Dopo avervi lasciato due settimane a bocca asciutta, causa bella trasferta americana, questa settimana vi compenso con una cinquina femminile, come dice il titolo, di livello. Certo “inquinata” da una piccola presenza maschile, ma ne capirete leggendone.
Abbiamo tutte sopra media, dall’argentina Claudia
Piñeiro alle statunitensi Kathryn Stockett e Lisa Taddeo, che ha ovvi
ascendenti italiani. Dove torniamo, nella mescolanza proficua di razze con le
punte anglo-siciliane di Simonetta Agnello Hornby e tedesco-romane di mia
nipote Charlotte (con quell’aggiunta di cui leggerete).
Simonetta
Agnello Hornby “Punto pieno” Feltrinelli euro 13 (in realtà, scontato a 11,05 euro)
[A: 08/01/2023
– I: 06/12/2023 – T: 08/12/2023] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 323; anno: 2021]
Sarà
forse per questioni amicali, ma a me, in genere, la scrittura di Simonetta
Agnello Hornby piace, sia quando parla delle sue storie personali, sia, come in
questo caso, quando porta probabilmente a compimento la storia della famiglia
Sorci. Usa un suo modo di esporre, fatto a volta di salti, di incisi, di
rimandi, ma alla fine ne viene fuori la trama, e, in controluce, tutto un
mondo, la Sicilia, che mi è sempre stato vicino.
Con
questo terzo romanzo seguiamo i Sorci dal 1955 al 23 maggio 1992, data epocale
e di svolta, data della strage di Capaci, con l’uccisione di Giovanni Falcone, della
moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito
Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Storia che ci fa toccare di
sfuggita un'altra morte di mafia, quella di Mauro Rostagno nel settembre del
1988, e che parte anch’essa da una morte, quella del barone Andrea Sorci, morto
dopo aver ucciso, in un impeto d’ira, la sua domestica Ersilia.
Morti
e mafia che si legano ad uno dei personaggi principali e maieutici della trama,
cioè Peppe Vallo, figlio adulterino del capostipite, il barone Enrico, e quindi
fratellastro di Andrea. Ma soprattutto, dopo aver vissuto anni in America, un
avvocato che fa fortuna legandosi alla mafia, di qua e di là dell’Oceano. E che
serve a raddrizzare le dirazzature della stirpe.
Mette
a tacere le malefatte di Andrea, risana, con l’aiuto di Enrico, parte delle
fortune familiari, è da sempre legato a Mariolina, figlia di Luigi a sua volta
figlio di una altro fratellastro di Peppe, Filippo. Una donna con cui coronerà
anche se per pochi anni i suoi sogni di pace familiare e sociale. E con cui
avrà un figlio, Harry, che non avrà mai vita né facile né fortunata.
Come
capite, è un romanzo di personaggi, che si mescolano tra Storia e storia, e che
sono la colonna portante del libro. Tanto che basterebbe leggere le ultime tre
pagine del libro, con la genealogia dei Sorci, dal capostipite Enrico, giù giù
sino all’ultimo nato nell’ambito regolare della famiglia, Cola, detto Colapì,
per ricostruire il libro e la storia.
Oltre
ai già nominati c’è Nicola detto Cola, il più buono dei dodici figli di Enrico,
uno che non diventa mai astioso, che riesce sempre a perdonare lo scapestrato
figlio Rico, affezionandosi sempre più alla nuora Rita. Che Rico, pur amando
Rita, la tradisce ad ogni piè sospinto, ma lei, con la sua semplicità e
schiettezza, riuscirà a ricucire tutte le ferite. Ed a far crescere con amore i
suoi due figli Colapì e Amelia.
Poi
c’è Carlino, nominalmente figlio di Antonio, ma in realtà generato da Laura,
moglie di Antonio, e Cola. Uno che troverà la sua strada, a dispetto di tutti,
nella moda. Gay dichiarato porterà, o riporterà, nell’area familiare il respiro
dell’America, con il suo costante sodalizio con la Mariolina di cui sopra.
Mariolina che verrà prima costretta ad un matrimonio di facciata con l’altro
gay Alfio, per poi, alla morte di questo, come detto, convolare felicemente con
Peppe.
Ma
soprattutto ci sono loro, le tre zie, o le tre sagge come le chiamano, Beatrice,
Sara e Rachele. La prima una cugina mai sposata, le altre due figlie di Enrico
e ben presto vedove. Saranno loro a fondare il “Circolo del Punto Pieno” un
luogo di incontro tra donne che trovano nel cucire un momento di pensieri
altri, un modo di curare i diversi dolori. Un Circolo che accoglie tante vite
diverse, prostitute che stanno cambiando, donne che hanno bisogno di sostegni
economici, signore e signorine che, per motivi vari, hanno bisogno di
rammendare la loro esistenza. E sarà proprio attraverso le continue visite al
Circolo stesso che noi si procede nella trama, quasi fosse una boa cui
aggrapparsi per resistere alle avversità.
