domenica 14 dicembre 2025

Tabucchi e qualche altro - 14 dicembre 2025

Una settimana dedicata alla cara zia acquisita, che ci ha lasciato alla metà di questo anno e che mi ha fatto dono di una bella dose di libri. Che riempiono quasi tutta la trama e che (ma poco in questo caso) non sempre sono libri che avrei comperato o che avrei letto. Ma, avendoli li leggo, ed in particolare qui dove ritrovo tre bei libri di uno scrittore che ho sempre amato, a partire dal primo, letto nelle more dei tempi, ma ritrovato e riletto con immutato amore. “Notturno indiano” è da sempre un libro nelle mie top list. Ai tre Tabucchi si accompagna un poco interessante libro di Giorgio Montefoschi, di cui ho letto di meglio, e l’unico libro esterno, una scrittura a quattro mani di Erri De Luca e Ines de la Fressange che, nelle parti di Erri, ho trovato anche interessante.

Antonio Tabucchi “Notturno indiano” Sellerio s.p. (lascito di zia Serenella)

A: 01/10/2025 – I: 04/10/2025 – T: 05/10/2025] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 109; anno: 1984]

Sempre grato del piccolo tesoretto librario che mi ha fatto pervenire la dipartita di zia Serenella, sono contento che questo viaggio tra i libri mi abbia ricondotto ad un autore che ho sempre amato, in una scrittura che potrei aver letto nella mia lontana giovinezza, ma che ora, carico d’anni come dice il poeta, mi offre qualche bello spunto in più. Di lettura e di riflessione.

Non dirò certo cose sorprendenti, intanto, ricordando che anche in questo breve scritto si sente l’eco del maestro che gravita sulle spalle di Tabucchi. Non ci sono frasi sue che non ci facciano riecheggiare Pessoa e le sue mirabolanti scritture. Così che anche in queste poche pagine, se ci lasciamo trasportare, possiamo fare dei grandissimi viaggi interiori.

In più, qui Tabucchi ci conduce per mano anche ad un viaggio esteriore, gestendo un gioco, tra realtà e finzioni, sul crinale indiano di una possibile visita e di una certa invenzione. Il nodo narrativo è subito presentato e ben chiaro. L’io narrante, che ad un certo punto identificheremo con il nome di Roux (che se pur indica il colore è più inteso come abbreviazione gentile di usignolo in francese, “rossignol”) si reca in India, dove non era mai stato, alla ricerca del suo amico Xavier, scomparso da un anno senza lasciar tracce.

Roux approfitta del fatto di dover consultare delle fonti archivistiche portoghesi in quel di Goa, per partire, accompagnato da una improbabile guida in inglese, dal titolo “India, a travel survival kit”. Guida che riecheggia le Lonely Planet, a patto che siano immerse nel datato sapere di una Baedeker. Guida che gli fornisce nomi e indirizzi di hotel, ristoranti ed altro, che probabilmente avrebbero avuto senso decine di anni prima.

Armato quindi solo dalla volontà di ricerca, Roux arriva a Bombay e da lì, in undici tappe più una, percorre tutta la sua avventura indiana. Con il solito spirito di entrare ed uscire dalla trama, Tabucchi ci avverte prima di cominciare che questo viaggio, notturno appunto, da un lato si colloca là dove nasce la notte, ma anche ponendosi come itinerario che un intrepido viaggiatore potrebbe percorre. E ci fornisce quindi i dati delle tappe percorse.

Ogni tappa è una piccola cartolina indiana che, per chi non ha vissuto in prima persona in quei luoghi, potrebbe apparire un accenno di favola, un incipit di una parabola. Chi, come me ed alcuni miei sodali, ha invece praticato a lungo quelle strade, non può che rimanere l’impressione di momenti di vita anche da noi vissuti. Abbiamo visto le prostitute per le strade di Bombay (anzi Mumbai), abbiamo seguito le orme di un ignudo jainista nelle grotte di Ajanta ed Ellora, abbiamo passato notti nei vagoni dei treni da Varanasi a Kolkata, abbiamo aspettato pullman a Chennai o sentito messe in Kerala.

Nella sua ricerca di Xavier, il nostro Roux parte proprio da Bombay, ultimo domicilio conosciuto, e da una prostituta che aveva incontrato il suo amico. Vimala lo indirizza ad un medico, senza fortuna, e da lì in uno dei più grandi e lussuosi hotel di tutta l’India, il Taj Mahal Intercontinental di Bombay. Niente. Allora si può prendere un treno per Madras, chiacchierando con un jainista che sta andando verso il Gange a morire.

Sempre senza frutti tangibili gli incontri di un esponente di una società teosofica con cui Xavier scambia lettere, con Margareth, un inglese di belle parole ma poche notizia. Roux si ferma anche in una stazione di autobus sulla strada di Mangalore dove incontra, lui meravigliandosi noi avendone visto, un ventenne deforme che un fratello porta in giro con pretese divinatorie.

Comunque, alla fine, Roux, anche per i problemi di lavoro, non può che arrivare nel Portogalli indiani di Goa, dove ha gli ultimi abboccamenti con un prete, Padre Pimentel, con un postino americano fuggito lì in India da dove scrive cartoline agli abitanti della sua città d’origine, con addetti alberghieri che non riescono, non sanno, non possono aiutarlo.

Il dodicesimo passo, alla fine, ci mostra (anche) come tutto sia vero o sia finzione, ma senza una reale rilevanza. Ora è Xavier che parla, narrando come si sia fatto seguire da Roux con l’intento lui di seguire l’amico. E come l’incontro non possa avvenire, che ognuno, scegliendo le proprie strade, è bene segua il proprio destino.

