Iniziamo con queste trame all’analisi di alcuni aspetti della letteratura nera giapponese. In particolare, sono presenti tre testi del padre di questo filone letterario, Edogawa Ranpo (dove vi rimando alle trame per alcune notizie interessanti sullo scrittore). Certo, sono testi datati, visto che sono scritti da Ranpo a cavallo degli anni Trenta, eppur tuttavia di interesse non solo filologico. Completano la trama due testi moderni. L’ottimo Keigo con una lunga cavalcata per un noir ventennale e l’interessante Ryu che ci mostra aspetti noti del Giappone, ma spesso non indagati a fondo.
Keigo Higashino “Sotto il sole di mezzanotte” Corriere Giappone 24 euro 8,90
[A: 19/10/2021
– I: 23/02/2023 – T: 26/02/2023] - &&&&
[tit.
or.: 白夜行 –
Byakuyakō; ling. or.: giapponese; pagine: 751; anno 1999]
Pubblicato nella collana “La grande
letteratura giapponese” credo abbia più senso e risalto mescolato alle opere
“Noir” del Giappone, di cui Keigo è senz’altro un maestro. Primo inciso, uso il
nome Keigo per indicare l’autore, visto che non ho ancora capito (sono un po’
tonto) l’uso dei nomi e dei cognomi nella lingua giapponese, essendo tra
l’altro un punto su cui tornerò più avanti, parlando di questo testo.
Intanto, l’autore (anche grazie all’ottima
traduzione di Anna Specchio e ad un piccolo ma necessario glossario finale)
scrive in modo scorrevole ed avvincente, tanto che entriamo subito nello
spirito giapponese, cosa che non sempre è scontata. Tra l’altro, anche in vista
del viaggio di marzo, ho notato con piacere che la storia si dipana su due
centri focali: Osaka e Tokyo. Ed evito altri commenti. Certo, in alcuni punti,
si nota una certa occidentalizzazione della vicenda, che lascia solchi
tradizionali. Ma il mangiare per strada, le piccole case, i rapporti tra le
persone portano direttamente al cuore della lontana nazione.
Keigo, in questo lungo viaggio che in
pratica dura venti anni, si dimostra un emulo giapponese di Dürrenmatt, anche
se con una piccola punta di pessimismo in meno. La difficoltà, comunque, nel
seguire il testo, è data, come accennavo sopra, proprio dalla onomastica
nipponica. Al fine di preservare un testo molto vicino all’originale, si
lasciano le persone indicate con cognome e nome. Solo che, con l’evoluzione dei
personaggi, questi si sposano, si lasciano, si celano sotto nomi fittizi, e
questo è un problema nel seguire la vicenda. L’altro è che molti nomi sono, per
noi occidentali, abbastanza simili, così che ho faticato non poco a capire una
serie di contorni della vicenda. Anche perché Keigo a volte avanza nel tempo,
lasciando la descrizione di cosa avviene nel frattempo a commenti e rimandi. Ed
in questi salti, capita che si incontri di nuovo un personaggio che si era
lasciato un centinaio di pagine prima, e che, per la complessità citata dei
nomi, non sempre si riesce a collegare con quanto avvenuto.
Ricordatevi la citazione dello svizzero e
vediamo come si svolge il libro. Che inizia come un classico giallo. C’è un
morto, Yosuke Kirihara,
ed un ispettore, Sasagaki, che cerca di capire motivi e ragioni dell’omicidio. Kirihara
ha un banco di pegni (siamo nel Giappone degli Anni Settanta), una moglie
giovane, un commesso amante della donna, ed un figlio Ryo. Ha anche una strana
relazione con una bella “donna perduta”, Fumiko, e con la di lei figlia,
Yukiho. Sembra possibile siano coinvolti la moglie e l’amante, ma hanno un
alibi. Sembra coinvolta Fumiko, ed un suo amante. Ma questi muore in un
incidente d’auto e Fumiko anche muore, in un incidente domestico, che potrebbe
anche essere suicidio. Dopo questo attacco sprint (che noi ci si chiede, ma
come andrà avanti per le altre seicento pagine?), Sasagaki scompare, l’indagine
finisce per morte inerziale. Da qui in poi, invece, seguiamo le storie di Ryo e
Yukiho.
Infatti, da qui vediamo l’evoluzione delle
storie dei due, che seguiamo dalla fine delle elementari, alle medie, il liceo,
l’università e poi la vita lavorativa.