La
narrazione avviene per capitoli in cui i vari personaggi diventano i narratori,
ed attraverso questo espediente complesso seguiamo tutte le vicende. Di cui non
vi parlo per esteso, che troppo lunga sarebbe questa trama. Succede molto, ma,
come direbbe Tomasi di Lampedusa, nulla cambia. Con la sola speranza che ci
lascia Colapì, dicendo alla fine del libro “Io torno”. Così che anche noi si
spera che Simonetta torni con qualche altro anno della famiglia Sorci.
Anche
se altri suoi libri mi hanno scaldato di più il cuore, anche questo è stato
letto con gusto, trasporto, e voglia di seguire ancora la vita dei siciliani,
in patria e fuori.
“Questa
è la tragedia della sinistra … le idee sono bellissime, ma completamente
slegate dalla realtà.” (109)
“Non
ha voluto diventare vecchio. Lo era, forse, ma non lo è mai diventato.” (192)
Claudia
Piñeiro “Elena lo sa” Repubblica Profondo Noir euro 8,90
[A: 09/10/2023
– I: 04/01/2024 – T: 05/01/2024] - &&&
e
½
[tit.
or.: Elena sabe; ling. or.: spagnolo; pagine: 156;
anno 2007]
Ritorno
ogni quattro anni su di un libro dell’interessante scrittrice argentina,
leggendone come capita, cioè andando su e giù nella sua scrittura senza un
ordine preciso. Unica costante è la critica che mi permetto di fare alla
collocazione dei suoi libri in un’etichetta di genere. Ci sono nei suoi libri
dei morti, ed a volte delle indagini, ma non c’è nessun noir.
Così
anche questo, lo trovo assolutamente fuori posto in questa collana, laddove
potrebbe inserirsi in qualsiasi collana di letteratura. Ma poi andremo anche a
disquisire su cos’è letteratura (nel senso fiction) e cos’è “di genere”. Non
ora, non qui. Per chiudere il discorso, su di un interessante rivista
sudamericana (“Linguistica y Literatura”) uscì un articolo che etichetta la
scrittura di Claudia, e questo romanzo in particolare, nel genere “poliziesco anti
detective/metafisico”. Il primo termine si riferisce al fatto che, in genere,
non ci sono veri e propri detective. Il secondo sul fatto che il romanzo si
focalizza su quesiti esistenziali fondanti nel nostro pensiero (che cos’è
l’identità, o l’impossibile ricerca della verità, o, per finire, la vecchiaia e
la malattia).
Io,
personalmente, toglierei tutti gli orpelli polizieschi, ed inviterei il lettore
a leggere questo libro come uno dei più intensi trattati sulla malattia che mi
sia capitato di leggere.
Il
personaggio centrale, infatti, è Elena che, pur non anziana (ha 63 anni), sta
sempre più avvitando la sua vecchiaia intorno alla malattia che chiama “puttana
malattia infame”. Elena è affetta dal morbo di Parkinson, che sappiamo bene
impedisce, limita, tarpa i movimenti, ma non il cervello che rimane lucido,
vigile e doloroso per non riuscire a contrastare il progredire della malattia.
Il
cruccio di Elena è la tragica scomparsa di Rita, la figlia che la accudiva.
Figlia che, in una notte di tempeste e temporali, lei che aveva paura dei
tuoni, si sarebbe recata nella chiesa parrocchiale di zona, da lei sempre
frequentata in quanto molto cattolica e devota, e si sarebbe impiccata. Elena
non crede alla versione ufficiale, cerca di avere solidarietà da un poliziotto,
che per un po’ segue le sue divagazioni ma poi si allontana. Elena sa che la
figlia, ed anche lei, non sono amanti dei temporali, e dubita che una cattolica
abbia l’ardire di appendersi ad una trave in chiesa.
Non
ha molto da indagare, solo la speranza di un aiuto da parte di Isabel, una
donna che molti anni prima, lei e Rita hanno convinto a non abortire, e che
Elena pensa abbia un debito nei suoi confronti. Così si mette in moto
attraversando tutta Buenos Aires, trova Isabel, ma trova anche una diversa
versione dei fatti precedenti. Isabel non ha mai perdonato l’intrusione di
Elena e Rita nelle sue scelte, non ha mai amato il figlio che poi nacque. Ma ha
anche continuato, nel tempo, a seguire e sentire saltuariamente Rita, così che
può rappresentare ad Elena la sua versione dei fatti e della vita.
