domenica 18 febbraio 2024

Meglio l'America del Sud - 18 febbraio 2024

Ancora, stranamente, una settimana senza titoli inglesi. Anzi con libri e romanzi molto “latini”, anche se lo spagnolo è quello dell’America del Sud. Luogo dove fiorisce il migliore della settimana, l’opera complessa dell’argentino Ricardo Piglia, unico oltre la sufficienza. Poi abbiamo l’uruguayano Onetti (d’origine irlandese come dice il nonno O’Nety) ed il francese Pennac (d’origine italiana, come dice il cognome Pennacchioni) con delle prove oneste e con qualche spunto. In fondo, purtroppo, gli italiani. Sia Bajani, con un libro che ha fortunatamente alcuni spunti, sia Bocci, che di spunti non ne ha ed è forse meglio lasciar da parte.

Daniel Pennac “Capolinea Malaussène” Feltrinelli s.p. (Regalo di Raul&Viviana)

[A: 07/05/2023 – I: 21/05/2023 – T: 23/05/2023] - &&

[tit. or.: Terminus Malaussène – Le Cas Malaussène 2; ling. or.: francese; pagine: 395; anno 2023]

La scrittura iperbolica di Daniele Pennacchioni, in arte Daniel Pennac, non ci lascia neanche in questo che, per stessa ammissione dell’autore, dovrebbe essere l’ultimo libro della saga di Belleville. Ho sempre voluto bene a Daniel, da me incontrato più di trent’anni fa all’uscita del primo libro della saga (“Au bonheur des Orges”), l’ho addirittura amato in “Come un romanzo”. Poi ne ho notato la ripetitività, la voglia quasi di “épater les bourgeois”, l’invenzione per l’invenzione. E me ne sono allontanato.

Ho voluto tornare sui miei passi proprio qui, per seguire le ultime vicende di Benjamin Malaussène e famiglia (allargata), facendo anche un’operazione rischiosa. Che in realtà l’ultimo atto è cominciato nel libro precedente a questo, che non a caso si sottotitola in francese “Le Cas Malaussène 2”, essendo una diretta conseguenza di “Le Cas Malaussène 1”, che ha par titolo “Mi hanno mentito”. Rischiosa perché la storia fluisce tra i due romanzi, e la mancata lettura rischia di dare una visione monca alla fine.

Fortunatamente, non è stato proprio così. Certo, qualche passaggio è saltato, ma i rimandi ci fanno ricostruire tutta la storia. Sfortunatamente, le invenzioni, i mascheramenti, i “sono io ma forse sono altro”, non prendono. E l’unica cosa che si salva è la sarabanda finale, con tutti gli attori sulla scena, più uno. E non vi dirò certo chi sia questo più, che potrebbe rischiare di smentire la volontà di Pennac.

Come al solito, tuttavia, molte sono le letture degli scritti di Pennac. Che c’è la storia che si snoda tra le pagine. Poi ci sono le storie dei vari personaggi, le digressioni, i proclami sottesi e le affermazioni palesi. Ma di tutta questa parte non si può parlare se non facendo quell’operazione alla Borges, dove per essere precisi nella descrizione di un paesaggio, per farne una mappa, non si può che riproporla in grande 1:1. Cioè, leggetene.

Io brevemente accenno alla prima parte. C’è un rapimento, sparatorie tra poliziotti e finti poliziotti, un contro-rapimento, ed una serie di smascheramenti vari. Tutto incentrato sulla figura di tal Nonnino, un super cattivo capace di svuotare le persone di qualsiasi identità per trasformarle in un esercito votato al crimine. Che riesce a rapire il rapito, in quanto questi ha molte informazioni su tutti i potenti. E chi ha le informazioni, ha il potere (questa l’ho già sentita).

Poiché i Malaussène si mettono di traverso, Nonnino è deciso a farli fuori tutti. Insomma, un duro senza pietà, che ha solo un punto debole: una passione sconfinata per un piatto della cucina francese, le “gratin dauphinois” (in Italia talvolta mal tradotto come “patate al gratin”).

E per la trama, questo è tutto.

