domenica 29 settembre 2024

Giallo cioè Mondadori - 29 settembre 2024

Perché i romanzi del lato investigativo, a qualsiasi termine si voglia riferire la parola, hanno preso in Italia il colore delle prime pubblicazioni degli Anni Trenta, usciti per le tipografie di Mondadori. Così che tutta questa branca letteraria, in Italia, si etichetta come giallo.

E qui ne abbiamo esempi, tutti italiani. Purtroppo non eccelsi, direi di un’aurea mediocritas. Abbiamo ai due antipodi, due esempi di scrittori dalle poche uscite, con in basso Gaetano Garofalo ed in alto, ma non di tanto, Paolo Brunetti. In mezzo autori più noti, dal gran falsificatore Rino Cammilleri al seriale un po’ spento di Valerio Varesi, attraversando uno dei soliti grandi classici di Augusti De Angelis, anche se qui non al meglio.

Gaetano Garofalo “Doveva essere un mondo migliore” Mondadori euro 6,50 (in realtà, scontato a 5,50 euro)

[A: 04/08/2023 – I: 02/03/2024 – T: 03/03/2024] && ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 202; anno: 2023]

Poteva anche essere un libro migliore, ma qualche bersaglio è stato mancato.

Mi dispiace aver cominciato con un attacco ironico, tuttavia trovo che il libro di Garofalo abbia alcuni spunti interessanti, mentre in altre fasi del racconto diventa un po’ scontato con dei tratti di salto della trama, laddove si perdono alcuni passaggi di trama. Garofalo, comunque, pur essendo questo solo il suo secondo romanzo, dimostra una buona padronanza della scrittura, in particolare dove si sente più a suo agio con gli elementi della trama.

Dicevo, forse cerca di mettere troppi elementi all’interno del romanzo, intrecciando le storie del protagonista, Sergio Lazzari detto Attila, tra passato e presente, con trame legate al territorio, sia per le problematiche mafiose di Palermo, sia per i problemi legati ad iniziative malavitose, anche se rivoli di trame, pur illuminando il clima locale, sono dispersive rispetto alla trama principale.

Attila è di certo una persona problematica, con un vissuto alle spalle non facile, ed un presente in cui stenta ad inserirsi. Lo incontriamo ora, alla deriva tra incubi e solenni sbornie alcoliche, ma presto ricostruiamo il suo percorso. Giovane sbandato, impegnatosi nella boxe che lascia quando viene preso in Polizia, dove fa un ottimo percorso sino ad entrare nei NOCS. Dove, insieme al suo amico detto il Biondo, partecipa ad alcuni riuscite azioni. Sino all’ultima, quando, nel tentativo di sventare un sequestro, spara ad un sequestratore non essendosi accorto né avvertito dal Biondo, che il tipo aveva in braccio il neonato rapito. Conseguenze: morte di entrambi e dimissioni dai NOCS. Da dove, poco dopo, viene allontanato anche il Biondo per problemi di abusi di sostanze eccitanti.

A Palermo, Attila riprende il percorso pugilistico sino ad arrivare ad una finale importante, dove combina un casino gigante (questo non lo riporto che è un punto di buona lettura). Fatto sta che il suo mentore lo caccia e lui si adatta a lavoretti di piccolo cabotaggio per tirare avanti. La svolta, che sarà l’elemento trainante del romanzo, avviene quando scoppia una guerra di mafia tra due fazioni palermitane. Don Raffaele gli chiede allora di fare la guardia del corpo alla figlia Marina, cosa che compie con poliziesca destrezza insieme al Biondo.

Qui, appunto, si innesta il filone mafioso, che però rimane scontato e poco coinvolgente. Tutta una serie di uccisioni, agguati, tradimenti ed altro, che servono a riempire di sangue il testo, a far emergere la competenza militare di Attila, e ad introdurre un altro elemento nel calderone del testo. Entra così in gioco il brigadiere Vezzella, di cui conosciamo ben presto problematiche familiari che lo caratterizzano, ma che poco portano al testo. Nonché la sua capacità territoriale, piena di piccoli contatti con la grande area malavitosa.

C’è anche tutto un filone, legato alla scomparsa di bambini senza famiglia, o di provenienza da immigrazioni povere, che tutto sommato è anch’essa di forte inutilità al sostenimento della trama principale. Certo, vediamo l’empatia di Vezzella verso l’altro, quasi fosse un Attila cui le cose sono andate un po’ meglio. Ma questo sembra essere l’unico vero contributo del nostro.

Seguiamo invece tutte le vicissitudini di Attila, del Biondo e di Marina, dove il nostro, azione dopo azione, da un lato capisce che c’è qualcosa di strano in questa guerra, dall’altra ne accentuano la dolente umanità, al contatto con la giovinezza di Marina. Ma come ripete spesso, a lui nessuna ha dato una seconda opportunità, ed ogni volta sprofonda sempre più. Riuscirà a portare a compimento la missione, Marina uscirà illesa, e tuttavia ci domandiamo se lui, il Biondo, i mafiosi di vario calibro e stampo, avranno delle conclusioni altrettanto non negative.

Diciamo che, a consuntivo, due sono i temi che Garofalo sottolinea, più o meno esplicitamente. Il dualismo Attila – Vezzella, dove le due esistenze, a fronte di bivi morali, si comportano in modo differente, quasi affrontassero delle “sliding doors” di cinematografica memoria. L’altra, più sottile e sottesa, è l’incapacità di Attila di gestire il proprio dolore. Certo, ha commesso un delitto in modo involontario, e certo, una coscienza onesta difficilmente si risolleva da un tale baratro. Ma un conto è convivere con questo dolore, un altro è lasciarsene sopraffare, non riuscendo mai a venire a patti con sé stesso.

Se Attila avesse la forza interiore di Vezzella, probabilmente si sarebbe riusciti a costruire un mondo migliore. Un mondo che, nelle speranze di Garofalo, potrebbe essere quello a cui sarà destinato il futuro di Marina, magari lontano dalla mafia, magari lontano anche da Palermo.

Come detto, troppe frecce partono, alcune poco significative. La scrittura scorre sino alla sua conclusione, dove le parole di Attila servono da chiosa, ma che risolvono poco.

Rino Cammilleri “L’inquisitore” Mondadori euro 6,90

[A: 01/06/2023 – I: 05/05/2024 – T: 07/05/2024] &&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 219; anno: 2023]

Dieci anni fa lessi un libro del giornalista Cammilleri, dedicato ad uno dei tanti apocrifi di Conan Doyle, che non mi convinse e conclusi, allora, invitando ad evitare altre letture dello scrittore. Proposito mantenuto per tanti anni, ma ora, sulla spinta del mio non celato amore per il giallo italiano, ho mancato l’invito, letto un nuovo romanzo del nostro. Devo dire che, di sicuro, questa scrittura è migliore, pur non salendo mai a livelli di sufficienza piena.

A parte alcune note storiche, di cui un paio ne discuto in finale, l’azione si svolge negli ultimi mesi del 1247, a partire dal 21 ottobre. Viene trovata uccisa Beatrice, una donna “di mondo”, come si diceva, che aveva fatto girare un notevole numero di teste nella Pisa d’allora. Morta in una posizione che doveva far pensare a qualche rito satanico. Anche perché, in quelle date, infuriando lotte tra guelfi e ghibellini in tutta la Toscana, Pisa era stata colpita da un interdetto papale a seguito di una battaglia in cui i pisani presero prigionieri due vescovi intorno al 1241. Ed anche perché Pisa era fedele all’imperatore Federico II in funzione antipapale. Ricordo, per completezza, che il papa al tempo della narrazione era un genovese, Sinibaldo Fieschi, salito al soglio pontificio con il nome di Innocenzo IV.

