domenica 4 febbraio 2024

Altre trame al femminile - 04 febbraio 2024

 Un’ottima settimana dedicata alla scrittura al femminile, presente e passata, vicina e lontana. Ci sono due espressioni che vengono dal lontano oriente. La lontanissima nel temo Murasaki Shikibu con il miglior testo della settimana, pur difficile, e la solo lontana Choi Eun-yong, con interessanti racconti sudcoreani. In Occidente abbiamo Jane Gardam e l’epopea inglese in India e Francesca Giannone con l’epopea di una donna del Nord trasferitasi al Sud. Ultima, purtroppo, viene Pia Rosenberger, che tratta un buon ritratto di una artista che adoro, Nikki de Saint-Phalle, senza però entrare in profondità nella donna ed anche nell’artista.

Murasaki Shikibu “Il racconto di Uji” Bompiani s.p. (regalo di Raul&Vivi)

[A: 08/05/2023 – I: 15/05/2023 – T: 11/08/2023] - &&&&  

[tit. or.: 源氏物語 - Genji monogatari; ling. or.: giapponese; pagine: 473; anno 1005]

[tit. trad.: The tale of Genji; ling. trad.: inglese; pagine: 473; anno 1925]

Incomincio col dire che è stato uno dei più graditi regali da me ricevuti per la grande festa (anche se non è mio uso stilarne classifiche). È anche un libro di difficile gestione non tanto per la lunghezza, contenibile, quanto perché ti trasporta in un'altra dimensione, i cui connotati non sono facilmente approcciabili. Anche per chi, e con piacere, ha visitato il Giappone più volte e spera di farlo ancora. E devo ringraziare qui e con piacere chi ha avuto l’incoscienza amicale di regalarmelo. Che, come vedete in alto, ho impiegato non poco a portarlo avanti, che non si poteva rendere veloce la lettura, quando la scrittura ha della lentezza il suo tocco magico.

Perché è un libro intrinsecamente nipponico, fatto di piccoli tocchi, di rimandi, di poesie, di sensazioni. Un libro decisamente bello, anche considerando i diversi secoli che ci separano dalla sua redazione. È infatti considerato, nel suo complesso, uno dei primi libri moderni, ma che, data la sua collocazione geografica, ha avuto poco spazio nella cultura occidentale.

Il tomo generale è conosciuto con il nome di “Genji monogatari”, tradotto in italiano come “Il racconto di Genji”, scritto a cavallo dell’anno 1000 da una delicata letterata giapponese, Murasaki Shikibu, appartenente alla cerchia imperiale dell’epoca, quando la capitale era Kyoto (una delle città magiche che rimarranno sempre nel mio cuore).

Il testo completo giapponese si compone di 54 capitoli che vengono solitamente suddivisi in tre parti: i primi 41 narrano la scesa e la caduta dell’eroe, Genji, i capitoli 42-44 descrivono alcuni episodi successivi alla morte di Genji, mentre dal 45 al 54 sono noti come “la storia di Uji”, dove si narrano le imprese di due discendenti di Genji, Niou e Kaoru.

Quello che ho letto e di cui vi parlo va per l’appunto dal capitolo 42 al 54, che termina in modo aperto, senza una vera conclusione, fors’anche per la morte della scrittrice. Non solo, ma questi capitoli sono divisi in due libri, come risulta dal titolo sopra indicato. Altro e non banale problema, che tuttavia rende un filo più agevole la lettura, è il fatto che questo Bompiani viene tradotto da Piero Jahier a partire dalla traduzione inglese di Andy Waley. Una traduzione ritenuta un filo libera rispetto all’originale. Ma noi non ci lamentiamo, che così è meglio agibile, ne possiamo seguire meglio le descrizioni delicate, ricordandoci di staccare la mente dal presente e trasferirci vicino a Kyoto intorno all’anno 1000.

Veniamo allora ai due libri

“La signora della barca” capitoli 42 – 49, pag. 3 - 232

Seppur il libro contiene una sintesi della storia di Genji, noi ci concentriamo da questo punto in poi su quanto avviene a partire da circa otto anni dopo la morte del protagonista, seguendo le gesta di Niou, figlio di Akashi e quindi nipote di Genji, e di Kaoru, ritenuto figlio di Genji, in realtà la madre è sì Onna, moglie di Genji, ma il padre è Kashiwagi, un amico di famiglia.

