Sperando che le due settimane di lontananza non vi siamo pesate troppo, eccoci, tornati dall’umida Asia, a scrivere ancora di libri e di pensieri. Con un pareggio, dicevo, dei gradimento tra due fronti opposti. Da un lato una schiera sudamericana di calibro, dall’altro due autori europei leggermente più freddi. Ma nonostante i premi Nobel, i sudamericani non sfondano: la buona ultima prova postuma di Gabriel Garcia Marquez non risolleva le sorti del Sud, dove c’è un Amado molto politico ma poco scorrevole ed un Vargas Llosa che non riesce più a prendermi. Dall’altro versante un’onesta saga norvegese di Roy Jacobsen (molto acclamata in patria) fa da valletto ad una sempre buona espressività del giovane svizzero Joël Dicker.
Certo,
Dicker sfrutta canali un po’ commerciali, sull’onda del suo ottimo primo libro
(onda lunga visto che ha più di dieci anni), ma il risultato finale mi ha
convinto più delle altre prove presentate questo mese.
Jorge Amado “Alte uniformi e camicie da notte” Repubblica
Latino-americana 3 euro 9,90
[A: 10/02/2020 – I: 25/04/2024 – T:
27/04/2024] - &&
[tit. or.: Farda fardão camisola de dormir;
ling. or.: portoghese; pagine: 266; anno 1979]
Unico punto forte, che non si dimentica, e
che è valido allora come ora, è la frase che riporto in coda.
Penso
che l’idea di una satira politica vestita di altre vesti, come solito negli
scritti di Amado, sia anche derivata dalla situazione politica ai tempi della
scrittura. Erano orami quindici anni che il Brasile viveva sotto il regime
militare in seguito a diversi colpi di stato, che avevano portato il paese
sull’orlo del collasso. Erano gli anni in cui la presidenza del Brasile era
stata assunta dal generale Ernesto Geisel, di chiare origini tedesche. Per fare
satira politica, mettere alla berlina i militari e ricordare i passati orrori
nazisti, Amado imbastisce una trama che porta l’azione nell’inverno tra il ’40
ed il ’41 ed al potere c’era la figura emblematica di Getúlio Vargas (sulla
quale potrebbe valere il tempo e lo spazio di approfondimenti, ma non qui).
Amado,
per costruire una trama tra romanticismo e denuncia immagina la morte del poeta
Antônio Bruno, disperato per l’avanzata dei nazisti nel mondo (una morte che
rimanda al suicidio brasiliano di Stefan Zweig). Bruno era un poeta, membro
dell’Accademia di Lettere, ma soprattutto era un “tombeur de femme”, cui si
legava in modo passeggero, senza mai un legame veramente stabile. Motivi per
cui, nel corso della trama e del ricordo, Amado infioretta il racconto degli
episodi amorosi di Bruno e delle sue amanti, lasciando spesso a quest’ultime il
filo della narrazione. Questa la parte in cui spuntano le camicie da notte del
titolo, la parte leggera e meno ironica, anche se ci porta dentro i tormenti
sociali del poeta.
La
parte che Amado vuole satirica, si incerniera invece sulle vicende legate alla
successione del posto di Bruno all’interno dell’Accademia. Siamo in piena
dittatura di Vargas, quindi non ci sorprende che il posto in Accademia venga
rivendicato da un militare con all’attivo una illeggibile raccolta di poesie.
Si tratta del colonnello Agnaldo Sampaio Pereira, oltretutto molto vicino a chi
vuole entrare in guerra a fianco della Germania. Gli amici di Bruno, dopo
lunghe riflessioni, decidono di contrapporgli un altro militare, il generale
Waldomiro Moreira, superiore in grado.
Piena
di spunti ironici è la lotta tra i due militari, dove alla fine Pereira,
accusato e con ragione di aver aiutato dei nazisti, ha un infarto e muore,
mentre Moreira, trionfo per il fatto di essere rimasto il solo candidato, si
pavoneggia come se fosse già seduto sul seggio accademico. Tanto tronfio è il
suo ego che quando viene informato che tutti hanno votato scheda bianca, per il
dolore di essere stato lasciato da solo, anche lui ha un infarto e muore.