Quindi c’è un pesante clima di lotte e di tranelli, motivo per cui il papa invia, a dirimere la questione della morte di Beatrice, il giovane inquisitore Corrado Leclerc da Tours. Che veniamo ben presto a conoscere, nel bene e nel tormento. Anche perché, in quel di Pisa, ritrova un suo vecchio commilitone di Terrasanta, il frate Gaddo Casalberti. Sono loro due che si muoveranno per tutto il testo alla ricerca della soluzione, anche se Corrado pensa e agisce, mentre Gaddo sembra andare molto a rimorchio.

Tuttavia, dopo un inizio promettente ed interessante, la narrazione di Cammilleri si fa pesante, si ingarbuglia, si perde anche in rivoli laterali che dovrebbero chiarificare il testo, o quanto meno le vicende narrate, ma che hanno il potere di distogliere il lettore dal filo delle vicende.

Insomma vediamo Corrado e Gaddo narrare i loro trascorsi, soldati nella Quinta Crociata, con Gaddo sempre colpito dalla dirittura morale di Corrado. Che si fa prete, e continua il suo precorso di condotta etica assurgendo al ruolo appunto di inquisitore papale. Un faro che Gaddo vede da lontano, e per il quale, anche senza molta convinzione, decide di farsi frate anche lui. Dicevo delle divagazioni, che l’autore ci appesantisce il testo con tutti i dubbi di Corrado sulla fede, sul suo rapporto con Dio, ed altri pur interessanti spunti religiosi che, qui, tuttavia, risultano leggermente fuori luogo.

Perché ci dobbiamo concentrare sulla morte, e sulla persona di Beatrice, a lungo amante del capo di una delle due fazioni pisane, il guelfo Simone Visconti, anche se per breve tempo ebbe una relazione con l’altra fazione, nella persona del giovane ghibellino Ugolino della Gherardesca. Facile indurre il sospetto che uno dei due sia l’autore del delitto. Ma sarebbe un rompicapo troppo semplice. Ecco allora che l’autore introduce due personaggi, anche qui uno storico l’altro no, nelle persone di Michele Scotto e Mohammed ben Yusuf ibn Harudne. I due, esperti alchimisti (e nel caso di Scotto anche molto altro), sono alla ricerca al solito di elementi paranormali legati a pietre, libri ed altro. Cosa che permette all’autore di introdurre l’ultimo elemento di disturbo: la presenza, nascosta ma significativa, in Pisa, di adepti del catarismo.

I Catari in realtà oltre ad essere stati scomunicati, erano stati quasi tutti massacrati qualche decina di anni prima, ma qui servono non solo per giustificare (fraudolentemente) la morte di Beatrice (cui era stato strappato il cuore), ma anche per imbastire una lotta risibile a colpi di improbabili duplicazioni corporee tra catari, Scotto ed i preti.

Una storia che non può che finire in fumo, con tutti che fuggono, lasciando in quel di Pisa, guelfi, ghibellini, Gaddo e soprattutto Corrado. Il quale, alla fine, mette in fila tutti gli indizi che ha, trova il colpevole, e va via da Pisa.

Io avevo scommesso sul colpevole sin dalle prime pagine, cosa che mi conferma la poca presa che Cammilleri ha su drammi di lunga gittata. Mi si dice sia meglio nelle storie brevi, e vedremo se capiterà. Qui si perde molto, e soprattutto, ripeto, c’è tutta la parte dei tormenti dell’anima di Corrado che non prende per nulla. Unico momento realmente positivo è lo scioglimento finale, con un piccolo colpo di astuzia, quasi alla Simenon, che, detto così, avrete capito anche voi e non approfondisco.

Mentre approfondisco alcuni aspetti “storici”, dei due personaggi non fittizi. Il primo, Michele Scotto, ha un interessante ruolo nello sviluppo dell’azione, e nello svelare trucchi alchemici e connessioni astrologiche. Peccato che, come detto sopra, siamo nel 1247 e Scotto risulta morto al più tardi nel 1236. Il secondo è Ugolino, che è proprio quello che tutti ci ricordiamo, quello che “la bocca sollevò dal fiero pasto”. Qui lo vediamo giovane e spavaldo, ben lontano dalla figura che dantescamente ci viene in mente.

Vorrei chiudere con due perle laterali che non c’entrano nulla con il testo, ma che mi sono venute come sottoprodotto dalla curiosità che alcuni punti dello scritto mi hanno suscitato (curiosità che ha fatto salire il gradimento del testo di almeno mezzo punto).

La Quinta crociata cui partecipò Corrado è quella in cui, dopo due anni di guerra, si inserisce San Francesco, che parte da Ancona ed incontra in Egitto, Malik, il figlio del Saladino. Un incontro che mi ha sempre incuriosito, per la sua portata religiosa e morale.

L’altro punto è la figura di Michele Scotto (o meglio Michael Scot) e delle sue predizioni. Due ne sono famose, relative alla morte. La sua, di Scot, dovuta ad una piccola pietra, e quella del suo protettore, Federico II, legata invece ad un fiore. Federico, per questo motivo, non volle mai recarsi a Firenze; tuttavia, forse per un indigestione o per un avvelenamento, ebbe una dissenteria fulminante. Si era in Puglia, e quando chiese dove, il suo attendente gli disse che stavano a Castel Fiorentino di Puglia. Federico comprese e morì.

Mentre Scot indossava sempre uno zucchetto di ferro per proteggersi la testa. Tuttavia, entrando in una chiesa, lo toglie per rispetto, ed una pietra cade dall’alto della navata e lo uccide. Beh, io mi son divertito di più ad approfondire che a leggere. Cosa che consiglio anche a voi di fare.

Valerio Varesi “A mani vuote” Mondadori euro 6,90

[A: 18/03/2024 – I: 13/06/2024 – T: 15/06/2024] && e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2006]

SONERI07

Dopo averne letto molto agli inizi degli anni ’10, ecco che dopo ben 6 anni torna tra le mie mani un libro di Varesi e del suo commissario Soneri. Con il solito rapporto d’amore e odio tra me, l’autore e l’editore. Il più semplice da analizzare è l’ultimo che sono sempre più meravigliato dall’incuria che Mondadori mette nel confezionare i suoi gialli, una delle colonne storiche del poliziesco italiano. Che questo libro uscì per Frassinelli nel 2006, ma non c’è menzione di questo nel retrocopertina, dove si menziona solo la data di acquisizione dei diritti da parte di Mondadori, e non la data di prima pubblicazione che, per noi bibliomani, è molto importante.

Il secondo dissidio, mio assolutamente personale, è che il commissario Soneri, laddove mentre il buon Varesi continua, e giustamente, a presentarcelo problematico e fuori corrente rispetto all’andamento del mondo, a me viene sempre legato alla sua rappresentazione televisiva, fortemente marcata dall’interpretazione di Luca Barbareschi. Poiché l’attore a me decisamente sta poco simpatico, per traslazione, sbagliata ma umana, tutte le volte mi rimane un po’ di freno nel considerare serenamente il personaggio e seguirne le vicende.

Comunque, Varesi ha un mio discreto seguito, visto che tra letti e da leggere, finora manco solo di due dei sedici episodi. Non è male, direi. Questo, tra l’altro, è il settimo, tutto molto e strettamente legato alla città di Parma. Ma se poi lo confronto con l’ultimo letto sei anni fa, vediamo che il tessuto della trama rimane immutato. Scorato e immutato. Denuncia della deriva del mondo, individuazione dei cattivi (o di chi tira le fila), impossibilità, per una serie di motivazioni, di arrivare sino in fondo. Così che rimane (qui più che nell’altro) l’amarezza dell’inutilità di lottare. Dove ognuno trae le proprie conseguenze: chi continua e chi si ferma.

Quindi anche qui, Parma la fa da padrona. Insieme a Soneri, ed a volte all’avvocato Angela sua partner non fissa ma legata, andiamo in giro per la città, vediamo il teatro Regio, il fiume e le storie di Oltretorrente, i centri sociali, ed i ristoranti (normali o di lusso come “Il Nabucco”), ma soprattutto le strade che solcano la città con le botteghe che vanno scomparendo sostituite da catene commerciali più dannose che inutili. In particolare, mi sono soffermato sulla decadenza della Libreria Sangiorgi, una delle istituzioni a Parma, che credo sia in realtà la bellissima Libreria Fiaccadori, la storica libreria a due passi dal Duomo.

