi accoliti, manda messaggi di luminoso futuro a Macbeth, che non se ne interessa più di tanto. Mentre suscitano le bramosie della sua compagna, Lady, che vede nei tentativi opposti di Duncan ed Ecate una minaccia al suo impero dei casinò.

Sarà Lady che sobilla Macbeth, convincendolo ad uccidere Duncan. Cosa che il nostro farà chiedendo aiuto al suo secondo Banquo. Ma il messaggio di Ecate contiene anche altre minacce: sarà la progenie di Banquo a prendere il potere. Motivo per cui Macbeth uccide il suo sodale, ma non Fleance, il figlio. Duff, scoperta la china che sta prendendo Macbeth, decide di contrastarlo, unendosi a Fleance e a Malcom, il figlio di Duncan.

In una serie di successivi attentati e contro attentati, Lady stermina la famiglia di Duff, un luogotenente di Macbeth fa saltare in aria Ecate, ed in una scena finale, si affrontano gli ex-amici Duff e Macbeth. Il primo comunica a Macbeth che Lady si è suicidata, e Macbeth, ormai senza speranze, si fa uccidere da Duff.

La città viene ripulita dai commercianti di morte, forse si prospetta un nuovo futuro, ma Nesbø, da buon pessimista, ci fa sapere che, alla fine, la corruzione in qualche modo risorgerà. E tutto tornerà come prima, se non peggio.

Come vedete (non penso di aver detto troppo che chi conosce l’opera di Shakespeare sa già l’andamento della trama) il filo rosso della trama ripercorre, con le dovute attualizzazioni l’opera. Ma non porta nuova linfa, i personaggi fanno quello che ci si aspetta, agendo appunto come delle maschere senza nessuno spessore. L’unico elemento innovativo è la descrizione ambientale, che riesce discreta e abbastanza attuale. Tuttavia è un po’ poco per far salire il giudizio sull’opera.

Siamo ben lontani da “West Side Story” che rilegge “Romeo e Giulietta”!

Arne Dahl “Inferno bianco” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9,60 euro)

[A: 28/10/2019 – I: 06/11/2023 – T: 08/11/2023] - &

[tit. or.: Inland; ling. or.: svedese; pagine: 411; anno 2017]

Al solito, le mie letture svedesi sono ondivaghe. Dopo aver passato anni su altro, ecco che dopo solo tre mesi ritorno su Arne Dahl e su questa che, secondo le bibliografie pubblicate, è la terza serie del sessantenne scrittore.

Purtroppo, questa seconda puntata delle “Inchieste di Sam Berger e Molly Blom” è precipitata verso il basso. Non solo molto inferiore alla prima, ma anche abbastanza confusa, senza riuscire ad essere autonoma (se si è saltata la prima parte, alcuni passaggi devono essere presi per buoni senza ricordarsi cosa avvenne in realtà), ed inoltre rimandando ad una terza puntata, che gli interrogativi fondamentali rimangono aperti ed insoluti.

Per fare solo un esempio molto parziale, ogni tanto si fa riferimento ad un orologio Patek Philippe Calatrava, che era stato il perno della soluzione del primo caso, dove le scene del crimine venivano inquinate da piccoli ingranaggi dello stesso, in modo da cercare di incastrare nel crimine il possessore di quel piccolo tesoro. Lo leggi, non capisci, passi oltre, poi ti accorgi che anche qui si stanno seminando indizi mal posti, ed allora ti domandi se hai dimenticato tu qualcosa o se l’autore abbia fatto “un gran calderone”.

Intanto cominciamo dal titolo. Perché “Inferno bianco”? È vero, c’è molta neve nel corso della vicenda, ma il titolo originale va riferimento all’entroterra, a quella zona svedese incuneata tra Norvegia e Finlandia, una volta territorio sami. Secondariamente, quella zona è anche indicabile come “Punto Zero”, cioè una zona dove, per le caratteristiche territoriale e per la difficoltà di coprirla con una fitta rete di cellule ripetitrici, è spesso irraggiungibile dalle comunicazioni, restando isolata di modo che, chi volesse cercare un rifugio dove essere irreperibile, potrebbe recarsi in quella zona. E scomparire dai radar di tutte le strutture che lo ricercano.