Qui abbiamo già l’esempio maggiore di una delle difficoltà del testo: nella società imperiale chiamare qualcuno per nome era considerato volgare, per cui gli uomini erano indicati con la loro posizione a corte (che poteva variare nel tempo) e le donne riferendosi al colore dell’abito o alla posizione di un loro parente maschile. Lo sforzo di Waley è stato quindi quello di usare un riferimento per il personaggio e mantenerlo tale nel resto del testo.

Capitolo dopo capitolo ci addentriamo nel mondo di Uji, al tempo una località distaccata anche se ora fa parte della grande Kyoto. A Uji si era ritirato l’ex-imperatore con le sue figlie. E sono queste ad attrarre, con i loro canti, i nostri due eroi, anche perché, alla morte del signore di Uji, è Kaoru che ne diventa una specie di tutore morale. Da qui si intrecciano le vicende amorose del libro. Kaoru è attratto dalla maggiore Agemaki e vorrebbe far sposare la secondogenita, Naka, con il suo amico Niou. Mentre Agemaki cerca di far sposare Naka con Kaoru. Gli intrecci sono potenti, ma Agemaki, vedendo i suoi sforzi vani, decide di lasciarsi morire di fame. Mentre Naka diventa una delle concubine di Niou.

“Il ponte dei sogni” capitoli 50 – 54, pag. 233 – 473

Ovvio che Niou sposa una persona del suo lignaggio, ma Naka, partorendo un maschio, ottiene una posizione privilegiata nell’ambito familiare allargato. Anche Kaoru sposa una principessa imperiale, ma visitando periodicamente Uji, incontra Ukifune, la terza sorella del lotto. Anzi sorellastra. Ma talmente simile ad Agemaki, che Kaoru ne rimane colpito.

Anche qui, viene fuori la lotta tra i due “amatori”, che Niou vede di nascosto Ukifune e vuole farla sua ad ogni costo. Kaoru la nasconde in un posto segreto, ma Niou, travestito da Kaoru cerca di farla sua. Ukifune, straziata da una lotta che non comprende, cerca di annegarsi nel fiume, ma viene salvata, ed allora decide di farsi monaca buddista. A questo punto Niou scompare dalla scena, Kaoru rintraccia il santuario dove Ukifune si è ritirata, e le invia una lettera amorosa chiedendole di tornare alla vita secolare. Ma lei non risponde, ed il libro finisce con Kaoru che si allontana dal santuario, pensieroso e triste.

Qui si fa sempre più preponderante la seconda difficoltà della scrittura imperiale, che, riferendosi alle modalità di linguaggi per esternare sentimenti e sensazioni, i personaggi si esprimono tra loro con versi poetici, magari attraverso brevi allusioni. Utilizzando la forma principe della poesia di Kyoto, chiamata “waka”, un componimento fisso di 31 sillabe divise in 5 versi. Ovvio che al tempo erano poesie molto note, e la scrittrice spesso usa l’inizio della poesia stessa che il lettore del tempo (ma non noi), conoscendola, la completa e ne comprende i nascosti riferimenti.

Proviamo a ricostruirne un brano. Ukifune recita ad una persona il seguente waka: “Mai più, o abete doppio, ti cercherò io, giacché mi hai condannata alla vita, quando desideravo morire”. E la persona risponde: “O avete dimenticato la poesia o volete mandare un messaggio a qualcuno.” Ora il testo non dice altro, e noi poveri lettori rimaniamo spiazzati, perché non consociamo la poesia originale. Che viene da una delle grandi opere poetiche giapponesi, redatta nel 1009, e recita: “O abete doppio, cresciuto sulle rive del fiume, possa io, dopo tutti questi anni, tornare a vederti.” Allora si capiscono i detti sottaciuti, laddove appunto Ukifune cercò di annegarsi nel fiume. Credo sia un esempio chiarificatore di tutta la fatica che ci vuole per comprendere il libro.

Ma alla fine, come dicevo sopra, bisogna lasciarsi cullare da Murasaki, abbandonarsi alle sue parole, sedersi sotto una magnolia, e gustare lentamente le pagine (che, come vedete dalle indicazioni in alto, hanno impiegato un tempo inusuale per arrivare alla loro fine).

Francesca Giannone “La portalettere” Nord s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 29/08/2023 – I: 31/06/2023 – T: 02/09/2023] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 414; anno: 2023]

La Editrice Nord continua ad inanellare successi editoriali con un buon esito di pubblico se non di critica. Un successo che, nominalmente, mi fa piacere, anche se il mio rapporto con lei era di altri tempi e di altri libri. In effetti, la Nord nasce nel ’70 come divulgatrice di fantascienza (in concorrenza con la posizione dominante della Mondadori). Ed io, in quegli anni, collezionai decine e decine di libri di quelle serie che all’epoca erano denominate “Cosmo Argento” e “Cosmo Oro” (con i libri indimenticati di Robert Silverberg, Philip José Farmer, Philip K. Dick per i primi e Robert Heinlein, Isaac Asimov e Fritz Leiber per la seconda). Poi la mia strada prese altre letture, ed anche la Nord prese altre strade, fino ad entrare nel 2005 nella galassia GeMS, con Longanesi, Garzanti, TEA ed altre testate.