La storia in sé è di ordinario malaffare di importazione verso il Nord. C’è un morto, ma forse con connotati preterintenzionali, gestore di un negozio di abbigliamento, ultimo rampollo di una famiglia calabrese. E qui già sentiamo puzza di bruciato. Tra l’altro, è anche gay e uso a ricercar fanciulli nei bar sordidi della città. Quindi, e si cerca subito da quel lato, omicidio a scopo di rapina, omicidio a sfondo sessuale, insomma tutto meno che qualcosa legata alla mafia. Ma Soneri sente subito che le note suonano stonate.

Tutto ricomincia quando al barbone che suona davanti al teatro Regio rubano la fisarmonica, intimandogli il silenzio. Che lui ha visto qualcuno. Di certo, prima due albanesi recarsi dal morituro in tempi congruenti con la morte. Poi il socio ed il cognato del morto che si aggiravano furtivamente, di certo prima che il delitto fosse stato scoperto. E seguendo le piste che si presentano, ed anche alcune soffiate che vengono da Angela, pagina dopo pagina il mistero si chiarisce. Forse non fino in fondo, forse volutamente, forse…

Anche perché a lungo compare la figura del padrone del ristornate “Il Nabucco”, che presta soldi a usura, che sembra poter avvolgere la città nella sua ragnatela dorata, tanto che il morto a lui doveva soldi a palate, che erano stati coperti da un polizza assicurativa a nome di una donna, guarda caso tra le amanti del ristoratore. Una donna che tuttavia era anche vicina ad uno slavo, uno di quelli in cerca di fortuna, uno molto fluido si direbbe oggi, che si accompagnava con la donna, ma anche con il morto.

Quando l’usuraio si ritira in cattivo ordine a fronte di chiari segnali mafiosi, Soneri capisce che “i grandi e cattivi” avranno la meglio. Certo, ci sarà qualche pesce piccolo che cade nella rete, qualcuno pagherà, ma, al solito, l’iceberg mafioso rimarrà sott’acqua a produrre nuove imprese di cattivo gusto. Ci sono molte frecce all’arco antico di questo libro di vent’anni fa. Albanesi con la droga, calabresi con il mattone e l’usura, proto-svizzeri con le loro finanziarie. In mezzo una città, ed una nazione, che non riesce ad uscire dalle secche di una cattiva gestione nazionale, nata tanti anni fa e non ancora sanata.

Varesi, come in altre prove, non può che rappresentare l’Italia che conosce e di cui scrive anche da giornalista. Un’Italia che non riusciamo a far riprendere e che stiamo consegnando, anno dopo anno, ad una gestione fallimentare. Triste, ma reale. Purtroppo, seppur le intenzioni sono buone, il risultato finale dell’autore è un po’ troppo scontato.

Augusto De Angelis “Il candeliere a sette fiamme” Mondadori euro 6,50

[A: 10/07/2021 – I: 10/07/2024 – T: 11/07/2024] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 1936]

Continua la meritoria opera filologica dei Gialli Mondadori di ripubblicare, a poco a poco, i libri di Augusto De Angelis che hanno come protagonista il commissario De Vincenzi. Purtroppo, causa il tempo trascorso ed alcuni problemi censori su cui torneremo, non tutta la produzione dell’autore si mantiene a livelli di sufficienza piena. Così, questo romanzo, che venne pubblicato in piena era fascista, pur rinnovando le indubbie capacità di costruzione di trame del nostro, alla fine risulta un romanzo abbastanza debole, ed in un certo senso, inconcludente.

Tra l’altro, è scritto subito dopo “Il canotto insanguinato”, ed in un certo senso, ha una trama simbolicamente comparabile. Intanto, come nel precedente, dovendo sottostare alla censura di regime, compaiono quasi tutti personaggi stranieri, con il solo De Vincenzi che si erge a difesa dell’onorabilità italica, riuscendo a svelare tutti i misteri e le trame che iniziano dal ritrovamento di un cadavere in un albergo milanese di infimo ordine. Tuttavia, De Angelis è pur sempre lontano da quelle ideologie (tanto che come sappiamo lo porteranno ad una brutta fine), per cui la vittoria del nostro commissario è pur tinteggiata da coloriture non proprio trionfali.

Dicevamo, tutto comincia dal cadavere senza nome rivenuto in un albergo non proprio onorabile (primo strale alla censura, si capisce che è frequentato da signorine non proprio irreprensibili). Stranamente, un albergo dove si trovano Vittoria (in realtà May) una donna misteriosa e non certo “tipo escort”, e John che si professa contorsionista, ma che subito appare di non chiara appartenenza.

Ma la nostra non è una storia poliziesca, infatti si avvicina molto ad una spy-story, dove c’è di tutto, meno forse inseguimenti con Bond car. Infatti De Vincenzi scopre abbastanza presto un cartoncino con dei fili intrecciati che gli fa venire in mente un possibile codice cifrato. Nonché le tracce del candeliere del titolo, che potrebbe essere usato anche lui in cifratura, o potrebbe condurre a qualche rito esoterico per ora ignoto.

De Vincenzi, alla sua maniera, inizia parlando a lungo con i sospettati, intuendo che, nelle parole dette a mezza bocca, e nelle ricerche in qualche diversa branchia poliziesca, qualcosa possa venire fuori. Intanto, May ha un atteggiamento ondivago, a volte si avvicina a De Vincenzi nelle indagini, a volte cerca di allontanarsene, magari entrando in sintonia con John. Tutto sembra poi collegato anche ad una morte avvenuta un anno prima a Londra.

Fatto sta che tra interrogatori di John, di May e di altri personaggi diciamo minori, il nostro commissario si imbarca in una lunga ricerca attraverso il territorio. Prende un treno da Milano a Venezia, dove avviene un altro omicidio, e scompare una valigia dalla strana forma. A Venezia tiene sott’occhio i due, ma, al momento di imbarcarsi su di una nave diretta in Egitto, John gli sfugge. Ecco che De Vincenzi prima lo bracca avvertendo la polizia, poi lo precede con un volo militare da Venezia a Brindisi. Infine, tutti si ritrovano sulla nave verso il Medio Oriente.

Ed è proprio questa la chiave di tutto: De Angelis, in modo preveggente, già introduce lotte clandestine tra Servizi Segreti (la storia è ambientata nel 1931) che si combattono sul terreno mediorientale (laddove si capisce la presenza di un oggetto a sette bracci, tipico della religiosità ebraica). Ci sono tedeschi, magari aiutati da egiziani, ci sono inglesi, che hanno il protettorato sulla Palestina, ci sono sionisti che cominciano un’immigrazione illegale.

Insomma, ci sono talmente tante variabili, anche politiche, che devo dire non è che si segua tutto con l’attenzione che normalmente si presta agli scritti di De Angelis. Comunque, il commissario Carlo De Vincenzi scopre chi ha ucciso chi, e perché. Nella buona tradizione simenoniana ante-litteram, c’è sempre uno iato tra giustizia e verità. E c’è sempre una punta di tristezza che, pur avendo del trasporto per la bella May, alla fine il commissario non potrà che tornare alle nebbie milanesi, ed al suo mestiere, in cui ben riesce.

Volutamente non dico altro, che non ho la forza di dipanare tutta la matassa, tanto è ingarbugliata. Ma, domanda, ha senso dipanarla? In fondo, le cose migliori sono le atmosfere che descrive il nostro scrittore, i paesaggi, gli stati d’animo, nonché quella buona dose di scrittura che gli consente di imbastire lunghi dialoghi, dove, a stare attenti, i misteri vengono svelati in anticipo.