Tuttavia,
non è questo il fulcro, il punto centrale, bello e dolente. Per me è stato il
seguire tutti i ragionamenti di Elena per alzarsi, mangiare, prendere
l’autobus, arrivare da Isabel ed avviarne il confronto verbale, tutto
attraverso un corpo che progressivamente si sta arrendendo al Parkinson. Sempre
meno autonomia, difficoltà nel mangiare, nel provvedere al proprio corpo, nel
camminare, anche nel guardare verso l’alto, dato che il muscolo sternocleidomastoideo,
situato nella regione anterolaterale del collo, è rigido e blocca il suo
sguardo.
Come
può, allora, questa donna avere la sua giustizia, se fatica a fare un passo, ad
infilarsi la manica, anche a prendere la levodopa (farmaco che serve a bloccare
temporaneamente il Parkinson). Ma Elena sa che la sua unica speranza è il
colloquio con Isabel, e così si avvia, triste e solitaria, in una città che
conosce a memoria, ma che ora attraversa con tempi biblici. Tempi che le
consentono di affrontare tutte le sue pensate di vita.
Comincia
con pensieri quotidiani (ha senso per una malata andare dal parrucchiere? Per
farsi bella per chi? Ed altre attività di ogni giorno. Per poi passare al suo
rapporto con la figlia, da cui lei ormai dipendeva al 100%, e sempre di più,
visto il progredire della malattia. Si domanda, metafisicamente come si diceva
all’inizio, che si è orfani se si perde un genitori, vedovi se muore il
coniuge, ma come ci si chiama se si perde un figlio? Non c’è nominalismo,
perché non è previsto che i figli muoiano prima dei genitori.
Inoltre,
nella sua forza ostinata e contraria, la scrittrice fa balenare un risvolto
forte per l’Argentina, quello di tutte le madri che rifiutano la perdita dei
figli, si mettono un fazzoletto bianco in testa, e sono lì, da anni, a
simboleggiare un dolore infinto, lì in Plaza de Mayo.
Ma
tutta la forza, la bellezza, la paura che suscita il testo non è solo nel
rapporto madre – figlia, nella scomparsa di una persona che ti doveva accudire
per sempre, ma in quel rapporto con una malattia che, a poco a poco, prende il
sopravvento, ruba un presente dignitoso sino a negare una qualsiasi possibilità
di futuro. Il viaggio di Elena attraverso la città diventa quindi un viaggio
attraverso la malattia, attraverso la disamina di tutta la propria vita, verso
un porto di speranza, un porto dove capire finalmente cosa è successo, e come
affrontarlo, ancora e sempre.
Ed
Elena lo sa che non avrà pace, mai, in ogni caso, che non potrà neanche farsi
consolare dai gatti, che avrebbero bisogno di un aiuto che lei non riesce
neanche a dare a sé stessa. Elena si chiede quindi chi sia, quale sia ora e
quale sia stato per tutta la sua vita, il suo ruolo.
Un
romanzo sull’identità, sulla perdita, sulla malattia, sulle ossessioni. Un bel
romanzo ben tradotto da Pino Cacucci ma collocato in un contesto sbagliato. Se
volete, leggetelo nella confezione proposta da Feltrinelli.
Un
romanzo che ci invita a riportare il nostro sguardo su situazioni che ci sono
davanti, ma che, a volte, evitiamo di guardare.
Kathryn Stockett “The Help – L’aiuto” Mondadori euro 13
[A: 21/11/2020 – I: 22/01/2024 – T: 24/01/2024] - &&& e ½
[tit. or.: The Help; ling. or.: inglese; pagine: 524; anno 2009]
Pur
se datato nella scrittura e nell’ambientazione, e con qualche buonismo un po’
accentuato, un libro che si fa leggere e che è bene leggere e tenere a mente.
Non conoscevo la scrittrice e non credo abbia avuto altre grosse uscite, ma in
questa prova Kathryn Stockett si rivela una buona penna, attenta e
discretamente coinvolgente. Che ci riporta ad un paio d’anni che per l’America
(ed in parte per tutti) furono fondamentali.
Pieno
di buone intenzioni, e scritto con coinvolgimento reale, tuttavia rimane molto
tiepido sui sanguinosi rapporti che descrive. Ben sappiamo che non furono anni
di rose e fiori, e l’occidentale ottimismo del libro stesso si scontra con
quello che ancora vediamo in America.