Ma l’affetto legato al nome rimane, e mi compiaccio di queste buone riuscite, come quella, inarrivata al momento, de “I Leoni di Sicilia”. O come altre, magari meno compiute, ma di buona fattura, come questo libro. Che non mi sorprende abbia vinto il Premio Bancarella 2023. È ben pensato, ben scritto, con uno svolgimento lineare ma non banale, ed una serie di finali che servono a riflettere piuttosto che a consolare.

Francesca Giannone parte da un biglietto da visita trovato tra le carte della bisnonna, e da quello ricostruisce, ovviamente con molte parti immaginate più che riprodotte, la storia della famiglia. Ne esce quindi una saga familiare, che nello scritto ha il suo corpo centrale, o meglio, ha tutta la storia che va dal ’34 al ’52, con una piccola giuntura che salta al ’61.

Seguiamo così la storia di Anna Allavena. Ligure, sposata con Carlo, ha perso una figlia, Claudia, e le è rimasto un figlio, Roberto. In seguito ad un’eredità, nel ’34, Carlo decide di tornare alle sue origini, nel Salento, e per la precisione nel paesino di Lizzanello, un paesino una decina di chilometri a sud di Lecce. Paese reale, ma nel libro diventa l’emblema di tanti paesi del meridione, così come una serie di personaggi e di situazioni riproducono elementi tipici del modo di essere, di vivere, di pensare, propri di molte comunità, ed esasperati dalle mentalità locali.

Dalla corriere scendono loro tre, accompagnati dai semi del basilico, che serviranno ad Anna per il suo balsamo del cuore, il pesto alla genovese, ricordo del passato, ed elemento, che insieme ad altri, farà rimanere per sempre Anna come “la forestiera”. Anna è schietta, non è credente, legge. Tutti elementi che la pongono già altra. Ad accogliere la famiglia c’è Antonio, il fratello di Carlo, con la moglie Agata, che cerca da subito di coinvolgere Anna nelle ritualità contadino-borghesi del luogo (la spesa al mercato, la ricerca di scampoli da cucire per fare vestiti), riti che Anna rifugge, prima con dinieghi velati, poi con decise prese di posizione.

Voleva fare la maestra, ma non ci sono posti liberi. Vuole lavorare, e l’unico posto che si presenta è un concorso alle Poste, dove Anna, contrastata da tutta la famiglia, si presenta e vince. Da allora sarà lei a portare la posta nel paesello, prima a piedi, poi in bicicletta. E questo la farà diventare un trait-d ’union tra le varie realtà del paese. La farà storcere con il marito, che per ripicca riallaccia una vecchia relazione con la formosa sarta Carmela. La farà entrare sempre più in urto con Agata. Solo Antonio rimarrà neutrale, con un atteggiamento che (purtroppo devo dire) sembra ricalcare la vicenda di Paolo ed Ignazio Florio. Sembra che ovvio diversi saranno gli sbocchi e le decisioni.

Così va avanti la storia di Anna, che consola ed aiuta Daniele, il figlio forse gay di Carmela, che consola Lorenza, la figlia di Antonio, ma che forse è figlia di altri. Insomma, un groviglio di storie paesane, come ne accadono tante. Carlo è comunque un uomo fortunato, decide di diventare vinicoltore ed avrà successo, poi anche oleicoltore aiutato da Antonio.

Anna invece continua ad aiutare tutti, anche le donne perdute, con le quali fonderà una “Casa delle Donne”, contro, anche qui, il parere di tutti, anche del parroco. Poi c’è la guerra, poi c’è il dopoguerra, poi c’è l’infarto di Carlo, poi c’è una lite tra Anna ed Antonio di cui molto si parla ma niente si sa. Fino alla morte, nel ’61, della “forestiera”, ed ai suoi funerali, dove tutti i fili sospesi avranno il loro ricongiungimento.

Seppur, come detto, prende come una fiction televisiva, proprio come una fiction ha alcune cadute ed omissioni. Non mi convince che Roberto apprenda la fine della guerra leggendo fumetti. Mi dispiace che la vicenda della “Casa” si relegata all’ultima parte del libro, che inoltre è un po’ affrettata. Infine, è giusto che nel ricordo la bisnonna venga mitizzata, ma sembra non avere alcun difetto, sembra sempre sapere quale sia la cosa giusta. Un po’ troppo buona.