Tutta
l’orchestrazione della vicenda per salvare il posto di Bruno e consegnarlo ad
un vero poeta, è voluta da Amado per mostrare che anche letterati anziani e
magari in pensione di fronte al pericolo nazista (come nel tempo del libro) o
al pericolo autoritario e militaresco (come nel presente della scrittura)
possono imbracciare le armi della lotta, anche incruenta, e battersi contro
l’avanzare dell’ignoranza e della cafonaggine.
Amado
usa come ben sa i diversi registri della sua scrittura, passando dal lirismo
romanzato quando racconta degli incontri d’amore tra Bruno e le sue diverse
amanti, ad una scrittura quasi di stampo giornalistico, mentre descrive le
vicende della guerra in Europa o le parallele proteste che avvengono in
Brasile.
Tuttavia,
seppur gli intenti sono degni di rispetto, si sente l’avanzare dell’età anche
se Amado all’epoca non ha ancora settanta anni. Ma la verve è un po’ rimasta
nel cassetto. Inoltre, ma non è un problema solo di Amado, quando si scrivono
“romanzi a tesi”, il più delle volte l’urgenza del messaggio prevarica
l’interesse per una scrittura di valore. Non molto di più.
“Guardatevi
in giro: ovunque, in tutto il mondo sono di ritorno le tenebre
dell’oscurantismo, la guerra contro il popolo, la prepotenza. Ma, come si
dimostra in questa favola, è sempre possibile piantare un seme, accendere una
speranza.” (266)
Roy Jacobsen “The Unseen” MacLehose euro 15
[A: 16/03/2024– I: 03/05/2024 – T: 04/05/2024] - &&
[tit. or.: De usynlige; ling. or.: norvegese; pagine: 268; anno 2013]
Un
libro che viene da lontano, non solo come oggetto, ma anche come storia. Ero in
uno dei miei soliti viaggi avventurosi periodici, forse uno degli ultimi di
questa tipologia. Dieci giorni nelle isole Lofoten alla ricerca (positiva)
dell’aurora boreale insieme ad un gruppo di amici fidati e fedeli. Cercando un
ricordo libresco di questa avventura mi imbatto in questo libro, che subito mi
attrae. E che ovviamente leggo in inglese, dato che il norvegese mi è assai
alieno.
Innanzi
tutto per l’autore, di poco più giovane di me, apprezzato scrittore in patria
per le sue doti di riproporre in maniera vivida l’evoluzione e le modifiche
della società norvegese nel corso del tempo. Così mi dicono per i suoi primi
romanzi intorno agli anni ’80. A partire dagli ultimi dieci anni si dedica
invece ad una saga, per ora in quattro libri, incentrata su di una famiglia
radicata nelle Lofoten.
Ovvio
che lette le note del libro, cercate informazioni in rete, non potevo mancare
il primo libro della “saga dei Barrøy” (questo il nome della famiglia). Una
saga che segue nella tetralogia la famiglia nel corso del secolo scorso,
imbastendone un epica locale che rimanda, per alcune tematiche e per l’ampiezza
del percorso narrativo, ad un Verga dei Malavoglia.
In
questo primo libro seguiamo le vicende di tre generazioni dei Barrøy, che
vivono in un’isola nel sud delle Lofoten, che prende il nome dalla famiglia
stessa. I protagonisti, o comunque i personaggi della famiglia presenti, sono
il capostipite, il vecchio Martin, i suoi due figli, la femmina Barbro, con
qualche ritardo mentale, ed il maschio, Hans, con la moglie Maria, l’unica che
viene da un’altra isola, e la loro figlia Ingrid.
La
storia in sé non è che sia né particolarmente avvincente né piena di colpi di
scena. Anzi è quasi piatta a questo proposito. Trascorrono una vita dura,
pervasa da una rispettabile armonia interna e discretamente pacifica, cui si
adattano al ritmo delle stagioni ed al relativo tempo atmosferico. Che, come sa
chi ha visto le Lofoten, non è che sia particolarmente clemente.