È un intrigo internazionale dove lo scacchiere delle nazioni in lotta non esce alla luce del sole e dove De Angelis si muove facendosi gioco della limitata mentalità dittatoriale, che vede quel che vuol vedere, laddove lui mette un po’ di più. Cosa che non può che farci piacere nella lettura di un romanzo che, globalmente, non è molto sopra la sufficienza.

Nel finale cito solo, per dovere di cattiveria, una piccola incongruenza. A pagina 121, parlando delle cabina di una nave, si dice: “Lui [De Vincenzi] aveva la n. 7, la ragazza la 12”. Poi a pagina 133 si riporta: “[De Vincenzi dopo aver parlato con la ragazza] uscì dalla cabina n. 7, ed entrò in quella n. 12, che era la sua.” Un po’ di confusione che si poteva evitare.

Paolo Bernetti “La notte del fuoco” Mondadori euro 6,50

[A: 09/07/2024 – I: 19/07/2024 – T: 20/07/2024] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 312; anno: 2024]

Nella lotteria delle letture casuali e mirate, non potevo mancare di leggere appena uscito l’ultimo libro della scuderia Mondadori che è riuscito a fregiarsi del titolo del Premio Tedeschi 2024. Ricordo che questo premio viene attribuito da Mondadori a romanzi inediti inviati alla loro casa editrice. Un premio “interno”, ma che a volte ha premiato autori poi diventati scrittori di buon nome. Tanto per citarne alcuni Carlo Lucarelli nel ’93 o Annamaria Fassio nel ’99.

Quest’anno la palma è andata a Paolo Bernetti con questo romanzo, forse a volte difficile da seguire, ma che ha il merito di farci conoscere meglio Valencia ed alcune sue tradizioni. Anche perché l’italiano Bernetti lì a Valencia si è sposato e ci vive, provando, con questo testo, a costruire un piccolo ponte italo-spagnolo, visto che il protagonista, Fabio, è di madre spagnola, e si trasferisce a Valencia per un anno Erasmus. Ovviamente cominciando a frequentare il nonno spagnolo, grande avvocato avviato al termine di una vita di successi forensi.

Ora, il romanzo è decentemente costruito nella trama, ma, come ho accennato, difficile da ricostruire nella testa, laddove, soprattutto nella prima parte, si salta con una velocità non giustificata, su e giù nel corso del tempo, tra il presente dove Fabio, come vedremo, cerca di ricostruire le fila della trama, ed una serie di passati che si vanno sovrapponendo.

Nel presente, siamo nel 2018, e Fabio viene convinto dal nonno avvocato a seguire la ricostruzione di avvenimenti accaduti otto anni prima, durante la “Nit de Fallas”, che per traslato viene riprodotta nel testo come “la notte dei fuochi”, laddove sarebbe letteralmente “la notte delle torce”. Inciso: a Valencia, per il 19 marzo, festa di San Giuseppe, si costruiscono statue di cartapesta che nella notte in questione, vengono date alle fiamme, come tante torce.

Nel 2010, all’interno di una di queste costruzioni, viene posto il corpo di un sinceramente antipatico faccendiere, ovviamente già morto. La puzza di morto fa scoprire il tutto, e della morte stessa viene accusato e condannato Paco, una condanna che l’avvocato ritiene ingiusta e che vuole ribaltare con l’aiuto del nipote.

Così, a spizzichi e bocconi, a volte saltando anche prima del 2000 (e creando sempre più confusione), cerchiamo di ricostruire la storia della potente famiglia Albuch. Potente e ricca, ma al capostipite nascono due figlie femmine, cosa che non prospetta bene per il futuro dell’azienda. Julia non ha nessuna capacità manageriale, sposa l’impotente Gonzalo, per cedere all’insistente corte di Angel Fabrat, il futuro morto. Carlota avrebbe la testa, ma si incapriccia di uno spostato, Victor, con cui fa un figlio, David. Anche lei, prima di Julia, viene corteggiata da Angel, senza, pare, risultati. Che gli Albuch non mettono le corna.

Poi, improvvisamente, Carlota decide di divorziare da Victor, mentre è incinta di Sara, che subito ci domandiamo chi sia il padre. Angel, allontanato da Carlota, rivolge le sue attenzioni come detto alla sorella Julia, mentre Carlota sposa il poco appariscente Paco, per salvare l’onore, decidendo contemporaneamente, di prendere in mano l’azienda, cosa che le riesce molto bene.

Per confondere le acque, il nostro autore ci racconta di altri raggiri di Angel, legati alla sua famiglia, ma anche all’ambiente delle Fallas, essendo uno dei finanziatori di uno dei quartieri di Valencia. Il tutto per fare in modo che alla (quasi) fine abbiamo un numero spropositato di possibili omicidi. Julia per dei video che la ritraggono in pose poco consone, Gonzalo per gelosia, Victor perché Angel fu la causa del divorzio, David, per motivi analoghi, Carlota per non avergli perdonato sia avance inopportune sia quanto lo stesso Angel ha fatto alla famiglia, non ultimo le possibili conseguenze di un rapporto non voluto tra il figlio di Angel e Sara, Paco, per lo stesso ultimo motivo. Non escludendo che qualcuno dei sopracitati possa aver agitato non da solo ma in combutta con altri.

Solo dopo la metà del libro, il ritmo si fa meno incalzante, così che il povero lettore, finalmente, riesce a mettere in fila la trama che ho appena delineato. Certo che per non mancare di complicare il tutto, Bernetti ci aggiunge Alba, la madre di Fabio, che da sempre è in lite con il padre avvocato, e solo quando Fabio le comunica che il nonno è in fin di vita, si rifà presente. Poi ci aggiunge tal Morgana, simpatica guapa, che probabilmente ha o avrà una storia con Fabio, ma che serve solo, per ora, come amica di Sara, di modo che Fabio possa sentire tutte le versioni di quella famosa notte. I cui misteri saranno svelati, con qualche colpo di scena messo lì un po’ “a muzzo”, ma che, fortunatamente, chiarisce gli avvenienti.

Rimangono certo punti oscuri (non si capisce bene perché Alba e l’avvocato siano in rotta, né se Sara conosca la storia della sua famiglia, mentre viene detto della fine di alcuni personaggi, senza tuttavia entrare nelle descrizioni operative, o lasciandone margini di interpretazione) ed oscuro è il motivo di voler incasinare la trama con tutti i salti temporali. A questo proposito, l’autore cerca di darci una mano inserendo le date di ogni capitolo, ma questo non fa che aumentare la confusione, che ogni volta dobbiamo ricordare il tempo degli avvenimenti che stiamo leggendo.

Tuttavia, il risultato finale, una volta posate le cattive acque, è un degno libro giallo, con alcuni spunti di idee e di trame che sono state di certo ben pensate. Un’ottima lettura estiva.

Allora, per le mie solite citazioni in controtendenza, oggi vi porto alla mente due ottimi saggisti, letterati e storici, di diversa caratura, per me, ma sempre di utile e stimolante lettura. Il primo è Pietro Citati che nel suo ottimo libro “Alessandro Magno” ci narra di un colloquio tra filosofi coevi al grande, dove “Callistene [dice] ad Aristotele: in tempi di discordie, anche i malvagi acquistano onore” (112)

Il secondo è invece il grande divulgatore, forse anche troppo mediatico, Alessandro Barbero che nel suo “Benedette guerre” ci offre un memento interpretativo del mondo attuale: “Un uomo che sta chiuso dentro i valori della sua civiltà non riesce ad interpretare il comportamento degli altri.” (86)

Parlavo la settimana scorsa di serenità, e della sua costruzione, cosa che è molto nelle speranze e poco, per ora, nelle sue realizzazioni concrete. Spero che i miei presagi, pubblici e privati, siano presto smentiti, così che tutti quanti possiamo correre verso un anno non bisestile, sereno, abbracciandoci.

domenica 22 settembre 2024

Un pareggio - 22 settembre 2024

Sperando che le due settimane di lontananza non vi siamo pesate troppo, eccoci, tornati dall’umida Asia, a scrivere ancora di libri e di pensieri. Con un pareggio, dicevo, dei gradimento tra due fronti opposti. Da un lato una schiera sudamericana di calibro, dall’altro due autori europei leggermente più freddi. Ma nonostante i premi Nobel, i sudamericani non sfondano: la buona ultima prova postuma di Gabriel Garcia Marquez non risolleva le sorti del Sud, dove c’è un Amado molto politico ma poco scorrevole ed un Vargas Llosa che non riesce più a prendermi. Dall’altro versante un’onesta saga norvegese di Roy Jacobsen (molto acclamata in patria) fa da valletto ad una sempre buona espressività del giovane svizzero Joël Dicker.

