Un’ottima settimana dedicata alla scrittura al femminile, presente e passata, vicina e lontana. Ci sono due espressioni che vengono dal lontano oriente. La lontanissima nel temo Murasaki Shikibu con il miglior testo della settimana, pur difficile, e la solo lontana Choi Eun-yong, con interessanti racconti sudcoreani. In Occidente abbiamo Jane Gardam e l’epopea inglese in India e Francesca Giannone con l’epopea di una donna del Nord trasferitasi al Sud. Ultima, purtroppo, viene Pia Rosenberger, che tratta un buon ritratto di una artista che adoro, Nikki de Saint-Phalle, senza però entrare in profondità nella donna ed anche nell’artista.
Murasaki
Shikibu “Il racconto di Uji” Bompiani s.p. (regalo di Raul&Vivi)
[A:
08/05/2023 – I: 15/05/2023 – T: 11/08/2023] - &&&&
[tit.
or.: 源氏物語
- Genji monogatari;
ling. or.: giapponese;
pagine: 473;
anno 1005]
[tit.
trad.: The tale of Genji;
ling. trad.: inglese;
pagine: 473;
anno 1925]
Incomincio col dire che è stato uno dei più
graditi regali da me ricevuti per la grande festa (anche se non è mio uso
stilarne classifiche). È anche un libro di difficile gestione non tanto per la
lunghezza, contenibile, quanto perché ti trasporta in un'altra dimensione, i
cui connotati non sono facilmente approcciabili. Anche per chi, e con piacere,
ha visitato il Giappone più volte e spera di farlo ancora. E devo ringraziare
qui e con piacere chi ha avuto l’incoscienza amicale di regalarmelo. Che, come
vedete in alto, ho impiegato non poco a portarlo avanti, che non si poteva rendere
veloce la lettura, quando la scrittura ha della lentezza il suo tocco magico.
Perché è un libro intrinsecamente nipponico,
fatto di piccoli tocchi, di rimandi, di poesie, di sensazioni. Un libro
decisamente bello, anche considerando i diversi secoli che ci separano dalla
sua redazione. È infatti considerato, nel suo complesso, uno dei primi libri
moderni, ma che, data la sua collocazione geografica, ha avuto poco spazio
nella cultura occidentale.
Il tomo generale è conosciuto con il nome di
“Genji monogatari”, tradotto in italiano come “Il racconto di Genji”, scritto a
cavallo dell’anno 1000 da una delicata letterata giapponese, Murasaki Shikibu,
appartenente alla cerchia imperiale dell’epoca, quando la capitale era Kyoto
(una delle città magiche che rimarranno sempre nel mio cuore).
Il testo completo giapponese si compone di 54
capitoli che vengono solitamente suddivisi in tre parti: i primi 41 narrano la
scesa e la caduta dell’eroe, Genji, i capitoli 42-44 descrivono alcuni episodi
successivi alla morte di Genji, mentre dal 45 al 54 sono noti come “la storia
di Uji”, dove si narrano le imprese di due discendenti di Genji, Niou e Kaoru.
Quello che ho letto e di cui vi parlo va per
l’appunto dal capitolo 42 al 54, che termina in modo aperto, senza una vera
conclusione, fors’anche per la morte della scrittrice. Non solo, ma questi
capitoli sono divisi in due libri, come risulta dal titolo sopra indicato.
Altro e non banale problema, che tuttavia rende un filo più agevole la lettura,
è il fatto che questo Bompiani viene tradotto da Piero Jahier a partire dalla
traduzione inglese di Andy Waley. Una traduzione ritenuta un filo libera rispetto
all’originale. Ma noi non ci lamentiamo, che così è meglio agibile, ne possiamo
seguire meglio le descrizioni delicate, ricordandoci di staccare la mente dal
presente e trasferirci vicino a Kyoto intorno all’anno 1000.
Veniamo allora ai due libri
“La signora della barca” capitoli 42 – 49,
pag. 3 - 232
Seppur il libro contiene una sintesi della
storia di Genji, noi ci concentriamo da questo punto in poi su quanto avviene a
partire da circa otto anni dopo la morte del protagonista, seguendo le gesta di
Niou, figlio di Akashi e quindi nipote di Genji, e di Kaoru, ritenuto figlio di
Genji, in realtà la madre è sì Onna, moglie di Genji, ma il padre è Kashiwagi,
un amico di famiglia.
Qui abbiamo già l’esempio maggiore di una
delle difficoltà del testo: nella società imperiale chiamare qualcuno per nome
era considerato volgare, per cui gli uomini erano indicati con la loro
posizione a corte (che poteva variare nel tempo) e le donne riferendosi al
colore dell’abito o alla posizione di un loro parente maschile. Lo sforzo di
Waley è stato quindi quello di usare un riferimento per il personaggio e
mantenerlo tale nel resto del testo.