Ryo è sempre cupo, impenetrabile, diventa un
grande esperto di informatica, ma anche di traffici illegali, tipo copiare il
software dei nascenti videogiochi e rivenderlo a prezzi stracciati. Ovvio che
in tutta questa zona d’ombra, Ryo non possa non entrare in contatto con la
mafia giapponese, la Yakuza. Vivendo in quella zona d’ombra tra il legale e
l’illegale.
Yukiho, invece, viene adottata da una zia
maestra nella cerimonia del thè (molto giapponese), è brillante a scuola a
tutto tondo, bella, ma anche perfida. Non sopporta essere oscurata o messa in
discussione, soprattutto da chi le possa ricordare il suo passato di stenti. Ma
la sua ascesa sociale è costante. Matrimoni, investimenti in borsa, divorzi al
momento giusto, negozi di moda dal promettente avvenire, altri matrimoni.
La cosa strana è che qualsiasi persona possa
mettere in difficoltà i due giovani si evolve in negativo: disastri sociali o
personali, avventure poco piacevoli, financo morti. E sono queste che, dopo
quattrocento pagine, fanno tornare sulla scena un invecchiato Sasagaki che non
ha mai mollato, che ha sempre pensato all’inizio della vicenda, appunto come un
Dürrenmatt de “La promessa”. Il suo ritorno non impedisce altre morti ed altre
vicende cupe. Sarà solo alla fine, l’ispettore ormai in pensione, ma sempre ad
indagare, che tutti i pezzi andranno a combaciare ricostruendo un puzzle di una
complessità ragguardevole. Con una consolazione finale un po’ simenoniana, che
la verità trionfa sempre, non sempre trionfa la giustizia.
Ho cercato di sintetizzare al massimo lo
sviluppo degli eventi, limitando i nomi a quelli essenziali, anche se, per la
comprensione del tutto, molti altri sarebbero dovuti comparire. Ma questo
avrebbe reso più difficile la lettura, e meno incisiva la voglia di leggere il
libro. Anche se non posso non ricordare un personaggio, non centrale, ma la cui
presenza condizione tutta una serie di eventi. Scoprite voi che possa essere.
Keigo, in questa sua cavalcata letteraria,
ci mostra anche l’evoluzione del Giappone, in particolare attraverso due canali
forti: le tecnologie e l’onore. Le prime servono a farci comprendere come sia
nata l’egemonia mondiale del mondo dei videogiochi. La seconda è un modo
proprio di ogni giapponese, un onore la cui ricerca viene più volte messe in
discussione da Keigo. Se l’onore non avesse fatto comportare certe persone in
vista della sua salvaguardia, un omicidio si sarebbe risolto con molto anticipo
e diverse persone avrebbero percorso un sentiero di vita assai differente.
Keigo ha il coraggio di mostrarci, anche, un
Giappone che non attira il turista, un posto anche poco educato, un mondo di
mezzo criminale che non ci si aspetta. Ed il suo coraggio lo premia, riuscendo
a confezionare un buon prodotto. Tanto che sono curioso di capire se e come ci
siano altri suoi scritti di degna lettura.
“Io e lei … arriviamo da due esperienze di
matrimonio, e posso assicurarti che per quelli come noi l’idea di risposarsi va
valutata in maniera molto seria.” (558)
Murakami Ryu “Piercing” Corriere euro
8,90
[A: 22/11/2022 – I: 21/10/2023 – T:
22/10/2023] - &&&
e ½
[tit. or.: ピアッシング
Piasshingu; ling. or.: giapponese;
pagine: 208; anno 1994]
Diciamo
subito che Ryu non è parente di Haruki, ed è anche di tre anni più giovane. È
considerato, in patria, l’enfant terrible della letteratura nipponica, e (ma
questo lo desumo dalle critiche non dalle mie letture) ha la sua produzione
divisa in due: romanzi distopici e romanzi thriller in genere molto basati
sulle patologie dei personaggi.
Quindi,
dovendo basarmi solo su questa lettura, devo dire che è inquietantemente
riuscito. In effetti, seppur datato (ha quasi trent’anni) è una descrizione
umana ed ambientale universale. Facendo dell’autore uno scrittore degno di
essere seguito, anche se, personalmente, lo trovo un filo inquietante. Sono
comunque convinto che anche la traduzione di Gianluca Coci abbia contribuito a
rendere il libro una lettura interessante.
Il
primo livello di bravura di Ryu è di non immergerci subito in un’ambiente ed in
una situazione “disturbata”, ma di farci scendere uno dopo l’altro i gradini
della follia, tanto che, una volta raggiunti, sembrano quasi stati d’animo
normali ed accettabili.