L’azione
parte nell’agosto del 1962, e si svolge tutta nel profondo Sud americano, a
Jackson, Mississippi, uno dei posti più bui ma tipici all’ennesima potenza
dello strisciante razzismo americano. Seppur siano passati solo sette anni
dall’eponima vicenda di Rosa Parks e della prima sconfitta dei segregazionisti
(penso sia nota a tutti la vicenda dell’autobus dei bianchi e delle conseguenze
che portarono il Governo Federale a condannare le leggi razziste dell’Alabama),
il profondo Sud è sempre alle prese con lo stesso problema di rapporti.
Ci
sono le famiglie bianche, con i mariti che lavorano fuori casa tutto il giorno
e si distraggono nei Country Club, tra tennis e golf, e le mogliettine (ne
parlo al diminutivo che sembra sempre siano giovani ed inesperte) che mettono
al mondo figli che non sanno allevare, non sanno cucinare, e vanno in giro con
il datato filo di perle sopra il maglioncino, pensando solo al tè con le amiche
ed alle partite di bridge. Non solo, ma laddove si organizzano party per
raccogliere fondi per i bambini neri africani per poi costruire bagni separati
nei garage per le proprie domestiche di colore. Perché certo ci sono le
governanti negre che pensano a tutto: cucinare, tenere in ordine la casa,
allevare i figli altrui.
Per
darci conto di questo mondo, la scrittrice imbastisce un racconto a tre voci,
che si alternano con differenti toni e prospettive, anche se, come ci si
aspetta dalle prime battute, troveranno il modo di convergere verso un progetto
comune e scardinante.
Abbiamo
Aibileen, da poco superata la cinquantina, tutto fare della casa di Elizabeth,
una di quelle mogliettine tipiche, dove oltre alla casa, alleva Mae
Mobley, la sua diciassettesima bambina bianca. La situazione casalinga non è
delle più disastrose, pur se vediamo le barriere che sorgono subito tra bianchi
e neri. Ma Aibileen è anche un punto fermo della comunità nera, una che dice le
preghiere per le sue colleghe meno fortunate, una che la sera scrive sui suoi
quaderni pensieri e parole di quelle che ha vissuto (personalmente o tramite le
sue amiche di colore) nelle tribolanti giornate di lavoro.
Contraltare
di Aibileen, è l’esuberante Minny, che invece è pronta a farsi saltare la mosca
al naso, che risponde per le rime se ritiene che i rimproveri delle sue datrici
di lavoro bianche oltrepassino i limiti del rispetto comune. Motivo per cui è
spesso licenziata, anche se poi deve fare i conti con una famiglia numerosa ed
un marito manesco.
In
questo contesto, torna a casa, dopo la laurea, Eugenia Phelan detta "Skeeter",
che in americano colloquiale vuol dire “zanzara”, soprannome affibbiatogli da
piccola per la sua fastidiosa tendenza a “dare fastidio”, cioè a porsi e porre
domande. Al contrario delle sue amiche, e con grande dispetto della madre,
Skeeter non cerca un marito, ma vuole seguire la sua strada, fare la
scrittrice. Trovando inaspettatamente un credito da parte di una rivista di New
York, si mette in testa di scrivere un libro “dalla parte delle domestiche”.
Con
fatica, ma perseveranza, coinvolge nella sua idea prima Aibileen, poi anche
Minny, così che nel corso di una anno riesce a confezionare un libro con la
visione della vita domestica di Jackson, osservata dall’altra parte della
barricata.
In
tutto questo percorso, le nostre affrontano diversi ostacoli, ostracismi ben
orchestrati, in particolare dalla capetta della mogliettine, Hilly, un
personaggio odioso ai limiti del ridicolo (e quando leggerete il libro ne
capirete i motivi). Non mi interessa entrare nei dettagli del percorso che le
nostre fanno per arrivare alla fine della storia. Una fine dolceamara, che le
domestiche rimarranno sempre tali, pur se si aprono alcuni spiragli di
comprensione. Mentre Skeeter volerà a New York per seguire il suo sogno di
scrittura, dopo la fortunata riuscita del libro.
Un
utile memento che mi esce fuori dalla lettura, oltre alla sottolineatura delle
violenze contro gli attivisti negri da parte del Ku Klux Klan e dei suoi
epigoni, è l’analisi delle cosiddette “leggi Jim Crow” che dal 1876 sancivano
la segregazione razziale: scuole pubbliche separate, luoghi pubblici con
entrate diverse per i bianchi e per i neri, differenziazione dei bagni, dei
ristoranti, ospedali, supermercati, e la comparsa dei cartelli “White Only”
sulle porte di ogni attività pubblica e privata di ogni città d’America.