Capitolo dopo capitolo ci addentriamo nel
mondo di Uji, al tempo una località distaccata anche se ora fa parte della
grande Kyoto. A Uji si era ritirato l’ex-imperatore con le sue figlie. E sono
queste ad attrarre, con i loro canti, i nostri due eroi, anche perché, alla
morte del signore di Uji, è Kaoru che ne diventa una specie di tutore morale.
Da qui si intrecciano le vicende amorose del libro. Kaoru è attratto dalla
maggiore Agemaki e vorrebbe far sposare la secondogenita, Naka, con il suo
amico Niou. Mentre Agemaki cerca di far sposare Naka con Kaoru. Gli intrecci
sono potenti, ma Agemaki, vedendo i suoi sforzi vani, decide di lasciarsi
morire di fame. Mentre Naka diventa una delle concubine di Niou.
“Il ponte dei sogni” capitoli 50 – 54, pag. 233
– 473
Ovvio che Niou sposa una persona del suo
lignaggio, ma Naka, partorendo un maschio, ottiene una posizione privilegiata
nell’ambito familiare allargato. Anche Kaoru sposa una principessa imperiale,
ma visitando periodicamente Uji, incontra Ukifune, la terza sorella del lotto.
Anzi sorellastra. Ma talmente simile ad Agemaki, che Kaoru ne rimane colpito.
Anche qui, viene fuori la lotta tra i due
“amatori”, che Niou vede di nascosto Ukifune e vuole farla sua ad ogni costo.
Kaoru la nasconde in un posto segreto, ma Niou, travestito da Kaoru cerca di
farla sua. Ukifune, straziata da una lotta che non comprende, cerca di
annegarsi nel fiume, ma viene salvata, ed allora decide di farsi monaca
buddista. A questo punto Niou scompare dalla scena, Kaoru rintraccia il
santuario dove Ukifune si è ritirata, e le invia una lettera amorosa
chiedendole di tornare alla vita secolare. Ma lei non risponde, ed il libro
finisce con Kaoru che si allontana dal santuario, pensieroso e triste.
Qui si fa sempre più preponderante la seconda
difficoltà della scrittura imperiale, che, riferendosi alle modalità di
linguaggi per esternare sentimenti e sensazioni, i personaggi si esprimono tra
loro con versi poetici, magari attraverso brevi allusioni. Utilizzando la forma
principe della poesia di Kyoto, chiamata “waka”, un componimento fisso di 31
sillabe divise in 5 versi. Ovvio che al tempo erano poesie molto note, e la
scrittrice spesso usa l’inizio della poesia stessa che il lettore del tempo (ma
non noi), conoscendola, la completa e ne comprende i nascosti riferimenti.
Proviamo a ricostruirne un brano. Ukifune
recita ad una persona il seguente waka: “Mai più, o abete doppio, ti cercherò
io, giacché mi hai condannata alla vita, quando desideravo morire”. E la
persona risponde: “O avete dimenticato la poesia o volete mandare un messaggio
a qualcuno.” Ora il testo non dice altro, e noi poveri lettori rimaniamo
spiazzati, perché non consociamo la poesia originale. Che viene da una delle
grandi opere poetiche giapponesi, redatta nel 1009, e recita: “O abete doppio,
cresciuto sulle rive del fiume, possa io, dopo tutti questi anni, tornare a
vederti.” Allora si capiscono i detti sottaciuti, laddove appunto Ukifune cercò
di annegarsi nel fiume. Credo sia un esempio chiarificatore di tutta la fatica
che ci vuole per comprendere il libro.
Ma alla fine, come dicevo sopra, bisogna
lasciarsi cullare da Murasaki, abbandonarsi alle sue parole, sedersi sotto una
magnolia, e gustare lentamente le pagine (che, come vedete dalle indicazioni in
alto, hanno impiegato un tempo inusuale per arrivare alla loro fine).
Francesca Giannone “La portalettere” Nord
s.p. (Regalo di Emilio&Fako)
[A: 29/08/2023 – I: 31/06/2023 – T: 02/09/2023]
&&&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano;
pagine: 414; anno: 2023]
La Editrice Nord continua ad inanellare
successi editoriali con un buon esito di pubblico se non di critica. Un
successo che, nominalmente, mi fa piacere, anche se il mio rapporto con lei era
di altri tempi e di altri libri. In effetti, la Nord nasce nel ’70 come
divulgatrice di fantascienza (in concorrenza con la posizione dominante della
Mondadori). Ed io, in quegli anni, collezionai decine e decine di libri di
quelle serie che all’epoca erano denominate “Cosmo Argento” e “Cosmo Oro” (con
i libri indimenticati di Robert Silverberg, Philip José Farmer, Philip K. Dick
per i primi e Robert Heinlein, Isaac Asimov e Fritz Leiber per la seconda). Poi
la mia strada prese altre letture, ed anche la Nord prese altre strade, fino ad
entrare nel 2005 nella galassia GeMS, con Longanesi, Garzanti, TEA ed altre
testate.