Non per la tribù, che visto siamo all’ultima puntata, tanto vale farla uscire in passerella, almeno nei suoi componenti di famiglia, che indico con i nomi usati nella traduzione, indicando in parentesi quello originale francese.

Si comincia con Benjamin Malaussène il punto centrale, colui che veglia su tutta la famiglia, in special modo quando si eclissa “la madre”; è il Capro Espiatorio (Bouc Emissaire) per antonomasia, ed è così utilizzato sin dal primo libro, quando lavoro all’Ufficio Reclami di un Grande Magazzino. Libro in cui incontra e si innamora di Julie Corrençon, con cui farà un figlio. Per la sua vocazione, finisce sempre nei guai, e sono gli altri membri della famiglia che, a turno, dovranno salvarlo. Ed a ruota c’è Mamma (“La mère”) verso i 50, rimane incinta sette volte, sempre di uomini diversi con cui fa fughe d’amore; solo a Venezia con l’ispettore Pastor non produrrà prole. Nessuna sa come si chiama, è sempre e solo "graziosa come una mamma".

Vengono quindi gli altri sei figli. Louna la sorella maggiore, prima infermiera, ora consulente matrimoniale, vive un gran rapporto d’amore con il dottor Laurent con cui farà due gemelle. Il solo membro della tribù che non vive con il resto della famiglia. Clara la sorella mezzana, dedita alla fotografia, dove immortala l’esatta realtà del soggetto nel momento della foto. Avrà un figlio da Clarence (che possiamo ignorare) ed è la sorella prediletta di Benjamin. Thérèse la sorella minore, la Cassandra della famiglia, anche se poi tutti credono alle sue predizioni. Che però finiranno quando farà l’amore, e si consolerà con la nascita di una figlia. Jérémy turbolento, vivace sin dall’infanzia (è lui che risolve il mistero del primo libro). È il “Battista” della famiglia, dando nomi a tutti componenti della famiglia nati dopo di lui; attualmente neurochirurgo. Il Piccolo (Il piccolo) ha solo sei anni nel primo libro, ma ora è un famoso astrofisico alto quasi 2 metri; ha soventi incubi che si placano solo quando mette gli occhiali. Verdun l’ultima figlia diretta della famiglia, ha il potere di urlare a perdifiato, calmata solo prima dalle braccia dell’ispettore Thian, poi da quelle della figlia di lui Gervaise; ora è giudice istruttore.

E poi ci sono i nipoti È Un Angelo (C'Est Un Ange), figlio di Clara, Maracuja (detta Mara) figlia di Teresa e Signor Malaussène (Monsieur Malaussène) figlio di Ben e Julie soprannominato Sigma (Mosma). Un inciso che il soprannome venendo dalla crasi del nome si è dovuto in italiano modificare il Monsieur con SIGnor.

La fine sfortunata del libro non è poi dovuta al suo contenuto, ma alla mia imperizia. Lo stavo leggendo a colazione, quando un’improvvida mancanza di presa ha fatto saltare una buona parte del caffellatte nella parte inferiore del libro, rendendolo di un poco grazioso color brunito.

In fondo, io mi sono divertito più a scriverne che a leggerlo, e di questo non posso che essere grato all’autore.

Andrea Bajani “Il libro delle case” Feltrinelli euro 17 (in realtà, scontato a 13,60 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 03/11/2023 – T: 04/11/2023] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 251; anno: 2021]

La curiosa storia personale di questo libro nasce da una serie di accidenti e da qualche dimenticanza. Segnalato al premio Strega nel 2021 (che poi fu vinto da Emanuele Trevi con “Due vite” che ho letto e giudicato migliore di questo), entrò anche nelle segnalazioni che seguivo al tempo nelle pagine di Robinson, il supplemento letterario di Repubblica (che poi ho gradualmente abbandonato, insieme al giornale madre), decisi di comperarlo con gli sconti ricevuti per il mio compleanno di quell’anno.

Rimase però a lungo (due anni) sugli scaffali non avendo trovato la spinta a leggerne. Ora, venuto il suo tempo, ho scoperto che era anche un libro fallato, saltando da pagina 125 a 146. Fortunatamente, Feltrinelli ha provveduto a cambiarlo con una copia integra, che ho quindi letto, gradito nella facilità di idee, ma che, alla fine, non ho trovato di un livello sufficiente ad un giudizio totalmente positivo.

