domenica 22 settembre 2024

Un pareggio - 22 settembre 2024

Sperando che le due settimane di lontananza non vi siamo pesate troppo, eccoci, tornati dall’umida Asia, a scrivere ancora di libri e di pensieri. Con un pareggio, dicevo, dei gradimento tra due fronti opposti. Da un lato una schiera sudamericana di calibro, dall’altro due autori europei leggermente più freddi. Ma nonostante i premi Nobel, i sudamericani non sfondano: la buona ultima prova postuma di Gabriel Garcia Marquez non risolleva le sorti del Sud, dove c’è un Amado molto politico ma poco scorrevole ed un Vargas Llosa che non riesce più a prendermi. Dall’altro versante un’onesta saga norvegese di Roy Jacobsen (molto acclamata in patria) fa da valletto ad una sempre buona espressività del giovane svizzero Joël Dicker.

Certo, Dicker sfrutta canali un po’ commerciali, sull’onda del suo ottimo primo libro (onda lunga visto che ha più di dieci anni), ma il risultato finale mi ha convinto più delle altre prove presentate questo mese.

Jorge Amado “Alte uniformi e camicie da notte” Repubblica Latino-americana 3 euro 9,90

[A: 10/02/2020 – I: 25/04/2024 – T: 27/04/2024] - &&  

[tit. or.: Farda fardão camisola de dormir; ling. or.: portoghese; pagine: 266; anno 1979]

Ritorno dopo tanto tempo a Jorge Amado con una delle sue ultime opere. Purtroppo, non ha né la forza corale delle precedenti Gabriela o Teresa, né la forte denuncia delle sue prime opere (penso a “Cacao”). Un opera ben fatta, con un messaggio politico forte e chiaro, anche se per gran parte interno alla realtà brasiliana. Ma proprio per questo, molto “di testa” e poco “di cuore”, con spunti che all’epoca ed in Brasile forse erano ironici, ora, quarantacinque anni dopo, fanno sollevare il sopracciglio in segno di ammirazione dell’acume, ma poco più.

Unico punto forte, che non si dimentica, e che è valido allora come ora, è la frase che riporto in coda.

Penso che l’idea di una satira politica vestita di altre vesti, come solito negli scritti di Amado, sia anche derivata dalla situazione politica ai tempi della scrittura. Erano orami quindici anni che il Brasile viveva sotto il regime militare in seguito a diversi colpi di stato, che avevano portato il paese sull’orlo del collasso. Erano gli anni in cui la presidenza del Brasile era stata assunta dal generale Ernesto Geisel, di chiare origini tedesche. Per fare satira politica, mettere alla berlina i militari e ricordare i passati orrori nazisti, Amado imbastisce una trama che porta l’azione nell’inverno tra il ’40 ed il ’41 ed al potere c’era la figura emblematica di Getúlio Vargas (sulla quale potrebbe valere il tempo e lo spazio di approfondimenti, ma non qui).

Amado, per costruire una trama tra romanticismo e denuncia immagina la morte del poeta Antônio Bruno, disperato per l’avanzata dei nazisti nel mondo (una morte che rimanda al suicidio brasiliano di Stefan Zweig). Bruno era un poeta, membro dell’Accademia di Lettere, ma soprattutto era un “tombeur de femme”, cui si legava in modo passeggero, senza mai un legame veramente stabile. Motivi per cui, nel corso della trama e del ricordo, Amado infioretta il racconto degli episodi amorosi di Bruno e delle sue amanti, lasciando spesso a quest’ultime il filo della narrazione. Questa la parte in cui spuntano le camicie da notte del titolo, la parte leggera e meno ironica, anche se ci porta dentro i tormenti sociali del poeta.

La parte che Amado vuole satirica, si incerniera invece sulle vicende legate alla successione del posto di Bruno all’interno dell’Accademia. Siamo in piena dittatura di Vargas, quindi non ci sorprende che il posto in Accademia venga rivendicato da un militare con all’attivo una illeggibile raccolta di poesie. Si tratta del colonnello Agnaldo Sampaio Pereira, oltretutto molto vicino a chi vuole entrare in guerra a fianco della Germania. Gli amici di Bruno, dopo lunghe riflessioni, decidono di contrapporgli un altro militare, il generale Waldomiro Moreira, superiore in grado.