Una
lettura che fatta oggi ci deve far pensare anche al nostro presente, al modo
urtante di vedere la convivenza con l’altro, per sesso, colore, religione od
altro. Un modo per ribadire con Schiller che contro la stupidità, padrona ormai
dei nostri anni, neanche gli dèi possono nulla.
Concludo
ricordando che pochi anni dopo l’uscita del libro, ne fu tratto anche un film,
dallo stesso titolo, con alcune candidature all’Oscar di cui una vincente,
miglior attrice non protagonista a Ottavia Spencer per la sua interpretazione
dell’esuberante Minny Jackson.
Lisa Taddeo “Tre donne” Corriere
Americana euro 8,90
[A: 10/01/2024 – I: 04/02/2024 – T: 06/02/2024] - &&& e ½
[tit. or.: Three Women; ling. or.: inglese; pagine: 350; anno 2019]
Un’altra
buona prova della collana diretta da Veronesi, che, pur alternando situazioni
non omogenee, si dimostra per ora una collana foriera di scelte interessanti.
Anche quando, come in questo caso, ci presenta un romanzo che non è un romanzo
scritto da una scrittrice italiana che non è italiana.
Partiamo
dall’ultima affermazione: Lisa è figlia di Peter, un dottore italo-americano
che, durante la specializzazione a Bologna, conosce Pia, che diventerà madre di
Lisa e moglie sua. Una bellissima cassiera, che seguirà il marito in America.
Quindi Lisa è pienamente americana pur avendo ben ¾ di sangue italiano.
Per
la prima ci affidiamo alle prime parole che Lisa scrive iniziando il romanzo:
“Questa non è un’opera di narrativa”. In realtà è un mix di reality ed
interpolazione di fatti e di dialoghi fatta dalla scrittrice sulla base di otto
anni di ricerca attraverso gli Stati Uniti, che durante la scrittura ha
attraversato da Est a Ovest per ben sei volte. Ha così intervistato un
considerevole numero di donne, condensandone le storie nelle tre tipologie che
presenta.
Un
libro che per la sua capacità rappresentativa, fu subito nella lista dei Best
Sellers americani e che nel 2020 vinse il British Book Award nella categoria
“Non-fiction - Narrative”, una categoria mista che rappresenta assai bene il
carattere del libro (ad esempio, l’anno precedente il premio fu vinto
dall’autobiografia di Michelle Obama).
L’anima
del libro è incentrata sull’analisi del desiderio femminile, desiderio che
spesso si intreccia con i problemi dei rapporti uomo – donna, lasciando dovuti
spazi all’analisi delle sensazioni di prevaricazione maschile, laddove uso un
termine un po’ generico perché abusi può a volte essere interpretato in modo
non corretto. Anche se poi il confine è di una labilità estrema.
La
scelta di Lisa è di alternare i capitoli relativi alle tre donne, una scelta
che da una parte allenta alcune tensioni, dall’altra consente una lettura
trasversale e progressiva delle diverse vicende. Vediamo allora in sintesi che
le sue analisi si concentrano su: Maggie, una studentessa che rimane
invischiata in una relazione poco corretta con un suo insegnante; Lina,
adolescente stuprata ed ora madre insoddisfatta, e ne vedremo i risvolti;
Sloane, gestore di una ristorante il cui marito ama guardarla far sesso con
altri uomini e donne. E non rivelo nulla che questo è già quanto dice l’autrice
nel prologo al testo.
Maggie
viene da una famiglia problematica, genitori alcolisti, padre disoccupato e poi
suicida, sempre in grosse difficoltà economiche. Trova comprensione di Aaron,
il suo insegnante di inglese, e ne vediamo il progressivo abuso sessuale, senza
mai passare alla penetrazione sessuale. Parole, messaggi, masturbazioni, tutto
sempre di nascosto che Aaron è sposato. Tutto finisce, per una serie di motivi
vari. Alcuni anni dopo, Maggie saputo che Aaron è indicato come “insegnante
dell’anno”, vuole giustizia e lo denuncia. Assistiamo così anche a tutto il
processo, ed alle difficili prove che Maggie deve sopportare. Che seguiamo
dalla parte di Maggie, ma dobbiamo aspettare la fine del libro per conoscere il
verdetto.
Lina,
ormai adulta, in gioventù, mentre era la ragazza di Aidan viene stuprata. Ora è
sposata, ma il marito, pur facendo sesso con lei, non l’ha mai baciata, né
vuole farlo. Questo genera uno stato di insoddisfazione che porta Lina a
ricercare Aidan. Anche lui è sposato, ma non si dispiace nel fare di nuovo
sesso con Lina. Tanto che Lina cadrà in una dipendenza affettiva nei confronti
di Aidan. Lina sa che lui la usa solo per appagare il suo desiderio, ma le
briciole di affetto che riesce a racimolare sembrano poterle riempire la vita.