Certo, l’idea di base, quella cioè di raccontare la vita di un uomo attraverso le case della sua vita, è senza dubbio stimolante. Come anche alcuni passaggi in alcune situazioni, su cui tornerò. Di gratitudine media l’uso dell’impersonalità dei personaggi, che non vengono chiamati per nome, ma per funzione. C’è Io, il protagonista-narratore. E poi ci sono Padre, Madre, Sorella, Nonno, Moglie, Bambina. Quello che mi è rimasto estraneo del tutto è l’inserimento di due personaggi storici nel flusso narrativo, dove capisco possano aver segnato anche profondamente lo scrittore, ma che, in questo contesto, ogni volta mi apparivano come elementi aggiunti, senza però aggiungere nulla al corpo del romanzo. Per essere precisi, questi erano il Prigioniero (Aldo Moro) e il Poeta (Pierpaolo Pasolini).

La narrazione, quindi, procede entrando e uscendo da una quarantina di “case” sparse nei 78 frammenti che costituiscono il testo. Con una struttura che ci rimanda, bene o male, la vita di Io dalla sua nascita, 1975, all’oggi. C’è qualche salto indietro inessenziale, ed uno in avanti, verso il 2048, anch’esso per me poco utile al corpo narrativo.

Ovvio, che una narrazione piana, una cronologia consequenziale, poteva essere un resoconto banale di una vita altrettanto banale. Ecco allora che i quadri si scompongono in un su e giù temporale che serve a tenere sveglio il lettore, che è sfidato a ricordarsi i collegamenti tra i vari momenti vissuti da Io. Che forse così risulta più interessante per alcuni, che sembra doversi ricostruire un disegno unendo i puntini, come nella “Settimana Enigmistica”. Io, inteso come lo scrivente di questa trama, avrei preferito seguire l’evoluzione del protagonista, al fine di capire, azione dopo azione, come raggiunge (se la raggiunge) la sua maturità.

Faccio un esempio. Ad un certo punto, verso i tre quarti del libro, c’è un capitolo che narra una forte crisi tra Padre e Madre, forse (se ho capito bene) dovuta ad un qualche tradimento paterno. La scena è forte in sé, ma se collocata temporalmente avrebbe potuto spiegare alcune decisioni di Io (il narratore) che, magari, decide di andare via di casa, di andare a Parigi, di sposarsi o altro. Così, solo alla fine abbiamo una fotografia migliore della vita di Io, ma se chi legge si distrae un pochino, finisce che questa foto risulta sfocata.

Rimane l’idea delle case e della loro collocazione temporale, aiutata dalle date postevi accanto. Abbiamo così la “casa del sottosuolo” (questa e le seguenti sono alcune delle case ricorrenti) che descrive l’appartamento romano dove Io passa l’infanzia, la “casa sotto la montagna”, situata a Torino dove si è trasferita la famiglia di Io, oppure la “casa dell’adulterio”, luogo degli incontri di Io con la sua amante sposata.

Poi ci sono le case che entrano una volta sola per indicare momenti “topici” di Io: la “casa della felicità”, la “casa di Nonno mai esistito”, la “casa del gasometro”. E ci sono luoghi che sono case solo come contenitori o indicatori, ma che sono altro: la “casa della voce” è la cabina telefonica da cui Io telefona a Donna sposata, la “casa del risparmio” indica un conto corrente.

Se osassimo fare un sunto, direi che Io, nato nel 1975, ha un buon rapporto con la famiglia, eccetto che con il Padre, non accetta il trasloco a Torino, dove però si laurea, ha una storia con una donna sposata, poi si reca (per studio, credo) all’estero, spesso a Parigi, si sposa con una donna che ha già una figlia, divorziano (per motivi a me ancora oscuri), ed infine ritorna verso Roma, dove succede altro, ma non interessa la mia narrazione.

