Perché i romanzi del lato investigativo, a qualsiasi termine si voglia riferire la parola, hanno preso in Italia il colore delle prime pubblicazioni degli Anni Trenta, usciti per le tipografie di Mondadori. Così che tutta questa branca letteraria, in Italia, si etichetta come giallo.
E
qui ne abbiamo esempi, tutti italiani. Purtroppo non eccelsi, direi di un’aurea
mediocritas. Abbiamo ai due antipodi, due esempi di scrittori dalle poche uscite,
con in basso Gaetano Garofalo ed in alto, ma non di tanto, Paolo Brunetti. In
mezzo autori più noti, dal gran falsificatore Rino Cammilleri al seriale un po’
spento di Valerio Varesi, attraversando uno dei soliti grandi classici di
Augusti De Angelis, anche se qui non al meglio.
Gaetano Garofalo “Doveva essere un mondo migliore” Mondadori euro 6,50
(in realtà, scontato a 5,50 euro)
[A: 04/08/2023 – I: 02/03/2024 – T:
03/03/2024] &&
---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 202; anno:
2023]
Poteva anche essere un libro migliore, ma
qualche bersaglio è stato mancato.
Mi dispiace aver cominciato con un attacco
ironico, tuttavia trovo che il libro di Garofalo abbia alcuni spunti
interessanti, mentre in altre fasi del racconto diventa un po’ scontato con dei
tratti di salto della trama, laddove si perdono alcuni passaggi di trama.
Garofalo, comunque, pur essendo questo solo il suo secondo romanzo, dimostra
una buona padronanza della scrittura, in particolare dove si sente più a suo
agio con gli elementi della trama.
Dicevo, forse cerca di mettere troppi
elementi all’interno del romanzo, intrecciando le storie del protagonista,
Sergio Lazzari detto Attila, tra passato e presente, con trame legate al
territorio, sia per le problematiche mafiose di Palermo, sia per i problemi
legati ad iniziative malavitose, anche se rivoli di trame, pur illuminando il
clima locale, sono dispersive rispetto alla trama principale.
Attila è di certo una persona problematica,
con un vissuto alle spalle non facile, ed un presente in cui stenta ad
inserirsi. Lo incontriamo ora, alla deriva tra incubi e solenni sbornie
alcoliche, ma presto ricostruiamo il suo percorso. Giovane sbandato,
impegnatosi nella boxe che lascia quando viene preso in Polizia, dove fa un
ottimo percorso sino ad entrare nei NOCS. Dove, insieme al suo amico detto il
Biondo, partecipa ad alcuni riuscite azioni. Sino all’ultima, quando, nel
tentativo di sventare un sequestro, spara ad un sequestratore non essendosi
accorto né avvertito dal Biondo, che il tipo aveva in braccio il neonato
rapito. Conseguenze: morte di entrambi e dimissioni dai NOCS. Da dove, poco
dopo, viene allontanato anche il Biondo per problemi di abusi di sostanze
eccitanti.
A Palermo, Attila riprende il percorso
pugilistico sino ad arrivare ad una finale importante, dove combina un casino
gigante (questo non lo riporto che è un punto di buona lettura). Fatto sta che
il suo mentore lo caccia e lui si adatta a lavoretti di piccolo cabotaggio per
tirare avanti. La svolta, che sarà l’elemento trainante del romanzo, avviene
quando scoppia una guerra di mafia tra due fazioni palermitane. Don Raffaele
gli chiede allora di fare la guardia del corpo alla figlia Marina, cosa che compie
con poliziesca destrezza insieme al Biondo.
Qui, appunto, si innesta il filone mafioso,
che però rimane scontato e poco coinvolgente. Tutta una serie di uccisioni,
agguati, tradimenti ed altro, che servono a riempire di sangue il testo, a far
emergere la competenza militare di Attila, e ad introdurre un altro elemento
nel calderone del testo. Entra così in gioco il brigadiere Vezzella, di cui
conosciamo ben presto problematiche familiari che lo caratterizzano, ma che
poco portano al testo. Nonché la sua capacità territoriale, piena di piccoli
contatti con la grande area malavitosa.