Jacobsen
descrive con mano ferma quanto succede, sottolineando gli elementi forti. Una
lunga prima tempesta invernale che mette a dura prova le case e gli animali
dell’isola. Le visite alle isole vicine per acquistare viveri in cambio di
latte, uova ed altro. L’idea di costruire un molo per avere più possibilità di
scambi. Le partenze di Hans, periodiche, sulla barca del fratello, al fine di
usare la pesca per poter ottenere piccole riserve di denaro. Le assenze di
Ingrid che, dovendo andare a scuola, si trasferisce settimanalmente presso i
luoghi di studio.
Vediamo
la sparizione di Barbro, che torna dopo mesi con un figlio, Lars, di cui non
sapremo mai il padre. Sparisce Maria, per qualche tempo, ma torna ed assiste
alla morte di Hans. Anche il vecchio Martin ci lascia, ma la comunità
acquisisce due nuovi fanciulli, Suzanne e Felix, figli del pastore che,
sparendo insieme alla moglie, li lascia alla bontà dei Barrøy.
In
tutto questo, c’è la crescita della personalità di Ingrid che, dopo la scuola e
dei lavori nelle altre isole, torna per diventare il centro della comunità.
Jacobsen
ci comunica il senso di questa epopea popolari, in questi posti sperduti e
solitari nell’anima, dove nei pascoli spesso spelacchiati si alleva uno sparuto
bestiame, dove si va per mare per rifornirsi di cibo e quando si ritorna ci si
siede davanti alle case a rammendare reti ed essiccare quanto pescato. Con un
senso forte delle gerarchie.
C’è
un bellissimo passo che ne illustra le modalità. Che a tavola siedono gli
uomini, mentre le donne ed i bambini mangiano in piedi. Quando il fratello di
Hans decide di trasferirsi altrove, Barbro vorrebbe la sua sedia, che invece
viene data a Maria. Solo alla morte della moglie di Martin, lei si siederà alla
tavola.
Oppure
quando l’autore narra della tempesta, e di come Hans costringa Ingrid ad uscire
allo scoperto con lui, per vederla in faccia, in modo da affrontare la paura
degli elementi e superarla. Ecco, sono tanti piccoli episodi, che si
accumulano, e che descrivano la vita di queste persone invisibili, dato che il
mondo, la società si sviluppa altrove. Un altrove che loro non sanno e non
conosceranno mai, almeno in questa prima fase. Poi ci sarà il modo di
congiungersi alla “vera” Norvegia, ma sarà solo nei volumi successivi della
saga che non credo, per ora, entreranno a far parte delle mie letture future.
Quello
che trasmette di forte l’autore, e che mi riporta a quanto so ed ho visto nei
paesi scandinavi, è la solitudine e la mancanza. Di contatti, essenzialmente,
che solo nel rapporto con altri che vivono modi diversi si può crescere e
formarsi. Altrimenti si rimane nel proprio guscio, appunto, invisibili ed
impenetrabili. Forse inutili.
Gabriel Garcia Marquez “En agosto nos
vemos” Random House s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2024 – I: 11/05/2024 – T: 12/05/2024]
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[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 142; anno 2024]
Quest’anno si decise di festeggiare il mio
compleanno con una fuga a due in quel di Barcellona, da cui entrambi si mancava
da decenni. Lì, non lontano dalle Ramblas, in Carrer d’Elisabets al numero 6,
scoprimmo una libreria che ci ha folgorato: “La Central del Raval”. Tante
stanze piene di libri, con criteri espositivi interessanti. Ad esempio, non
solo suddivisioni tra libri catalani e castigliani, ma anche, per gli
stranieri, tavoli in cui compaiono i libri con l’indicazione da quale lingua
sono stati tradotti.