Come
in una pièce teatrale (ed io la vedo bene a teatro), seguiamo essenzialmente
due personaggi. Il primo, che sarà il filo rosso di tutto il testo, è Kawashima
Masayuki. Nei primi capitoli è una persona discretamente normale. Sui
trent’anni, dopo un’infanzia ed una giovinezza di cui sapremo poi, conosce
Yoko, si innamora, si sposano, hanno una figlia, Rie. Tutto bene? Forse, ma
Kawa ogni tanto si sveglia di notte. Kawa, ogni tanto, va a vedere la figlia
che dorme. Kawa, in questi momenti, ha sempre un oggetto a punta in mano.
Qui
comincia il primo gradino di panico: non è che vuol fare male alla piccola?
Certo che no, ma ha paura di non riuscire a fermarsi, e decide, come legge del
contrappasso dantesco, che sarebbe giusto ed onesto, nei confronti di Rie,
bucherellare altre persone. Decide così di allontanarsi per un po’ da casa, in
modo da trovare una prostituta da uccidere con il punteruolo.
Vedete
bene come in poche pagine siamo già entrati in un girone infernale. Nella
clausura dell’albergo (tra l’altro credo che il Prince Hotel di Kawa sia lo
stesso della mia prima visita a Tokyo or sono dieci anni) Kawa, anche se a
pezzi e non in modo coerente, ci fa partecipe della sua vita prima di Yoko.
Un’infanzia
difficile, dove trova il padre morto in casa e la madre (non si sa se a ragione
o per pazzia) lo ritiene in qualche modo colpevole e da quel momento comincia a
trattarlo in maniera non solo crudele, di più. Punizioni in stanze buie, botte,
capelli tirati, tanto per dire solo il nominabile. Un trauma da cui Kawa non si
riprenderà mai. Riuscito ad allontanarsi da casa, va a convivere con una donna
più grande di lui (complesso di Elettra?). Ovvio che siano sempre in lite, con
risse da bar ed altro, fino a che Kawa non la colpisce con un punteruolo
all’addome. Lei non muore, ma la storia finisce.
Ryu
ci porta quindi a pensare che la patologia di Kawa sia realmente risolvibile
con una trasposizione di uccisioni. Qui, la bravura dell’autore si inventa una
serie di pagine in cui Kawa medita su come uccidere la sua vittima, sui
pericoli, sulle cose da evitare. Una fantastica e macabra ironia. Che finisce
con il riversarsi su Sanada Chiaki, la prostituta che lui decide di uccidere.
Qui
entriamo nel secondo vortice di pazzia, che se un pazzo destabilizza un
romanzo, due pazzi che incrociano le loro pazzie ne fanno un teatro
dell’assurdo da favola. Chiaki è una prostituta sadomaso, che scopriamo subito
dedita a dosi massicce di Halcion, un tranquillante ipnotico, coadiuvante della
mancanza di sonno, che, in dosi massicce, può indurre incubi ed allucinazioni
varie.
Da
manuale l’incontro tra Kawa e Chiaki: lui ligio al suo manuale di uccisione,
lei sbadatamente leggera. Da qui, comincia un loro duello verbale anch’esso da
non perdere, dove tutto è possibile, anche il suo contrario, visto che i due
psicotici interpretano la realtà a modo loro. Chiaki ha un attacco di panico e
Kawa la scopre in bagno che si tagliuzza le gambe. L’omicidio ora è
impensabile, bisogna salvarsi. E lo faranno nella casa iperessenziale di
Chiaki, che, a questo punto, scopriamo aver passato il fronte della pazzia dopo
essere stata abusata per anni dal padre, aver litigato profondamente con la
madre, non essersi mai ripresa, e si autoinfligge punizioni, a cominciare da un
(dolorosissimo) piercing ad un capezzolo.
Dovete
gustare tutta la parte finale del dramma della pazzia, un dramma talmente
drammatico che ovviamente trascende il tragico e sbuca nell’ironico. Insomma,
non si sa come andrà a finire (o se io lo so non ve lo dico). Ma tutto è
congeniato come un perfetto meccanismo ad orologeria. Una bomba che prima o poi
scoppierà (anche forse dopo la fine del libro).
Il
messaggio forte di Ryu è che tutto è casuale, e come dice Vasco Rossi, “la vita
è tutta un equilibrio sopra la follia”.
Per
finire, due righe di commento al titolo. Credo che “piercing” si dica “piasu”,
e che Ryu abbia usato il termine “piasshingu” per indicare una serie di oggetti
e di azioni votate al penetrare: il piercing di Chiaki ed il punteruolo di
Kawashima.