La
storia di Sloane è leggermente più complessa. Bella, ricca e di successo, trova
una forte intesa con il marito Richard. Sloane è sempre stata fluida, ma
l’apporto di Richard la spinge oltre. Così che lei apre le porte della camera
da letto a uomini e donne, insieme a Richard o da sola, ma sempre collegata a
lui tramite video. Finché un rapporto con un altro uomo sposato non mette in
crisi la coscienza di Sloane. La sua “leggerezza” mette in crisi l’altro
rapporto e lei si comincia a domandare dove sia il confine del suo desiderio.
Dove vada ad avere un impatto in situazioni che non può controllare.
Possiamo
essere imbarazzati a volte da alcuni passi, o almeno io ne ho avuto la
sensazione quasi voyeuristica, soprattutto leggendo, da uomo, pagine femminili.
Certo, emergono immagini del desiderio femminile, che magari io, maschio,
lettore, confronto con i miei personali desideri. Ma è anche un libro che scava
sui pregiudizi, che mette in luce le disuguaglianze che una società, maschile, introduce
laddove non comprende, desideri, scelte, magari accettate nell’uomo ma non
tollerate nella donna. O tollerate solo se non espresse.
Bello
è personale, poi, nel prologo e nell’epilogo, il punto scatenante è un episodio
che riguarda sua madre Pia. Quando stava a Rimini, da giovane era seguita di
nascosto da un uomo che, di lontano, mentre lei camminava, ne era eccitato e si
masturbava. Pia se ne accorgeva, ma non ha mai fatto nulla. Lisa si è sempre
domandata i motivi, senza riuscirne ad avere dalla madre, neanche nella scena,
forte e dolorosa, della morte di lei in ospedale.
Charlotte
& Stefano Ossicini “Il cristallo e la balena” Giovane Holden Edizioni s.p.
(regalo degli autori)
[A:
28/02/2024 – I: 29/02/2024 – T: 01/03/2024] &&&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 166; anno: 2021]
Pur
essendo arrivato a fine febbraio, lo considero il regalo di Natale degli
autori, che nella fattispecie, ed è qui al solito una delle difficoltà
dell’analisi, sono mio cugino e sua figlia. Come certo sapete sono molto legato
alla mia tribù, ed in particolare a Stefano data la conatalità, pur con un anno
di differenza, ed un percorso liceale e universitario molto parallelo. Poi i
destini del mondo portano a scelte diverse, soprattutto di città, ma tant’è.
Anche
se, ad onor del vero, ho iscritto il libro nell’ambito delle scritture
femminili, dove vedo la mano guidante di Charlotte lungo i percorsi del testo,
supportata in molti punti dalle solide conoscenze scientifiche del mio emerito
parente. Anche se, nelle loro storie letterarie, è Stefano ad aver prodotto più
libri, divulgativi, oltre a quelli scientifici puri. E qui, in molte parti
divulgative, la mano dello scienziato e del divulgatore si sente.
La
storia ripercorre un classico delle divulgazioni scientifiche del tempo antico:
c’è un mistero, ci si unisce per risolverlo, ognuno portando una brano di
scoperta che, passo dopo passo, porta alla soluzione del mistero. È un viaggio,
nel tempo e nello spazio, che insiste molto su un elemento che spesso viene
sottovalutato, ma che è fondamentale nelle scoperte scientifiche: un’impresa
collettiva senza l’egoismo di certe avventure di scoperta.
Il
mistero è contenuto in un “mattoncino sghembo” rinvenuto negli alloggi degli
ufficiali di una baleniera del quindicesimo secolo, affondata di fronte
all’Irlanda, nella baia di Galway. Ad affrontarlo in prima persona è un giovane
archeologo scozzese Eunan Maxwell che, non trovando il bandolo della matassa,
chiede aiuto ai personaggi che vivono con lui in una comune in quel di Berlino.
Così,
per gradi ma in maniera decisamente efficace, veniamo a conoscere gli altri
interpreti della ricerca: Inar Goigoechea, basca, appassionata di filosofia,
Marcella Borelli, ricercatrice italiana in fisica, Minoru Sasaki, un giapponese
studioso di moda, e Walther Lieffert un bavarese con il talento di saper
aggiustare qualunque cosa.
Una
ricerca che attraverso sette indizi, che vi invito a scoprire (ma tenete a
mente il numero), ed attraverso vari paesi, porterà i nostri in Islanda dove
troveranno la soluzione del mistero del mattoncino. Soluzione che anche qui vi
invito a leggere ed a cui arriverete anche voi con il gusto di scoprire cose
nuove. O, se ne sapete già, modi nuovi di vedere la realtà.