Ma l’affetto legato al nome rimane, e mi
compiaccio di queste buone riuscite, come quella, inarrivata al momento, de “I
Leoni di Sicilia”. O come altre, magari meno compiute, ma di buona fattura,
come questo libro. Che non mi sorprende abbia vinto il Premio Bancarella 2023.
È ben pensato, ben scritto, con uno svolgimento lineare ma non banale, ed una
serie di finali che servono a riflettere piuttosto che a consolare.
Francesca Giannone parte da un biglietto da
visita trovato tra le carte della bisnonna, e da quello ricostruisce,
ovviamente con molte parti immaginate più che riprodotte, la storia della
famiglia. Ne esce quindi una saga familiare, che nello scritto ha il suo corpo
centrale, o meglio, ha tutta la storia che va dal ’34 al ’52, con una piccola
giuntura che salta al ’61.
Seguiamo così la storia di Anna Allavena.
Ligure, sposata con Carlo, ha perso una figlia, Claudia, e le è rimasto un
figlio, Roberto. In seguito ad un’eredità, nel ’34, Carlo decide di tornare
alle sue origini, nel Salento, e per la precisione nel paesino di Lizzanello,
un paesino una decina di chilometri a sud di Lecce. Paese reale, ma nel libro
diventa l’emblema di tanti paesi del meridione, così come una serie di
personaggi e di situazioni riproducono elementi tipici del modo di essere, di
vivere, di pensare, propri di molte comunità, ed esasperati dalle mentalità
locali.
Dalla corriere scendono loro tre,
accompagnati dai semi del basilico, che serviranno ad Anna per il suo balsamo
del cuore, il pesto alla genovese, ricordo del passato, ed elemento, che
insieme ad altri, farà rimanere per sempre Anna come “la forestiera”. Anna è
schietta, non è credente, legge. Tutti elementi che la pongono già altra. Ad
accogliere la famiglia c’è Antonio, il fratello di Carlo, con la moglie Agata,
che cerca da subito di coinvolgere Anna nelle ritualità contadino-borghesi del
luogo (la spesa al mercato, la ricerca di scampoli da cucire per fare vestiti),
riti che Anna rifugge, prima con dinieghi velati, poi con decise prese di
posizione.
Voleva fare la maestra, ma non ci sono posti
liberi. Vuole lavorare, e l’unico posto che si presenta è un concorso alle
Poste, dove Anna, contrastata da tutta la famiglia, si presenta e vince. Da
allora sarà lei a portare la posta nel paesello, prima a piedi, poi in
bicicletta. E questo la farà diventare un trait-d ’union tra le varie realtà
del paese. La farà storcere con il marito, che per ripicca riallaccia una
vecchia relazione con la formosa sarta Carmela. La farà entrare sempre più in
urto con Agata. Solo Antonio rimarrà neutrale, con un atteggiamento che
(purtroppo devo dire) sembra ricalcare la vicenda di Paolo ed Ignazio Florio.
Sembra che ovvio diversi saranno gli sbocchi e le decisioni.
Così va avanti la storia di Anna, che
consola ed aiuta Daniele, il figlio forse gay di Carmela, che consola Lorenza,
la figlia di Antonio, ma che forse è figlia di altri. Insomma, un groviglio di
storie paesane, come ne accadono tante. Carlo è comunque un uomo fortunato,
decide di diventare vinicoltore ed avrà successo, poi anche oleicoltore aiutato
da Antonio.
Anna invece continua ad aiutare tutti, anche
le donne perdute, con le quali fonderà una “Casa delle Donne”, contro, anche
qui, il parere di tutti, anche del parroco. Poi c’è la guerra, poi c’è il
dopoguerra, poi c’è l’infarto di Carlo, poi c’è una lite tra Anna ed Antonio di
cui molto si parla ma niente si sa. Fino alla morte, nel ’61, della
“forestiera”, ed ai suoi funerali, dove tutti i fili sospesi avranno il loro
ricongiungimento.
Seppur, come detto, prende come una fiction
televisiva, proprio come una fiction ha alcune cadute ed omissioni. Non mi
convince che Roberto apprenda la fine della guerra leggendo fumetti. Mi
dispiace che la vicenda della “Casa” si relegata all’ultima parte del libro,
che inoltre è un po’ affrettata. Infine, è giusto che nel ricordo la bisnonna
venga mitizzata, ma sembra non avere alcun difetto, sembra sempre sapere quale
sia la cosa giusta. Un po’ troppo buona.