Tuttavia è un libro che si legge agile, e con discreto piacere.

Jane Gardam “Figlio dell’Impero Britannico” Sellerio euro 15 (in realtà scontato a 12,75 euro)

[A: 25/12/2019 – I: 13/10/2023 – T: 16/10/2023] - &&& e ½ 

[tit. or.: Old Filth; ling. or.: inglese; pagine: 408; anno 2004]

Non so se questo libro della quasi centenaria Gardam sarebbe entrato nella mia biblioteca, se non fosse stato sponsorizzato dalle mie libro-terapeute e da Fabio Stassi nel compendio, sempre a me caro, delle cure attraverso i libri. Dove, oltre alle cure, ci sono anche elementi vari di diagnosi e omeopatie per sintomatologie varie. Questo libro, in realtà, viene consigliato come cura per la vecchiaia, o meglio come paradigma che una persona che matura negli anni deve affrontare per poter riflettere sulla propria vita.

Il libro di Sellerio è anche corredato da una buona post-fazione di Chiara Valerio che illumina sul titolo italiano. Edward Feathers, di cui seguiamo le gesta, è realmente un uomo senza genitori, la madre morta alla nascita, il padre mai presente. Per cui, come figlio di un funzionario britannico in servizio in Oriente (in particolare in Malesia), viene spedito in patria per essere educato “all’inglese”. Divenendo così non più un figlio di Alistair e consorte, ma, a tutti gli effetti, un eponimo rappresentante dell’Impero Britannico, come si andava configurando negli anni tra le due guerre.

Anche perché, il titolo inglese giocava su alcuni “calembour” non proprio traducibili. Il titolo essendo “Old Filth”, dove “old” è abbastanza chiaro, visto che incontriamo Edwards nel crepuscolo della sua vita. “Filth” in effetti significa “sporcizia, schifezza”, e non c’è niente di meglio che etichettare un giudice ex-avvocato in pensione come “vecchia schifezza”. Ma “Filth” è anche un acronimo per gli avvocati in cerca di riscatto lontano da una patria che ne tritura le capacità. Significa infatti “Failed In London Try Hong Kong”. Cioè se fallisci a Londra, tenta la fortuna nelle colonie. Un titolo veramente intraducibile (anche se non avrei disprezzato il contrappasso del titolo della traduzione tedesca “Un uomo irreprensibile”).

Sebbene tutto sanno la mia pacifica avversione per i salti temporali, devo dire che Jane Gardam qui riesce ad usarli in un modo fenomenale: riproduce i salti di memoria, avanti e indietro nel tempo, che può avere un ottantenne come Edwards. Sebbene in terza persona, è come se il vecchio Filth ci portasse nel suo mondo, e noi con lui ci culliamo nelle onde temporali che portano quest’orfano dell’Impero (dall’hindi “Raj”) dal ventre materno al sonno eterno.

Dopo aver vissuto una vita carica di successi professionali, poco prima che Hong Kong venga restituita alla Cina, Edward e la moglie Betty tornano in patria, e vivono la loro vita di pensionati nel Dorset in Cornovaglia. Con un impeccabile stile vittoriano (anche se il romanzo ha solo vent’anni) la scrittrice ci fa subito partecipe delle maniere incompatibili di vita che i nostri ora hanno. Dell’esteriorità trionfante. Sono vissuti decenni insieme, quasi mai confrontandosi, ma essendoci reciprocamente. Tanto che ora, alla morte improvvisa di Betty, il vecchio Filth si trova spaesato e solo.

Nel suo spaesarsi ecco che con lui andiamo a srotolare i tempi della sua vita. La nascita in Malesia, i primi cinque anni felici (benché ignorato allora e poi dal padre), il ritorno forzato in Inghilterra, l’affido ad una terribile famiglia insieme a due lontane cugine ed un bimbo piagnone, l’inserimento forzato in una school a otto anni (ed i motivi li sapremo solo alla fine del libro), l’amicizia con Pat, e soprattutto con la famiglia di lui, e con la cugina Isobel (con cui avrebbe volentieri condiviso la vita se non avesse scoperto che era lesbica), il lungo viaggio diciasettenne per tronare a Singapore dal padre, dove non arriva mai che la città è occupata dai giapponesi, il padre è morto, e lui impiegherà sette mesi in nave tra andata e ritorno.