Ed al centro, un giardino magico, dove
prendere qualcosa di fresco, e leggere qualche riga, ritemprando corpo e
spirito. Poiché poi nasce sempre il rito di omaggiarmi di un libro in simili
occasioni, la dolce consorte, più che un libro spagnolo, ha optato in un libro
scritto in spagnolo, ma dall’inarrivabile colombiano messicano Gabriel Garcia
Marquez. Un libro postumo, uscito nel decennale della morte, con anche una
storia editoriale interessante.
Marquez cominciò a scrivere questo testo
intorno agli anni ’90, ma non ne era soddisfatto, tanto che lo scrisse e
riscrisse varie volte, arrivando in venti anni alla quinta versione. Ormai
negli anni ’10 aveva continue cadute in Alzheimer e non riuscì a darne forma
per lui soddisfacente, tanto che disse alla moglie ed ai figli di distruggerlo.
Ora, nel decennale della morte, i figli Rodrigo e Garcia, rileggendolo, hanno
avuto dubbi se fosse veramente brutto e decidono, con l’aiuto del revisore
Cristobal Pera, di pubblicarlo con un congruo accompagnamento di note critiche,
nonché alcune pagine originali in foto.
Cosa dire? Certo, è un testo altalenante. Ci
sono momenti fulgidi, dove poche parole fanno vedere subito la presenza del
grande scrittore. E ci sono cadute in lentezze o piccole incongruenze, ma sono
certo che gli amanti del suo scrivere accetteranno i peccati veniali, per
evidenziare i passaggi intensi. Sono inoltre d’accordo che Marquez ha scritto
altre cose inenarrabili, arrivando a vette splendenti come questo inizio di
libro, che penso tutti conoscano: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di
esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto
pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”
Qui, abbiamo il tentativo, spesso presente in
Marquez, soprattutto nella sua ultima produzione, non tanto di mettersi dalla
parte delle donne, quanto farne vedere lati che storicamente vengono oscurati.
Che le donne desiderano, amano, pensano, esattamente come gli uomini. O, per
meglio dire, come tutti gli esseri umani. Altrimenti dovremmo fare distinguo
razzisti che non sono mai stati nelle mie corde.
Tentativo che viene eseguito seguendo la
vicenda di una donna, Ana Magdalena Bach (e poi torniamo sul nome) che ogni
anno va su di un’isola (credo caraibica) il 16 agosto per portare dei fiori
sulla tomba della madre. Dopo anni di routine, Gabo ce la mostra ad una svolta
del suo vivere, quando, in quell’unico giorno, incontra un uomo affascinante,
che la seduce durante un ballo.
Ana è ben sposata, ha 46 anni, due figli di
18 e 22 anni, parrebbe realizzata. Ma quella prima notte folle comincia a far
nascere in lei la ricerca di una sé stessa diversa, la ricerca di una
realizzazione diversa. Che i figli grandi non hanno bisogni di lei, ed il
marito, dopo venticinque anni sembra non solo assopito nei suoi desideri, ma
via via allontanandosi verso altri lidi.
Seguiamo così alcuni diversi anni della nuova
routine di Ana, madre e sposa “normale” per tutto l’anno, e donna folleggiante
ed appassionata per due giorni soltanto. Due giorni che le fanno incontrare
tante facce di un possibile desiderio. Il primo, lacerante, quando viene
confusa come escort. E poi gli altri, con un prete, con un serial killer,
insomma con tante possibili facce di una vita altra. In un ambiente, quello
dell’isola, che alla fine le fa comprendere il desiderio della madre di essere
sepolta laggiù.
Seguiamo tutti gli alti e bassi del suo
essere donne, contraltare del nostro essere uomini, fino alla constatazione ed
alla consapevolezza di un bivio: imboccare per sempre la strada del 16 agosto,
o rimuoverla per sempre. Non esiste una soluzione intermedia. Ognuna ha
positività e negatività. Ognuno di noi sa quale dei due pesi ha soggettivamente
la meglio. Così come lo sa Ana.