Tuttavia è un libro che si legge agile, e
con discreto piacere.
Jane Gardam “Figlio dell’Impero
Britannico” Sellerio euro 15 (in realtà scontato a 12,75 euro)
[A: 25/12/2019 – I: 13/10/2023 – T: 16/10/2023] - &&& e ½
[tit. or.: Old Filth; ling. or.: inglese; pagine: 408; anno 2004]
Non
so se questo libro della quasi centenaria Gardam sarebbe entrato nella mia
biblioteca, se non fosse stato sponsorizzato dalle mie libro-terapeute e da
Fabio Stassi nel compendio, sempre a me caro, delle cure attraverso i libri.
Dove, oltre alle cure, ci sono anche elementi vari di diagnosi e omeopatie per
sintomatologie varie. Questo libro, in realtà, viene consigliato come cura per
la vecchiaia, o meglio come paradigma che una persona che matura negli anni
deve affrontare per poter riflettere sulla propria vita.
Il
libro di Sellerio è anche corredato da una buona post-fazione di Chiara Valerio
che illumina sul titolo italiano. Edward Feathers, di cui seguiamo le gesta, è
realmente un uomo senza genitori, la madre morta alla nascita, il padre mai
presente. Per cui, come figlio di un funzionario britannico in servizio in
Oriente (in particolare in Malesia), viene spedito in patria per essere educato
“all’inglese”. Divenendo così non più un figlio di Alistair e consorte, ma, a
tutti gli effetti, un eponimo rappresentante dell’Impero Britannico, come si
andava configurando negli anni tra le due guerre.
Anche
perché, il titolo inglese giocava su alcuni “calembour” non proprio
traducibili. Il titolo essendo “Old Filth”, dove “old” è abbastanza chiaro,
visto che incontriamo Edwards nel crepuscolo della sua vita. “Filth” in effetti
significa “sporcizia, schifezza”, e non c’è niente di meglio che etichettare un
giudice ex-avvocato in pensione come “vecchia schifezza”. Ma “Filth” è anche un
acronimo per gli avvocati in cerca di riscatto lontano da una patria che ne
tritura le capacità. Significa infatti “Failed In London Try Hong Kong”. Cioè
se fallisci a Londra, tenta la fortuna nelle colonie. Un titolo veramente
intraducibile (anche se non avrei disprezzato il contrappasso del titolo della
traduzione tedesca “Un uomo irreprensibile”).
Sebbene
tutto sanno la mia pacifica avversione per i salti temporali, devo dire che
Jane Gardam qui riesce ad usarli in un modo fenomenale: riproduce i salti di
memoria, avanti e indietro nel tempo, che può avere un ottantenne come Edwards.
Sebbene in terza persona, è come se il vecchio Filth ci portasse nel suo mondo,
e noi con lui ci culliamo nelle onde temporali che portano quest’orfano
dell’Impero (dall’hindi “Raj”) dal ventre materno al sonno eterno.
Dopo
aver vissuto una vita carica di successi professionali, poco prima che Hong
Kong venga restituita alla Cina, Edward e la moglie Betty tornano in patria, e
vivono la loro vita di pensionati nel Dorset in Cornovaglia. Con un impeccabile
stile vittoriano (anche se il romanzo ha solo vent’anni) la scrittrice ci fa
subito partecipe delle maniere incompatibili di vita che i nostri ora hanno.
Dell’esteriorità trionfante. Sono vissuti decenni insieme, quasi mai
confrontandosi, ma essendoci reciprocamente. Tanto che ora, alla morte
improvvisa di Betty, il vecchio Filth si trova spaesato e solo.
Nel
suo spaesarsi ecco che con lui andiamo a srotolare i tempi della sua vita. La
nascita in Malesia, i primi cinque anni felici (benché ignorato allora e poi
dal padre), il ritorno forzato in Inghilterra, l’affido ad una terribile
famiglia insieme a due lontane cugine ed un bimbo piagnone, l’inserimento
forzato in una school a otto anni (ed i motivi li sapremo solo alla fine del
libro), l’amicizia con Pat, e soprattutto con la famiglia di lui, e con la
cugina Isobel (con cui avrebbe volentieri condiviso la vita se non avesse
scoperto che era lesbica), il lungo viaggio diciasettenne per tronare a
Singapore dal padre, dove non arriva mai che la città è occupata dai
giapponesi, il padre è morto, e lui impiegherà sette mesi in nave tra andata e
ritorno.