Certo, Dicker sfrutta canali un po’ commerciali, sull’onda del suo ottimo primo libro (onda lunga visto che ha più di dieci anni), ma il risultato finale mi ha convinto più delle altre prove presentate questo mese.

Jorge Amado “Alte uniformi e camicie da notte” Repubblica Latino-americana 3 euro 9,90

[A: 10/02/2020 – I: 25/04/2024 – T: 27/04/2024] - &&  

[tit. or.: Farda fardão camisola de dormir; ling. or.: portoghese; pagine: 266; anno 1979]

Ritorno dopo tanto tempo a Jorge Amado con una delle sue ultime opere. Purtroppo, non ha né la forza corale delle precedenti Gabriela o Teresa, né la forte denuncia delle sue prime opere (penso a “Cacao”). Un opera ben fatta, con un messaggio politico forte e chiaro, anche se per gran parte interno alla realtà brasiliana. Ma proprio per questo, molto “di testa” e poco “di cuore”, con spunti che all’epoca ed in Brasile forse erano ironici, ora, quarantacinque anni dopo, fanno sollevare il sopracciglio in segno di ammirazione dell’acume, ma poco più.

Unico punto forte, che non si dimentica, e che è valido allora come ora, è la frase che riporto in coda.

Penso che l’idea di una satira politica vestita di altre vesti, come solito negli scritti di Amado, sia anche derivata dalla situazione politica ai tempi della scrittura. Erano orami quindici anni che il Brasile viveva sotto il regime militare in seguito a diversi colpi di stato, che avevano portato il paese sull’orlo del collasso. Erano gli anni in cui la presidenza del Brasile era stata assunta dal generale Ernesto Geisel, di chiare origini tedesche. Per fare satira politica, mettere alla berlina i militari e ricordare i passati orrori nazisti, Amado imbastisce una trama che porta l’azione nell’inverno tra il ’40 ed il ’41 ed al potere c’era la figura emblematica di Getúlio Vargas (sulla quale potrebbe valere il tempo e lo spazio di approfondimenti, ma non qui).

Amado, per costruire una trama tra romanticismo e denuncia immagina la morte del poeta Antônio Bruno, disperato per l’avanzata dei nazisti nel mondo (una morte che rimanda al suicidio brasiliano di Stefan Zweig). Bruno era un poeta, membro dell’Accademia di Lettere, ma soprattutto era un “tombeur de femme”, cui si legava in modo passeggero, senza mai un legame veramente stabile. Motivi per cui, nel corso della trama e del ricordo, Amado infioretta il racconto degli episodi amorosi di Bruno e delle sue amanti, lasciando spesso a quest’ultime il filo della narrazione. Questa la parte in cui spuntano le camicie da notte del titolo, la parte leggera e meno ironica, anche se ci porta dentro i tormenti sociali del poeta.

La parte che Amado vuole satirica, si incerniera invece sulle vicende legate alla successione del posto di Bruno all’interno dell’Accademia. Siamo in piena dittatura di Vargas, quindi non ci sorprende che il posto in Accademia venga rivendicato da un militare con all’attivo una illeggibile raccolta di poesie. Si tratta del colonnello Agnaldo Sampaio Pereira, oltretutto molto vicino a chi vuole entrare in guerra a fianco della Germania. Gli amici di Bruno, dopo lunghe riflessioni, decidono di contrapporgli un altro militare, il generale Waldomiro Moreira, superiore in grado.

Piena di spunti ironici è la lotta tra i due militari, dove alla fine Pereira, accusato e con ragione di aver aiutato dei nazisti, ha un infarto e muore, mentre Moreira, trionfo per il fatto di essere rimasto il solo candidato, si pavoneggia come se fosse già seduto sul seggio accademico. Tanto tronfio è il suo ego che quando viene informato che tutti hanno votato scheda bianca, per il dolore di essere stato lasciato da solo, anche lui ha un infarto e muore.

Tutta l’orchestrazione della vicenda per salvare il posto di Bruno e consegnarlo ad un vero poeta, è voluta da Amado per mostrare che anche letterati anziani e magari in pensione di fronte al pericolo nazista (come nel tempo del libro) o al pericolo autoritario e militaresco (come nel presente della scrittura) possono imbracciare le armi della lotta, anche incruenta, e battersi contro l’avanzare dell’ignoranza e della cafonaggine.

Amado usa come ben sa i diversi registri della sua scrittura, passando dal lirismo romanzato quando racconta degli incontri d’amore tra Bruno e le sue diverse amanti, ad una scrittura quasi di stampo giornalistico, mentre descrive le vicende della guerra in Europa o le parallele proteste che avvengono in Brasile.

Tuttavia, seppur gli intenti sono degni di rispetto, si sente l’avanzare dell’età anche se Amado all’epoca non ha ancora settanta anni. Ma la verve è un po’ rimasta nel cassetto. Inoltre, ma non è un problema solo di Amado, quando si scrivono “romanzi a tesi”, il più delle volte l’urgenza del messaggio prevarica l’interesse per una scrittura di valore. Non molto di più.

“Guardatevi in giro: ovunque, in tutto il mondo sono di ritorno le tenebre dell’oscurantismo, la guerra contro il popolo, la prepotenza. Ma, come si dimostra in questa favola, è sempre possibile piantare un seme, accendere una speranza.” (266)

Roy Jacobsen “The Unseen” MacLehose euro 15

[A: 16/03/2024– I: 03/05/2024 – T: 04/05/2024] - &&

[tit. or.: De usynlige; ling. or.: norvegese; pagine: 268; anno 2013]

Un libro che viene da lontano, non solo come oggetto, ma anche come storia. Ero in uno dei miei soliti viaggi avventurosi periodici, forse uno degli ultimi di questa tipologia. Dieci giorni nelle isole Lofoten alla ricerca (positiva) dell’aurora boreale insieme ad un gruppo di amici fidati e fedeli. Cercando un ricordo libresco di questa avventura mi imbatto in questo libro, che subito mi attrae. E che ovviamente leggo in inglese, dato che il norvegese mi è assai alieno.

Innanzi tutto per l’autore, di poco più giovane di me, apprezzato scrittore in patria per le sue doti di riproporre in maniera vivida l’evoluzione e le modifiche della società norvegese nel corso del tempo. Così mi dicono per i suoi primi romanzi intorno agli anni ’80. A partire dagli ultimi dieci anni si dedica invece ad una saga, per ora in quattro libri, incentrata su di una famiglia radicata nelle Lofoten.

Ovvio che lette le note del libro, cercate informazioni in rete, non potevo mancare il primo libro della “saga dei Barrøy” (questo il nome della famiglia). Una saga che segue nella tetralogia la famiglia nel corso del secolo scorso, imbastendone un epica locale che rimanda, per alcune tematiche e per l’ampiezza del percorso narrativo, ad un Verga dei Malavoglia.

In questo primo libro seguiamo le vicende di tre generazioni dei Barrøy, che vivono in un’isola nel sud delle Lofoten, che prende il nome dalla famiglia stessa. I protagonisti, o comunque i personaggi della famiglia presenti, sono il capostipite, il vecchio Martin, i suoi due figli, la femmina Barbro, con qualche ritardo mentale, ed il maschio, Hans, con la moglie Maria, l’unica che viene da un’altra isola, e la loro figlia Ingrid.