Detto della trama, e ribadito che il breve
testo è di sicuro disomogeneo, non posso non mettere l’accento su quel momento,
comune a tutti, in cui si scopre di desiderare e di essere desiderati. Di
certo, nell’uomo, la prima parte è preponderante, mentre, da uomo, direi
l’inverso per la donna. Ma, sottolineo, da uomo, che forse dovrebbe essere una
donna a rispondere. Ma Gabo non può tirarsi indietro verso il mantra della sua
vita, e, con tutti i limiti dell’incompletezza, anche qui ci porta un inno alla
vita, un’esortazione, calorosa e da buon nonnino, perché si esplorino i propri
desideri, sempre e nonostante l’età. Ben detto, amico mio.
Finisco pensando, anche a fronte di alcune
recensioni lette, che Gabo avesse voluto fare una piccola sinfonia, usando la
musica come sottofondo. Sia con il personaggio, che riprende il nome della
moglie del grande Johan Sebastian, e sia utilizzando la musica (bolero, tango e
altro) in alcuni momenti topici del testo. Mi viene in mente che (a quanto mi
dicono) spesso chi va verso una labilità mentale, usa la musica come piccolo
memento. E ci potrebbe stare, come chiusura di una vita, di lotta e di scrittura,
che, come dice in uno dei suoi ultimi testi: “La vita non è quella che si è
vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”
Joel Dicker “Un animale selvaggio” La Nave
di Teseo s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 02/04/2024 – I: 14/05/2024 – T:
15/05/2024] - &&&&
[tit. or.: Un animal sauvage; ling.
or.: francese; pagine: 440; anno 2024]
Un
ennesima buona prova del ginevrino Joel Dicker. Mai all’altezza del primo Harry
Quebert, ma con qualche bello spunto, una trama che si svolge riservando
interessanti sorprese in molte delle sue giravolte. Se volessimo avanzare delle
riserve sarebbero solo di due tipi: lo schema del polar francofono di ultima
generazione ed un finale che ci si aspettava da un po’.
Per
il primo punto, se ci lasciamo andare dalla culla delle pagine, ci possiamo
trovare indifferentemente in un Dicker o in un Guillaume Musso o in un Michel
Bussi. C’è la stessa costruzione mentale dietro ogni pagina, tanto che verrebbe
il sospetto che avessero tutti un editor uguale o molto simile. Mentre il
finale pur se preso da mille giravolte, sembra tuttavia abbastanza annunciato,
con un paio di punti che lasciano un interrogativo, o almeno delle perplessità,
come se fossero saltati dei passaggi. O che questi fossero talmente ovvi che
non vale la pena tornarci sopra.
Intanto,
anche se tutto gira intorno ad una rapina, ai suoi prodromi ed alle sue
conseguenze, non riesce ad essere un vero noir, come ci si aspettava dalle
premesse editoriali. Forse un thriller, con una serie di innesti di storie
d’amore (o di storie e d’amore), ma tutto che ruota intorno ad un sentimento
che non è l’amore, ma l’invidia. Un’invidia che può trasformare un essere umano
in un animale selvaggio. Un animale che non può essere rinchiuso in una gabbia.
Ma
facciamo qualche passo indietro, venendo alla costruzione per gradi (e per
salti temporali) che ci propone Dicker. Il centro della vicenda si colloca nel
bipolarismo tra due coppie abitanti in quel di Ginevra. Abbiamo i Braun, con
Sophie brillante avvocato e Arpad un diligente banchiere, che abitano in una
casa immersa nel bosco, la Casa di Vetro. Ed abbiamo i Liégean, con Greg,
poliziotto, e Karine, commessa, che vivono in un complesso residenziale, non
lontano dal bosco di cui sopra, ma talmente brutto da essere soprannominato
l’Obbrobrio.
Le
due coppie si conoscono casualmente, si iniziano a frequentare, ed entriamo a
piedi uniti nella storia. Greg si infatua di Sophie, comincia a guardarla di
nascosto, la spia, installa addirittura una webcam pirata nella villa. In
questo modo, ovvio, si allontana da Karine, ma viene colpito da piccoli fatti
casuali che lo portano a sospettare che dietro la bella facciata dei Braun ci
sia altro. Anche perché Sophie, di nascosto ad Arpad, incontra Philip un
ex-carcerato non certo tornato sulla via del bene. E scopre anche che Arpad, da
mesi, è stato licenziato ma non dice nulla a nessuno continuando a comportarsi
normalmente: colazione, uscita per ufficio, ritorno serale. Tutto come se.