“Perché
quando le persone diventano adulte dimenticano come erano fragili e vulnerabili
da bambini?” (26)
Edogawa Ranpo “La belva nell’ombra”
Capolavori Giapponesi 3 euro 8,90
[A: 16/02/2023 – I: 21/10/2023 – T:
22/10/2023] - &&
e ½
[tit. or.: 陰獣
Injū; ling. or.: giapponese;
pagine: 167; anno 1928]
Con
questo libro entriamo a pieno titolo nell’ambito della scrittura poliziesca
giapponese, dove per l’appunto Ranpo è considerato uno dei maestri nonché
(quasi) capostipite del genere. Ma cominciamo con alcuni passi laterali.
Come
molti (o quasi tutti) gli scrittori giapponesi, il nostro in realtà si chiama,
anagraficamente, Tarō Hirai. Appassionato sin da giovane della scrittura di
deduzione, legge e si innamora del grande Edgar Allan Poe, tanto che, quando scrive
si sceglie come pseudonimo “Edogawa Ranpo” che in giapponese significa “a
spasso lungo il fiume Edo”, ma che letto foneticamente alla giapponese
ripropone proprio il nome del suo nume privato.
Secondariamente,
è anche uno dei primi giapponesi ad usare una scrittura seriale intorno ad un
detective, come fece con il suo Akachi Kogorō. Infine, nella prima storia che
gli diede successo, “La moneta da due sen” usa una miscela deduttiva micidiale,
mescolando crittografia e scrittura in Braille in modo magistrale.
Sarebbe
utile, ma non è qui il momento, entrare anche meglio nella storia di questa
letteratura, ma io volentieri riamando al saggio di Maria Teresa Orsi,
pubblicato sulla rivista “Il Giappone” nel 1978 e dal titolo “Gli antecedenti
del racconto poliziesco in Giappone e l’innesto del mystery occidentale”.
Tornando
a Ranpo, nonostante le premesse non ha mai avuto una grande mole di scritti
tradotti non tanto in italiano, ma anche in altre lingue occidentali. Anche se,
come vediamo in questo scritto, la sua scrittura, pur fortemente legata al
mondo giapponese, ha un suo sviluppo comprensibile (anche) al di fuori.
Inoltre, e non so se ne avesse già conoscenza al tempo della scrittura, segue
abbastanza fedelmente alcuni caposaldi della scrittura codificati nella lista
compilata da S. S. Van Dine.
Infatti,
vediamo la presenza dei tre elementi fondamentali di una storia: un detective,
un colpevole e una vittima. Inoltre, il colpevole non deve essere un criminale
professionista e gli elementi fantastici, che spesso sono presenti negli
scritti giapponesi, vengono banditi. Non tutto è rispettato, e non vi dico
certo dove, ma, fondamentale per la comprensione della storia, alla fine tutto
viene spiegato, anche se Ranpo, da fine scrittore, ci mette una bella zeppa
finale.
La
struttura dell’intrigo è abbastanza semplice: uno scrittore di gialli per
casualità viene avvicinato da una bella signora sposata che dopo essere
diventati amici, gli sottopone il suo dilemma privato. Lei, Shizuko Oyamada,
sposata con il benestante Rokuro Oyamada, da giovane aveva avuto una storia con
tal Ichiro Hirata. Dopo che Ichiro l’aveva violata, Shizuko lo lascia e
scompare. Ora, dopo circa otto anni, riceve lettere minacciose da Ichiro che
non solo l’ha ritrovata, ma è diventato uno scrittore di gialli, con il nome di
Oe Shundei (scrittore che il protagonista conosce per averne letto). Sfruttando
le sue doti, Oe minaccia di morte Shizuko, e, roso dalla gelosia, anche Rokuro.
Il
narrante allora comincia ad indagare all’inizio un po’ per gioco, poi, alla
morte di Rokuro, con molta attenzione, anche perché nel frattempo si è anche
innamorato di Shizuko. Ci sono tutta una serie di passaggi che portano il
nostro verso tre quarti del libro a formulare un ragionamento in base alla
quale sostiene che è stato Rokuro a fingersi Oe (anche perché Oe, da misogino,
è scomparso e non si fa vedere) per poi morire accidentalmente procurandosi
ferite mortali cadendo sui vetri che costellano i muri di cinta delle case
giapponesi.