Una sola casa a me rimane nella memoria, e li resta. La “casa del persempre”, una casa tonda, senza spigoli, lucente, senza nessun mobilio, solo un graffito interno, con un nome ed una data. Spero che sia anche la mia, quella di quel per sempre, che Bajani non consente ad Io di seguirla sino in fondo.

Forse troppo innamorato dall’idea scatenante, il libro si attorciglia in po’, e non sfrutta a pieno le possibilità concesse dall’idea stessa. Interessante, ma non stravolgente.

Marco Bocci “A Tor Bella Monaca non piove mai” Dea Planeta euro 12,90 (in realtà, scontato a 10,95 euro)

[A: 27/01/2020 – I: 11/12/2023 – T: 13/12/2023] &   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 219; anno: 2013]

Marco Bocci nasce attore, raggiungendo una buona popolarità interpretando il commissario Nicola Scialoja in Romanzo criminale, per poi scoprirsi una vera libraria riversando in questo libro pensieri e ricordi della periferia romana, povera e degradata, e riuscendo a tradurre il libro in un film di cui è regista. Tuttavia, e non parlo del film che non ho visto, il libro pur presentando situazioni reali e concrete, non riesce ad entrare nel cuore del lettore.

Forse perché non c’è nessuna empatia con i vari personaggi, e nessuno assurge al ruolo di nostro contraltare, uno che speriamo possa avere uno scatto positivo e dare una svolta al dramma che si costruisce pagina dopo pagina. Sono tutti dei perdenti, e, con molto realismo, tutti in verità perdono. Si mettono in situazioni difficili, fanno scelte sbagliate, e non possono che ricevere bastonate dalla vita.

Con poca fantasia onomastica il personaggio principale si chiama Mauro Borri (stesse iniziali e stessa lunghezza di nome e cognome dell’autore). Uno che avendo poca voglia di studiare, ha deciso di tentare la strada dei concorsi pubblici, sperando, tra fortuna e raccomandazione di riuscire che so ad entrare in qualche ramo comunale o postale. Intanto, per sbarcare il lunario, fa il distributore di volantini e l’attacchino per uno squallido del quartiere, non a caso soprannominato “lo Sciacallo”.

Stava con Samantha (con l’h, mi raccomando), che lo lascia in quanto senza prospettive (anche se non smette di frequentarlo intimamente) e si piazza con una persona d’età, che almeno le garantisce un tetto stabile e soldi non tanti ma sicuri.

C’è Romolo, il fratello di Mauro. Ha fatto qualche sbaglio (del genere rapine) ed è in libertà condizionata. Vive con moglie e figlia di due anni nella casa di famiglia (dove sono in realtà un po’ stretti, genitori Borri, famiglia di Romolo e Mauro), lavora in fabbrica e deve presentarsi periodicamente ad un colloquio in carcere per controllare il buon andamento del recupero sociale. Cerca di rigare dritto, anche se i soldi sono pochi, e viene anche ricattato dal capoccia della fabbrica che lo vorrebbe delatore per licenziare qualcuno (in particolare il cinese Liun) ed assumere persone a lui gradite.

C’è la madre Borri, perennemente colpita da una “cipolla” al piede che le impedisce di camminare correttamente, ma non ha soldi per l’operazione. C’è il padre Borri che ha una piccolo seminterrato affittato al faccendiere Ciro, che però da nove mesi non paga l’affitto ma che non si riesce a sloggiare. C’era la nonna Borri, ma è appena morta, togliendo quel poco di serenità (e di piccola pensione) a tutta la famiglia.

Poi ci sono i due sbandati amici di Mauro, Fabio e Domenico, sempre un po’ sballati di fumo, che intravedono una possibilità di “svoltare”. Hanno visto girare buste piene di soldi la domenica sera, in un capannone, il tutto gestito da un cinese (casualmente il padre di Liun), senza nessuna protezione. Un colpo assai semplice, che consente ai tre di mettere le mani su un buon bottino tutto in banconote da 500 euro.

E con i soldi, Mauro si rimette con Samantha, Romolo compra un televisore, la mamma si opera e il padre fa finalmente sloggiare Ciro. Ma sarà vera gloria? A voi la lettura per scoprirlo.