Ma
come fanno ad avere quell’alto tenore di vita? Greg invidia i Braun e comincia
a porsi domande. Usando ricerche poliziesche, scopre che i Braun si spostano di
paese in paese, poco dopo che nelle vicinanze avvengono rapine. Karine invidia
Sophie che è sempre a suo agio in ogni situazione, mentre lei si deve
arrabattare da mane a sera per ottenere quel poco che la loro onesta vita gli
consente. Sophie e Arpad invidiano la finta serenità dei vicini. Con Sophie
che, come un animale, si aggira per il mondo, aspettando le scariche di
adrenalina che solo la trasgressione le sa dare.
Tuttavia,
non è questo il centro della storia. Almeno quello cui ci vuol portare
l’autore. Che tutto ruota intorno ad una rapina che di sicuro sta per essere
organizzata in una gioielleria ginevrina. Una rapina in cui di sicuro è
coinvolta Sophie. Cui pensiamo entri la mano di Philip. Cui vuole entrare
Arpad. Che Greg intuisce e vuole sventare, anche mettendo definitivamente in
crisi la sua famiglia ed il suo mondo.
Nella
parte finale, con la maestria che gli riconosciamo dagli altri suoi libri,
Dicker ci racconta della rapina, di chi la fa realmente, della sua interessante
realizzazione, delle sue conseguenze, per ognuno dei cinque attori del romanzo.
Ci
vogliono quasi quattrocento pagine per scoprire poi il gioco dell’autore (che
continua a rimbambirci con i continui salti temporali che a me, alla fin fine,
risultano sempre un po’ antipatici): il gioco dell’apparenza. Tutto sembra
qualcosa, rivelandosi poi altro, bordeggiando nel testo tra l’immagine che gli
altri hanno di noi e quella che noi stessi proiettiamo all’esterno. Un gioco
ben giocato, alla fine, che si rimane incollati alla pagina aspettando che i
veli vengano tolti e ci si presenti la realtà, come realmente è. Una realtà
che, come nei più riusciti thriller, scopriremo fino in fondo solo nelle ultime
dieci pagine. Che non spiegano tutto, ma che di tutto fanno capire qualcosa.
Unico
appunto, rispetto ad altre sue scritture, è la poca profondità ed empatia dei
personaggi che Dicker riesce ad infondere. In fondo, nessuno ci rimane nel
cuore. A nessuno ci attacchiamo sperando che le cose vadano come sarebbe bello
che andassero. Ma Dicker sa comunque come muovere le carte, e sa tenerci
incollati alla pagina fino alla fine. E forse oltre.
Mario Vargas Llosa “Crocevia” Repubblica
Latinoamericana 4 euro 9,90
[A: 21/02/2020 – I: 09/07/2024 – T: 10/07/2024]
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[tit. or.: Cinco Esquinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 234; anno 2016]
Soprattutto
per certe indulgenze licenziose che potrebbero rendere più leggeri alcuni
passaggi del libro, ma sulle quali il nostro indulge con un fare un po’ troppo
licenzioso. Mentre si può senz’altro condividere la spinta politica di denuncia
che sottende tutto il libro, tanto che lo si ascrive a quella filiera di
letteratura battezzata “i romanzi della dittatura”, che lo trova in compagnia
di tutto un bel mondo latino americano dalla Colombia (Gabriel García Márquez)
al Messico (Carlos Fuentes), dal Paraguay (Augusto Roa Bastos) al Cile (Roberto
Bolaño) passando anche per Cuba (Alejo Carpentier).