La
malattia, l’entrata ad Oxford, la laurea, l’incontro con Betty (anche lei
“orfana del Raj”, benché nata a Pechino e non in India), il lungo matrimonio,
il trasferimento ad Hong Kong, le vicissitudini in tribunale, la decisione di
diventare giudice, Betty che (a sua insaputa) avrà un amante, un avvocato che
sarà suo vicino di casa in vecchiaia e con il quale stabilirà quello che forse
è più vicino al concetto di amicizia.
Alla
fine, veramente solo dopo la morte di Betty e del vicino, il suo viaggio di
riconciliazione (voluta ma chissà se trovata) verso le cugine, e la decisione
di tornare in Asia un ultima volta. Che sarà poi, veramente, l’ultima.
Nelle
parole e nelle azioni di Edwards vediamo tutta la parabola della fine di
un’epoca, tutto un mondo in controluce, al negativo del mondo quasi dorato di
Kipling. Le cattiverie, la solitudine dei funzionari britannici consolata
dall’alcool, il sadismo delle adozioni forzate, le illusioni dei giovani, il
mito dell’Impero. Tanti piccoli mattoni che fanno del libro un paradigma molto
più reale di quello che è stato il centinaio d’anni dell’occupazione asiatica
degli inglesi. Ma soprattutto, il punto di vista di chi, pur dalla parte dei
vincitori, è sempre stato un perdente. Certo, Edwards Feathers ha fatto tante
cose, le sue sentenze sono ricordate come modelli di riferimento, anche quando
condannava a morte i colpevoli, sentendo internamente il peso, e con ragione.
Ma Edwards era (come molto Impero) esteriorità (pur se mascherata da interessi
commerciali), erano scarpe lucide, camicia stirata, cravatta con lo stemma
della scuola. Edwards, in fondo, era solitudine.
Ho
scoperto che la scrittrice ha poi prodotto altri due libri su questa vicenda,
spostando il centro dei romanzi sugli altri personaggi. Sono curioso, anche se
non so se riuscirò a breve, di capire come gli altri attori abbiano vissuto i
tempi del vecchio Filth.
Pia Rosenberger “L’artista delle donne.
Vita di Niki de Saint Phalle” Beat s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 09/10/2023 – I: 19/10/2023 – T:
21/10/2023] - &&
[tit. or.: Die Künstlerin der Frauen; ling. or.: tedesco; pagine: 302;
anno 2021]
Regalo
molto gradito che, pur conoscendo Niki, ne ho recuperato a pieno il senso
artistico solo poco tempo fa, visitano il “Giardino dei Tarocchi” a Garavicchio
in Toscana. Ho avuto modo così di entrare nel suo mondo, anche se questo libro,
pur con degli spunti interessanti, non restituisce a pieno il mondo
dell’artista. Ne segue un lungo periodo, ma non riesce a farci entrare
pienamente nel mondo creativo dell’artista né in una serie di vicende
interessanti e caratterizzanti, per quello che ho letto altrove, l’ultimo
periodo della sua vita.
Forse
perché, gli editor italiani hanno voluto accorciare il sottotitolo lasciando un
“Vita di Niki” quando il titolo completo tedesco riporta: “sogna la libertà e
conquista il mondo con le sue Nanas – Niki”. In effetti, il libro realmente si
conclude quando Niki pensa, concepisce e realizza le sculture poi battezzate
Nana. Quindi già nelle intenzioni una biografia incompleta. Che aveva anche un
taglio specifico, visto che esce in una collana tedesca dal titolo “Donne
Coraggiose”. E realmente, il periodo che l’autrice ci descrive è pieno fino a
strabordare di un feroce coraggio, quello che ha permesso a Niki di
sopravvivere, di vivere e di realizzare opere fantastiche.
La
scrittrice entra in punta di piedi nel mondo che vuole descrivere, credo anche
perché non nuova a scritture similari, come si riporta nell’altra sua biografia
dedicata all’arte, quella di Camille Claudel, scultrice e musa di Auguste
Rodin. Ne esce, alla fine, come dice lei stessa, un romanzo, che, pur scandito
dagli avvenimenti reali, è di forza riempito con dialoghi inventati ma
possibili, e con alcuni passaggi forzati ma probabili.
La
scrittura ci fa seguire la nostra eroina, Catherine Marie-Agnès Fal de Saint
Phalle, detta Niki per circa un ventennio, dal 1946, finita la guerra e finiti
più o meno gli studi preparatori a scelte universitarie, al 1966, anno della
sua consacrazione con la realizzazione della prima gigantesca “Nana” per il Moderna
Museet di Stoccolma. Già dal nome capiamo la duplicità di Niki, nata in
Francia, vissuta a lungo in America, poi cittadina del mondo, soprattutto in
Europa e per un lungo periodo, come sappiamo, anche in Toscana.