Il primo sentimento che viene alla testa della breve lettura è come, in poche pagine, Tabucchi sia riuscito a racchiudere la fotografia della nostra vita. Noi che si segue qualcosa (che possiamo chiamare Xavier oppure in altro personale modo) come se fosse un faro che indichi la rotta nella navigazione del soggiorno terrestre. C’è Xavier? Esiste? Una domanda senza risposta e senza senso, che Xavier non potremmo mai incontrarlo, sarà sempre fuori dell’orizzonte del nostro percorso. Intanto, abbiamo vissuto, dato che nel viaggio che è la nostra vita, di sicuro non conta il punto finale, che arriverà per tutti uguale, ma contano gli incontri (in senso larghissimo) che abbiamo fatto durante il viaggio.

Personalmente, non posso che non amare questo libro che, scritto ben prima di tutti i miei viaggi indiani, è riuscito a descrivermeli tutti come li ho fatti (e come li ricordo). Con il solo rimpianto di non essere (ancora) andato a Goa. Ma con la ricchezza di tutti gli incontri fatti. Dai templi di Khajuraho ai marmi del Taj Mahal, dai cadaveri di Varanasi al medico ayurvedico in Orissa, dalle ricchezze del Rajasthan alle povertà del Tamil Nadu.

E poi, per me, tutto è anche legato al mio amico Kurt, con cui studiai francese a Parigi, e che dieci anni dopo, passò per Roma a salutarmi dicendo che andava in India. Da dove non è più tornato. Si sarà perso anche lui come Xavier.

Mentre chi non si perde è la penna di Tabucchi che in scarse cento pagine nel piccolo formato degli scritti della memoria di Sellerio, ci ha fatto fare un bellissimo viaggio. Come mi dice infatti sempre Alessandra: chi legge è un viaggiatore.

Namasté, Antonio.

Antonio Tabucchi “Il filo dell’orizzonte” Feltrinelli s.p. (lascito di zia Serenella)

A: 01/10/2025 – I: 09/10/2025 – T: 10/10/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 105; anno: 1986]

È un filo sottile quello che lega questo secondo libro scritto quarant’anni fa da Tabucchi, con il primo, di cui ho tramato da poco. Un filo che collego al sotteso dei due scritti, quella ricerca dell’identità e della verità, che, in senso esteso, percorrerà poi tutta la sua opera. Drogata, come ovvio, dalla presenza incombente di un macigno come Pessoa. A volte il risultato è limpido, come nel Notturno. A volte meno, come in questo Orizzonte.

Dove l’elemento che fa da perno alla narrazione arriva solo verso la fine, quando il protagonista svela la metafora del titolo. Da lontano vediamo l’orizzonte come un filo sottile tra terra e cielo. Un filo che non esiste, dato che l’orizzonte, mentre noi ci avviciniamo, si allontana sempre di più. È una linea finta che separa quello che vediamo, terra, mare, cielo, con qualcosa che rimane nascosto. E che lo rimarrà sempre, quasi a simboleggiare il fatto che mai riusciremo ad arrivare ad una verità assoluta. La vita sarà una perenne ricerca di raggiungere quella linea. Senza mai arrivarci.

La storia vede un personaggio principale, Spino, e due forti comprimari: la sua amica Sara ed il giornalista Corrado. Visto che a volte le metafore riescono fino ad un certo punto, qui l’eponimia è palese. Sara sogna una vita diversa, come un elemento onirico del testo, quando la vediamo immaginare crociere transatlantiche con Spino nelle vesti del medico di bordo. Corrado, invece, penna alla mano, ci raffigura la realtà del quotidiano, quella tangibile, quella che descrive quanto accade, anche se non riuscirà né a comprenderlo né a descriverlo sino in fondo.

In mezzo, Spino. Che è un tecnico di obitorio, anche qui metafora di chi vive ma che sa, per vederla e toccarla, che la morte c’è ed è tangibile. L’elemento scatenante è l’arrivo all’obitorio di un morto a valle di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Un ragazzo con documenti palesemente falsi (si fa chiamare Carlo Nobodi, un cognome che, letto all’inglese, ‘nobody’, è tutto un programma). Un ragazzo di cui nessuno reclame le spoglie. Un ragazzo che non si capisce se muore per i colpi dei poliziotti o per chi era con lui nell’appartamento teatro dell’irruzione poliziesca.

Spino non se la sente di lasciar correre, e comincia ad indagare. Prima con l’aiuto di Sara, seguendo la pista di un abito confezionato da un abile sarto di campagna. Fino a che Sara va in gita con la scuola e ne perdiamo le tracce. Poi con l’aiuto di Corrado, che pubblica frasi che possono suscitare interesse all’interno dei suoi articoli. Fino a che la cronaca del reale non prende il sopravvento e del ragazzo nessuno più si interessa.

Ma qualcosa si è mosso, tra sogno e realtà (vi rimando alle metafore sopracitate). Spino si spinge da solo, avanti nella ricerca. Che diventa quasi una ricerca anche della propria identità. Così come appariva, così come ci aveva insegnato un filo rosso del primo romanzo. Che Spino sa ovvio chi è (conosce il proprio nome), ma è insoddisfatto della vita, e questa ricerca, tra noir e cronaca, lo porta a contatto con un suo viaggio interiore. È possibile che il morto venga dall’Argentina. È possibile che Carlo, anzi Carlitos, sia il suo vero nome. E mentre vede possibili foto dell’infanzia del morto, Spino vede e ripercorre la sua propria infanzia.