La domanda che sottende tutto il romanzo è se cattivi si nasce o si diventa? E come si vede un futuro sereno all’ombra di questi casermoni di periferia che un futuro sembra non farcelo mai vedere?

La scrittura però è molto semplice, priva di spunti, che ci fa seguire le vicende senza mai darci uno slancio affettivo verso i protagonisti. Tra l’altro, la mia “innocenza” da lettore di centro città, non mi aveva fatto intuire che la mancanza di pioggia del titolo non era un fenomeno atmosferico, ma un riferimento sociali, laddove “piovere” significa letteralmente che non si vedono guardie in giro.

Il tarlo positivo che mi ha messo la lettura riguarda invece la natura del nome della borgata. Ho scoperto, in rete, che tutto nasce nel 1300 quando in quella località un tal Paolo Monaca fece costruire una torre, che per brevità e contrazione del nome divenne nei documenti del 1600 una “Torre Pala Monaca”, divenendo il secolo successivo “Torre Bella Monaca”. Un nome alimentato dalla leggenda che, per il giubileo del 1450, Santa Rita da Cascia fece una sosta in quella torre prima di arrivare dal papa. Divenendo così ufficialmente all’inizio dell’Ottocento quella che noi ora conosciamo: Tor Bella Monaca. Spigolature, ma niente più.

Juan Carlos Onetti “Il cantiere” Repubblica Latino-americana euro 9,90

[A: 19/08/2020 – I: 05/01/2024 – T: 06/01/2024] - && -   

[tit. or.: El Astillero; ling. or.: spagnolo; pagine: 185; anno 1961]

Juan Carlos Onetti è uno dei pochi scrittori sudamericani che, sfuggendo a classificazioni e schemi vari, può dire di aver avuto un’ampia consacrazione fuori dal mondo di lingua spagnolo. Di certo è noto, di certo se ne parla come uno scrittore ed una persona degna di interesse, ma che poi scompare, purtroppo, all’apparire di un Borges o di un Garcia Marquez.

Scrittore uruguaiano, con i nonni di origine irlandese (il nome originario era O’Nety, poi modificato, al tempo della cittadinanza, nel più sudista Onetti), costruttore di un suo mondo immaginario (come vedremo) un po’ come Faulkner, ma anche come un Haruf ante-litteram, comunque attento indagatore della realtà in cui vive. Tanto che viene imprigionato per sei mesi dalla giunta militare argentina, per poi allontanarsi per sempre dal Sudamerica, e trasferirsi a Madrid nel ’76 dove rimarrà fino alla morte nel ’94 a 85 anni.

La genesi dei libri più importanti di Onetti è appunto l’intrecciarsi delle trame verso una città immaginaria, emblema fittizio di tutte le città rioplatensi che si possono immaginare. Santa Maria, il “suo” luogo nasce dalla sua prima e più nota opera, “La vita breve” del ’51, quando il protagonista, Brausen, immagina di scrivere una storia ambientata in questa cittadina sulla riva del fiume. Una storia nella storia, dove Brausen narra le avventure del dottor Diaz Grey, e dove compare di sfuggita un tal Larsen.

In questo “cantiere” è proprio Larsen ad essere il personaggio principale, narrato da un “io” onnisciente ma con qualche intervento del dottor Grey. Larsen che viene etichettato con il suo soprannome Raccattacadaveri (“Juntacádaveres”), che diverrà il titolo di un successivo romanzo dove si narra la storia di Larsen prima di questo libro. Ma dove l’altro protagonista muto è la decadente cittadina di Santa Maria, in cui, nella piazza principale, compare la statua del Fondatore della città, Juan María Brausen.

Qui vediamo Larsen tornare dopo cinque anni in città, dopo che ne era stato allontanato per motivi che solo nel libro successivo capiremo. Vediamo solo che Larsen ha voglia di rivincita e pianifica tutte le sue azioni per tornare ad avere un ruolo di primo piano come era un tempo.