La malattia, l’entrata ad Oxford, la laurea, l’incontro con Betty (anche lei “orfana del Raj”, benché nata a Pechino e non in India), il lungo matrimonio, il trasferimento ad Hong Kong, le vicissitudini in tribunale, la decisione di diventare giudice, Betty che (a sua insaputa) avrà un amante, un avvocato che sarà suo vicino di casa in vecchiaia e con il quale stabilirà quello che forse è più vicino al concetto di amicizia.

Alla fine, veramente solo dopo la morte di Betty e del vicino, il suo viaggio di riconciliazione (voluta ma chissà se trovata) verso le cugine, e la decisione di tornare in Asia un ultima volta. Che sarà poi, veramente, l’ultima.

Nelle parole e nelle azioni di Edwards vediamo tutta la parabola della fine di un’epoca, tutto un mondo in controluce, al negativo del mondo quasi dorato di Kipling. Le cattiverie, la solitudine dei funzionari britannici consolata dall’alcool, il sadismo delle adozioni forzate, le illusioni dei giovani, il mito dell’Impero. Tanti piccoli mattoni che fanno del libro un paradigma molto più reale di quello che è stato il centinaio d’anni dell’occupazione asiatica degli inglesi. Ma soprattutto, il punto di vista di chi, pur dalla parte dei vincitori, è sempre stato un perdente. Certo, Edwards Feathers ha fatto tante cose, le sue sentenze sono ricordate come modelli di riferimento, anche quando condannava a morte i colpevoli, sentendo internamente il peso, e con ragione. Ma Edwards era (come molto Impero) esteriorità (pur se mascherata da interessi commerciali), erano scarpe lucide, camicia stirata, cravatta con lo stemma della scuola. Edwards, in fondo, era solitudine.

Ho scoperto che la scrittrice ha poi prodotto altri due libri su questa vicenda, spostando il centro dei romanzi sugli altri personaggi. Sono curioso, anche se non so se riuscirò a breve, di capire come gli altri attori abbiano vissuto i tempi del vecchio Filth.

Pia Rosenberger “L’artista delle donne. Vita di Niki de Saint Phalle” Beat s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 09/10/2023 – I: 19/10/2023 – T: 21/10/2023] - && 

[tit. or.: Die Künstlerin der Frauen; ling. or.: tedesco; pagine: 302; anno 2021]

Regalo molto gradito che, pur conoscendo Niki, ne ho recuperato a pieno il senso artistico solo poco tempo fa, visitano il “Giardino dei Tarocchi” a Garavicchio in Toscana. Ho avuto modo così di entrare nel suo mondo, anche se questo libro, pur con degli spunti interessanti, non restituisce a pieno il mondo dell’artista. Ne segue un lungo periodo, ma non riesce a farci entrare pienamente nel mondo creativo dell’artista né in una serie di vicende interessanti e caratterizzanti, per quello che ho letto altrove, l’ultimo periodo della sua vita.

Forse perché, gli editor italiani hanno voluto accorciare il sottotitolo lasciando un “Vita di Niki” quando il titolo completo tedesco riporta: “sogna la libertà e conquista il mondo con le sue Nanas – Niki”. In effetti, il libro realmente si conclude quando Niki pensa, concepisce e realizza le sculture poi battezzate Nana. Quindi già nelle intenzioni una biografia incompleta. Che aveva anche un taglio specifico, visto che esce in una collana tedesca dal titolo “Donne Coraggiose”. E realmente, il periodo che l’autrice ci descrive è pieno fino a strabordare di un feroce coraggio, quello che ha permesso a Niki di sopravvivere, di vivere e di realizzare opere fantastiche.

La scrittrice entra in punta di piedi nel mondo che vuole descrivere, credo anche perché non nuova a scritture similari, come si riporta nell’altra sua biografia dedicata all’arte, quella di Camille Claudel, scultrice e musa di Auguste Rodin. Ne esce, alla fine, come dice lei stessa, un romanzo, che, pur scandito dagli avvenimenti reali, è di forza riempito con dialoghi inventati ma possibili, e con alcuni passaggi forzati ma probabili.

La scrittura ci fa seguire la nostra eroina, Catherine Marie-Agnès Fal de Saint Phalle, detta Niki per circa un ventennio, dal 1946, finita la guerra e finiti più o meno gli studi preparatori a scelte universitarie, al 1966, anno della sua consacrazione con la realizzazione della prima gigantesca “Nana” per il Moderna Museet di Stoccolma. Già dal nome capiamo la duplicità di Niki, nata in Francia, vissuta a lungo in America, poi cittadina del mondo, soprattutto in Europa e per un lungo periodo, come sappiamo, anche in Toscana.