Ribelle
consapevole sin dalla giovinezza, cerca mille modi di esprimere quanto sente
dentro, ad esempio quando dipinge di rosso le foglie di fico che coprono i
membri maschili nel giardino della scuola. Una ribellione nata, anche,
attraverso letture e momenti di consapevolezza, ma che verrà fuori nella sua
totalità solo quando scoprirà, dopo averlo rimosso per decenni, di essere stata
abusata dal padre a undici anni, con la madre che, una volta saputolo, non farà
nulla per proteggerla.
Ribellione
familiare che la porta a sposarsi a diciannove anni con il coetaneo Harry
Matthews, anche lui spirito ribelle, con il quale avrà due figli. Intanto prova
ad uscire dal guscio. Inizia come fotomodella (famosa la sua copertina di
“Life”), poi è tentata dal teatro, senza riuscire ad incanalare tutto il suo
spirito ribelle. I coniugi Matthews, nei primi anni Cinquanta, si spostano in
Europa, dove entrano a contatto con tutte le avanguardie possibili. Harry vira
presto verso la scrittura, Niki, a seguito di dolorosi passaggi, verso la
pittura.
Tuttavia,
pur con l’amore ed i figli che li uniscono, Niki accetta sino ad un certo punto
la perenne infedeltà di Harry. Fino ad arrivare ad un bivio: il marito ed i
figli la stanno soffocando. Una scelta si impone, e lei fa quella più dolorosa.
Li abbandona e cerca sempre più accanitamente la sua strada. Una strada che,
oltre a tutti i personaggi dell’avanguardia del tempo, porterà la sua strada ad
incrociarsi con quella dell’artista svizzero Jean Tinguely.
Un
sodalizio fruttuoso, che, nella capacità di non soffocarsi ma di esaltarsi a
vicenda, porterà i due a percorre strade artistiche nuove e piene di meritati
riconoscimenti. Niki trova il modo di incanalare la sua ribellione in delle
performance intitolate “Tiri”, dove Niki o lo stesso pubblico spara con un arma
da fuoco su dei rilievi di gesso nei quali si trovano dei sacchetti di pittura,
che esplodono al momento dell'impatto. Un momento catartico che dura due anni,
e che svuota, finalmente, Niki da molta rabbia passata. Così da poterla portare
a realizzare, con tutti i materiali possibili, delle figure femminili senza
spigoli, che chiamerà Nana, raffinandole man mano, fino al primo successo
artistico. Nel 1966 per il Moderna Museet di Stoccolma, realizza Hon/Elle, una
gigantesca Nana incinta di 28 metri di lunghezza, 6 metri di altezza e 9 metri
di larghezza, stesa sul dorso come in procinto di partorire. Nel seno sinistro
dell'opera viene installato un piccolo planetario mentre nel seno destro si
trova un bar. I visitatori entrano nella scultura passando per la vagina.
Un’opera grandiosamente rivoluzionaria.
Sulla
quale si chiude il libro. Certo sappiamo che ha divorziato da Harry. Certo ci
viene detto che nel ’71 sposerà Jean. Ma ci manca tutto il percorso successivo,
quello che sarà il più fecondo sia per Niki sia come coppia.
Insieme,
nel 1983, realizzano quella che fu il mio primo incontro con i due, la
meravigliosa fontana Stravinsky, prospicente il Centre Pompidou a Parigi. In
parallelo, del ’79 al ’98, Niki, su di un terreno in Toscana donatole dai
Caracciolo, realizza un giardino (detto dei Tarocchi) dove ciclopiche strutture
riproducono i 22 Arcani maggiori delle carte; sculture alte sino a 15 metri, ricoperte
di mosaici in specchio, vetro pregiato e ceramiche, dove, in alcune, si può
entrare, ed in tutte si può passeggiare ammirandone l’immaginifica invenzione.
Mi è
mancata questa seconda parte della vita di Niki, anche se quanto ne viene detto
ci fa capire parte dei suoi processi di rivolta verso le convenzioni, in un
femminismo che non è mai di lotta, o di ribellione pura, ma di costruzione di
un universo al femminile, valido e sostanzioso.
Insomma,
un libro riuscito per quello che rappresenta Niki, meno per quanto vuole
rappresentare Pia con la sua scrittura.
Un
ultimo appunto personale. Non ne sapevo la vicinanza, ma in realtà,
personalmente, mi era più noto Harry Matthews, in quanto unico membro anglofono
del mitico collettivo Oulipo, quello di Georges Perec, di Raymond Queneau e di
Italo Calvino. Anche perché proprio Harry codifica quello che viene chiamato
“algoritmo di Matthews” inteso a generare testi seguendo delle regole
costrittive ben formalizzate. Essendo un po’ complicato non me ne dilungo, ma
accenno solo che è alla base di quella stupenda realizzazione di Queneau “Cent
mille milliards de poèmes” che vi consiglio di cercare in rete per una
descrizione migliore della mia.