C’è anche tutto un filone, legato alla
scomparsa di bambini senza famiglia, o di provenienza da immigrazioni povere,
che tutto sommato è anch’essa di forte inutilità al sostenimento della trama
principale. Certo, vediamo l’empatia di Vezzella verso l’altro, quasi fosse un
Attila cui le cose sono andate un po’ meglio. Ma questo sembra essere l’unico
vero contributo del nostro.
Seguiamo invece tutte le vicissitudini di
Attila, del Biondo e di Marina, dove il nostro, azione dopo azione, da un lato
capisce che c’è qualcosa di strano in questa guerra, dall’altra ne accentuano
la dolente umanità, al contatto con la giovinezza di Marina. Ma come ripete
spesso, a lui nessuna ha dato una seconda opportunità, ed ogni volta sprofonda
sempre più. Riuscirà a portare a compimento la missione, Marina uscirà illesa,
e tuttavia ci domandiamo se lui, il Biondo, i mafiosi di vario calibro e stampo,
avranno delle conclusioni altrettanto non negative.
Diciamo che, a consuntivo, due sono i temi
che Garofalo sottolinea, più o meno esplicitamente. Il dualismo Attila –
Vezzella, dove le due esistenze, a fronte di bivi morali, si comportano in modo
differente, quasi affrontassero delle “sliding doors” di cinematografica
memoria. L’altra, più sottile e sottesa, è l’incapacità di Attila di gestire il
proprio dolore. Certo, ha commesso un delitto in modo involontario, e certo,
una coscienza onesta difficilmente si risolleva da un tale baratro. Ma un conto
è convivere con questo dolore, un altro è lasciarsene sopraffare, non riuscendo
mai a venire a patti con sé stesso.
Se Attila avesse la forza interiore di
Vezzella, probabilmente si sarebbe riusciti a costruire un mondo migliore. Un
mondo che, nelle speranze di Garofalo, potrebbe essere quello a cui sarà
destinato il futuro di Marina, magari lontano dalla mafia, magari lontano anche
da Palermo.
Come detto, troppe frecce partono, alcune
poco significative. La scrittura scorre sino alla sua conclusione, dove le
parole di Attila servono da chiosa, ma che risolvono poco.
Rino
Cammilleri “L’inquisitore” Mondadori euro 6,90
[A:
01/06/2023 – I: 05/05/2024 – T: 07/05/2024] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 219; anno: 2023]
Dieci anni fa lessi un libro del giornalista
Cammilleri, dedicato ad uno dei tanti apocrifi di Conan Doyle, che non mi
convinse e conclusi, allora, invitando ad evitare altre letture dello
scrittore. Proposito mantenuto per tanti anni, ma ora, sulla spinta del mio non
celato amore per il giallo italiano, ho mancato l’invito, letto un nuovo
romanzo del nostro. Devo dire che, di sicuro, questa scrittura è migliore, pur
non salendo mai a livelli di sufficienza piena.
A parte alcune note storiche, di cui un paio
ne discuto in finale, l’azione si svolge negli ultimi mesi del 1247, a partire
dal 21 ottobre. Viene trovata uccisa Beatrice, una donna “di mondo”, come si
diceva, che aveva fatto girare un notevole numero di teste nella Pisa d’allora.
Morta in una posizione che doveva far pensare a qualche rito satanico. Anche
perché, in quelle date, infuriando lotte tra guelfi e ghibellini in tutta la
Toscana, Pisa era stata colpita da un interdetto papale a seguito di una battaglia
in cui i pisani presero prigionieri due vescovi intorno al 1241. Ed anche
perché Pisa era fedele all’imperatore Federico II in funzione antipapale.
Ricordo, per completezza, che il papa al tempo della narrazione era un
genovese, Sinibaldo Fieschi, salito al soglio pontificio con il nome di
Innocenzo IV.
Quindi c’è un pesante clima di lotte e di
tranelli, motivo per cui il papa invia, a dirimere la questione della morte di
Beatrice, il giovane inquisitore Corrado Leclerc da Tours. Che veniamo ben
presto a conoscere, nel bene e nel tormento. Anche perché, in quel di Pisa,
ritrova un suo vecchio commilitone di Terrasanta, il frate Gaddo Casalberti.