Ribelle consapevole sin dalla giovinezza, cerca mille modi di esprimere quanto sente dentro, ad esempio quando dipinge di rosso le foglie di fico che coprono i membri maschili nel giardino della scuola. Una ribellione nata, anche, attraverso letture e momenti di consapevolezza, ma che verrà fuori nella sua totalità solo quando scoprirà, dopo averlo rimosso per decenni, di essere stata abusata dal padre a undici anni, con la madre che, una volta saputolo, non farà nulla per proteggerla.

Ribellione familiare che la porta a sposarsi a diciannove anni con il coetaneo Harry Matthews, anche lui spirito ribelle, con il quale avrà due figli. Intanto prova ad uscire dal guscio. Inizia come fotomodella (famosa la sua copertina di “Life”), poi è tentata dal teatro, senza riuscire ad incanalare tutto il suo spirito ribelle. I coniugi Matthews, nei primi anni Cinquanta, si spostano in Europa, dove entrano a contatto con tutte le avanguardie possibili. Harry vira presto verso la scrittura, Niki, a seguito di dolorosi passaggi, verso la pittura.

Tuttavia, pur con l’amore ed i figli che li uniscono, Niki accetta sino ad un certo punto la perenne infedeltà di Harry. Fino ad arrivare ad un bivio: il marito ed i figli la stanno soffocando. Una scelta si impone, e lei fa quella più dolorosa. Li abbandona e cerca sempre più accanitamente la sua strada. Una strada che, oltre a tutti i personaggi dell’avanguardia del tempo, porterà la sua strada ad incrociarsi con quella dell’artista svizzero Jean Tinguely.

Un sodalizio fruttuoso, che, nella capacità di non soffocarsi ma di esaltarsi a vicenda, porterà i due a percorre strade artistiche nuove e piene di meritati riconoscimenti. Niki trova il modo di incanalare la sua ribellione in delle performance intitolate “Tiri”, dove Niki o lo stesso pubblico spara con un arma da fuoco su dei rilievi di gesso nei quali si trovano dei sacchetti di pittura, che esplodono al momento dell'impatto. Un momento catartico che dura due anni, e che svuota, finalmente, Niki da molta rabbia passata. Così da poterla portare a realizzare, con tutti i materiali possibili, delle figure femminili senza spigoli, che chiamerà Nana, raffinandole man mano, fino al primo successo artistico. Nel 1966 per il Moderna Museet di Stoccolma, realizza Hon/Elle, una gigantesca Nana incinta di 28 metri di lunghezza, 6 metri di altezza e 9 metri di larghezza, stesa sul dorso come in procinto di partorire. Nel seno sinistro dell'opera viene installato un piccolo planetario mentre nel seno destro si trova un bar. I visitatori entrano nella scultura passando per la vagina. Un’opera grandiosamente rivoluzionaria.

Sulla quale si chiude il libro. Certo sappiamo che ha divorziato da Harry. Certo ci viene detto che nel ’71 sposerà Jean. Ma ci manca tutto il percorso successivo, quello che sarà il più fecondo sia per Niki sia come coppia.

Insieme, nel 1983, realizzano quella che fu il mio primo incontro con i due, la meravigliosa fontana Stravinsky, prospicente il Centre Pompidou a Parigi. In parallelo, del ’79 al ’98, Niki, su di un terreno in Toscana donatole dai Caracciolo, realizza un giardino (detto dei Tarocchi) dove ciclopiche strutture riproducono i 22 Arcani maggiori delle carte; sculture alte sino a 15 metri, ricoperte di mosaici in specchio, vetro pregiato e ceramiche, dove, in alcune, si può entrare, ed in tutte si può passeggiare ammirandone l’immaginifica invenzione.

Mi è mancata questa seconda parte della vita di Niki, anche se quanto ne viene detto ci fa capire parte dei suoi processi di rivolta verso le convenzioni, in un femminismo che non è mai di lotta, o di ribellione pura, ma di costruzione di un universo al femminile, valido e sostanzioso.

Insomma, un libro riuscito per quello che rappresenta Niki, meno per quanto vuole rappresentare Pia con la sua scrittura.

Un ultimo appunto personale. Non ne sapevo la vicinanza, ma in realtà, personalmente, mi era più noto Harry Matthews, in quanto unico membro anglofono del mitico collettivo Oulipo, quello di Georges Perec, di Raymond Queneau e di Italo Calvino. Anche perché proprio Harry codifica quello che viene chiamato “algoritmo di Matthews” inteso a generare testi seguendo delle regole costrittive ben formalizzate. Essendo un po’ complicato non me ne dilungo, ma accenno solo che è alla base di quella stupenda realizzazione di Queneau “Cent mille milliards de poèmes” che vi consiglio di cercare in rete per una descrizione migliore della mia.