Quello
che però frena molto il discorso complessivo è il coinvolgimento personale
dell’autore, che non si tira indietro qui, sei anni dopo il Nobel, e più di
venti dall’inizio delle sue scaramucce politiche in patrie, nel dipingere il
mondo dei dieci anni della quasi dittatura di Alberto Fujimori per quello che è
certo, ma con una cattiveria che va al di là della semplice denuncia.
Ricordo,
per i poco informati della politica peruviana, che nel 1990 ci fu una strenua
lotta alle presidenziali locali tra il nostro scrittore, appoggiato dalla
destra locale, ed il candidato senza bandiere Fujimori. Arrivati al
ballottaggio, la sinistra, pur di non eleggere Vargas Llosa, favorì l’ascesa
del nippo-peruano. Ma ben presto se ne dovette pentire. Fujimori cominciò
subito una caccia spietata a tutta la sinistra, sia regolare che non, usando
mezzi talmente illegali che dieci anni dopo fu condannato a venticinque anni di
carcere per i delitti commessi. In questa lotta senza esclusione di colpi fu
aiutato dal capo dei Servizi Segreti Vladimiro Montesinos detto El Doctor.
Piccolo inciso il Doctor fu battezzato Vladimiro che la sua famiglia era
comunista dura e pura e voleva rendere omaggio al grande Lenin.
Con
questo pamphlet, che si colloca appunto nel decennio nero di Fujimori, l’autore
vuole elevare una sonora denuncia sia ai costumi locali che alla deriva
politica, insinuando (o affermando) che le uniche ancore di salvezza possono
venire da un giornalismo di denuncia, anche a rischio della propria incolumità.
Così
vediamo l’intrecciarsi di cinque vite, in un crocevia (brutto titolo italiano)
incontro di cinque angoli stradali (le “cinco esquinas” del più calzante titolo
spagnolo) in un preciso punto di Lima, il Barrio Alto, punto di congiunzione
tra la borghesia limeña ed il proletariato urbanizzato. Lì c’è anche l’incrocio
delle cinque esistenze che seguiamo nel romanzo (dove in realtà seguiamo di
più, ma queste sono quelle che l’autore ci porta ad esempio massimo della
realtà locale).
C’è
la famiglia Cardenas, con l’ingegnere Enrique, uno degli industriali più ricchi
del Perù e la moglie Marisa. C’è la famiglia Casasbellas, con l’avvocato
Luciano, amico d’infanzia di Enrique, e la moglie Chabela. Dall’altra parte c’è
Julieta Leguizamón detta la Retaquita (la Piccoletta) redattrice nella rivista
scandalistica diretta da Rolando Garro.
Per
fortuiti casi della vita Marisa e Chabela diventano amanti, mentre Enrique
viene ricattato da Garro che esibisce foto di una orgia dell’ingegnere con
compiacenti signorine. Luciano viene allora incaricato di risolvere la
faccenda, cosa che fa chiedendo lumi al Doctor. Tuttavia, era proprio il Doctor
che, utilizzando sapientemente Garro, metteva in crisi ed emarginava i suoi
nemici politici. Ma Cardenas è troppo in alto nella nomenclatura locale, così
che il Doctor decide di sacrificare Garro. Certo, Enrique ne esce a pezzi, ed
anche Luciano non fa una bella figura.
Nel
frattempo le due donne continuano la loro storia d’amore (e fino a qui ci sta
anche un modo interessante nelle descrizioni dello scrittore), ma quando
coinvolgono prima Enrique e poi Luciano nelle lor effusioni, si rivela un gioco
sporco: il bel mondo, l’alta borghesia non può che comportarsi al di là del
bene comune, in pubblico ed in privato.
Rimane
il giornalismo, in cui Vargas Llosa fa finta di credere, elevando la Retaquita
a vindice del sistema, lei che con Garro aveva contribuito ad infangare
Cardenas (e prima ancora un attore sfortunato, ed un altro politico). Quasi che
lui ci voglia mandare il messaggio che l’informazione ha comunque un suo raggio
d’azione “duro e puro”, e seppur riesce ad infangare un uomo onesto, ha anche
la capacità di denunciare e mandare a picco una dittatura politica.