Il testo è abbastanza noto, per cui ne faccio un piccolo spoiler, incompleto. Ad un certo punto, Spino dovrebbe avere un incontro con qualcuno che sa. Un incontro che però non avverrà mai, così che Spino resterà a rimirare un orizzonte (l’identità del morto) che non raggiungerà. Come non raggiungerà in pieno la sapienza dello scopo della propria vita.

Tabucchi, qui con molto Pessoa, ci dice in fondo che siamo tutti delle maschere, inconoscibili. Possiamo solo usarle, così come Pessoa usava le sue molteplici identità. Indossarle e viverle. Con l’unico conforto che, facendolo con onestà, non avremo soluzioni, ma potremmo avere una vita onesta. Cosa che non è poi da buttar via.

Seppur sempre gradevole la scrittura, questa seconda prova è in calando, anche mantenendo un buon livello di gradimento. E noi sappiamo, per averne letto, che poi produrrà altre e ben degne opere.

Antonio Tabucchi “Il tempo invecchia in fretta. Nove storie” Feltrinelli s.p. (lascito di zia Serenella)

A: 01/10/2025 – I: 23/10/2025 – T: 25/10/2025] &&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 171; anno: 2009]

Con questa antologia di testi finisce il recupero di alcune opere di Tabucchi, e non è un caso che si parli di memoria in questi testi avuti in eredità da zia. È anche una delle ultime opere di Tabucchi, e proprio per questo non mi ha sorpreso che il filo conduttore dei testi sia il tempo che passa e la memoria, i ricordi che lo accompagnano.

Sappiamo, da tutta l’opera di Tabucchi, dei suoi rapporti stretti con Pessoa, ed anche qui notiamo come molto ci sia di travisamenti e trasfigurazioni, di incontri casuali e di sogni. Quello che si trova in più sono due omaggi compresi nel titoli. La seconda parte è un sentito ringraziamento all’opera del grande Salinger (quello de “Il giovane Holden”), che morirà l’anno dopo l’uscita di questo testo, ma che soprattutto scrisse una fondamentale opera di racconti intitolata “Nove storie”.

La prima parte è un frammento di un frammento attribuito al filosofo presocratico Crizia (“Inseguendo l’ombra, il tempo invecchia in fretta”), adombrando il rincorrere di illusioni o desideri irrealizzabili porta a perdere il proprio tempo. Ma che io leggo anche come un altro omaggio trasversale, come tutta l’opera di Tabucchi, allo zio di Crizia, il ben più illustre Platone.

Tutti i testi sono pervasi da una sospensione, molto salingeriana, che non sappiamo bene dove sia l’inizio, e di sicuro il testo ci lascia prima di una possibile conclusione. Che l’autore lascia correttamente a noi lettori.

Così iniziamo a vedere una donna che ricorda una festa della famiglia del marito. Siamo ne “Il cerchio”, e lei quarantenne, fa i conti con la sua mancata maternità. Seguiamo poi un dolente personaggio avviato alla sua vecchiaia, che in “Clof, clop, cloffete, cloppete” andando a trovare la zia morente, rivive passaggi della sua infanzia.

Quello che più mi ha coinvolto è stato “Le nuvole”, dove un soldato reduce dal Kossovo dove si è intossicato di radiazioni (per cui ipotizziamo sia stato congedato e venga verso il mare per passare l’ultima parte della propria vita), sulla spiaggia incontra una curiosissima ed intelligente bambina, intavolando con lei una bella schermaglia di parole. Ma soprattutto, introducendola alla nefelomanzia, che, come voi sapete, è l’arte di predire il futuro osservando la forma delle nuvole.

Abbiamo poi quattro testi “politici”. Nel primo, “I morti a tavola”, seguiamo il movimento senza meta di un ex-agente della Stasi, che per anni aveva pedinato Bertolt Brecht, e che ora lo va a trovare al cimitero. Nel secondo, “Fra generali”, si ripercorrono momenti dell’invasione russa in Ungheria e del rapporto tra i due generali schierati sui due fronti, l’ungherese Laszlo ed il russo Dimitri.

Dopo un interludio (“Yo me enamorè del aire” viaggio in un giardino botanico tra i ricordi di un uomo risvegliati dal canto di una voce femminile), in “Festival” seguiamo le confessioni di un avvocato polacco e le sue invenzioni per ergersi a difensore nei processi politici contro gli oppositori al regime comunista, per ottenere pene più miti. Infine, in “Bucarest non è cambiata per niente”, c’è un profugo rumeno, ricoverato in una clinica per anziani, che, nelle more della sua demenza senile, intreccia passato e presente durante le visite del figlio.

Infine, epitome dei pensieri del nostro, nell’ultimo, “Contrattempo”, c’è tutta la storia di una persona sola e solitaria che per vincere la sua solitudine si racconta storie, in cui alla fine diventa il protagonista, in una storia pensata in una notte insonne.

Come potete intuire, il tempo è al centro di tutti i racconti. Il tempo che passa in fretta. Il tempo che passa prima che ce ne rendiamo conto. Il tempo che non possiamo comperare, non possiamo fermare. Però possiamo fermare un momento noi stessi, e prenderci il nostro tempo. Guardare il noi presente, originato dal passato e origine del futuro. Per questo, “Le nuvole” mi ha coinvolto. Non tanto per il malato che parla, quanto per il fatto che quel malato si ferma, e trova il modo di trasmettere ad altri (la bimba curiosa) un sapere, un seme di idea che magari non germoglierà, ma che almeno viene piantato.