Piena di spunti ironici è la lotta tra i due militari, dove alla fine Pereira, accusato e con ragione di aver aiutato dei nazisti, ha un infarto e muore, mentre Moreira, trionfo per il fatto di essere rimasto il solo candidato, si pavoneggia come se fosse già seduto sul seggio accademico. Tanto tronfio è il suo ego che quando viene informato che tutti hanno votato scheda bianca, per il dolore di essere stato lasciato da solo, anche lui ha un infarto e muore.

Tutta l’orchestrazione della vicenda per salvare il posto di Bruno e consegnarlo ad un vero poeta, è voluta da Amado per mostrare che anche letterati anziani e magari in pensione di fronte al pericolo nazista (come nel tempo del libro) o al pericolo autoritario e militaresco (come nel presente della scrittura) possono imbracciare le armi della lotta, anche incruenta, e battersi contro l’avanzare dell’ignoranza e della cafonaggine.

Amado usa come ben sa i diversi registri della sua scrittura, passando dal lirismo romanzato quando racconta degli incontri d’amore tra Bruno e le sue diverse amanti, ad una scrittura quasi di stampo giornalistico, mentre descrive le vicende della guerra in Europa o le parallele proteste che avvengono in Brasile.

Tuttavia, seppur gli intenti sono degni di rispetto, si sente l’avanzare dell’età anche se Amado all’epoca non ha ancora settanta anni. Ma la verve è un po’ rimasta nel cassetto. Inoltre, ma non è un problema solo di Amado, quando si scrivono “romanzi a tesi”, il più delle volte l’urgenza del messaggio prevarica l’interesse per una scrittura di valore. Non molto di più.

“Guardatevi in giro: ovunque, in tutto il mondo sono di ritorno le tenebre dell’oscurantismo, la guerra contro il popolo, la prepotenza. Ma, come si dimostra in questa favola, è sempre possibile piantare un seme, accendere una speranza.” (266)

Roy Jacobsen “The Unseen” MacLehose euro 15

[A: 16/03/2024– I: 03/05/2024 – T: 04/05/2024] - &&

[tit. or.: De usynlige; ling. or.: norvegese; pagine: 268; anno 2013]

Un libro che viene da lontano, non solo come oggetto, ma anche come storia. Ero in uno dei miei soliti viaggi avventurosi periodici, forse uno degli ultimi di questa tipologia. Dieci giorni nelle isole Lofoten alla ricerca (positiva) dell’aurora boreale insieme ad un gruppo di amici fidati e fedeli. Cercando un ricordo libresco di questa avventura mi imbatto in questo libro, che subito mi attrae. E che ovviamente leggo in inglese, dato che il norvegese mi è assai alieno.

Innanzi tutto per l’autore, di poco più giovane di me, apprezzato scrittore in patria per le sue doti di riproporre in maniera vivida l’evoluzione e le modifiche della società norvegese nel corso del tempo. Così mi dicono per i suoi primi romanzi intorno agli anni ’80. A partire dagli ultimi dieci anni si dedica invece ad una saga, per ora in quattro libri, incentrata su di una famiglia radicata nelle Lofoten.

Ovvio che lette le note del libro, cercate informazioni in rete, non potevo mancare il primo libro della “saga dei Barrøy” (questo il nome della famiglia). Una saga che segue nella tetralogia la famiglia nel corso del secolo scorso, imbastendone un epica locale che rimanda, per alcune tematiche e per l’ampiezza del percorso narrativo, ad un Verga dei Malavoglia.

In questo primo libro seguiamo le vicende di tre generazioni dei Barrøy, che vivono in un’isola nel sud delle Lofoten, che prende il nome dalla famiglia stessa. I protagonisti, o comunque i personaggi della famiglia presenti, sono il capostipite, il vecchio Martin, i suoi due figli, la femmina Barbro, con qualche ritardo mentale, ed il maschio, Hans, con la moglie Maria, l’unica che viene da un’altra isola, e la loro figlia Ingrid.