Pianifica quindi, ed ottiene, di farsi assumere come direttore generale del cantiere navale di Jeremias Petrus. Pianifica inoltre una corte spietata, ma che non riuscirà a coronare di successo, verso la figlia di Petrus, Angelica Ines, con lo scopo finale di sistemarsi ed ottenere l’eredità del vecchio, se e quando questi deciderà di morire.

Ma il cantiere è un “buco immondo”, un ammesso di cose in rovina, pieno di scartafacci che Larsen comincia a consultare per capire cosa realmente sia salvabile ed utilizzabile. In questo aiutato da Kunz il contabile e Galvez il tuttofare. Ma Angelica Ines è una demente che agisce come una bambola viziata, non comprendendo una sola delle cose che va tramando Larsen, ma che, nella sua lucida pazzia, respinge inconsapevolmente.

La lotta di Larsen rappresenta un tentativo di redenzione di un personaggio eternamente sconfitto, come sarà anche lui alla fine. Tenta di inserirsi nel tessuto sociale, nella tribù di Kunz e Galvez, cerca la solidarietà anche della donna di Galvez, cercare di capire i buchi economici nei conti di Kunz. Tutto inutilmente. Fino al precipitare degli eventi. Galvez denuncia Petrus per un titolo d’acquisto falso, ed il castello del cantiere e della vita di Larsen si sgretolano sotto i nostri occhi. Il cantiere è in perpetuo fallimento, e lui Larsen non è altro che il guardiano finale di un regno che è già un ammasso di macerie in rovina.

Fin dall’inizio tutti sanno come andrà a finire, e tutti, ma soprattutto Larsen, non riesce a far nulla per evitare la sconfitta finale. Onetti inanella un gioco di scrittura magistrale, utilizzando tutte le scritture che conosce per farci arrivare alla fine note. Il racconto si frammenta in piccoli racconti, i punti di vista cambiano senza apparente motivo, vengono chiamati in causa i personaggi del fittizio passato. Tutto per comporre la figura dell’eterno sconfitto.

Ci sono poi tre luoghi eponimi che accompagnano il cantiere nella sua rovina: il bersò, quel pergolato rivestito da rampicanti ornamentali dove Larsen tenta inutilmente di sedurre Angelica Ines; la casupola dove trascorre le sue giornate; la bettola dove entrerà per accompagnarsi a Galvez e che sarà testimone della sua discesa verso il nulla.

Di certo è un viaggio dolente, forte, che colpisce. Ma che purtroppo non prende, e non credo che sia soltanto per i sessant’anni della scrittura. Rimane un qualcosa di sospeso che non mi ha permesso di andare oltre ad un apprezzamento cerebrale del testo, senza emozionarmi.

Un ultima osservazione mi sorge dagli approfondimenti in rete. Perché al titolo originale che si riferisce ad un cantiere navale è stato tolto l’aggettivo qualificativo? Mistero, anche perché, in tutte le traduzioni le navi scompaiono.

Ricardo Piglia “Respirazione artificiale” Repubblica Latino-americana euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 15/01/2024 – T: 18/01/2024] - &&&& --   

[tit. or.: Respiración Artificial; ling. or.: spagnolo; pagine: 219; anno 1980]

Piglia ti prende sempre in contropiede, o lo fa verso chi dice di conoscerlo e non lo conosce. Avevo letto credo un anno e mezzo fa “Solo per Ida Brown”, che qualcuno aveva inserito in una collana di gialli, mentre è un romanzo a tutto tondo. Al contrario, questo che Repubblica giustamente pubblica nell’ambito di un panorama sulla letteratura latino-americana, i critici in rete lo consideravano un giallo, e così pensavo io. Ma a valle della lettura è invece anche questo un romanzo duro e puro, con un andamento tortuosamente interessante e stimolante. Al limite della comprensibilità.

Non per lo scritto in sé, né sulla storia, o almeno sulla storia superficiale, che poi ce n’è un'altra sotterranea tutta da interpretare, quanto nella sovrabbondanza di riferimenti interni al mondo dello scrittore. Una somma di rimandi a uomini politici e uomini di lettere argentini dove non basterebbe una Treccani locale per venirne a capo, anche se, in questa edizione, è presente un corredo di note che tentano, per i non informati come me, di chiarire alcune dinamiche ed alcuni riferimenti.