Quindi, il tempo di Tabucchi diviene un viaggio nella e della memoria. Ed in quel viaggio, lontano da lui, anche noi ci dovremmo fermare ogni tanto. Ricordare. E condividere. Grazie sempre delle tue misurate parole.

“Hai voglia di raccontare i tuoi ricordi agli altri, quelli stanno a sentire il tuo racconto e magari capiscono tutto anche nelle minime sfumature, ma quel ricordo resta tuo e soltanto tuo, non diventa un ricordo altrui perché lo hai raccontato agli altri, i ricordi si raccontano, ma non si trasmettono.” (145)

Erri De Luca & Ines de la Fressange “L’età sperimentale” Feltrinelli euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro)

A: 16/09/2025 – I: 08/10/2025 – T: 09/10/2025] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 116; anno: 2024]

Un libro fondamentalmente sbagliato, ma che può essere letto con proficuità se, pur seguendo lo scritto e le parole degli autori, ci facciamo attraversare la mente lettrice da una domanda: cosa sto facendo io della mia età, a prescindere da quale età abbia? Con un utile corollario: soprattutto una risposta utile sto ho più anni dietro che davanti. Ma che, se vogliamo e possiamo essere sinceri, una risposta che potrebbe essere interessante a qualsiasi età.

Cominciamo allora con gli sbagli. Non viene detto, o viene detto male e quando già ci si è addentrati nella lettura, che in realtà questo libro è uno spin-off di un documentario di una ventina di minuti, la cui scena principale è una scalata di una parete senza ausili da parte di Erri. Il libro è in effetti un complemento del doc, che partendo dalle riflessioni sulla scalata, allarga il discorso sull’età e sul suo inesorabile avanzare.

Il secondo sbaglio è la presenza impalpabile come fornitura di riflessioni, ed utile solo a scopi pubblicitari e di amicizia, della bellissima stilista Inès Marie Lætitia Églantine Isabelle de Seignard de la Fressange (mi scuso se ho voluto citarne il nome completo). Inès dice alcune cose simpatiche come contraltare dei pensieri di Erri, con un intervento che si condensa in tre lettere ed un’introduzione (per un totale di una dozzina di pagine). Così che risulta poco un discorso a due voci, che Erri occupa le altre cento con parole e immagini.

Ciò detto, io leggo sempre con interesse ed attenzione gli scritti di Erri De Luca, fin dal primo “Non ora, non qui”, accumulando diciannove libretti (tra cui il bellissimo “Tre cavalli”), per problemi di affinità. Politica ma soprattutto di atteggiamento mentale e culturale. Ora, non sapendo né interessandomi i motivi del coinvolgimento di Inès in questo scritto, mi rivolgo e ripenso alle parole di Erri ed ai pensieri che mi hanno suscitato.

Innanzi tutto, come sapete o potete immaginare, è un libro sull’età, che parte dalla costatazione che sempre più persone raggiungono un’età che un tempo si diceva “avanzata”. Da questa considerazione e dalla propria esperienza, Erri discende il ragionamento che lo ha portato al titolo. Non è avanzata, non è vecchiaia, è un’età sperimentale. In che senso?

Io interpreto nel senso, anche soggettivo, che in questa età, per quanti ragionamenti si facciano, per il nostro corpo è la prima volta. Come la prima volta per ogni età che attraversiamo, aggiungo io. E quindi ribatto, certo, è un’età in cui si va a sperimentare il proprio corpo, in cui bisogna provare le cose che si vogliono fare, accettando anche eventualmente la sconfitta. Non tutto si può fare. Non tutto riusciamo a fare. Anche perché non è detto che ci sono cose che possiamo fare all’improvviso.

Io, ad esempio, non credo che riuscirò mai ad avere il coraggio di far affrontare al mio corpo la salita di una parete senza ausili. Avrei forse più probabilità di seguire i consigli del mio amato Murakami di darmi alla corsa. Mantenendo, tuttavia, la mia idea attuale, che il mio corpo può (e lo fa) camminare. E nella camminata trova e ritrova i motivi ed i momenti della razionalità della vita, dei motivi dell’esserci e dell’aver fatto le mie scelte.

Fortunatamente, nell’avanzare dei pensieri, Erri dalle impraticabili scalate, si ritrova a ragionare in termini cui arriva il mio accordo completo. In questa età (sperimentale dice lui, mia dico io), il nostro corpo sembra essere diventato alieno, sembra essere di un altro. Esempio: da giovane ho avuto a volte dei dolori nella fascia sopra la natica. Avuti, pensati, passati. Ora mi tengono compagnia per tempo, a volte appunto facendomi domandare perché non ho più quel corpo. Eppure, fortunatamente, il mio corpo non ha subito grandi traumi, per cui mi immagino non sia tanto diverso. Ebbene, no, Emilio mi dice che è diverso. E lui tratta gli anziani.

La seconda lezione fondamentale in cui trovo convergenza con Erri è il fatto che ognuno deve trovare una disciplina che scandisca le proprie giornate. Lui recita poesie, io leggo libri e ne scrivo, per me, senza pretese che qualcuno ne legga e ne commenti il dettato.

Poiché infine, sarebbe scortese non dare alla signora il dovuto, c’è un’affermazione in cui mi trovo in concordanza con Inès: bisogna accettare la vecchiaia. Basilare. Non si può e non si deve far finta di avere altri anni ed altri corpi. In quel caso sperimenteremo solo il ridicolo.