La storia in sé non è che sia né particolarmente avvincente né piena di colpi di scena. Anzi è quasi piatta a questo proposito. Trascorrono una vita dura, pervasa da una rispettabile armonia interna e discretamente pacifica, cui si adattano al ritmo delle stagioni ed al relativo tempo atmosferico. Che, come sa chi ha visto le Lofoten, non è che sia particolarmente clemente.

Jacobsen descrive con mano ferma quanto succede, sottolineando gli elementi forti. Una lunga prima tempesta invernale che mette a dura prova le case e gli animali dell’isola. Le visite alle isole vicine per acquistare viveri in cambio di latte, uova ed altro. L’idea di costruire un molo per avere più possibilità di scambi. Le partenze di Hans, periodiche, sulla barca del fratello, al fine di usare la pesca per poter ottenere piccole riserve di denaro. Le assenze di Ingrid che, dovendo andare a scuola, si trasferisce settimanalmente presso i luoghi di studio.

Vediamo la sparizione di Barbro, che torna dopo mesi con un figlio, Lars, di cui non sapremo mai il padre. Sparisce Maria, per qualche tempo, ma torna ed assiste alla morte di Hans. Anche il vecchio Martin ci lascia, ma la comunità acquisisce due nuovi fanciulli, Suzanne e Felix, figli del pastore che, sparendo insieme alla moglie, li lascia alla bontà dei Barrøy.

In tutto questo, c’è la crescita della personalità di Ingrid che, dopo la scuola e dei lavori nelle altre isole, torna per diventare il centro della comunità.

Jacobsen ci comunica il senso di questa epopea popolari, in questi posti sperduti e solitari nell’anima, dove nei pascoli spesso spelacchiati si alleva uno sparuto bestiame, dove si va per mare per rifornirsi di cibo e quando si ritorna ci si siede davanti alle case a rammendare reti ed essiccare quanto pescato. Con un senso forte delle gerarchie.

C’è un bellissimo passo che ne illustra le modalità. Che a tavola siedono gli uomini, mentre le donne ed i bambini mangiano in piedi. Quando il fratello di Hans decide di trasferirsi altrove, Barbro vorrebbe la sua sedia, che invece viene data a Maria. Solo alla morte della moglie di Martin, lei si siederà alla tavola.

Oppure quando l’autore narra della tempesta, e di come Hans costringa Ingrid ad uscire allo scoperto con lui, per vederla in faccia, in modo da affrontare la paura degli elementi e superarla. Ecco, sono tanti piccoli episodi, che si accumulano, e che descrivano la vita di queste persone invisibili, dato che il mondo, la società si sviluppa altrove. Un altrove che loro non sanno e non conosceranno mai, almeno in questa prima fase. Poi ci sarà il modo di congiungersi alla “vera” Norvegia, ma sarà solo nei volumi successivi della saga che non credo, per ora, entreranno a far parte delle mie letture future.

Quello che trasmette di forte l’autore, e che mi riporta a quanto so ed ho visto nei paesi scandinavi, è la solitudine e la mancanza. Di contatti, essenzialmente, che solo nel rapporto con altri che vivono modi diversi si può crescere e formarsi. Altrimenti si rimane nel proprio guscio, appunto, invisibili ed impenetrabili. Forse inutili.

Gabriel Garcia Marquez “En agosto nos vemos” Random House s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2024 – I: 11/05/2024 – T: 12/05/2024] - &&& ----  

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 142; anno 2024]

Quest’anno si decise di festeggiare il mio compleanno con una fuga a due in quel di Barcellona, da cui entrambi si mancava da decenni. Lì, non lontano dalle Ramblas, in Carrer d’Elisabets al numero 6, scoprimmo una libreria che ci ha folgorato: “La Central del Raval”. Tante stanze piene di libri, con criteri espositivi interessanti. Ad esempio, non solo suddivisioni tra libri catalani e castigliani, ma anche, per gli stranieri, tavoli in cui compaiono i libri con l’indicazione da quale lingua sono stati tradotti.