Sono loro due che si muoveranno per tutto il testo alla ricerca della
soluzione, anche se Corrado pensa e agisce, mentre Gaddo sembra andare molto a
rimorchio.
Tuttavia, dopo un inizio promettente ed
interessante, la narrazione di Cammilleri si fa pesante, si ingarbuglia, si
perde anche in rivoli laterali che dovrebbero chiarificare il testo, o quanto
meno le vicende narrate, ma che hanno il potere di distogliere il lettore dal
filo delle vicende.
Insomma vediamo Corrado e Gaddo narrare i
loro trascorsi, soldati nella Quinta Crociata, con Gaddo sempre colpito dalla
dirittura morale di Corrado. Che si fa prete, e continua il suo precorso di
condotta etica assurgendo al ruolo appunto di inquisitore papale. Un faro che
Gaddo vede da lontano, e per il quale, anche senza molta convinzione, decide di
farsi frate anche lui. Dicevo delle divagazioni, che l’autore ci appesantisce
il testo con tutti i dubbi di Corrado sulla fede, sul suo rapporto con Dio, ed
altri pur interessanti spunti religiosi che, qui, tuttavia, risultano
leggermente fuori luogo.
Perché ci dobbiamo concentrare sulla morte,
e sulla persona di Beatrice, a lungo amante del capo di una delle due fazioni
pisane, il guelfo Simone Visconti, anche se per breve tempo ebbe una relazione
con l’altra fazione, nella persona del giovane ghibellino Ugolino della
Gherardesca. Facile indurre il sospetto che uno dei due sia l’autore del
delitto. Ma sarebbe un rompicapo troppo semplice. Ecco allora che l’autore
introduce due personaggi, anche qui uno storico l’altro no, nelle persone di
Michele Scotto e Mohammed ben Yusuf ibn Harudne. I due, esperti alchimisti (e
nel caso di Scotto anche molto altro), sono alla ricerca al solito di elementi
paranormali legati a pietre, libri ed altro. Cosa che permette all’autore di
introdurre l’ultimo elemento di disturbo: la presenza, nascosta ma
significativa, in Pisa, di adepti del catarismo.
I Catari in realtà oltre ad essere stati
scomunicati, erano stati quasi tutti massacrati qualche decina di anni prima,
ma qui servono non solo per giustificare (fraudolentemente) la morte di
Beatrice (cui era stato strappato il cuore), ma anche per imbastire una lotta
risibile a colpi di improbabili duplicazioni corporee tra catari, Scotto ed i
preti.
Una storia che non può che finire in fumo,
con tutti che fuggono, lasciando in quel di Pisa, guelfi, ghibellini, Gaddo e
soprattutto Corrado. Il quale, alla fine, mette in fila tutti gli indizi che
ha, trova il colpevole, e va via da Pisa.
Io avevo scommesso sul colpevole sin dalle
prime pagine, cosa che mi conferma la poca presa che Cammilleri ha su drammi di
lunga gittata. Mi si dice sia meglio nelle storie brevi, e vedremo se capiterà.
Qui si perde molto, e soprattutto, ripeto, c’è tutta la parte dei tormenti
dell’anima di Corrado che non prende per nulla. Unico momento realmente
positivo è lo scioglimento finale, con un piccolo colpo di astuzia, quasi alla
Simenon, che, detto così, avrete capito anche voi e non approfondisco.
Mentre approfondisco alcuni aspetti
“storici”, dei due personaggi non fittizi. Il primo, Michele Scotto, ha un
interessante ruolo nello sviluppo dell’azione, e nello svelare trucchi
alchemici e connessioni astrologiche. Peccato che, come detto sopra, siamo nel
1247 e Scotto risulta morto al più tardi nel 1236. Il secondo è Ugolino, che è
proprio quello che tutti ci ricordiamo, quello che “la bocca sollevò dal fiero
pasto”. Qui lo vediamo giovane e spavaldo, ben lontano dalla figura che
dantescamente ci viene in mente.