Non posso allora che chiosare questo libro che poteva essere migliore, ma che non mi è dispiaciuto leggere e tramare, concordando il finale con Erri: non ho interesse ad interventi bionici, mi accontento di curare il mio corpo, e soprattutto la mia mente, giorno dopo giorno, con quanto ho imparato fino ad oggi.

Non credo leggerò molto di Inès, ma avrò piacere di continuare le letture di Erri, in particolare alcune sue traduzioni dalla Bibbia, che leggo sempre con piacere. Finché il corpo ce lo consente.

“Nel corso accidentato del tempo le amicizia si staccano, alla maniera delle foglie. Ne restano una manciata.” (27)

“Rinfresco le lingue che ho voluto imparare per leggere pagine in originale.” (28)

“Nell’età in cui il passato è la maggioranza del tempo, i ricordi dovrebbero essere un peso schiacciante. Per me no, perché dimentico tutto, anche i sogni.” (59)

“Agli appuntamenti … mi presento in anticipo … ci tengo ad iniziare … all’orario previsto per rispetto di chi è arrivato in tempo.” (69)

“Mio scopo non è di prolungare a oltranza la durata della vita, ma di tenerla in buono stato giorno per giorno, finché ce n’è.” (115)

Giorgio Montefoschi “L’idea di perderti” Mondolibri s.p. (lascito di zia Serenella)

A: 01/10/2025 – I: 21/10/2025 – T: 23/10/2025] &  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 411; anno: 2006]

Montefoschi si avvia verso gli ottanta, e in questa sua cinquantennale carriera ha pubblicato circa due dozzine di libri. Ne ho sentito parlare in giro (intellettuale, critico, traduttore, buon frequentatore dei salotti romani), ma ne lessi solo uno sparuto libro una trentina di anni fa senza averne un particolare ricordo. Ringrazio allora la dolorosa eredità di zia Serenella di costringermi a prendere in mano un secondo libro dell’autore.

Ora, con la maturità di centinaia di letture, posso affermare con fermezza che Montefoschi non mi piace. Ho trovato il libro noioso, inconcludente, lento, e soprattutto mi sono domandato lo scopo di tutto ciò. Scritto quando l’autore di anni ne aveva sessanta, è permeato dalla morte, anzi plurale, che una buona parte dei protagonisti ci lascia, insalutati ospiti.

L’unica dote che fin dai tempi gli riconobbi è la capacità di parlare di Roma. In effetti, per chi non la conosce, saltando le storie su cui torneremo, si fa un bel giro turistico, in particolare dei Parioli. Ci sono passeggiate a Villa Glori, giravolte intorno a via Denza (su cui torneremo), incontri a Piazza Santiago del Cile, aperitivi da “Hungaria”, colazioni da “Il Cigno”. Poi si scende anche verso il centro: una puntata a Piazza Trilussa per una pizza a Trastevere. Oppure si cerca di smaltire grasso in eccesso (sul corpo e sullo spirito) con qualche partitella di tennis al circolo del Ministero degli Esteri.

Le storie ruotano intorno a personaggi eminentemente borghesi, sempre al centro degli scritti di Montefoschi. Una borghesia medo-alta, discretamente colta, ma assolutamente priva di un qualsiasi slancio vitale. L’idea poi dell’autore è quella di categorizzare i personaggi, attraverso vuoi la loro attività vuoi la loro funzione sociale. Il nucleo forte degli attori messi in scena, altrimenti, si perderebbe nell’uso dei nomi e dei cognomi.

I personaggi clou sono Paolo e Grazia, l’Architetto e la Moglie. Poi c’è Bernardo il Pittore, Cristina l’Amante, Martina la sorella dell’Amante, Giulia l’Amica, Giovanni, il marito dell’Amica, Laura la Padrona di casa della tenuta in quel di Fossanova, con il marito Piero, Bruno, il Professore di francese, Franca, sua moglie, e Giorgio, il Critico d’Arte.

Figlio diretto di Moravia, questi personaggi comunicano poco, e quando lo fanno, fanno anche a gara a non capirsi. La differenza è che i nostri, invece che dentro le case, si muovono per Roma, vanno al mare al Circeo, e poi si ritrovano nel casolare di Laura vicino a Fossanova, ad una mezz’ora di macchina dal Circeo. E sono tutti di mezza età avanzata, come si diceva, arrotondati intorno alla sessantina, meno la non ancora quarantenne Cristina, sua sorella, ed il poco più che quarantenne Pittore.

Nelle 400 pagine, lunghe e faticose da leggere, ricostruiamo che il marito dell’Amica ha avuto una storia con la moglie del Professore, che lo ha lasciato. Lui ci rimane male, sta anche male, tanto che presto un infarto ce lo porta via. Nel frattempo, a Fossanova, l’Architetto, afflitto dal male di vivere (è insoddisfatto di tutto, e lo capisco, uno che si fa raccontare i libri dalla moglie senza leggerli, più che insoddisfatto è da sopprimere) è preso da un colpo di fulmine per l’Amante. Che però non è la sua amante, ma lo è del Pittore, che tuttavia è sposato avendo la moglie lontana in America.

La prima morte sconquassa gli equilibri, e lo farà anche la seconda, quella del decano Piero. Tra un aperitivo ed un vernissage, l’Architetto, oltre ad essere insoddisfatto è anche imbranato, che lì, a via Margutta, si dichiara all’Amante (che lo ascolta ma non lo fila, per ora). Peccato che non si siano accorti che la Moglie ha sentito tutto. Già che lei era abbastanza giù di corda, così ne approfitta per andare a trovare il figlio a Boston, e visto che ci si trova, farsi operare di un tumore al seno.