Ed al centro, un giardino magico, dove prendere qualcosa di fresco, e leggere qualche riga, ritemprando corpo e spirito. Poiché poi nasce sempre il rito di omaggiarmi di un libro in simili occasioni, la dolce consorte, più che un libro spagnolo, ha optato in un libro scritto in spagnolo, ma dall’inarrivabile colombiano messicano Gabriel Garcia Marquez. Un libro postumo, uscito nel decennale della morte, con anche una storia editoriale interessante.

Marquez cominciò a scrivere questo testo intorno agli anni ’90, ma non ne era soddisfatto, tanto che lo scrisse e riscrisse varie volte, arrivando in venti anni alla quinta versione. Ormai negli anni ’10 aveva continue cadute in Alzheimer e non riuscì a darne forma per lui soddisfacente, tanto che disse alla moglie ed ai figli di distruggerlo. Ora, nel decennale della morte, i figli Rodrigo e Garcia, rileggendolo, hanno avuto dubbi se fosse veramente brutto e decidono, con l’aiuto del revisore Cristobal Pera, di pubblicarlo con un congruo accompagnamento di note critiche, nonché alcune pagine originali in foto.

Cosa dire? Certo, è un testo altalenante. Ci sono momenti fulgidi, dove poche parole fanno vedere subito la presenza del grande scrittore. E ci sono cadute in lentezze o piccole incongruenze, ma sono certo che gli amanti del suo scrivere accetteranno i peccati veniali, per evidenziare i passaggi intensi. Sono inoltre d’accordo che Marquez ha scritto altre cose inenarrabili, arrivando a vette splendenti come questo inizio di libro, che penso tutti conoscano: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”

Qui, abbiamo il tentativo, spesso presente in Marquez, soprattutto nella sua ultima produzione, non tanto di mettersi dalla parte delle donne, quanto farne vedere lati che storicamente vengono oscurati. Che le donne desiderano, amano, pensano, esattamente come gli uomini. O, per meglio dire, come tutti gli esseri umani. Altrimenti dovremmo fare distinguo razzisti che non sono mai stati nelle mie corde.

Tentativo che viene eseguito seguendo la vicenda di una donna, Ana Magdalena Bach (e poi torniamo sul nome) che ogni anno va su di un’isola (credo caraibica) il 16 agosto per portare dei fiori sulla tomba della madre. Dopo anni di routine, Gabo ce la mostra ad una svolta del suo vivere, quando, in quell’unico giorno, incontra un uomo affascinante, che la seduce durante un ballo.

Ana è ben sposata, ha 46 anni, due figli di 18 e 22 anni, parrebbe realizzata. Ma quella prima notte folle comincia a far nascere in lei la ricerca di una sé stessa diversa, la ricerca di una realizzazione diversa. Che i figli grandi non hanno bisogni di lei, ed il marito, dopo venticinque anni sembra non solo assopito nei suoi desideri, ma via via allontanandosi verso altri lidi.

Seguiamo così alcuni diversi anni della nuova routine di Ana, madre e sposa “normale” per tutto l’anno, e donna folleggiante ed appassionata per due giorni soltanto. Due giorni che le fanno incontrare tante facce di un possibile desiderio. Il primo, lacerante, quando viene confusa come escort. E poi gli altri, con un prete, con un serial killer, insomma con tante possibili facce di una vita altra. In un ambiente, quello dell’isola, che alla fine le fa comprendere il desiderio della madre di essere sepolta laggiù.

Seguiamo tutti gli alti e bassi del suo essere donne, contraltare del nostro essere uomini, fino alla constatazione ed alla consapevolezza di un bivio: imboccare per sempre la strada del 16 agosto, o rimuoverla per sempre. Non esiste una soluzione intermedia. Ognuna ha positività e negatività. Ognuno di noi sa quale dei due pesi ha soggettivamente la meglio. Così come lo sa Ana.