Quello
che mi interessa invece tirar fuori dal libro sono due filoni di ragionamento.
Uno generale ed uno personale. Il primo deriva già da quanto accennato sopra,
ma che si approfondisce capitolo dopo capitolo, entrando nei ragionamenti e
nelle espressività dei giovani. Che sono loro la linfa del nostro futuro, e che
i nostri autori ben sottolineano. Sono giovani diversi, che vengono da paesi
diversi ed ognuno con una sua storia alle spalle.
Ma
sono anche giovani emblemi delle sfide che, loro per primi, sono portati ad
affrontare: il lavoro precario, la ricerca di vivere i propri sogni,
inventandosi sempre nuove strade per realizzarli. Li seguiamo mentre ci
manifestano i loro sogni, le loro speranze, i loro amori, e tutte le passioni
che hanno e che non possono non portare aventi, pena la sterilizzazione del
loro, ma anche del nostro futuro. Sempre, ed è un bene sottolinearlo, cercando
di lavorare insieme, di condividere quel che ognuno sa. Che non tutti sanno
tutto, ma ognuno di noi ha un pezzo della verità globale. Che non sempre si
troverà, ma a cui sempre dobbiamo tendere.
Dicevo
anche personale, che alcuni passi non potevano non smuovere i miei poveri
neuroni affaticati. E ne cito solo i più stimolanti (e personali). La
descrizione della macchina di Anticitera, un sofisticato meccanismo a ruote
dentate forse il primo planetario costruito dall’uomo risalente a prima
dell’era cristiana. A me, oltre alla curiosità, non poteva che rimandarmi ad
una delle saghe cinematografiche da me più amate. È infatti il nodo centrale
del quinto film di Indiana Jones. E poi la bellissima nave VASA che ebbi modo
di vedere nella mia prima visita a Stoccolma, un improbabile vascello affondato
il giorno stesso del suo varo.
Ma
più ancora mi sono sentito parte del libro in tutta l’ultima parte islandese.
Un paese che amo profondamente e dove non mi stanco di ritornare. Dove, in una
delle mie prime visite, abitai a Egilsstaðir, nella parte est dell’isola. E
visitai il Reyðarfjörður spingendomi sino alla miniera di Helgustadir,
abbondantemente e doviziosamente citata nel libro, anche se non vi dirò perché.
E da dove, saltando di palo in frasca, andai anche a visitare Borgarfjarðarhöfn,
lo scoglio, per me incantato, patria dei puffin, le meravigliose pulcinella di
mare. Un uccello che dovete assolutamente andare a vedere.
Vorrei
anche sottolineare la capacità e proprietà delle descrizioni di Berlino, una
città che solo chi vi ha vissuto a lungo come mio cugino può riportarci sulla
carta facendocene vivere alcuni passaggi indimenticabili ed indimenticati.
Non
ho certo dimenticato l’accenno che vi ho fatto sul numero sette. Che sette,
come detto, sono gli indizi per arrivare alla soluzione. E sette sono i
capitoli del libro. Niente di strano se si pensa, oltre al cabalismo intrinseco
del numero sette, che il sette è il giorno natale di Stefano. E, visto che lui
è fisico ma io matematico, mi consenta di sottolineare che se si sommano i
numeri della data di nascita di Charlotte e si sottraggono quelli di Stefano,
il risultato non può che essere … sette!
Poiché,
infine, ci vuole anche un po’ di cattiveria, due cose non mi hanno convinto: la
ricetta di pagina 59, dove viene descritta un’amatriciana senza guanciale, che
per me non potrà mai essere chiamata così. Inoltre c’è una frase criptica sul
calcio a pagina 109, che, come mi hanno poi spiegato gli autori, deriva dal
fatto che in Germania il calcio si chiama “fussball”. E forse una piccola nota
esplicativa sarebbe stata utile.
Comunque,
un buon libro, con l’unica mia riserva personale che, in alcuni punti, le
spiegazioni scientifiche sono leggermente più lunghe di quanto possa essere
utile per una lettura agevole. Anche se mi rendo conto che bisogna fare una
mediazione tra leggibilità e completezza.
Ma
alla fine, è un libro che si legge bene, anche senza perdere troppo la testa
nelle parti scientifiche. Non sarà un capolavoro degli anni duemila, ma, e
questo è senz’altro un pregio, è di piacevole lettura.