Questi
passaggi, che portano il narratore a queste ipotesi, sono costellati da diverse
scritture eterogenee: lettere di Oe, appunti del narratore, trascrizioni di una
memoria del magistrato inquirente, tutto a dimostrare la bravura di Ranpo (cui
concordo).
Ma
la scoperta di una discordanza di date, induce il nostro a ripensare le sue
conclusioni, ed a poterne trarre di nuove, altrettanto verosimili (o vere,
vedete voi). In questo, Ranpo mostra una bravura alla Agatha Christie, dove si
declinano le storie in diversi modi, tutti coerenti, prima di arrivare alla
soluzione finale.
La
bravura di Ranpo è di costruire tutto il testo sull’assenza di Oe, che non
compare mai, e che, con un colpo da maestro, l’autore ci fa rimbalzare a noi
lettori, proiettandoci al di là della fine del testo. Facendoci balenare il
sospetto che questa assenza, spiegata e spiegabile, possa tramutarsi in una
presenza. Un finale molto interessante.
Devo
qui ringraziare la bella traduzione e le spiegazioni di Graziana Canova,
soprattutto sul titolo dove i due ideogrammi si riferiscono a ombra ed animale,
quindi ben riportati come “La belva nell’ombra” (come in inglese e meglio del
francese “La preda e l’ombra”)
Un
elemento che di sicuro mi sarebbe sfuggito se non avessi avuto lo stimolo ad
approfondire il personaggio Ranpo e la sua scrittura, è un gioco di rimandi che
altri autori, prima e dopo di lui, utilizzano nel testo quasi a fare
dell’auto-marketing. Infatti, se come sappiamo i personaggi del libro sono
scrittori di gialli, per spiegare alcuni passaggi, Ranpo cita testi dell’uno o
dell’altro. Abbiamo così, lungo il percorso del libro, che si citano “Il gioco
della soffitta” (rimando a “Il passeggiatore della soffitta” del ’25), “Il
paese Panorama” (rimando a “La strana storia dell’isola Panorama” del ’26), “Un
uomo, due ruoli” (con lo stesso titolo sempre del ’25) e, molto smaccatamente,
“La moneta da un sen” (che è facile collegare al primo testo di Ranpo che lo
fece conoscere e che ho citato all’inizio).
Un
bravo scrittore furbetto, per questo simpatico, anche se la storia risente dei
suoi quasi cento anni.
Un
solo appunto finale all’incuria editoriale dell’editore, che, nella terza di
copertina, attribuisce a Ranpo l’invenzione del detective Kindaichi Kozuke che
invece è un parto di Yokomizo Seishi. Un redattore da licenziare.
Edogawa Ranpo “La strana storia
dell’isola Panorama” Capolavori Giapponesi 26 euro 8,90
[A: 13/12/2023 – I: 06/02/2024 – T:
08/02/2024] - &&&
--
[tit. or.: パノラマ島綺譚,
Panorama-tō kidan; ling. or.: giapponese; pagine: 186;
anno 1926]
Qui
siamo due anni prima del precedente, in un mistery che viene ritenuto uno dei caposaldi
della scrittura di Ranpo. Rimando ad altre scritture perché si chiami così lo
scrittore Taro Hirai, anche se è sempre una bella storia (accenno solo che
“Edogawa Ranpo” in fonetica giapponese suona “Edgar Allan Poe”). Ma qui abbiamo
un testo complesso per capirne a fondo tutti i risvolti, ma anche lineare se li
lasciamo da un lato (perdendo però tutta una serie di passaggi che rendono il
testo stesso un punto fermo della letteratura giapponese).
Intanto,
debbo rendere subito omaggio all’introduzione di Alberto Zanonato, senza la
quale non sarebbero partiti spunti di approfondimento che hanno reso più
interessante la fruizione del testo. Oltre alla solita e brava Graziana Canova
per la parte bio-bibliografica su Ranpo.
Anzi,
vorrei cominciare da uno spunto che mi ha dato Canova quando racconta del testo
che diede il via alla fama di Ranpo. Parliamo di “La moneta da due sen”, dove
un giovane, decifrando una scrittura trovata nella moneta riesce ad
impossessarsi del frutto di una rapina altrui, per poi accorgersi che sono
tutti soldi falsi. Il testo poi prosegue in modi che non ci interessa seguire,
che qui vedo soltanto come un autore moderno, come Marco Bucci nella sua epopea
di Tor Bella, non abbia inventato nulla. Cambiando solo cinesi e giapponesi.
Per
venire al romanzo di cui si sta parlando, debbo subito confessare una mia
iniziale difficoltà nel comprendere a fondo il titolo ed il suo contesto.