Choi Eun-young “Shoko’s smile” John Murray euro 15

[A: 22/03/2023 – I: 23/11/2023 – T: 25/11/2023] - &&& -- 

[tit. or.: Shokoui miso -쇼코의 미소; ling. or.: coreano; pagine: 261; anno 2016]

Credo, se i miei ricordi ed i miei scritti non mi ingannano, che questo sia uno dei pochi libri che leggo di un autore o una scrittrice della Corea del Sud. Occasione capitata durante il mio ultimo viaggio in Giappone, quando ho dovuto, per circostanza avverse, trascorrere un giorno in Corea. Che devo dire non mi è piaciuta né mi ha entusiasmato. Eppur tuttavia mi è sembrato giusto dedicare al paese almeno una lettura.

Ovviamente non direttamente in coreano, ma nell’ottima (per scorrevolezza e comprensione) traduzione di Sung Ryu, apprezzata (leggo in rete) dagli scrittori coreani da lei tradotti in inglese. Ho solo il rimpianto che, essendo racconti, se ne perde un po’ un andamento più spaziale e complesso, anche se, per le mie conoscenze asiatiche, il respiro del racconto è spesso congeniale alla loro tipologia espressiva, fatta spesso di poche e misurate frasi.

Il risultato, al lettore, è la visione più che altro dei complicati rapporti umani tra coreani, considerati spesso molto rispettosi dell’latro, ed il resto del mondo, restando poco (forse gli ultimi due racconti) più vicini alla realtà coreana del quotidiano. Infatti, i testi sono quasi tutti basati su relazioni tra due poli, che spesso comprendiamo ma che a volte, per una sensibilità tipicamente asiatica, a me lasciano dubbi sulle modalità di affrontarli.

Lasciando in ultimo il commento al racconto che dà anche il titolo alla raccolta, vediamo allora l’evolversi di alcuni rapporti.

In "Xin Chao Xin Chao" (espressione di saluto vietnamita) vediamo il confronto tra due famiglie immigrate per lavoro in Germania. Una vietnamita ed una coreana. Ci sono le figure delle due madri che risaltano, la coreana ingabbiata in un matrimonio senza amore, la vietnamita oppressa dal ricordo delle perdite subite in guerra. Che sarà l’elemento di scontro tra le due realtà, quando il narratore, coreano, si rende conto che anche i coreani hanno combattuto a fianco degli americani nella guerra sul suolo vietnamita. Uno scontro che non riuscirà a vincere tutti i possibili punti di convergenza trovati.

In “Sorella, Mia piccola Soonae” (traduco i titoli per mia comodità) è la perdita dell’intimità che rovina il rapporto tra due lontane cugine, in gioventù vicine quasi come fossero sorelle. Rapporto che verrà spezzato quando il marito di Soonae viene condannato per aver collaborato con la Corea del Nord in un famigerato processo del 1975 (un processo farsa, che venne ribaltato nel 2007, ma dove gli 8 studenti ritenuti responsabili erano stati giustiziati venti ore dopo la sentenza).

In "Hanji e Youngju” ci sono invece una studentessa di geologia coreana e un giovane keniota che si trovano gomito a gomito a lavorare in un monastero in Francia. Fino all’inspiegabile rottura tra i due: forse ci si era accorti che c’erano montagne di convenzioni che non sarebbero mai riusciti a superare.

In “Una canzone da lontano” c’è un rapporto, ma a tre. Una ragazza coreana perde la sua compagna e si reca in Russia a trovarne le ultime tracce dove incontra la compagna di stanza del suo amore, e insieme a lei ne ricostruisce tracce di memoria.

Come detto, gli ultimi due sono i più “coreani” del lotto. In entrambi, “Michaela” e “Il segreto” c’è sotteso il dramma del disastro della MV Sewol, un incidente navale dove persero la vita 304 persone. Nel primo, una madre lotta per il riconoscimento dei risarcimenti economici per la figlia perita nel naufragio, figlia che, essendo insegnante in prova, secondo la legge dell’epoca, non aveva diritto a nulla. Nel secondo, la famiglia nasconde alla nonna, malata terminale, il fatto che la nipote è perita nel disastro.