Inoltre “Inland” è il nome dell’ultimo tratto svedese di una delle più belle strade europee, la E45, una strada di 5190 km, che unisce Alta in Norvegia a Gela in Sicilia. E quasi tutte le avventure del libro si svolgono in cittadine lungo la E45: Jokkomok, Porjus, Gällivare. Solo l’aeroporto si trova ad Arjeplog, fuori zona ed a 200 km dal punto zero (mentre Stoccolma si trova circa mille chilometri a sud).

Tutta la vicenda poi è soffusa da un senso onirico: Sam è spesso confuso, non sa dove si trova, sembra quasi procedere a tentoni. In una trama che parte dal primo episodio, dove c’è la figlia di un rifugiato mediorientale rapita. Per capire qualcosa, Sam chiede aiuto ad una collega esperta di internet che, prima di rivelargli i segreti, viene uccisa. E lui viene incolpato e deve fuggire. Appunto, nel punto zero. Aiutato da Molly.

Qui la trama si complica, aggiungendo la ricerca di qualcuno che uccide donne con figli maschi. Lui e Molly lavorano al Nord, aiutati dalla collega di Sam, Deer che agisce a Stoccolma. Si susseguono agnizioni, ipotesi, ricerche collaterali. Collegamenti anche qui con il primo episodio, in special modo per una serie di interrogatori che vengono ripresi, riproposti, letti in una luce nuova. Con i nostri due che sono sempre sull’orlo del pericolo.

Inoltre, sembra che Molly faccia comunque il doppio gioco e che qualcuno che non conosciamo li spii da lontano. Insomma, un guazzabuglio che la metà basta. Ovvio che anche Deer si trova in pericolo, ma quando sembra avere la peggio, si scopre che è solo caduta in una buca. Da ridere! Mentre Molly viene realmente rapita dai cattivi (di cui veniamo a conoscenza a tre quarti del libro, senza però una vera indagine degna di un giallo ben strutturato).

Con un po’ di fortuna, Sam capisce i vari collegamenti, arresta qualcuno, si pone sulle tracce di Molly, che ritrova viva ma in coma. E mentre sta salvando Molly, la talpa (che li spiava da lontano, e che era la persona che forse serviva a risolvere il mistero del rapimento) uccide la persona arrestata con la pistola di Sam.

Così che alla fine abbiamo Sam sempre incolpato di delitti che non ha commesso e Molly in coma. Ci meravigliamo che sia pronta una nuova puntata della serie?

Pensavo che Dahl potesse migliorare rispetto alle mie letture passate; invece, mi pare che voglia rendere sempre più complicate trame già non semplici. Anche i personaggi poi non risaltano più di tanto. Erano delineati del primo episodio, mentre qui sembrano più personaggi a due dimensioni. Insomma un po’ piatti.

Sono veramente perplesso sulla possibilità di portare avanti la lettura di altri episodi.

Date queste premesse, comunque, ben si collocano due citazioni di un altro autore svedese, Håkan Nesser. Sono tratte dal quinto episodio della saga del commissario Van Veeteren, “Il commissario e il silenzio”, collocate all’inizio ed alla fine del libro: “Perché no?... doveva pur essere una faccenda abbastanza semplice lavare una verità retroattiva dalla sabbia della menzogna. Ma come mi esprimo elegantemente oggi… dovrei cominciare a scrivere le mie memorie, un giorno o l’altro” (18) e “Non esistono combinazioni [risolutive] … se la vita è un albero, non deve necessariamente esserci una così gran differenza se si finisce su un ramo o sull’altro… per trovare la radice” (301).

Beh, credo che il 28/01 sia una giornata cardine delle ricorrenze: ben cinque persone, tra parenti e amici, compiono gi anni oggi, dai più di sessanta ai meno di quaranta! Noi, ormai oltre, invece ci dedichiamo alla difficile opera di organizzare viaggi, per me, per noi ed anche per qualche amico. Lavori delicati. Tanto che mi consumo occhi ed orecchi, ed ho quindi bisogno di un abbraccio.

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