La storia in sé non è che sia né particolarmente avvincente né piena di colpi di scena. Anzi è quasi piatta a questo proposito. Trascorrono una vita dura, pervasa da una rispettabile armonia interna e discretamente pacifica, cui si adattano al ritmo delle stagioni ed al relativo tempo atmosferico. Che, come sa chi ha visto le Lofoten, non è che sia particolarmente clemente.

Jacobsen descrive con mano ferma quanto succede, sottolineando gli elementi forti. Una lunga prima tempesta invernale che mette a dura prova le case e gli animali dell’isola. Le visite alle isole vicine per acquistare viveri in cambio di latte, uova ed altro. L’idea di costruire un molo per avere più possibilità di scambi. Le partenze di Hans, periodiche, sulla barca del fratello, al fine di usare la pesca per poter ottenere piccole riserve di denaro. Le assenze di Ingrid che, dovendo andare a scuola, si trasferisce settimanalmente presso i luoghi di studio.

Vediamo la sparizione di Barbro, che torna dopo mesi con un figlio, Lars, di cui non sapremo mai il padre. Sparisce Maria, per qualche tempo, ma torna ed assiste alla morte di Hans. Anche il vecchio Martin ci lascia, ma la comunità acquisisce due nuovi fanciulli, Suzanne e Felix, figli del pastore che, sparendo insieme alla moglie, li lascia alla bontà dei Barrøy.

In tutto questo, c’è la crescita della personalità di Ingrid che, dopo la scuola e dei lavori nelle altre isole, torna per diventare il centro della comunità.

Jacobsen ci comunica il senso di questa epopea popolari, in questi posti sperduti e solitari nell’anima, dove nei pascoli spesso spelacchiati si alleva uno sparuto bestiame, dove si va per mare per rifornirsi di cibo e quando si ritorna ci si siede davanti alle case a rammendare reti ed essiccare quanto pescato. Con un senso forte delle gerarchie.

C’è un bellissimo passo che ne illustra le modalità. Che a tavola siedono gli uomini, mentre le donne ed i bambini mangiano in piedi. Quando il fratello di Hans decide di trasferirsi altrove, Barbro vorrebbe la sua sedia, che invece viene data a Maria. Solo alla morte della moglie di Martin, lei si siederà alla tavola.

Oppure quando l’autore narra della tempesta, e di come Hans costringa Ingrid ad uscire allo scoperto con lui, per vederla in faccia, in modo da affrontare la paura degli elementi e superarla. Ecco, sono tanti piccoli episodi, che si accumulano, e che descrivano la vita di queste persone invisibili, dato che il mondo, la società si sviluppa altrove. Un altrove che loro non sanno e non conosceranno mai, almeno in questa prima fase. Poi ci sarà il modo di congiungersi alla “vera” Norvegia, ma sarà solo nei volumi successivi della saga che non credo, per ora, entreranno a far parte delle mie letture future.

Quello che trasmette di forte l’autore, e che mi riporta a quanto so ed ho visto nei paesi scandinavi, è la solitudine e la mancanza. Di contatti, essenzialmente, che solo nel rapporto con altri che vivono modi diversi si può crescere e formarsi. Altrimenti si rimane nel proprio guscio, appunto, invisibili ed impenetrabili. Forse inutili.

Gabriel Garcia Marquez “En agosto nos vemos” Random House s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2024 – I: 11/05/2024 – T: 12/05/2024] - &&& ----  

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 142; anno 2024]

Quest’anno si decise di festeggiare il mio compleanno con una fuga a due in quel di Barcellona, da cui entrambi si mancava da decenni. Lì, non lontano dalle Ramblas, in Carrer d’Elisabets al numero 6, scoprimmo una libreria che ci ha folgorato: “La Central del Raval”. Tante stanze piene di libri, con criteri espositivi interessanti. Ad esempio, non solo suddivisioni tra libri catalani e castigliani, ma anche, per gli stranieri, tavoli in cui compaiono i libri con l’indicazione da quale lingua sono stati tradotti.

Ed al centro, un giardino magico, dove prendere qualcosa di fresco, e leggere qualche riga, ritemprando corpo e spirito. Poiché poi nasce sempre il rito di omaggiarmi di un libro in simili occasioni, la dolce consorte, più che un libro spagnolo, ha optato in un libro scritto in spagnolo, ma dall’inarrivabile colombiano messicano Gabriel Garcia Marquez. Un libro postumo, uscito nel decennale della morte, con anche una storia editoriale interessante.

Marquez cominciò a scrivere questo testo intorno agli anni ’90, ma non ne era soddisfatto, tanto che lo scrisse e riscrisse varie volte, arrivando in venti anni alla quinta versione. Ormai negli anni ’10 aveva continue cadute in Alzheimer e non riuscì a darne forma per lui soddisfacente, tanto che disse alla moglie ed ai figli di distruggerlo. Ora, nel decennale della morte, i figli Rodrigo e Garcia, rileggendolo, hanno avuto dubbi se fosse veramente brutto e decidono, con l’aiuto del revisore Cristobal Pera, di pubblicarlo con un congruo accompagnamento di note critiche, nonché alcune pagine originali in foto.

Cosa dire? Certo, è un testo altalenante. Ci sono momenti fulgidi, dove poche parole fanno vedere subito la presenza del grande scrittore. E ci sono cadute in lentezze o piccole incongruenze, ma sono certo che gli amanti del suo scrivere accetteranno i peccati veniali, per evidenziare i passaggi intensi. Sono inoltre d’accordo che Marquez ha scritto altre cose inenarrabili, arrivando a vette splendenti come questo inizio di libro, che penso tutti conoscano: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”

Qui, abbiamo il tentativo, spesso presente in Marquez, soprattutto nella sua ultima produzione, non tanto di mettersi dalla parte delle donne, quanto farne vedere lati che storicamente vengono oscurati. Che le donne desiderano, amano, pensano, esattamente come gli uomini. O, per meglio dire, come tutti gli esseri umani. Altrimenti dovremmo fare distinguo razzisti che non sono mai stati nelle mie corde.

Tentativo che viene eseguito seguendo la vicenda di una donna, Ana Magdalena Bach (e poi torniamo sul nome) che ogni anno va su di un’isola (credo caraibica) il 16 agosto per portare dei fiori sulla tomba della madre. Dopo anni di routine, Gabo ce la mostra ad una svolta del suo vivere, quando, in quell’unico giorno, incontra un uomo affascinante, che la seduce durante un ballo.

Ana è ben sposata, ha 46 anni, due figli di 18 e 22 anni, parrebbe realizzata. Ma quella prima notte folle comincia a far nascere in lei la ricerca di una sé stessa diversa, la ricerca di una realizzazione diversa. Che i figli grandi non hanno bisogni di lei, ed il marito, dopo venticinque anni sembra non solo assopito nei suoi desideri, ma via via allontanandosi verso altri lidi.

Seguiamo così alcuni diversi anni della nuova routine di Ana, madre e sposa “normale” per tutto l’anno, e donna folleggiante ed appassionata per due giorni soltanto. Due giorni che le fanno incontrare tante facce di un possibile desiderio. Il primo, lacerante, quando viene confusa come escort. E poi gli altri, con un prete, con un serial killer, insomma con tante possibili facce di una vita altra. In un ambiente, quello dell’isola, che alla fine le fa comprendere il desiderio della madre di essere sepolta laggiù.

Seguiamo tutti gli alti e bassi del suo essere donne, contraltare del nostro essere uomini, fino alla constatazione ed alla consapevolezza di un bivio: imboccare per sempre la strada del 16 agosto, o rimuoverla per sempre. Non esiste una soluzione intermedia. Ognuna ha positività e negatività. Ognuno di noi sa quale dei due pesi ha soggettivamente la meglio. Così come lo sa Ana.