Moglie lontana, Amica a supporto, Amante ma del Pittore, l’Architetto va allo sbando, per poi passare lunghi momenti secondo lui d’amore con la Moglie che torna, ma solo per morire anche lei. E che fa l’Architetto? Un po’ sparisce, un po’ si barcamena tra l’Amante e la Sorella, per poi trovare “consolazione” (mi raccomando le virgolette) con l’amante dell’Amante, cioè il Pittore. Già il testo era involuto, ma qui si riavvolge su sé stesso, fino al prevedibile infarto che ci porta via anche l’Architetto.

L’epilogo secondo Montefoschi dovrebbe funzionare da apologo, ma risulta, come tutto il libro, poco convincente ed assai involuto. Ho tralasciato tante piccole inutili cose che succedono nel frattempo. Su e giù tra Roma e Fossanova, la moglie che ritradisce il Professore con il Critico, una serie di rapporti sessuali di scarsa rilevanza, ed un ritorno all’ordine. Le persone con problemi sono morte, il Pittore torna in America, il Professore con moglie si sposta a Parigi, l’Amante si eclissa, e tutto proseguirà dopo la fine del libro, fino a che moriranno tutti.

Montefoschi, cantore della città e della sua borghesia, mi ha convinto che la sua scrittura non è nelle mie corde. Credo anche nelle vostre, per cui vi potete esimere dalla lettura.

Questa trama si evolve in un grande contrappasso di citazioni non italiane, ma tutte al maschile.

Cominciamo con i “Cavalli selvaggi” di Cormac McCarthy:

“Non ti senti a disagio? … Ogni tanto. Se uno sta in un posto sbagliato si sente a disagio.” (38)

“Io faccio sempre sogni strani … I sogni hanno vita lunga. Ancora oggi sogno cose che sognavo da piccola.” (129)

“Non mi risulta che le difficoltà della vita rendano la gente più compassionevole.” (219)

“Nella storia non ci sono gruppi di controllo [come negli esperimenti di laboratorio] e nessuno può dire cosa sarebbe successo altrimenti.” (228)

Ben si lega quest’ultima frase alle considerazioni molto politiche di Arthur Koestler nel suo “Buio a mezzogiorno”:

“Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono sbagliati.” (57)

“Noi tutti [dice Rubasciov] abbiamo creduto di poter trattare la Storia come un esperimento di fisica. La differenza è che in fisica si può ripetere l’esperimento migliaia di volte, ma nella Storia si può fare una volta sola… E allora? fece Ivanov, Dobbiamo starcene seduti con le mani in mano solo perché le conseguenze di una data azione non sono mai completamente prevedibili, e quindi ogni azione è dannosa? Noi rispondiamo di ogni azione con la nostra testa.” (137)

“Ogni balzo in avanti dei progressi tecnici si lascia un passo indietro il relativo sviluppo intellettuale delle masse, determinando così una caduta del termometro della maturità politica.” (144)

Non posso poi che concordare sia con Gore Vidal che ne “L'età dell'oro” ci ammonisce:

“È triste che non sappiamo mai dove abbiamo sbagliato come genitori finché non è troppo tardi.” (218)

E sia con Luis Sepulveda e la sua “La frontiera scomparsa”, dove concordo incondizionatamente con la prima affermazioni, e rimando ad Epicuro per la seconda:

“Cañete [è] un paesino del Cile meridionale … dove l’anno si divide in undici mesi di pioggia ed uno di maltempo.” (56)

“Nessuno deve vergognarsi di essere felice.” (116)

Ovviamente siamo un po’ bloccati dalle novità editoriali, che sotto Natale si aspetta. Come siamo bloccati, per altri motivi, da programmazioni a lungo raggio. Per ora confidiamo nell’avvento di un nuovo anno continuando a viaggiare con le parole. Un veloce e grande abbraccio.

domenica 7 dicembre 2025

La giornata di un tramatore - 07 dicembre 2025

Inizia l’ultimo mese dell’anno e come spesso negli ultimi mesi, abbiamo una trama piena di gialli (a partire dal titolo). E come nella mia migliore e personale tradizione, sono gialli italiani, quelli per cui ho sempre avuto un debole. Certo, si comincia malino con un giallo poco leggibile di Nicola Verde. Poi si passa a scrittore seriali, che hanno già molte frecce ai loro archi e che non mi hanno deluso. Il gatto detective di Serena Venditto, lo scrittore detective di Gaetano Savatteri, il giornalista detective di Enrico Franceschini. Finendo, finalmente con un ispettore, anzi un vicequestore, a me ed a molti nel cuore, l’ottimo Rocco Schiavone di Antonio Manzini.

Nicola Verde “Sa morte secada” Corriere Gazzetta 12 euro 7,99

[A: 28/08/2023 – I: 11/08/2025 – T: 13/08/2025] &

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 201; anno: 2004]

È il primo libro che leggo del campano Nicola Verde e devo dire che un po’ mi ha deluso. Un libro che cerca di volare alto, ma che alla fine si fa decifrare presto, e tutto il resto è un contorno che serve ad allungare i tempi del pasto. Con un finale che allude velatamente ai gialli di ben altra fattura di Dürrenmatt. Tra l’altro è una riproposizione in terza battuta del testo, opera prima di Verde pubblicata nel 2004 e poi riproposta dai Fratelli Frilli nel 2020 (ed in parte rivista), ed ora ripresentata dalla collana del Corriere che, comunque, ha il merito di spingere verso letture di autori italiani.