Vorrei chiudere con due perle laterali che
non c’entrano nulla con il testo, ma che mi sono venute come sottoprodotto
dalla curiosità che alcuni punti dello scritto mi hanno suscitato (curiosità
che ha fatto salire il gradimento del testo di almeno mezzo punto).
La Quinta crociata cui partecipò Corrado è
quella in cui, dopo due anni di guerra, si inserisce San Francesco, che parte
da Ancona ed incontra in Egitto, Malik, il figlio del Saladino. Un incontro che
mi ha sempre incuriosito, per la sua portata religiosa e morale.
L’altro punto è la figura di Michele Scotto
(o meglio Michael Scot) e delle sue predizioni. Due ne sono famose, relative
alla morte. La sua, di Scot, dovuta ad una piccola pietra, e quella del suo
protettore, Federico II, legata invece ad un fiore. Federico, per questo
motivo, non volle mai recarsi a Firenze; tuttavia, forse per un indigestione o
per un avvelenamento, ebbe una dissenteria fulminante. Si era in Puglia, e
quando chiese dove, il suo attendente gli disse che stavano a Castel Fiorentino
di Puglia. Federico comprese e morì.
Mentre Scot indossava sempre uno zucchetto
di ferro per proteggersi la testa. Tuttavia, entrando in una chiesa, lo toglie
per rispetto, ed una pietra cade dall’alto della navata e lo uccide. Beh, io mi
son divertito di più ad approfondire che a leggere. Cosa che consiglio anche a
voi di fare.
Valerio
Varesi “A mani vuote” Mondadori euro 6,90
[A:
18/03/2024 – I: 13/06/2024 – T: 15/06/2024] &&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 172; anno: 2006]
SONERI07
Dopo averne letto molto agli inizi degli
anni ’10, ecco che dopo ben 6 anni torna tra le mie mani un libro di Varesi e
del suo commissario Soneri. Con il solito rapporto d’amore e odio tra me,
l’autore e l’editore. Il più semplice da analizzare è l’ultimo che sono sempre
più meravigliato dall’incuria che Mondadori mette nel confezionare i suoi
gialli, una delle colonne storiche del poliziesco italiano. Che questo libro
uscì per Frassinelli nel 2006, ma non c’è menzione di questo nel
retrocopertina, dove si menziona solo la data di acquisizione dei diritti da
parte di Mondadori, e non la data di prima pubblicazione che, per noi
bibliomani, è molto importante.
Il secondo dissidio, mio assolutamente
personale, è che il commissario Soneri, laddove mentre il buon Varesi continua,
e giustamente, a presentarcelo problematico e fuori corrente rispetto
all’andamento del mondo, a me viene sempre legato alla sua rappresentazione
televisiva, fortemente marcata dall’interpretazione di Luca Barbareschi. Poiché
l’attore a me decisamente sta poco simpatico, per traslazione, sbagliata ma
umana, tutte le volte mi rimane un po’ di freno nel considerare serenamente il
personaggio e seguirne le vicende.
Comunque, Varesi ha un mio discreto seguito,
visto che tra letti e da leggere, finora manco solo di due dei sedici episodi.
Non è male, direi. Questo, tra l’altro, è il settimo, tutto molto e
strettamente legato alla città di Parma. Ma se poi lo confronto con l’ultimo
letto sei anni fa, vediamo che il tessuto della trama rimane immutato. Scorato
e immutato. Denuncia della deriva del mondo, individuazione dei cattivi (o di
chi tira le fila), impossibilità, per una serie di motivazioni, di arrivare
sino in fondo. Così che rimane (qui più che nell’altro) l’amarezza
dell’inutilità di lottare. Dove ognuno trae le proprie conseguenze: chi
continua e chi si ferma.
Quindi anche qui, Parma la fa da padrona.
Insieme a Soneri, ed a volte all’avvocato Angela sua partner non fissa ma
legata, andiamo in giro per la città, vediamo il teatro Regio, il fiume e le
storie di Oltretorrente, i centri sociali, ed i ristoranti (normali o di lusso
come “Il Nabucco”), ma soprattutto le strade che solcano la città con le
botteghe che vanno scomparendo sostituite da catene commerciali più dannose che
inutili. In particolare, mi sono soffermato sulla decadenza della Libreria
Sangiorgi, una delle istituzioni a Parma, che credo sia in realtà la bellissima
Libreria Fiaccadori, la storica libreria a due passi dal Duomo.