Detto della trama, e ribadito che il breve testo è di sicuro disomogeneo, non posso non mettere l’accento su quel momento, comune a tutti, in cui si scopre di desiderare e di essere desiderati. Di certo, nell’uomo, la prima parte è preponderante, mentre, da uomo, direi l’inverso per la donna. Ma, sottolineo, da uomo, che forse dovrebbe essere una donna a rispondere. Ma Gabo non può tirarsi indietro verso il mantra della sua vita, e, con tutti i limiti dell’incompletezza, anche qui ci porta un inno alla vita, un’esortazione, calorosa e da buon nonnino, perché si esplorino i propri desideri, sempre e nonostante l’età. Ben detto, amico mio.

Finisco pensando, anche a fronte di alcune recensioni lette, che Gabo avesse voluto fare una piccola sinfonia, usando la musica come sottofondo. Sia con il personaggio, che riprende il nome della moglie del grande Johan Sebastian, e sia utilizzando la musica (bolero, tango e altro) in alcuni momenti topici del testo. Mi viene in mente che (a quanto mi dicono) spesso chi va verso una labilità mentale, usa la musica come piccolo memento. E ci potrebbe stare, come chiusura di una vita, di lotta e di scrittura, che, come dice in uno dei suoi ultimi testi: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla.”

Joel Dicker “Un animale selvaggio” La Nave di Teseo s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 02/04/2024 – I: 14/05/2024 – T: 15/05/2024] - &&&& 

[tit. or.: Un animal sauvage; ling. or.: francese; pagine: 440; anno 2024]

Un ennesima buona prova del ginevrino Joel Dicker. Mai all’altezza del primo Harry Quebert, ma con qualche bello spunto, una trama che si svolge riservando interessanti sorprese in molte delle sue giravolte. Se volessimo avanzare delle riserve sarebbero solo di due tipi: lo schema del polar francofono di ultima generazione ed un finale che ci si aspettava da un po’.

Per il primo punto, se ci lasciamo andare dalla culla delle pagine, ci possiamo trovare indifferentemente in un Dicker o in un Guillaume Musso o in un Michel Bussi. C’è la stessa costruzione mentale dietro ogni pagina, tanto che verrebbe il sospetto che avessero tutti un editor uguale o molto simile. Mentre il finale pur se preso da mille giravolte, sembra tuttavia abbastanza annunciato, con un paio di punti che lasciano un interrogativo, o almeno delle perplessità, come se fossero saltati dei passaggi. O che questi fossero talmente ovvi che non vale la pena tornarci sopra.

Intanto, anche se tutto gira intorno ad una rapina, ai suoi prodromi ed alle sue conseguenze, non riesce ad essere un vero noir, come ci si aspettava dalle premesse editoriali. Forse un thriller, con una serie di innesti di storie d’amore (o di storie e d’amore), ma tutto che ruota intorno ad un sentimento che non è l’amore, ma l’invidia. Un’invidia che può trasformare un essere umano in un animale selvaggio. Un animale che non può essere rinchiuso in una gabbia.

Ma facciamo qualche passo indietro, venendo alla costruzione per gradi (e per salti temporali) che ci propone Dicker. Il centro della vicenda si colloca nel bipolarismo tra due coppie abitanti in quel di Ginevra. Abbiamo i Braun, con Sophie brillante avvocato e Arpad un diligente banchiere, che abitano in una casa immersa nel bosco, la Casa di Vetro. Ed abbiamo i Liégean, con Greg, poliziotto, e Karine, commessa, che vivono in un complesso residenziale, non lontano dal bosco di cui sopra, ma talmente brutto da essere soprannominato l’Obbrobrio.

Le due coppie si conoscono casualmente, si iniziano a frequentare, ed entriamo a piedi uniti nella storia. Greg si infatua di Sophie, comincia a guardarla di nascosto, la spia, installa addirittura una webcam pirata nella villa. In questo modo, ovvio, si allontana da Karine, ma viene colpito da piccoli fatti casuali che lo portano a sospettare che dietro la bella facciata dei Braun ci sia altro. Anche perché Sophie, di nascosto ad Arpad, incontra Philip un ex-carcerato non certo tornato sulla via del bene. E scopre anche che Arpad, da mesi, è stato licenziato ma non dice nulla a nessuno continuando a comportarsi normalmente: colazione, uscita per ufficio, ritorno serale. Tutto come se.