Il primo racconto dell’antologia, invece, “Il sorriso di Shoko” narra di un'amicizia epistolare tra Soyu, la narratrice, Shoko e il nonno di Soyu. Shoko è una giapponese che visita la Corea, rimanendo in contatto con la famiglia di Soyu, anche se quanto dice alla narratrice e quanto dice al nonno sono spesso in contraddizione. Una storia che si espande per tredici anni, dove si sente con forza uno dei punti ricorrenti della narrazione di Choi: anche le persone a noi più vicine, non sono mai pienamente conoscibili. Con la sensazione, molto coreana e asiatica, qui forte, ma presente in tutti i testi, che bisogna far sentire gli altri a proprio agio.

Pur nella mia difficoltà verso il modo di essere e di porre orientale, devo riconoscere ai testi di Choi alcune qualità fondamentali: la capacità di descrivere le sfumature delle relazioni femminili (dove, come ripeto sempre, solo una donna riesce pienamente a farcele immaginare). La felice scelta della composizione del libro, dove la consapevolezza di sé aumenta di racconto in racconto, mentre transitiamo dalla dura Shoko alla sentimentale nonna Malija.

Sono letture facili, saggiamente dosate, dove Choi, spesso, riesce a farsi da parte per dar posto al personaggio protagonista delle sue storie. Ma come molte lettura molto asiatiche rimane in me un senso vago di insoddisfazione, di incompiutezza.

Faccio un ultimo accenno molto personale. A pagina 223 si parla del cancello del Parco di Gwanghwamun. Che per me è stata la cartina di tornasole della mia visita coreana: pieno di gente, di confusione, di rumore, ma anche di persone abbigliate nei modi più stravaganti, senza che nessuno obiettasse nulla. Tuttavia, non credo che tornerò a Seoul.

Veniamo ora alle lettura di novembre, numerosa (ben 18 titoli) ma non con un elevato tasso di buona lettura. Si staccano il classico della resistenza di Renata Viganò e l’attuale romanzo del giapponese Murakami Ryu. In fondo alla scala, purtroppo, lo scandinavo Arne Dahl con il secondo libro di Berger e Bloom, di cui ho già parlato male, ma anche l’ultima poco riuscita prova del nostro Schiavone.

 

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Euro

J

1

Matthew P. Shiel

La nube purpurea

Mondadori

6,99

2

2

Martin Cruz Smith

L’enigma siberiano

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

3

Antonio Manzini

Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America?

Sellerio

10

1,5

4

Andrea Bajani

Il libro delle case

Feltrinelli

17

2

5

Jun’ichiro Tanizaki

Racconti del crimine Volume 1

Capolavori Giapponesi

8,90

3

6

Renata Viganò

L’Agnese va a morire

Repubblica Resistenza

7,90

3,5

7

Arne Dahl

Inferno bianco

Feltrinelli

12

1

8

Georges Simenon

Colpo di luna

Repubblica

9,90

2,5

9

Murakami Ryu

Piercing

Corriere

8,90

3,5

10

James Clavell

Shogun

Bompiani

15

3

11

Dario Crapanzano

Il furto della Divina Commedia

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

12

Anne Holt

La condanna

Repubblica Emozione Noir

7,90

2,5

13

Haruki Murakami

L’uccello che girava le viti del mondo

Corriere

8,90

2

14

Roberto Zannini

Il secondo modo di fare le cose

Mondadori

6,50

2

15

Choi Eunyoung

Shoko’s smile

John Murray

15

3

16

Jun’ichiro Tanizaki

Nero su bianco

Corriere

8,90

3

17

Mazo de la Roche

Jalna

Corriere – Saghe

7,90

3

18

Fiona Barton

La vedova

Corriere Profondo Nero

7,90

2

 

Visto che ci siamo dilungati sulle donne, mi permetto di segnalare altri due pensieri al femminile. Uno di Valeria Parrella tratto da “Ma quale amore”: “Un grande amore, quando diventa un ex grande amore, smette di essere un grande amore” (100). Ed uno di Elisabetta Bucciarelli tratto da “Io ti perdono”: “Il sesso non è la stessa cosa di un pensiero fisso che non ti abbandona per tutto ilo giorno. Il desiderio dei corpi si esaurisce, lentamente magari. Quello delle anime no.” (89)

Sappiamo tutti, e se non lo sappiamo ora ve lo dico, febbraio, e soprattutto l’inizio, è pieno di ricorrenze, a volte tristi ed a volte giocose. Non vi tedio, ma di certo è un periodo che induce in riflessioni, motivo per cui cerco di dedicarmi ad altro (cura della casa, della persona, dei viaggi). Vedremo che ne esce fuori, salutandoci con un abbraccio.

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