La storia in sé è di ordinario malaffare di
importazione verso il Nord. C’è un morto, ma forse con connotati
preterintenzionali, gestore di un negozio di abbigliamento, ultimo rampollo di
una famiglia calabrese. E qui già sentiamo puzza di bruciato. Tra l’altro, è
anche gay e uso a ricercar fanciulli nei bar sordidi della città. Quindi, e si
cerca subito da quel lato, omicidio a scopo di rapina, omicidio a sfondo
sessuale, insomma tutto meno che qualcosa legata alla mafia. Ma Soneri sente
subito che le note suonano stonate.
Tutto ricomincia quando al barbone che suona
davanti al teatro Regio rubano la fisarmonica, intimandogli il silenzio. Che
lui ha visto qualcuno. Di certo, prima due albanesi recarsi dal morituro in
tempi congruenti con la morte. Poi il socio ed il cognato del morto che si
aggiravano furtivamente, di certo prima che il delitto fosse stato scoperto. E
seguendo le piste che si presentano, ed anche alcune soffiate che vengono da
Angela, pagina dopo pagina il mistero si chiarisce. Forse non fino in fondo, forse
volutamente, forse…
Anche perché a lungo compare la figura del
padrone del ristornate “Il Nabucco”, che presta soldi a usura, che sembra poter
avvolgere la città nella sua ragnatela dorata, tanto che il morto a lui doveva
soldi a palate, che erano stati coperti da un polizza assicurativa a nome di
una donna, guarda caso tra le amanti del ristoratore. Una donna che tuttavia
era anche vicina ad uno slavo, uno di quelli in cerca di fortuna, uno molto
fluido si direbbe oggi, che si accompagnava con la donna, ma anche con il morto.
Quando l’usuraio si ritira in cattivo ordine
a fronte di chiari segnali mafiosi, Soneri capisce che “i grandi e cattivi”
avranno la meglio. Certo, ci sarà qualche pesce piccolo che cade nella rete,
qualcuno pagherà, ma, al solito, l’iceberg mafioso rimarrà sott’acqua a
produrre nuove imprese di cattivo gusto. Ci sono molte frecce all’arco antico
di questo libro di vent’anni fa. Albanesi con la droga, calabresi con il
mattone e l’usura, proto-svizzeri con le loro finanziarie. In mezzo una città,
ed una nazione, che non riesce ad uscire dalle secche di una cattiva gestione
nazionale, nata tanti anni fa e non ancora sanata.
Varesi, come in altre prove, non può che
rappresentare l’Italia che conosce e di cui scrive anche da giornalista.
Un’Italia che non riusciamo a far riprendere e che stiamo consegnando, anno
dopo anno, ad una gestione fallimentare. Triste, ma reale. Purtroppo, seppur le
intenzioni sono buone, il risultato finale dell’autore è un po’ troppo
scontato.
Augusto
De Angelis “Il candeliere a sette fiamme” Mondadori euro 6,50
[A:
10/07/2021 – I: 10/07/2024 – T: 11/07/2024] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 168; anno: 1936]
Continua la meritoria opera filologica dei
Gialli Mondadori di ripubblicare, a poco a poco, i libri di Augusto De Angelis
che hanno come protagonista il commissario De Vincenzi. Purtroppo, causa il
tempo trascorso ed alcuni problemi censori su cui torneremo, non tutta la
produzione dell’autore si mantiene a livelli di sufficienza piena. Così, questo
romanzo, che venne pubblicato in piena era fascista, pur rinnovando le indubbie
capacità di costruzione di trame del nostro, alla fine risulta un romanzo
abbastanza debole, ed in un certo senso, inconcludente.