Panorama è certo un modo di descrivere quanto il protagonista riesce a
edificare nella sua isola utopica, ma detto così sembra poco interessante e
calzante. Meglio allora far riferimento al secondo significato usato in
giapponese, che, tradotto in italiano, sarebbe “diorama”. Ecco, ora ci siamo,
ed anche il testo acquista una sua dimensione specifica.
Il
“diorama” indica uno spettacolo (“horama”) in cui si passa attraverso (“dia”)
che se viene sostituito da “pan” indica lo spettacolo completo. Ora,
etimologicamente nasce in Inghilterra per indicare la pittura circolare
inventata dal pittore Robert Barker nel 1787 per far immergere lo spettatore
nella complessità di una scena. Da qui, appunto nascono il trompe-l'œil
(illusione di guardare tridimensionalmente oggetti bidimensionali) e poi il
diorama, una specie di antenato del cinema, dove lo spettatore è inserito in
una ricostruzione di una scena (storica, naturalistica, geologica o anche
religiosa). Per essere pignoli, come ci dice la Treccani, “il diorama è
costituito da teloni trasparenti dipinti disposti verticalmente a diverse
distanze e opportunamente illuminati da fonti di luce nascoste allo spettatore.
Il termine è usato per estensione a indicare panorami, convenientemente
colorati e illuminati, che, osservati con opportune lenti, diano impressioni di
realtà, oppure panorami di cui siano esaltati con opportuni artifizi gli
effetti prospettici.”
Ed è
esattamente questo diorama – panorama – effetto scenico l’elemento cruciale del
romanzo. Anche perché, pochi anni prima della scrittura, il primo elemento
pre-cinematografico fu installato a Tokyo, nel momento dell’apertura del
Giappone verso l’occidente. Ed un secondo, mi piace ricordarlo, fu installato
nel mio quartiere preferito, Asakusa. Per Ranpo, oltre ad illustrare
l’alterazione del protagonista, serve come elemento altro di paragone. Prima
dell’era Meiji (quella che decise l’apertura del Giappone nel 1868) l’ambiente
cittadino era chiuso, isolato. Con le aperture, se da un lato ci sono novità
nell’acquisizione di conoscenze, dall’altra vengono meno le certezze. Così che
Ranpo ha buon modo di utilizzare il suo scritto per rappresentare proprio questo
momento di passaggio, laddove il protagonista perde le basi del passato
ancestrale e non trova di meglio che rifugiarsi nel sogno di un futuro utopico.
Ultimo
elemento da considerare nel gustare il testo è l’isola fulcro del romanzo, che
Ranpo ci indica con “Okinoshima”. Ora, senza addentrarmi in elementi che non
conosco, da ricerche abbiamo che, ovvio, è una località fittizia, ma come
toponimo rappresenta un’isola sacra allo scintoismo, un’isola cui venivano
ammessi visitatori un giorno all’anno e rigorosamente solo maschi. E con
questo, dopo aver fatto lunghe digressioni, veniamo al testo.
Hitomi
Hirosuke è uno scrittore di poca fama e di tanta fantasia, che sogna (e
descrive) paesaggi utopici, riproduzioni miniaturizzate della realtà ed altre
fantasie megalomani, senza aver modo di realizzare. Finché scopre la morte per
epilessia di Komoda Genzaburo, ricchissimo rampollo di una altrettanto ricca
famiglia. Era sodali all’università, ed erano talmente somiglianti da essere
chiamati i due gemelli. Ecco allora nascere in Hitomi la fantastica utopia: far
sparire il corpo di Komoda, e presentarsi come lui, dato che la morte per
epilessia può essere scambiata in una catalessi.
Riesce
ad inscenare la propria morte, riesce a sostituirsi a Komoda (interessante la
modalità di attesa per la sostituzione di persona), ed allora, con le cospicue
ricchezze trasforma Okinoshima nell’isola “Panorama” (nel senso discusso prima)
dei suoi sogni. Unico neo, la presenza della moglie di Komoda, Chiyoko, l’unica
a dubitare della realtà della sostituzione.
Hitomi
allora decide di farle vedere l’isola ormai terminata e di ucciderla e
seppellirla lì. La parte più intrigante sono i capitoli necessari alla
descrizione dell’utopia realizzata da Hitomi. Il piano riesce, ma nel capitolo
24 (in tutto ne sono 25) si palesa Kitami Kogoro, un investigatore privato
assoldato dalla famiglia Genzaburo a fronte della scomparsa di Chiyoko. Ed è
lui che in poche righe smonta il teorema di Hitomi, anche se sembra restio di
consegnare il colpevole alla giustizia. Il finale è tutto da leggere, ed è in
linea con la costruzione che per più di centocinquanta pagine ha sorretto lo
scritto di Ranpo.