Purtroppo, noto l’erroneità dei rimandi che sarebbe stato meglio inserire in modo intertestuale. Al contrario le note fanno riferimento alla pagina in cui il nome, l’avvenimento è citato, così che, ad essere precisi, bisognerebbe leggere il libro, e poi rileggerlo con le note a fianco, per interpretare meglio quanto scritto.

Vediamo allora i vari piani di lettura. C’è la storia che ho chiamato superficiale: la ricerca di un incontro tra Marcelo Maggi ed Emilio Renzi, entrambi scrittori, zio e nipote. Si scambiano informazioni, si mandano lettere e messaggi, combinano un luogo di riunione, dove converge Emilio ma dove non trova e non troverà mai lo zio. Qui scatta il meccanismo che Piglia mescola sempre facendo sembrare il romanzo un giallo alla ricerca dello zio scomparso. Ma non è così.

Perché questo è un romanzo sulla scrittura e sulla politica. Infatti, comincia tutto dalla stanza da dove l’autore scrive. In quella stanza, che affaccia su Plaza del Congresso, Ricardo, dal luglio ’77 al marzo ’80, compone questo suo “grido di dolore” per la sua patria occupata dai militari. Vede le parate sfilare nella piazza, riflette sui desaparecidos e sulla “Guerra Sporca” e, attraverso iperboli e rimandi, denuncia lo stato del paese (ecco perché lo ritengo un libro difficile, che non è che tutti siamo preparati sulla storia locale). Tant’è che il libro è dedicato a due fra i suoi tantissimi amici scomparsi.

Entrando ancora più in dettaglio nella costruzione, il libro è diviso in due parti. La prima parte comincia con un epistolario tra Marcelo ed Emilio. Il primo sta scrivendo un libro su un tal Enrique Ossorio, elemento ottocentesco della storia argentina, suicida ed additato come traditore ma di cui Marcelo vuole riabilitare la memoria. Anche perché ne ha sposato una discendente ed è in possesso di carte che nessuno conosce.

D’altra parte Emilio Renzi, il nipote, ha appena scritto un romanzo proprio sullo zio e sulla di lui carriera politica e sociale. Motivo per cui Maggi lo cerca. E dopo queste lunghe lettere di scambio già piene di nomi per loro illustri: generali, capi di stato, rivoltosi, politici, attivisti, nonché di una nutrita schiera di intellettuali, scrittori, poeti, alcuni dei quali notissimi, ma molti oscuri o quasi, lo zio invita il nipote ad incontrarsi nella cittadina di Concordia.

Dove Emilio si reca e non trova lo zio, ma un esule polacco, di nome Tradewski, amico di Marcelo e custode delle carte che Marcelo vuol far recapitare al nipote. E qui c’è tutta la seconda parte, piena di dialoghi tra i due, di altre lettere, di frammenti di un libro anch’esso in forma epistolare, ma soprattutto da lunghi e tortuosi monologhi del polacco.

Tardewski era stato allievo di Wittgenstein (e chiuderò con il filosofo questa trama), e da questa seconda parte, e dalle sue parole si avvia una serie di incontri a due (anche non fisici) che danno corpo al testo. C’era stato il dittico Maggi/Renzi, e narrato il rapporto Maggi/Tardewski. Ora in questo Renzi/Tardewski, si innescano tanti altri: Borges/Arlt (sulla letteratura argentina), Cartesio/Hitler (sul metodo e la pazzia), e Kafka/Hitler con un passaggio di un’invenzione sublime.

Senza entrare in tutti i meandri delle invenzioni di Piglia, non posso non entrare nel dettaglio in quella che per me rappresenta il fulcro della trasposizione e della denuncia velata. Il polacco sta facendo ricerche nel British Museum per la sua tesi su Ippia. Ricordo ai meno adusi sui sofisti greci, che Ippia era noto poiché si vantava che, avendo una prodigiosa memoria, poteva parlare con cognizione di qualsiasi argomento. In questa sua ricerca gli capita per errore tra le mani una copia annotata del “Mein Kampf” di Hitler che legge e confronta con un testo che per lui è l’inizio della modernità, il “Discorso sul Metodo” di Cartesio. Piglia qui ci porta con mano alla sua tesi sul fatto che il Mein Kampf è il perfetto rovesciamento del pensiero di Cartesio. In Hitler il dubbio non ha diritto di esistenza, è solo un segno di debolezza.