Tra l’altro, è scritto subito dopo “Il
canotto insanguinato”, ed in un certo senso, ha una trama simbolicamente
comparabile. Intanto, come nel precedente, dovendo sottostare alla censura di
regime, compaiono quasi tutti personaggi stranieri, con il solo De Vincenzi che
si erge a difesa dell’onorabilità italica, riuscendo a svelare tutti i misteri
e le trame che iniziano dal ritrovamento di un cadavere in un albergo milanese
di infimo ordine. Tuttavia, De Angelis è pur sempre lontano da quelle ideologie
(tanto che come sappiamo lo porteranno ad una brutta fine), per cui la vittoria
del nostro commissario è pur tinteggiata da coloriture non proprio trionfali.
Dicevamo, tutto comincia dal cadavere senza
nome rivenuto in un albergo non proprio onorabile (primo strale alla censura,
si capisce che è frequentato da signorine non proprio irreprensibili).
Stranamente, un albergo dove si trovano Vittoria (in realtà May) una donna
misteriosa e non certo “tipo escort”, e John che si professa contorsionista, ma
che subito appare di non chiara appartenenza.
Ma la nostra non è una storia poliziesca, infatti
si avvicina molto ad una spy-story, dove c’è di tutto, meno forse inseguimenti
con Bond car. Infatti De Vincenzi scopre abbastanza presto un cartoncino con
dei fili intrecciati che gli fa venire in mente un possibile codice cifrato.
Nonché le tracce del candeliere del titolo, che potrebbe essere usato anche lui
in cifratura, o potrebbe condurre a qualche rito esoterico per ora ignoto.
De Vincenzi, alla sua maniera, inizia
parlando a lungo con i sospettati, intuendo che, nelle parole dette a mezza
bocca, e nelle ricerche in qualche diversa branchia poliziesca, qualcosa possa
venire fuori. Intanto, May ha un atteggiamento ondivago, a volte si avvicina a
De Vincenzi nelle indagini, a volte cerca di allontanarsene, magari entrando in
sintonia con John. Tutto sembra poi collegato anche ad una morte avvenuta un
anno prima a Londra.
Fatto sta che tra interrogatori di John, di
May e di altri personaggi diciamo minori, il nostro commissario si imbarca in
una lunga ricerca attraverso il territorio. Prende un treno da Milano a
Venezia, dove avviene un altro omicidio, e scompare una valigia dalla strana
forma. A Venezia tiene sott’occhio i due, ma, al momento di imbarcarsi su di
una nave diretta in Egitto, John gli sfugge. Ecco che De Vincenzi prima lo
bracca avvertendo la polizia, poi lo precede con un volo militare da Venezia a
Brindisi. Infine, tutti si ritrovano sulla nave verso il Medio Oriente.
Ed è proprio questa la chiave di tutto: De
Angelis, in modo preveggente, già introduce lotte clandestine tra Servizi
Segreti (la storia è ambientata nel 1931) che si combattono sul terreno
mediorientale (laddove si capisce la presenza di un oggetto a sette bracci,
tipico della religiosità ebraica). Ci sono tedeschi, magari aiutati da
egiziani, ci sono inglesi, che hanno il protettorato sulla Palestina, ci sono
sionisti che cominciano un’immigrazione illegale.
Insomma, ci sono talmente tante variabili,
anche politiche, che devo dire non è che si segua tutto con l’attenzione che
normalmente si presta agli scritti di De Angelis. Comunque, il commissario
Carlo De Vincenzi scopre chi ha ucciso chi, e perché. Nella buona tradizione
simenoniana ante-litteram, c’è sempre uno iato tra giustizia e verità. E c’è
sempre una punta di tristezza che, pur avendo del trasporto per la bella May,
alla fine il commissario non potrà che tornare alle nebbie milanesi, ed al suo
mestiere, in cui ben riesce.
Volutamente non dico altro, che non ho la
forza di dipanare tutta la matassa, tanto è ingarbugliata. Ma, domanda, ha
senso dipanarla? In fondo, le cose migliori sono le atmosfere che descrive il
nostro scrittore, i paesaggi, gli stati d’animo, nonché quella buona dose di
scrittura che gli consente di imbastire lunghi dialoghi, dove, a stare attenti,
i misteri vengono svelati in anticipo.