Per
avviarci alla conclusione, noto che qui, come in molti altri suoi scritti, il
detective, colui che scopre il meccanismo dei crimini perpetrati, in Ranpo si
palesa sempre verso la fine. Una precisa scelta stilistica: vuole farci
immergere nel mondo della realizzazione “noir”, per poi svelarne i meccanismi
esterni solo con un ben orchestrato finale. Finale in cui compare Kitami
Kogoro, che per assonanza andrà assimilato al detective che opera in molte
opere di Ranpo, e che si chiama Akechi Kogoro. Non so se il cambio di nome sia
voluto o una svista, ma il comportamento dei due Kogoro nei libri di Ranpo è
assolutamente assimilabile.
Infine,
vorrei sottolineare un’assonanza (credo non voluta, ma non sono tanto addentro
alle tematiche nipponiche per saperlo) del romanzo con alcuni punti della
novella di Pirandello “Il fu Mattia Pascal”: inscenamento della morte, studio
della sostituzione, noia (disagio) del mondo presente e tensione verso un
futuro diverso. Coincidenza (?) della grande letteratura.
Edogawa Ranpo “La lucertola nera”
Corriere Giappone euro 8,90
[A: 29/11/2022 – I: 06/03/2024 – T:
08/03/2024] - &&&
[tit. or.: 黒蜥蜴,
Kuro-tokage; ling. or.: giapponese;
pagine: 190; anno 1934]
Con
questo terzo titolo entriamo a pieno titolo nel mondo giallo di Ranpo. Le sue
costruzioni mutuate dalla sua passione per il giallo occidentale, i rimandi
interni ed esterni, il sottile erotismo, un ritmo incalzante, soprattutto per
gli standard giapponesi da sempre improntati ad una a volte esasperante
lentezza.
Inoltre,
è anche uno dei tanti romanzi in cui compare l’investigatore eponimo di Ranpo,
Akechi Kogoro. In effetti, il primo in cui il detective assume le sue
caratteristiche proprie: astuzia, ironia, capacità deduttive eponime di
Sherlock Holmes. Al servizio di una trama complessa, in cui trame e sottotrame
si intrecciano fornendo un risultato gradevole. Molto nella prima parte, poco
nella parte centrale, per poi risalire nel finale. Con un giudizio complessivo
quindi di sufficienza piena, anche se non ai livelli più alti delle mie
letture.
C’è
molto di Poe, ovvio, che al grande americano spesso e volentieri Ranpo si
ispira: la presenza del doppio, la folla che incalza, la presenza di luoghi
macabri come l’obitorio, fino ad una citazione piena, seppur velata, di uno dei
maggiori testi di Poe “Il cuore rivelatore”.
Ma
c’è anche Maurice Leblanc, che l’eroina nera del testo può a lungo essere vista
come il contraltare femminile di Arsenio Lupin. Non fino in fondo che ad un
certo punto stilemi giapponesi portano la nostra “Lucertola Nera” verso una
deriva che è molto lontana dal nostro ladro gentiluomo.
È
quindi un esempio tipico della prosa di Ranpo, dove si mescolano gli elementi
classici del giallo con la presenza di un’aura di mistero tipicamente
giapponese. E dove Ranpo non solo cita sé stesso (una lunga parte sembra
riprendere il suo giallo del ’25 “La poltrona umana”) ma aggiunge un elemento
quasi da feuilleton ottocentesco francese. Ogni capitolo si chiude con una
domanda, la cui risposta avverrà nei capitoli seguenti.
Protagonista
del giallo è una misteriosa donna giapponese, la Lucertola Nera appunto, donna
bellissima di cui sappiamo solo i dettagli attuali: non conosciamo il suo nome,
non sappiamo la sua storia precedente. Sappiamo solo che ha una lucertola nera
tatua sul braccio sinistro (da cui il soprannome). È una ladra, ma una ladra
che non ha interesse solo al furto, ma alla scommessa di sconfiggere gli altri,
di mettersi in gioco. Soprattutto se trova avversari degni di lei. Sappiamo
solo che colleziona gioielli, che è a capo di una banda a lei devota, e che ha
un suo quartier generale in una discarica nella baia di Tokyo.