Choi Eun-young “Shoko’s smile” John Murray euro 15
[A: 22/03/2023 – I: 23/11/2023 – T:
25/11/2023] - &&&
--
[tit. or.: Shokoui miso -쇼코의
미소;
ling. or.: coreano; pagine: 261; anno 2016]
Credo, se i miei ricordi ed i miei scritti
non mi ingannano, che questo sia uno dei pochi libri che leggo di un autore o
una scrittrice della Corea del Sud. Occasione capitata durante il mio ultimo
viaggio in Giappone, quando ho dovuto, per circostanza avverse, trascorrere un
giorno in Corea. Che devo dire non mi è piaciuta né mi ha entusiasmato. Eppur
tuttavia mi è sembrato giusto dedicare al paese almeno una lettura.
Ovviamente non direttamente in coreano, ma
nell’ottima (per scorrevolezza e comprensione) traduzione di Sung Ryu,
apprezzata (leggo in rete) dagli scrittori coreani da lei tradotti in inglese.
Ho solo il rimpianto che, essendo racconti, se ne perde un po’ un andamento più
spaziale e complesso, anche se, per le mie conoscenze asiatiche, il respiro del
racconto è spesso congeniale alla loro tipologia espressiva, fatta spesso di
poche e misurate frasi.
Il risultato, al lettore, è la visione più
che altro dei complicati rapporti umani tra coreani, considerati spesso molto
rispettosi dell’latro, ed il resto del mondo, restando poco (forse gli ultimi
due racconti) più vicini alla realtà coreana del quotidiano. Infatti, i testi
sono quasi tutti basati su relazioni tra due poli, che spesso comprendiamo ma
che a volte, per una sensibilità tipicamente asiatica, a me lasciano dubbi
sulle modalità di affrontarli.
Lasciando in ultimo il commento al racconto
che dà anche il titolo alla raccolta, vediamo allora l’evolversi di alcuni
rapporti.
In "Xin Chao Xin Chao"
(espressione di saluto vietnamita) vediamo il confronto tra due famiglie
immigrate per lavoro in Germania. Una vietnamita ed una coreana. Ci sono le
figure delle due madri che risaltano, la coreana ingabbiata in un matrimonio
senza amore, la vietnamita oppressa dal ricordo delle perdite subite in guerra.
Che sarà l’elemento di scontro tra le due realtà, quando il narratore, coreano,
si rende conto che anche i coreani hanno combattuto a fianco degli americani
nella guerra sul suolo vietnamita. Uno scontro che non riuscirà a vincere tutti
i possibili punti di convergenza trovati.
In “Sorella, Mia piccola Soonae”
(traduco i titoli per mia comodità) è la perdita dell’intimità che rovina il
rapporto tra due lontane cugine, in gioventù vicine quasi come fossero sorelle.
Rapporto che verrà spezzato quando il marito di Soonae viene condannato per
aver collaborato con la Corea del Nord in un famigerato processo del 1975 (un
processo farsa, che venne ribaltato nel 2007, ma dove gli 8 studenti ritenuti
responsabili erano stati giustiziati venti ore dopo la sentenza).
In "Hanji e Youngju” ci sono
invece una studentessa di geologia coreana e un giovane keniota che si trovano
gomito a gomito a lavorare in un monastero in Francia. Fino all’inspiegabile
rottura tra i due: forse ci si era accorti che c’erano montagne di convenzioni
che non sarebbero mai riusciti a superare.
In “Una canzone da lontano” c’è un
rapporto, ma a tre. Una ragazza coreana perde la sua compagna e si reca in
Russia a trovarne le ultime tracce dove incontra la compagna di stanza del suo
amore, e insieme a lei ne ricostruisce tracce di memoria.
Come detto, gli ultimi due sono i più
“coreani” del lotto. In entrambi, “Michaela” e “Il segreto” c’è
sotteso il dramma del disastro della MV Sewol, un incidente navale dove persero
la vita 304 persone. Nel primo, una madre lotta per il riconoscimento dei
risarcimenti economici per la figlia perita nel naufragio, figlia che, essendo
insegnante in prova, secondo la legge dell’epoca, non aveva diritto a nulla.
Nel secondo, la famiglia nasconde alla nonna, malata terminale, il fatto che la
nipote è perita nel disastro.
Il primo racconto dell’antologia, invece, “Il
sorriso di Shoko” narra di un'amicizia epistolare tra Soyu, la narratrice,
Shoko e il nonno di Soyu. Shoko è una giapponese che visita la Corea, rimanendo
in contatto con la famiglia di Soyu, anche se quanto dice alla narratrice e
quanto dice al nonno sono spesso in contraddizione. Una storia che si espande
per tredici anni, dove si sente con forza uno dei punti ricorrenti della
narrazione di Choi: anche le persone a noi più vicine, non sono mai pienamente
conoscibili. Con la sensazione, molto coreana e asiatica, qui forte, ma
presente in tutti i testi, che bisogna far sentire gli altri a proprio agio.