È un intrigo internazionale dove lo
scacchiere delle nazioni in lotta non esce alla luce del sole e dove De Angelis
si muove facendosi gioco della limitata mentalità dittatoriale, che vede quel
che vuol vedere, laddove lui mette un po’ di più. Cosa che non può che farci
piacere nella lettura di un romanzo che, globalmente, non è molto sopra la
sufficienza.
Nel finale cito solo, per dovere di
cattiveria, una piccola incongruenza. A pagina 121, parlando delle cabina di
una nave, si dice: “Lui [De Vincenzi] aveva la n. 7, la ragazza la 12”. Poi a
pagina 133 si riporta: “[De Vincenzi dopo aver parlato con la ragazza] uscì
dalla cabina n. 7, ed entrò in quella n. 12, che era la sua.” Un po’ di
confusione che si poteva evitare.
Paolo
Bernetti “La notte del fuoco” Mondadori euro 6,50
[A:
09/07/2024 – I: 19/07/2024 – T: 20/07/2024] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 312; anno: 2024]
Nella lotteria delle letture casuali e
mirate, non potevo mancare di leggere appena uscito l’ultimo libro della
scuderia Mondadori che è riuscito a fregiarsi del titolo del Premio Tedeschi
2024. Ricordo che questo premio viene attribuito da Mondadori a romanzi inediti
inviati alla loro casa editrice. Un premio “interno”, ma che a volte ha
premiato autori poi diventati scrittori di buon nome. Tanto per citarne alcuni
Carlo Lucarelli nel ’93 o Annamaria Fassio nel ’99.
Quest’anno la palma è andata a Paolo
Bernetti con questo romanzo, forse a volte difficile da seguire, ma che ha il
merito di farci conoscere meglio Valencia ed alcune sue tradizioni. Anche
perché l’italiano Bernetti lì a Valencia si è sposato e ci vive, provando, con
questo testo, a costruire un piccolo ponte italo-spagnolo, visto che il
protagonista, Fabio, è di madre spagnola, e si trasferisce a Valencia per un
anno Erasmus. Ovviamente cominciando a frequentare il nonno spagnolo, grande
avvocato avviato al termine di una vita di successi forensi.
Ora, il romanzo è decentemente costruito
nella trama, ma, come ho accennato, difficile da ricostruire nella testa,
laddove, soprattutto nella prima parte, si salta con una velocità non
giustificata, su e giù nel corso del tempo, tra il presente dove Fabio, come
vedremo, cerca di ricostruire le fila della trama, ed una serie di passati che
si vanno sovrapponendo.
Nel presente, siamo nel 2018, e Fabio viene
convinto dal nonno avvocato a seguire la ricostruzione di avvenimenti accaduti
otto anni prima, durante la “Nit de Fallas”, che per traslato viene riprodotta
nel testo come “la notte dei fuochi”, laddove sarebbe letteralmente “la notte
delle torce”. Inciso: a Valencia, per il 19 marzo, festa di San Giuseppe, si
costruiscono statue di cartapesta che nella notte in questione, vengono date
alle fiamme, come tante torce.
Nel 2010, all’interno di una di queste
costruzioni, viene posto il corpo di un sinceramente antipatico faccendiere,
ovviamente già morto. La puzza di morto fa scoprire il tutto, e della morte
stessa viene accusato e condannato Paco, una condanna che l’avvocato ritiene
ingiusta e che vuole ribaltare con l’aiuto del nipote.
Così, a spizzichi e bocconi, a volte
saltando anche prima del 2000 (e creando sempre più confusione), cerchiamo di
ricostruire la storia della potente famiglia Albuch. Potente e ricca, ma al
capostipite nascono due figlie femmine, cosa che non prospetta bene per il
futuro dell’azienda. Julia non ha nessuna capacità manageriale, sposa
l’impotente Gonzalo, per cedere all’insistente corte di Angel Fabrat, il futuro
morto. Carlota avrebbe la testa, ma si incapriccia di uno spostato, Victor, con
cui fa un figlio, David. Anche lei, prima di Julia, viene corteggiata da Angel,
senza, pare, risultati. Che gli Albuch non mettono le corna.