Grazie
anche alla breve seppur intensa trasferta norvegese, il mese di marzo ha portato
letture di numero mediano e di altrettanto gradimento. Fatta esclusione della
me sempre cara Chiara Valerio, cui va la palma del mese, mentre la maglia nera
la faccio indossare a James Ellroy, che, in fondo, non mi ha mai convinto del
tutto.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Charlotte & Stefano Ossicini |
Il cristallo e la balena |
Giovane Holden Edizioni |
s.p. |
3 |
2 |
Gianni Farinetti |
Prima di morire |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
3 |
3 |
Gaetano Garofalo |
Doveva essere un mondo migliore |
Mondadori |
6,50
|
2 |
4 |
Benjamin Labatut |
Maniac |
Adelphi |
s.p.
|
3 |
5 |
Edogawa Ranpo |
La lucertola nera |
Corriere |
8,90 |
3 |
6 |
Richard Brautigan |
La pesca alla trota in America |
Corriere Americana |
8,90 |
3 |
7 |
Marco Di Tillo |
Tutte le strade portano a Genova |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2 |
8 |
Yū
Miri |
Il
paese dei suicidi |
Corriere Giappone |
8,90 |
2 |
9 |
Alessandro Reali |
La morte scherza sul Ticino |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2 |
10 |
Alexander McCall Smith |
L’accademia dei detective |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
2 |
11 |
Chiara Valerio |
Chi dice e chi tace |
Sellerio |
15
|
4 |
12 |
James Ellroy |
Perfidia |
Corriere Noir |
8,90 |
1 |
13 |
Yoshida Shuichi |
L’uomo che voleva uccidermi |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
3 |
14 |
Georges Simenon |
L’uomo di Londra |
Repubblica |
9,90 |
3 |
15 |
Piergiorgio Odifreddi |
A piccole dosi |
Raffaello Cortina editore |
s.p. |
2 |
16 |
Lorenza Ghinelli |
Tracce dal silenzio |
Feltrinelli |
12,5 |
2 |
E per
continuare con l’omaggio al femminile, non potevano mancare alcune grandi frasi
di Vicki Baum estratte dal suo libro “Grand Hotel” (che ricordo per l’eccellente film con Greta Garbo ed i fratelli
Barrymore, nonché una giovane Joan Crawford).
Frasi che appaiono qua e là nel corso delle
vicende del Grand Hotel berlinese:
“La
vita … esiste davvero? Ciò che si vorrebbe si trova sempre da qualche altra
parte. Quando si è giovani si pensa: verrà più avanti negli anni. quando si è
più avanti negli anni, si pensa: la vera vita era quella di prima” (67)
“Cos’è
un peccato? – Che si cominci sempre con la donna sbagliata. Che si rimanga
stupidi e che per mille notti si creda che l’amore non possa che andare a quel
modo, con quel retrogusto insipido e freddo, sgradevole come un’indigestione. Che
la prima donna con cui lo si è fatto non sei stata tu” (177)
“Non
si può non danzare, è un’ossessione … intossica quanto il lavoro e il successo.
… Il giorno in cui il successo viene meno, il giorno in cui non si crede più
alla propria importanza, quel giorno, per una di noi, finisce anche la vita”
(184)
“Potrà
obiettarmi che la vita non è fatta di caviale, champagne e robe simili. Ma di
cos’è fatta la vita? … Io non sono più un giovanotto, sono anche un po’
sofferente; ed allora, ad un tratto, uno è preso dalla paura, una paura
terribile, di lasciarsi sfuggire la propria vita. Ecco, io non vorrei
lasciarmi sfuggire la vita.” (241)
“Lungo o breve che sia, è il contenuto di una
vita quel che le dà senso, e due giorni di esistenza intensa possono essere più
lunghi di quarant’anni di vuotezza.” (408)
E dove finisco, citando la chiusa del film, che non
compare nel libro: “Grand Hotel... always the same. People come;
people go. Nothing ever happens.” Che nella versione italiana diventò “Grand
Hotel … gente che va, gente che viene, tutto senza scopo”: Una metafora?
Come
dicevo in apertura, in questo mese di maggio si è fatta una trasferta, breve
seppur interessante, sul suolo americano. Visitando per la prima volta Miami e
la Florida, e tornando, dopo quarant’anni, a New Orleans. A parte l’umidità di
livelli astronomici, la visita è stata interessante. Buoni spaccati americani,
grande visione dell’abisso tra normali e barboni (e ce ne sono tanti). Musica,
tanta, non sempre di alto livello, ma coinvolgente nella Louisiana sudista.
Ora ci si ferma, che l’estate porta consiglio e riposo. Ne riparleremo a settembre, credo. Quindi, come promesso, eccoci qua nel 2 giugno dei ricordi, con il solito salutare abbraccio.
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