Detto quindi delle troppe aspettative dell’autore, seppur lodevole la ricerca di presentarci una Sardegna non convenzionale, rimane troppo in superficie in alcuni punti, ed in altri si va incartando nel tentativo di creare un’atmosfera magica che non viene suscitata nel lettore. Un certo interesse nasce dalla costruzione del personaggio del maresciallo Carmine Dioguardi, anche se avrei evitato quel sottotitolo evocativo ma solo per catturare il lettore di passaggio. Sottotitolo che riporto qui per non dargli veste di importanza: “Un’indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna”.

Evito commenti sul cuore nero, e passo oltre. Cioè torno sulla figura di Dioguardi, campano doc con moglie Ines, trasferito, senza motivi apparenti in quel di Bonela (luogo fittizio, ma di sicuro, per lo svolgimento della trama, situato verso Porto Torres). Per tutto il testo, oltre a svolgere l’indagine, Dioguardi cerca di capire se e come tornare nel continente, e se e come capire modi di vita dei locali. Per poi nell’ultimo capitolo, battezzato “XXXVI” ma che io avrei rinominato “Epilogo”, Dioguardi pensionato ripensa alla vicenda. Non si è mai più mosso da Bonela, ne ha imparato pregi e difetti, ed ora confessa il suo finale, che per la verità era “cognito” sin dalle prime battute (spero qualcuno capirà…).

Insomma, appena insediato il nuovo maresciallo viene coinvolto nella scomparsa e poi nell’uccisione del piccolo Cosimo Frau. Scomparsa denunciata dalla zia, Costantina, e ritrovamento in una contrada vicina, sopra un idolo nuragico, spolpato dagli animali selvatici, con tracce inequivocabili di terra, come se fosse stato spostato di luogo in luogo a seguito di chissà quali riti (non certo quello neri del titolo).

Intanto, visto che le vicende si intrecciano con la nascita del polo industriale di Porto Torres (il famoso Petrolchimico di Nino Rovelli), siamo agli inizi degli anni Sessanta. Questo per far sì che si possa parlare di una terra arretrata. Tant’è che si parla spesso in dialetto (abbastanza riprodotto in italiano, ma non sempre), e che dal dialetto trae anche il titolo, che tradotto è un detto che invita ad andare sino in fondo a quanto si sta facendo.

Intorno al maresciallo, abbiamo la gente di Bonela. Il prete buono, don Melchiorre, intuitivo che cerca di far progredire la città, e don Mario, il prete cattivo, di sicuro usuraio e forse anche attratto da gonne diverse da quelle sacerdotali. C’è la famiglia Frau, dove Natalia, stuprata dal suo datore di lavoro quando era giovane, decide di andare a Sassari, dove farà “la vita”, anche se nell’epilogo sembra aver fatto scelte coraggiose. Ma di certo non può portarsi appresso il figlio della colpa, che lascia in custodia alla sorella Costantina. Una che invece sembra tutta casa e chiesa, ed anche piena di momenti visionari che Verde cerca di riproporci purtroppo con scarsi risultati.

Ovvio che c’è il contorno dei benpensanti cittadini, dal sindaco al farmacista, dal direttore di banca all’ingegnere del Petrolchimico. Ma tutti messi lì a riempire qualche vuoto, che sono poco funzionali alle indagini ed allo svolgimento del libro. Verde cerca in tutti i modi di creare suspense, ma il tentativo non riesce bene.

Quel che riesce è forse la descrizione di una certa Sardegna, selvaggia, arcaica, con i suoi riti a volte non proprio comprensibili, ma di certo con un modo di rapportarsi internamente alla struttura sociale che dall’esterno è scarsamente comprensibile. Capiamo la caccia, capiamo le mangiate di terra (che i sardi non sono gente di mare), ma, personalmente, poco capisco la gente. Un po’ come Dioguardi, che solo dopo quarant’anni converge con quanto noi si è pensato da molto tempo.

Ritengo sempre lodevole chi scrive e chi pubblica, e sono contento che si scriva e si pubblichi. Del resto, posso anche dire cosa mi piace e cosa no. Questo libro non mi ha soddisfatto.

Serena Venditto “Aria di neve. La prima indagine di Mycroft, il gatto detective” Repubblica Profondo Noir 42 euro 8,90

[A: 12/04/2024 – I: 16/09/2025 – T: 17/09/2025] &&&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2014]

Serena Venditto è un interessante realtà della scrittura gialla, con all’attivo una mezza dozzina di titoli, credo, in cui compre, come elemento determinante della risoluzione dell’intrigo, un gatto. Venditto è ovviamente anche una profonda conoscitrice dell’universo poliziesco, sia per una serie di citazioni che colgo in questa prima indagine, sia per il fatto che il gatto, spalla e deus ex machina dell’avventura si chiama Mycroft. Che tutti sanno essere il nome del fratello di Sherlock Holmes.