Detto della trama, e ribadito che il breve testo è di sicuro disomogeneo, non posso non mettere l’accento su quel momento, comune a tutti, in cui si scopre di desiderare e di essere desiderati. Di certo, nell’uomo, la prima parte è preponderante, mentre, da uomo, direi l’inverso per la donna. Ma, sottolineo, da uomo, che forse dovrebbe essere una donna a rispondere. Ma Gabo non può tirarsi indietro verso il mantra della sua vita, e, con tutti i limiti dell’incompletezza, anche qui ci porta un inno alla vita, un’esortazione, calorosa e da buon nonnino, perché si esplorino i propri desideri, sempre e nonostante l’età. Ben detto, amico mio.

Finisco pensando, anche a fronte di alcune recensioni lette, che Gabo avesse voluto fare una piccola sinfonia, usando la musica come sottofondo. Sia con il personaggio, che riprende il nome della moglie del grande Johan Sebastian, e sia utilizzando la musica (bolero, tango e altro) in alcuni momenti topici del testo. Mi viene in mente che (a quanto mi dicono) spesso chi va verso una labilità mentale, usa la musica come piccolo memento. E ci potrebbe stare, come chiusura di una vita, di lotta e di scrittura, che, come dice in uno dei suoi ultimi testi: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”

Joel Dicker “Un animale selvaggio” La Nave di Teseo s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 02/04/2024 – I: 14/05/2024 – T: 15/05/2024] - &&&& 

[tit. or.: Un animal sauvage; ling. or.: francese; pagine: 440; anno 2024]

Un ennesima buona prova del ginevrino Joel Dicker. Mai all’altezza del primo Harry Quebert, ma con qualche bello spunto, una trama che si svolge riservando interessanti sorprese in molte delle sue giravolte. Se volessimo avanzare delle riserve sarebbero solo di due tipi: lo schema del polar francofono di ultima generazione ed un finale che ci si aspettava da un po’.

Per il primo punto, se ci lasciamo andare dalla culla delle pagine, ci possiamo trovare indifferentemente in un Dicker o in un Guillaume Musso o in un Michel Bussi. C’è la stessa costruzione mentale dietro ogni pagina, tanto che verrebbe il sospetto che avessero tutti un editor uguale o molto simile. Mentre il finale pur se preso da mille giravolte, sembra tuttavia abbastanza annunciato, con un paio di punti che lasciano un interrogativo, o almeno delle perplessità, come se fossero saltati dei passaggi. O che questi fossero talmente ovvi che non vale la pena tornarci sopra.

Intanto, anche se tutto gira intorno ad una rapina, ai suoi prodromi ed alle sue conseguenze, non riesce ad essere un vero noir, come ci si aspettava dalle premesse editoriali. Forse un thriller, con una serie di innesti di storie d’amore (o di storie e d’amore), ma tutto che ruota intorno ad un sentimento che non è l’amore, ma l’invidia. Un’invidia che può trasformare un essere umano in un animale selvaggio. Un animale che non può essere rinchiuso in una gabbia.

Ma facciamo qualche passo indietro, venendo alla costruzione per gradi (e per salti temporali) che ci propone Dicker. Il centro della vicenda si colloca nel bipolarismo tra due coppie abitanti in quel di Ginevra. Abbiamo i Braun, con Sophie brillante avvocato e Arpad un diligente banchiere, che abitano in una casa immersa nel bosco, la Casa di Vetro. Ed abbiamo i Liégean, con Greg, poliziotto, e Karine, commessa, che vivono in un complesso residenziale, non lontano dal bosco di cui sopra, ma talmente brutto da essere soprannominato l’Obbrobrio.

Le due coppie si conoscono casualmente, si iniziano a frequentare, ed entriamo a piedi uniti nella storia. Greg si infatua di Sophie, comincia a guardarla di nascosto, la spia, installa addirittura una webcam pirata nella villa. In questo modo, ovvio, si allontana da Karine, ma viene colpito da piccoli fatti casuali che lo portano a sospettare che dietro la bella facciata dei Braun ci sia altro. Anche perché Sophie, di nascosto ad Arpad, incontra Philip un ex-carcerato non certo tornato sulla via del bene. E scopre anche che Arpad, da mesi, è stato licenziato ma non dice nulla a nessuno continuando a comportarsi normalmente: colazione, uscita per ufficio, ritorno serale. Tutto come se.

Ma come fanno ad avere quell’alto tenore di vita? Greg invidia i Braun e comincia a porsi domande. Usando ricerche poliziesche, scopre che i Braun si spostano di paese in paese, poco dopo che nelle vicinanze avvengono rapine. Karine invidia Sophie che è sempre a suo agio in ogni situazione, mentre lei si deve arrabattare da mane a sera per ottenere quel poco che la loro onesta vita gli consente. Sophie e Arpad invidiano la finta serenità dei vicini. Con Sophie che, come un animale, si aggira per il mondo, aspettando le scariche di adrenalina che solo la trasgressione le sa dare.

Tuttavia, non è questo il centro della storia. Almeno quello cui ci vuol portare l’autore. Che tutto ruota intorno ad una rapina che di sicuro sta per essere organizzata in una gioielleria ginevrina. Una rapina in cui di sicuro è coinvolta Sophie. Cui pensiamo entri la mano di Philip. Cui vuole entrare Arpad. Che Greg intuisce e vuole sventare, anche mettendo definitivamente in crisi la sua famiglia ed il suo mondo.

Nella parte finale, con la maestria che gli riconosciamo dagli altri suoi libri, Dicker ci racconta della rapina, di chi la fa realmente, della sua interessante realizzazione, delle sue conseguenze, per ognuno dei cinque attori del romanzo.

Ci vogliono quasi quattrocento pagine per scoprire poi il gioco dell’autore (che continua a rimbambirci con i continui salti temporali che a me, alla fin fine, risultano sempre un po’ antipatici): il gioco dell’apparenza. Tutto sembra qualcosa, rivelandosi poi altro, bordeggiando nel testo tra l’immagine che gli altri hanno di noi e quella che noi stessi proiettiamo all’esterno. Un gioco ben giocato, alla fine, che si rimane incollati alla pagina aspettando che i veli vengano tolti e ci si presenti la realtà, come realmente è. Una realtà che, come nei più riusciti thriller, scopriremo fino in fondo solo nelle ultime dieci pagine. Che non spiegano tutto, ma che di tutto fanno capire qualcosa.

Unico appunto, rispetto ad altre sue scritture, è la poca profondità ed empatia dei personaggi che Dicker riesce ad infondere. In fondo, nessuno ci rimane nel cuore. A nessuno ci attacchiamo sperando che le cose vadano come sarebbe bello che andassero. Ma Dicker sa comunque come muovere le carte, e sa tenerci incollati alla pagina fino alla fine. E forse oltre.

Mario Vargas Llosa “Crocevia” Repubblica Latinoamericana 4 euro 9,90

[A: 21/02/2020 – I: 09/07/2024 – T: 10/07/2024] - & +  

[tit. or.: Cinco Esquinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 234; anno 2016]

Non sono mai stato un grande estimatore di Mario Vargas Llosa, nonostante abbia gradito alcune sue prime prove. Poi l’ho perso e, pur con il Nobel in tasca (unico Nobel attribuito ad un cittadino peruviano), non l’ho mai ritrovato. Come non lo ritrovo qui, anche se con questo crocevia ha tentato senza dubbio di fare un romanzo a tesi. Tesi che si possono condividere, ma che non rendono il libro particolarmente leggibile o gradevole.

Soprattutto per certe indulgenze licenziose che potrebbero rendere più leggeri alcuni passaggi del libro, ma sulle quali il nostro indulge con un fare un po’ troppo licenzioso. Mentre si può senz’altro condividere la spinta politica di denuncia che sottende tutto il libro, tanto che lo si ascrive a quella filiera di letteratura battezzata “i romanzi della dittatura”, che lo trova in compagnia di tutto un bel mondo latino americano dalla Colombia (Gabriel García Márquez) al Messico (Carlos Fuentes), dal Paraguay (Augusto Roa Bastos) al Cile (Roberto Bolaño) passando anche per Cuba (Alejo Carpentier).