Qui
sarà la Retaquita che con i suoi reportages metterà in crisi e farà condannare
il Doctor, anche se questa parte, per Vargas Llosa avviene in modo un po’
frettoloso, mentre nella realtà furono riprese televisive nascoste che
portarono la crisi nel “sistema Montesinos”.
L’andamento
generale a volte sembra troppo semplice, lineare, quasi una noiosa cronaca di
una telenovela messicana. Solo il terzultimo capitolo, intitolato “Turbinio” ci
restituisce la migliore scrittura di Vargas Llosa nonché il modo semplice e
complicato insieme in cui i destini delle persone si mescolano nel crocevia
della vita umana. Laddove il grande assunto (che c’è anche se poi il suo
svolgimento non è così felice) è che l’esistenza minuta dell’uomo (la storia) non
può che risultare dalla sua interazione con la vita della società (la Storia)
anche se non si interagisce in prima persona.
Esempio
classico nel romanzo è l’intreccio tra l’erotismo delle due donne (storia), il
lavoro rischioso del giornalismo (tra storia e Storia) per arrivare alle strade
da percorrere per esercitare il potere (Storia). Ma, personalmente, non posso
che fare una critica dove si presentano “solo” questi ricchi borghesi che si
trastullano tra Lima e Miami, senza nessuna preoccupazione, che quando si
sentono minacciati da Sendero Luminoso, prendono un aereo e vanno altrove.
Insomma,
Vargas Llosa denuncia (o ci prova), ma non ha più quella dolente cattiveria de
“La città e i cani” o l’erotismo sbarazzino di “Zia Julia e lo scribacchino”. A
me continua a non piacere.
Visto
che i latini d’oltre oceano non hanno sfondato, vi propongo alcune citazioni di
uno spagnolo puro, Arturo
Pérez-Reverte provenienti da alcune
sue vecchie scrittura. Dal suo primo libro “El Húsar” traduco al volo
un pensiero che nel finale ci dovrebbe far riflettere in questi tempi poco
pacifici: “Gli spagnoli non sono, non siamo, persone che si possano
salvare con la forza. Ci piace salvarci da soli, a poco a poco ... Mai le
baionette imporranno qui una sola idea” (124). Sperando che anche i non spagnoli
si possano salvare.
Dal più tardo (ma sempre trentenne) “La pelle del tamburo” riporto invece alcune considerazioni sulla
vita e sulla bella città di Siviglia:
“Sono
convinta che ogni edificio, ogni quadro, ogni libro che viene distrutto o
perduto, ci rende un po’ più orfani. Ci impoverisce” (50)
“Noi donne siamo molto complicate in confronto
agli uomini, così diretti nelle loro bugie, così infantili nelle loro
contraddizioni… Così coerenti nella loro vigliaccheria” (185)
“Forse
era solo la nostalgia della gioventù e basta. E dei sogni che poi la vita fa in
modo di strapparti pian piano a morsi. … comunque … pensò che gli sarebbe
sempre rimasta Siviglia … perché era l’unica città a conservare, agli incroci,
nei colori e nella luce, il rumore del tempo che svanisce, anche se in realtà
siamo noi a svanire assieme alle cose transitorie cui leghiamo la nostra vita e
la nostra memoria” (262)
“Sono
pochi i fatti così tragici nella vita come scoprire una verità importante nel
momento sbagliato” (316)
Come
si diceva, sono rimasto lontano dai primi di settembre, per un giro asiatico
dove, oltre a tributare il solito omaggio (dovuto) ad Angkor Wat, abbiamo
ripercorso le strade vietnamite, ritrovando molte similitudini con il primo
lontano viaggio nella terra di Ho Chi Minh, tanto che a volte il tempo sembra
scorrere diversamente tra noi e loro.
Un viaggio che termina con lo spalancarsi di un autunno italiano cui lavoriamo per costruire altri momenti di serenità, che mancano a tutti in questi tempi cupi. Fortuna che, nonostante tutto, l’ottimismo ci sorregge ancora, per cui vi abbraccio con gioia.
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