Ma come fanno ad avere quell’alto tenore di vita? Greg invidia i Braun e comincia a porsi domande. Usando ricerche poliziesche, scopre che i Braun si spostano di paese in paese, poco dopo che nelle vicinanze avvengono rapine. Karine invidia Sophie che è sempre a suo agio in ogni situazione, mentre lei si deve arrabattare da mane a sera per ottenere quel poco che la loro onesta vita gli consente. Sophie e Arpad invidiano la finta serenità dei vicini. Con Sophie che, come un animale, si aggira per il mondo, aspettando le scariche di adrenalina che solo la trasgressione le sa dare.

Tuttavia, non è questo il centro della storia. Almeno quello cui ci vuol portare l’autore. Che tutto ruota intorno ad una rapina che di sicuro sta per essere organizzata in una gioielleria ginevrina. Una rapina in cui di sicuro è coinvolta Sophie. Cui pensiamo entri la mano di Philip. Cui vuole entrare Arpad. Che Greg intuisce e vuole sventare, anche mettendo definitivamente in crisi la sua famiglia ed il suo mondo.

Nella parte finale, con la maestria che gli riconosciamo dagli altri suoi libri, Dicker ci racconta della rapina, di chi la fa realmente, della sua interessante realizzazione, delle sue conseguenze, per ognuno dei cinque attori del romanzo.

Ci vogliono quasi quattrocento pagine per scoprire poi il gioco dell’autore (che continua a rimbambirci con i continui salti temporali che a me, alla fin fine, risultano sempre un po’ antipatici): il gioco dell’apparenza. Tutto sembra qualcosa, rivelandosi poi altro, bordeggiando nel testo tra l’immagine che gli altri hanno di noi e quella che noi stessi proiettiamo all’esterno. Un gioco ben giocato, alla fine, che si rimane incollati alla pagina aspettando che i veli vengano tolti e ci si presenti la realtà, come realmente è. Una realtà che, come nei più riusciti thriller, scopriremo fino in fondo solo nelle ultime dieci pagine. Che non spiegano tutto, ma che di tutto fanno capire qualcosa.

Unico appunto, rispetto ad altre sue scritture, è la poca profondità ed empatia dei personaggi che Dicker riesce ad infondere. In fondo, nessuno ci rimane nel cuore. A nessuno ci attacchiamo sperando che le cose vadano come sarebbe bello che andassero. Ma Dicker sa comunque come muovere le carte, e sa tenerci incollati alla pagina fino alla fine. E forse oltre.

Mario Vargas Llosa “Crocevia” Repubblica Latinoamericana 4 euro 9,90

[A: 21/02/2020 – I: 09/07/2024 – T: 10/07/2024] - & +  

[tit. or.: Cinco Esquinas; ling. or.: spagnolo; pagine: 234; anno 2016]

Non sono mai stato un grande estimatore di Mario Vargas Llosa, nonostante abbia gradito alcune sue prime prove. Poi l’ho perso e, pur con il Nobel in tasca (unico Nobel attribuito ad un cittadino peruviano), non l’ho mai ritrovato. Come non lo ritrovo qui, anche se con questo crocevia ha tentato senza dubbio di fare un romanzo a tesi. Tesi che si possono condividere, ma che non rendono il libro particolarmente leggibile o gradevole.

Soprattutto per certe indulgenze licenziose che potrebbero rendere più leggeri alcuni passaggi del libro, ma sulle quali il nostro indulge con un fare un po’ troppo licenzioso. Mentre si può senz’altro condividere la spinta politica di denuncia che sottende tutto il libro, tanto che lo si ascrive a quella filiera di letteratura battezzata “i romanzi della dittatura”, che lo trova in compagnia di tutto un bel mondo latino americano dalla Colombia (Gabriel García Márquez) al Messico (Carlos Fuentes), dal Paraguay (Augusto Roa Bastos) al Cile (Roberto Bolaño) passando anche per Cuba (Alejo Carpentier).