Non solo, ma studiando le note Tardewski scopre un buco nella biografia hitleriana: dall’ottobre del 1909 all’agosto del 1910 Hitler non è a Vienna, ma per sfuggire al servizio militare si rifugia a Praga, dove frequenta il caffè Arcos. Che non è altro che il caffè dove spesso capitava Franza Kafka, trascinato lì dal suo amico Max Brod. Ed il nostro ricercatore polacco (altra bella invenzione di Piglia) immagina due lettere di Kafka ai suoi amici, in cui narra gli strani discorsi del pittore in fuga. Discorsi che lo colpiscono portandolo, nelle sue riflessioni letterarie, a costruire quei mondi allucinanti e pieni di angosce dei suoi scritti.

Ora non intendo proseguire oltre nelle descrizioni, che altrimenti dovrei parafrasare tutto il testo. Ma da qui, e da tutte le elucubrazioni dei due dialoganti, esce fuori il succo del romanzo: un libro sulla scrittura, sulla difficoltà di rappresentare compiutamente i propri pensieri in parole. Illuminante una frase di Renzi a Maggi “Sento una musica e non posso suonarla, diceva, credo, Coleman Hawkins”. È difficile dire, ed impossibile dire bene.

Alla fine è una costruzione globale che, come una matrioska, contiene tante cose: un romanzo sull’esilio, sulla solitudine, sui fallimenti, sulla casualità delle vite, sulla ricerca delle proprie radici, sul bisogno di far ordine nel passato per capire il presente (da qui tutte le critiche trasversali alla dittatura), e sulla scrittura che, in realtà è sempre una riscrittura. Quindi con una intrinseca difficoltà propria dello scrivere.

Vorrei però permettermi un’altra citazione interna che tenda a dare esempio sia delle idee di Piglia che del modo di comporre questo libro. Scrive infatti ad un certo punto il nostro autore: “Il teorema di Gödel, per cui nessun sistema formale può affermare la propria coerenza, secondo Brecht, dico a Tardewski, è più bello del più bel sonetto di Baudelaire”. Cioè si scrive citando una citazione di un altro discorso e così in una discesa quasi infinita. Laddove, ed è qui che nasce l’idea del titolo, bisogna operare una respirazione artificiale sulle sequenze piatte degli eventi per poter trasformare la pura e semplice cronaca in Storia.

Riassumendo così il libro con una affermazione secca, diciamo che la realtà è di cero una faccenda complicata. Quindi, concordiamo con Piglia e con Wittgenstein sulla proposizione 7 del “Tractatus” del grande logico e filosofo: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

Buona e proficua lettura a tutti.

“La sua aspirazione è di scrivere un libro interamente composto da citazioni.” (20)

Ed allora anche qui, continuiamo senza citazioni in inglese. Anzi, solo in italiano. Da “La donna di scorta” di Diego De Silva un inno alla riflessione verso di sé nel rapporto di coppia: “A che serve sapere tutto dell’altro? Guarda che nessuno è un gran che, una volta che lo conosci” (45). E dal libro culinario-riflessivo di Sapo Matteucci “Q.B. la cucina quanto basta” un esortazione a non tirarsi indietro in cucina, come nella vita: “Il primo tentativo, forse non solo quello, sarà per voi, come è stato per me, un mezzo fallimento. Ma non desistete: coraggiosi, verso un prossimo e trionfale successo. In fondo non esistono piatti difficili, o, senza un po’ di passione-attenzione, lo sono tutti” (164).

Auguri a tutte le decine di persone amiche mie e parenti vari che fanno gli anni in questa prima metà di febbraio. Per ora, ci si concentra sempre più sulle isole nordiche, sul freddo colà e sul caldo costì (ho fatto lo scientifico ma ho letto molto…). Allora un abbraccio quaresimale.

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