Quello che però frena molto il discorso complessivo è il coinvolgimento personale dell’autore, che non si tira indietro qui, sei anni dopo il Nobel, e più di venti dall’inizio delle sue scaramucce politiche in patrie, nel dipingere il mondo dei dieci anni della quasi dittatura di Alberto Fujimori per quello che è certo, ma con una cattiveria che va al di là della semplice denuncia.

Ricordo, per i poco informati della politica peruviana, che nel 1990 ci fu una strenua lotta alle presidenziali locali tra il nostro scrittore, appoggiato dalla destra locale, ed il candidato senza bandiere Fujimori. Arrivati al ballottaggio, la sinistra, pur di non eleggere Vargas Llosa, favorì l’ascesa del nippo-peruano. Ma ben presto se ne dovette pentire. Fujimori cominciò subito una caccia spietata a tutta la sinistra, sia regolare che non, usando mezzi talmente illegali che dieci anni dopo fu condannato a venticinque anni di carcere per i delitti commessi. In questa lotta senza esclusione di colpi fu aiutato dal capo dei Servizi Segreti Vladimiro Montesinos detto El Doctor. Piccolo inciso il Doctor fu battezzato Vladimiro che la sua famiglia era comunista dura e pura e voleva rendere omaggio al grande Lenin.

Con questo pamphlet, che si colloca appunto nel decennio nero di Fujimori, l’autore vuole elevare una sonora denuncia sia ai costumi locali che alla deriva politica, insinuando (o affermando) che le uniche ancore di salvezza possono venire da un giornalismo di denuncia, anche a rischio della propria incolumità.

Così vediamo l’intrecciarsi di cinque vite, in un crocevia (brutto titolo italiano) incontro di cinque angoli stradali (le “cinco esquinas” del più calzante titolo spagnolo) in un preciso punto di Lima, il Barrio Alto, punto di congiunzione tra la borghesia limeña ed il proletariato urbanizzato. Lì c’è anche l’incrocio delle cinque esistenze che seguiamo nel romanzo (dove in realtà seguiamo di più, ma queste sono quelle che l’autore ci porta ad esempio massimo della realtà locale).

C’è la famiglia Cardenas, con l’ingegnere Enrique, uno degli industriali più ricchi del Perù e la moglie Marisa. C’è la famiglia Casasbellas, con l’avvocato Luciano, amico d’infanzia di Enrique, e la moglie Chabela. Dall’altra parte c’è Julieta Leguizamón detta la Retaquita (la Piccoletta) redattrice nella rivista scandalistica diretta da Rolando Garro.

Per fortuiti casi della vita Marisa e Chabela diventano amanti, mentre Enrique viene ricattato da Garro che esibisce foto di una orgia dell’ingegnere con compiacenti signorine. Luciano viene allora incaricato di risolvere la faccenda, cosa che fa chiedendo lumi al Doctor. Tuttavia, era proprio il Doctor che, utilizzando sapientemente Garro, metteva in crisi ed emarginava i suoi nemici politici. Ma Cardenas è troppo in alto nella nomenclatura locale, così che il Doctor decide di sacrificare Garro. Certo, Enrique ne esce a pezzi, ed anche Luciano non fa una bella figura.

Nel frattempo le due donne continuano la loro storia d’amore (e fino a qui ci sta anche un modo interessante nelle descrizioni dello scrittore), ma quando coinvolgono prima Enrique e poi Luciano nelle lor effusioni, si rivela un gioco sporco: il bel mondo, l’alta borghesia non può che comportarsi al di là del bene comune, in pubblico ed in privato.

Rimane il giornalismo, in cui Vargas Llosa fa finta di credere, elevando la Retaquita a vindice del sistema, lei che con Garro aveva contribuito ad infangare Cardenas (e prima ancora un attore sfortunato, ed un altro politico). Quasi che lui ci voglia mandare il messaggio che l’informazione ha comunque un suo raggio d’azione “duro e puro”, e seppur riesce ad infangare un uomo onesto, ha anche la capacità di denunciare e mandare a picco una dittatura politica.

Qui sarà la Retaquita che con i suoi reportages metterà in crisi e farà condannare il Doctor, anche se questa parte, per Vargas Llosa avviene in modo un po’ frettoloso, mentre nella realtà furono riprese televisive nascoste che portarono la crisi nel “sistema Montesinos”.

L’andamento generale a volte sembra troppo semplice, lineare, quasi una noiosa cronaca di una telenovela messicana. Solo il terzultimo capitolo, intitolato “Turbinio” ci restituisce la migliore scrittura di Vargas Llosa nonché il modo semplice e complicato insieme in cui i destini delle persone si mescolano nel crocevia della vita umana. Laddove il grande assunto (che c’è anche se poi il suo svolgimento non è così felice) è che l’esistenza minuta dell’uomo (la storia) non può che risultare dalla sua interazione con la vita della società (la Storia) anche se non si interagisce in prima persona.

Esempio classico nel romanzo è l’intreccio tra l’erotismo delle due donne (storia), il lavoro rischioso del giornalismo (tra storia e Storia) per arrivare alle strade da percorrere per esercitare il potere (Storia). Ma, personalmente, non posso che fare una critica dove si presentano “solo” questi ricchi borghesi che si trastullano tra Lima e Miami, senza nessuna preoccupazione, che quando si sentono minacciati da Sendero Luminoso, prendono un aereo e vanno altrove.

Insomma, Vargas Llosa denuncia (o ci prova), ma non ha più quella dolente cattiveria de “La città e i cani” o l’erotismo sbarazzino di “Zia Julia e lo scribacchino”. A me continua a non piacere.

Visto che i latini d’oltre oceano non hanno sfondato, vi propongo alcune citazioni di uno spagnolo puro, Arturo Pérez-Reverte provenienti da alcune sue vecchie scrittura. Dal suo primo libro “El Húsar” traduco al volo un pensiero che nel finale ci dovrebbe far riflettere in questi tempi poco pacifici: “Gli spagnoli non sono, non siamo, persone che si possano salvare con la forza. Ci piace salvarci da soli, a poco a poco ... Mai le baionette imporranno qui una sola idea” (124). Sperando che anche i non spagnoli si possano salvare.

Dal più tardo (ma sempre trentenne) “La pelle del tamburo” riporto invece alcune considerazioni sulla vita e sulla bella città di Siviglia:

“Sono convinta che ogni edificio, ogni quadro, ogni libro che viene distrutto o perduto, ci rende un po’ più orfani. Ci impoverisce” (50)

 “Noi donne siamo molto complicate in confronto agli uomini, così diretti nelle loro bugie, così infantili nelle loro contraddizioni… Così coerenti nella loro vigliaccheria” (185)

“Forse era solo la nostalgia della gioventù e basta. E dei sogni che poi la vita fa in modo di strapparti pian piano a morsi. … comunque … pensò che gli sarebbe sempre rimasta Siviglia … perché era l’unica città a conservare, agli incroci, nei colori e nella luce, il rumore del tempo che svanisce, anche se in realtà siamo noi a svanire assieme alle cose transitorie cui leghiamo la nostra vita e la nostra memoria” (262)

“Sono pochi i fatti così tragici nella vita come scoprire una verità importante nel momento sbagliato” (316)

Come si diceva, sono rimasto lontano dai primi di settembre, per un giro asiatico dove, oltre a tributare il solito omaggio (dovuto) ad Angkor Wat, abbiamo ripercorso le strade vietnamite, ritrovando molte similitudini con il primo lontano viaggio nella terra di Ho Chi Minh, tanto che a volte il tempo sembra scorrere diversamente tra noi e loro.

Un viaggio che termina con lo spalancarsi di un autunno italiano cui lavoriamo per costruire altri momenti di serenità, che mancano a tutti in questi tempi cupi. Fortuna che, nonostante tutto, l’ottimismo ci sorregge ancora, per cui vi abbraccio con gioia.