Quello che però frena molto il discorso complessivo è il coinvolgimento personale dell’autore, che non si tira indietro qui, sei anni dopo il Nobel, e più di venti dall’inizio delle sue scaramucce politiche in patrie, nel dipingere il mondo dei dieci anni della quasi dittatura di Alberto Fujimori per quello che è certo, ma con una cattiveria che va al di là della semplice denuncia.

Ricordo, per i poco informati della politica peruviana, che nel 1990 ci fu una strenua lotta alle presidenziali locali tra il nostro scrittore, appoggiato dalla destra locale, ed il candidato senza bandiere Fujimori. Arrivati al ballottaggio, la sinistra, pur di non eleggere Vargas Llosa, favorì l’ascesa del nippo-peruano. Ma ben presto se ne dovette pentire. Fujimori cominciò subito una caccia spietata a tutta la sinistra, sia regolare che non, usando mezzi talmente illegali che dieci anni dopo fu condannato a venticinque anni di carcere per i delitti commessi. In questa lotta senza esclusione di colpi fu aiutato dal capo dei Servizi Segreti Vladimiro Montesinos detto El Doctor. Piccolo inciso il Doctor fu battezzato Vladimiro che la sua famiglia era comunista dura e pura e voleva rendere omaggio al grande Lenin.

Con questo pamphlet, che si colloca appunto nel decennio nero di Fujimori, l’autore vuole elevare una sonora denuncia sia ai costumi locali che alla deriva politica, insinuando (o affermando) che le uniche ancore di salvezza possono venire da un giornalismo di denuncia, anche a rischio della propria incolumità.

Così vediamo l’intrecciarsi di cinque vite, in un crocevia (brutto titolo italiano) incontro di cinque angoli stradali (le “cinco esquinas” del più calzante titolo spagnolo) in un preciso punto di Lima, il Barrio Alto, punto di congiunzione tra la borghesia limeña ed il proletariato urbanizzato. Lì c’è anche l’incrocio delle cinque esistenze che seguiamo nel romanzo (dove in realtà seguiamo di più, ma queste sono quelle che l’autore ci porta ad esempio massimo della realtà locale).

C’è la famiglia Cardenas, con l’ingegnere Enrique, uno degli industriali più ricchi del Perù e la moglie Marisa. C’è la famiglia Casasbellas, con l’avvocato Luciano, amico d’infanzia di Enrique, e la moglie Chabela. Dall’altra parte c’è Julieta Leguizamón detta la Retaquita (la Piccoletta) redattrice nella rivista scandalistica diretta da Rolando Garro.

Per fortuiti casi della vita Marisa e Chabela diventano amanti, mentre Enrique viene ricattato da Garro che esibisce foto di una orgia dell’ingegnere con compiacenti signorine. Luciano viene allora incaricato di risolvere la faccenda, cosa che fa chiedendo lumi al Doctor. Tuttavia, era proprio il Doctor che, utilizzando sapientemente Garro, metteva in crisi ed emarginava i suoi nemici politici. Ma Cardenas è troppo in alto nella nomenclatura locale, così che il Doctor decide di sacrificare Garro. Certo, Enrique ne esce a pezzi, ed anche Luciano non fa una bella figura.

Nel frattempo le due donne continuano la loro storia d’amore (e fino a qui ci sta anche un modo interessante nelle descrizioni dello scrittore), ma quando coinvolgono prima Enrique e poi Luciano nelle lor effusioni, si rivela un gioco sporco: il bel mondo, l’alta borghesia non può che comportarsi al di là del bene comune, in pubblico ed in privato.

Rimane il giornalismo, in cui Vargas Llosa fa finta di credere, elevando la Retaquita a vindice del sistema, lei che con Garro aveva contribuito ad infangare Cardenas (e prima ancora un attore sfortunato, ed un altro politico). Quasi che lui ci voglia mandare il messaggio che l’informazione ha comunque un suo raggio d’azione “duro e puro”, e seppur riesce ad infangare un uomo onesto, ha anche la capacità di denunciare e mandare a picco una dittatura politica.