Poi, improvvisamente, Carlota decide di
divorziare da Victor, mentre è incinta di Sara, che subito ci domandiamo chi
sia il padre. Angel, allontanato da Carlota, rivolge le sue attenzioni come
detto alla sorella Julia, mentre Carlota sposa il poco appariscente Paco, per
salvare l’onore, decidendo contemporaneamente, di prendere in mano l’azienda,
cosa che le riesce molto bene.
Per confondere le acque, il nostro autore ci
racconta di altri raggiri di Angel, legati alla sua famiglia, ma anche
all’ambiente delle Fallas, essendo uno dei finanziatori di uno dei quartieri di
Valencia. Il tutto per fare in modo che alla (quasi) fine abbiamo un numero
spropositato di possibili omicidi. Julia per dei video che la ritraggono in
pose poco consone, Gonzalo per gelosia, Victor perché Angel fu la causa del
divorzio, David, per motivi analoghi, Carlota per non avergli perdonato sia
avance inopportune sia quanto lo stesso Angel ha fatto alla famiglia, non
ultimo le possibili conseguenze di un rapporto non voluto tra il figlio di
Angel e Sara, Paco, per lo stesso ultimo motivo. Non escludendo che qualcuno
dei sopracitati possa aver agitato non da solo ma in combutta con altri.
Solo dopo la metà del libro, il ritmo si fa
meno incalzante, così che il povero lettore, finalmente, riesce a mettere in
fila la trama che ho appena delineato. Certo che per non mancare di complicare
il tutto, Bernetti ci aggiunge Alba, la madre di Fabio, che da sempre è in lite
con il padre avvocato, e solo quando Fabio le comunica che il nonno è in fin di
vita, si rifà presente. Poi ci aggiunge tal Morgana, simpatica guapa, che
probabilmente ha o avrà una storia con Fabio, ma che serve solo, per ora, come
amica di Sara, di modo che Fabio possa sentire tutte le versioni di quella
famosa notte. I cui misteri saranno svelati, con qualche colpo di scena messo
lì un po’ “a muzzo”, ma che, fortunatamente, chiarisce gli avvenienti.
Rimangono certo punti oscuri (non si capisce
bene perché Alba e l’avvocato siano in rotta, né se Sara conosca la storia
della sua famiglia, mentre viene detto della fine di alcuni personaggi, senza
tuttavia entrare nelle descrizioni operative, o lasciandone margini di
interpretazione) ed oscuro è il motivo di voler incasinare la trama con tutti i
salti temporali. A questo proposito, l’autore cerca di darci una mano inserendo
le date di ogni capitolo, ma questo non fa che aumentare la confusione, che ogni
volta dobbiamo ricordare il tempo degli avvenimenti che stiamo leggendo.
Tuttavia, il risultato finale, una volta
posate le cattive acque, è un degno libro giallo, con alcuni spunti di idee e
di trame che sono state di certo ben pensate. Un’ottima lettura estiva.
Allora, per le mie solite citazioni in
controtendenza, oggi vi porto alla mente due ottimi saggisti, letterati e
storici, di diversa caratura, per me, ma sempre di utile e stimolante lettura.
Il primo è Pietro Citati che nel suo ottimo libro “Alessandro Magno” ci narra di un
colloquio tra filosofi coevi al grande, dove “Callistene [dice] ad Aristotele:
in tempi di discordie, anche i malvagi acquistano onore” (112)
Il
secondo è invece il grande divulgatore, forse anche troppo mediatico, Alessandro Barbero che nel suo “Benedette guerre” ci offre
un memento interpretativo del mondo attuale: “Un uomo che sta chiuso
dentro i valori della sua civiltà non riesce ad interpretare il comportamento
degli altri.” (86)
Parlavo la settimana scorsa di serenità, e della sua costruzione, cosa che è molto nelle speranze e poco, per ora, nelle sue realizzazioni concrete. Spero che i miei presagi, pubblici e privati, siano presto smentiti, così che tutti quanti possiamo correre verso un anno non bisestile, sereno, abbracciandoci.
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