Pur nella mia difficoltà verso il modo di
essere e di porre orientale, devo riconoscere ai testi di Choi alcune qualità
fondamentali: la capacità di descrivere le sfumature delle relazioni femminili
(dove, come ripeto sempre, solo una donna riesce pienamente a farcele
immaginare). La felice scelta della composizione del libro, dove la
consapevolezza di sé aumenta di racconto in racconto, mentre transitiamo dalla
dura Shoko alla sentimentale nonna Malija.
Sono letture facili, saggiamente dosate,
dove Choi, spesso, riesce a farsi da parte per dar posto al personaggio protagonista
delle sue storie. Ma come molte lettura molto asiatiche rimane in me un senso
vago di insoddisfazione, di incompiutezza.
Faccio un ultimo accenno molto personale. A
pagina 223 si parla del cancello del Parco di Gwanghwamun. Che per me è stata
la cartina di tornasole della mia visita coreana: pieno di gente, di
confusione, di rumore, ma anche di persone abbigliate nei modi più stravaganti,
senza che nessuno obiettasse nulla. Tuttavia, non credo che tornerò a Seoul.
Veniamo ora alle lettura di novembre,
numerosa (ben 18 titoli) ma non con un elevato tasso di buona lettura. Si staccano
il classico della resistenza di Renata Viganò e l’attuale romanzo del giapponese
Murakami Ryu. In fondo alla scala, purtroppo, lo scandinavo Arne Dahl con il
secondo libro di Berger e Bloom, di cui ho già parlato male, ma anche l’ultima
poco riuscita prova del nostro Schiavone.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Matthew P. Shiel |
La nube purpurea |
Mondadori |
6,99 |
2 |
2 |
Martin Cruz Smith |
L’enigma siberiano |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
2 |
3 |
Antonio Manzini |
Riusciranno i nostri eroi a ritrovare
l’amico misteriosamente scomparso in Sud America? |
Sellerio |
10
|
1,5 |
4 |
Andrea Bajani |
Il libro delle case |
Feltrinelli |
17
|
2 |
5 |
Jun’ichiro Tanizaki |
Racconti del crimine Volume 1 |
Capolavori Giapponesi |
8,90 |
3 |
6 |
Renata Viganò |
L’Agnese va a morire |
Repubblica Resistenza |
7,90 |
3,5 |
7 |
Arne Dahl |
Inferno bianco |
Feltrinelli |
12
|
1 |
8 |
Georges Simenon |
Colpo di luna |
Repubblica |
9,90 |
2,5 |
9 |
Murakami Ryu |
Piercing |
Corriere |
8,90 |
3,5 |
10 |
James Clavell |
Shogun |
Bompiani |
15
|
3 |
11 |
Dario Crapanzano |
Il furto della Divina Commedia |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
2 |
12 |
Anne Holt |
La condanna |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
2,5 |
13 |
Haruki Murakami |
L’uccello che girava le viti del mondo |
Corriere |
8,90
|
2 |
14 |
Roberto Zannini |
Il secondo modo di fare le cose |
Mondadori |
6,50 |
2 |
15 |
Choi Eunyoung |
Shoko’s smile |
John Murray |
15 |
3 |
16 |
Jun’ichiro Tanizaki |
Nero su bianco |
Corriere |
8,90 |
3 |
17 |
Mazo de la Roche |
Jalna |
Corriere – Saghe |
7,90 |
3 |
18 |
Fiona Barton |
La vedova |
Corriere Profondo Nero |
7,90 |
2 |
Visto
che ci siamo dilungati sulle donne, mi permetto di segnalare altri due pensieri
al femminile. Uno di Valeria Parrella tratto da “Ma quale amore”:
“Un grande amore, quando diventa un ex grande amore, smette di essere un
grande amore” (100). Ed uno di Elisabetta Bucciarelli tratto da “Io
ti perdono”: “Il sesso non è la stessa cosa di un pensiero fisso che non ti
abbandona per tutto ilo giorno. Il desiderio dei corpi si esaurisce, lentamente
magari. Quello delle anime no.” (89)
Sappiamo tutti, e se non lo sappiamo ora ve lo dico, febbraio, e soprattutto l’inizio, è pieno di ricorrenze, a volte tristi ed a volte giocose. Non vi tedio, ma di certo è un periodo che induce in riflessioni, motivo per cui cerco di dedicarmi ad altro (cura della casa, della persona, dei viaggi). Vedremo che ne esce fuori, salutandoci con un abbraccio.
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