È
subito nel vivo, prima danzando la “Danza del Gioiello”, completamente nuda ad
una festa piena di una folla che la osanna. Poco dopo, salva dalla polizia
Junichi, un suo conoscente che ha appena ucciso il suo rivale in amore, usando
stratagemmi tipicamente giapponesi, come imperturbabilità e travestimenti. E da
travestita la vediamo entrare in un grande albergo, presentandosi come madame
Midorikawa, donna bella, interessante e curiosa di tutto.
Qui
sta cercando di organizzare il suo prossimo colpo: rubare un diamante, la
“Stella d’Egitto”, di proprietà dei ricco Shobei Iwase. Il quale alloggia in
quell’albergo insieme alla bellissima figlia Sanae. Vediamo subito che la
nostra ladra è interessata a rubare entrambe, il diamante e la ragazza. Anche
perché Shobei, che ha ricevuto strane lettere che preannunciano il furto, ha deciso
di chiedere aiuto al grande investigatore Kogoro.
Questa
in fondo è la sfida che predilige la lucertola. Non il furto, ma la sfida con
Kogoro. E da quando anche il nostro entra in scena, si passa di livello. Si
entra nel noir di furto, contro furto, fuga e ritorno. Madame Midorikawa sfida
Kogoro scommettendo con lui sulla possibilità che Sanae venga rapita. La
Lucertola con Junichi travestito sembra riuscire nel rapimento, ma Akechi, non
vi dico come, sventa la minaccia, e fugge con lei ad Osaka.
Indispettita,
la lucertola organizza altre occasioni di rapimento, riuscendo alla fine a
sottrarre Sanae alla guardia di Kogoro. Portandola nel suo covo, dove si salta
nel versante meno godibile del romanzo. Lì nella discarica, oltre ai gioielli,
lei colleziona “persone” che ritiene belle come gioielli. E che, dopo un certo
periodo in cui ne gode la presenza, li uccide e li fa imbalsamare. Destino
riservato anche alla bella Sanae.
Ma
prima Midorikawa vuole anche i gioielli, e propone uno scambio a Kogoro. Da
effettuare su di una torre a Tokyo. Qui vedremo l’astuzia di Kogoro che sventa
il furto superando in astuzia la dark lady. Che tuttavia ha ancora Sanae nelle
sue mani. Altri inseguimenti, culminanti nel lancio in mare, dentro un divano
chiuso, del nostro Kogoro, e nella segregazione nella discarica della ormai
terrorizzata Sanae.
Riuscirà
Kogoro a sventare il disegno della lucertola, supponendo che non sia morto in
mare?
Anch’io
termino con una domanda, ma non ho altri capitoli nei quali donarvi la
risposta, per la quale vi rimando alla bella lettura del romanzo.
Un
romanzo assolutamente ben costruito, con quelle venature occidentali che lo
fanno leggere ancor’oggi a novant’anni di distanza. Ma anche con una
costruzione tipicamente giapponese, pur se di un Giappone che allora era molto
diverso da quello attuale.
Ho
apprezzato la maestria di Ranpo, meno i sottofinali che portano allo
scioglimento della vicenda, e soprattutto mi è mancata la localizzazione
dell’azione che certo si svolge in luoghi a me noti, senza tuttavia quelle
descrizioni che me ne avevano fatto apprezzare i romanzi precedenti. Ma è in
definitiva un libro che si deve leggere, volendo cercare di comprendere
l’evoluzione del giallo del Sol Levante.
Questa volta ho deciso per un contrappasso.
Dopo aver parlato di scrittori (maschi) giapponesi autori di noir, mi viene da
citarvi una scrittrice turca di noir Esmahan Aykol di cui
riporto due frasi dal suo “Hotel
Bosforo”:
“La differenza principale tra un uomo
rifiutato e una donna rifiutata sta nel fatto che lui non perde tempo e mostra
subito il suo vero volto. Lei, invece, reagisce in modo più cauto: magari
l’uomo non voleva rifiutarla, magari c’è stato un equivoco… Di conseguenza, le
donne passano alla fase della vendetta solo dopo il quarto rifiuto, mentre gli
uomini cominciano a fare ritorsioni alle prime difficoltà” (185)
“Sono un esempio vivente del fatto che le
persone non cambiano” (251)
Siamo anche ad una Pasqua, bassa come si dice, ed anche piena di piccole e grandi paure. Le congiunture indicate la scorsa settimana sono aumentate ed hanno chiuso fuori dalla porta una visita a New York. Allora, sfruttiamo aprile per rimettere in sesto schiena e umore, così che vi si possa abbracciarvi tutti.