Qui sarà la Retaquita che con i suoi reportages metterà in crisi e farà condannare il Doctor, anche se questa parte, per Vargas Llosa avviene in modo un po’ frettoloso, mentre nella realtà furono riprese televisive nascoste che portarono la crisi nel “sistema Montesinos”.

L’andamento generale a volte sembra troppo semplice, lineare, quasi una noiosa cronaca di una telenovela messicana. Solo il terzultimo capitolo, intitolato “Turbinio” ci restituisce la migliore scrittura di Vargas Llosa nonché il modo semplice e complicato insieme in cui i destini delle persone si mescolano nel crocevia della vita umana. Laddove il grande assunto (che c’è anche se poi il suo svolgimento non è così felice) è che l’esistenza minuta dell’uomo (la storia) non può che risultare dalla sua interazione con la vita della società (la Storia) anche se non si interagisce in prima persona.

Esempio classico nel romanzo è l’intreccio tra l’erotismo delle due donne (storia), il lavoro rischioso del giornalismo (tra storia e Storia) per arrivare alle strade da percorrere per esercitare il potere (Storia). Ma, personalmente, non posso che fare una critica dove si presentano “solo” questi ricchi borghesi che si trastullano tra Lima e Miami, senza nessuna preoccupazione, che quando si sentono minacciati da Sendero Luminoso, prendono un aereo e vanno altrove.

Insomma, Vargas Llosa denuncia (o ci prova), ma non ha più quella dolente cattiveria de “La città e i cani” o l’erotismo sbarazzino di “Zia Julia e lo scribacchino”. A me continua a non piacere.

Visto che i latini d’oltre oceano non hanno sfondato, vi propongo alcune citazioni di uno spagnolo puro, Arturo Pérez-Reverte provenienti da alcune sue vecchie scrittura. Dal suo primo libro “El Húsar” traduco al volo un pensiero che nel finale ci dovrebbe far riflettere in questi tempi poco pacifici: “Gli spagnoli non sono, non siamo, persone che si possano salvare con la forza. Ci piace salvarci da soli, a poco a poco ... Mai le baionette imporranno qui una sola idea” (124). Sperando che anche i non spagnoli si possano salvare.

Dal più tardo (ma sempre trentenne) “La pelle del tamburo” riporto invece alcune considerazioni sulla vita e sulla bella città di Siviglia:

“Sono convinta che ogni edificio, ogni quadro, ogni libro che viene distrutto o perduto, ci rende un po’ più orfani. Ci impoverisce” (50)

 “Noi donne siamo molto complicate in confronto agli uomini, così diretti nelle loro bugie, così infantili nelle loro contraddizioni… Così coerenti nella loro vigliaccheria” (185)

“Forse era solo la nostalgia della gioventù e basta. E dei sogni che poi la vita fa in modo di strapparti pian piano a morsi. … comunque … pensò che gli sarebbe sempre rimasta Siviglia … perché era l’unica città a conservare, agli incroci, nei colori e nella luce, il rumore del tempo che svanisce, anche se in realtà siamo noi a svanire assieme alle cose transitorie cui leghiamo la nostra vita e la nostra memoria” (262)

“Sono pochi i fatti così tragici nella vita come scoprire una verità importante nel momento sbagliato” (316)

Come si diceva, sono rimasto lontano dai primi di settembre, per un giro asiatico dove, oltre a tributare il solito omaggio (dovuto) ad Angkor Wat, abbiamo ripercorso le strade vietnamite, ritrovando molte similitudini con il primo lontano viaggio nella terra di Ho Chi Minh, tanto che a volte il tempo sembra scorrere diversamente tra noi e loro.

Un viaggio che termina con lo spalancarsi di un autunno italiano cui lavoriamo per costruire altri momenti di serenità, che mancano a tutti in questi tempi cupi. Fortuna che, nonostante tutto, l’ottimismo ci sorregge ancora, per cui vi abbraccio con gioia. 

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