Essendo la prima avventura, publicata una decina di anni fa, la scrittrice deve predisporre l’ambiente generale in cui ci si va a muovere. Intanto siamo a Napoli, che sembra, insieme ai gatti, un must per la scrittrice. Tanto che ad un certo punto la protagonista che potrebbe vivere ovunque nel mondo, spiega come Napoli sia il solo posto in cui si sente di vivere. Ed in seconda, anche se non di colpo, entriamo i contatto con i protagonisti

La prima è la voce narrante, Ariel, quella che si vive solo a Napoli, laureata plurilingue con doppio passaporto italo-americano, la incontriamo che viene appena lasciata da un poliziotto molto antipatico. Subiamo un po’ troppe pagine della sua crisi esistenziale, prima che la sua datrice di lavoro come traduttrice la invita a cambiare casa ed andare in un palazzotto con altri coinquilini. Nasce così la congrega di Palazzo d’Atri, che proprio lì, nel palazzo degli Acquaviva in via Atri 36 si trasferisce Ariel e conosce i tre altri inquilini, per non parlar del gatto.

La più intrigante è Malù, archeologa con la passione del giallo, che di sicuro ha qualche scheletro nascosto, ma di cui ancora non sappiamo nulla. È però dotata di mente fina ed occhio attento, che ad un primo sguardo ci narra vita, morte e miracoli di Ariel. Gli altri abitanti della casa sono Samuel un palestrato rappresentanti di gelati sardo-nigeriano e Kobe, pianista di talento con fidanzata agli archi ma a Cremona, che, in un esilarante italiano, fornisce alla congrega le sue perle di saggezza. Che tra l’altro fornisce il titolo al romanzo quando dice “Aria di neve, certo. Quando tu sai che qualcosa accadrà no perché qualcuno ti dice, ma perché senti profumo diverso intorno a te.”

L’ultimo inquilino è ovviamente Mycroft gatto nominalmente di Malù ma in pratica padrone di tutta la casa (composta da quattro stanze da letto, un bagno ed un luogo comune con cucina) e che, sornione come i gatti di ingegno, quando c’è da intervenire lo fa con miagolii ed appostamenti che permettono a Malù ed ai suoi di risolvere l’intricato giallo.

Nel palazzo, ma non nella casa, è poi presente la professoressa Mariella in pensione, che controlla chi frequenta il Palazzo, sottoponendo gli sconosciuti a domande in latino, oppure a quesiti di storia o di letteratura, fornendoci altri esilaranti momenti di lettura (ovviamente insieme alle sparate di Kobe verso la fidanzata lontana).

Comunque, una volta conosciuti i personaggi, pensando che ne incontreremo in altre avventure (ho già altri tre libri della scrittrice in biblioteca), possiamo dedicarci alla parte gialla, che tuttavia non è così difficile da risolvere, pur impostata con dei buoni propositi ed anche misteriosi. Si tratta di capire se la morte della cantante messicana Teresa sia omicidio o suicidio.

Teresa è un personaggio solare che sforna dolci meravigliosi. È messicana, ma si è innamorata di un napoletano di qualche anno più vecchio. Al ritorno da un lungo viaggio in patria, misteriosamente viene trovata impiccata in una stanza chiusa. Non ci sono elementi per supporre intrusioni misteriose, che Mariella non ha notato nessuno nell’ora del delitto.

Veniamo però a sapere che Teresa era insofferente della vita angusta che stava vivendo. Il marito le aveva promesso viaggi e bei momenti, ma tutto finito ben presto. Vorrebbe figli, cosa che il marito non vuole. Ha degli amanti, di cui, forse, rimane in cinta. Ma soprattutto vorrebbe tornare in Messico. È ovvio che ben presto la cerchia di possibili assassini si restringe tra il marito e l’amante. Anche perché, con l’aiuto di Mycroft, si capisce il meccanismo dell’omicidio. Strangolamento, mascherato da impiccagione, con un trucco ingegnoso (unico elemento veramente divertente della parte poliziesca) per trasformare l’omicidio in un delitto della camera chiusa.

Ovvio che Malù, Ariel e Mycroft risolveranno il caso, e noi ci sposteremo alla seconda puntata.

Un cozy crime, di leggerezza in lettura e di buona resa nel contorno, tanto che ho alzato, seppur di poco, la benevolenza nei confronti del libro. Vedremo i prossimi.

Gaetano Savatteri “I colpevoli sono matti. Quattro indagini a Màkari” Sellerio euro 15 (in realtà, scontato a 14,25 euro)

A: 15/02/2022 – I: 19/10/2025 – T: 21/10/2025] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 275; anno: 2022]

In concomitanza con la quarta serie televisiva delle avventure a Màkari, finisco di leggere l’ultima antologia di Savatteri presente nella mia biblioteca. Non ci sono tutte le avventure di Lamanna, che spesso escono nelle antologie annuali di Sellerio, ma con questi quattro racconti diamo una bella sistemata all’autore ed alla serie. Con una constatazione immediata: lo scritto è decisamente superiore alla realizzazione televisive. Non perché Claudio Gioé, Domenico Centamore ed Ester Pantano non siano di livello (onesti e degnissimi attori), ma penso sia la sceneggiatura, capeggiata da Leonardo Marino, che non tenga il passo delle idee di carta di Savatteri.

In questa antologia sono presenti quattro racconti, editi in vario modo tra il ’17 ed il ’19, per poi essere radunati in volume da Sellerio l’anno successivo. Da notare che il secondo racconto venne anche preso come base del primo episodio della serie televisiva, mentre gli altri tre fanno parte degli ultimi tre episodi della terza serie. E per rimanere in tema di raffronti, quello che subito si nota è l’accento che la televisione pone sulla parte gialla. Non che sia particolarmente attraente, ma negli scritti, spesso, omicidi ed indagini sono a volte accennati, quando non volutamente ignorati.

Anzi, diciamo subito che questa antologia è decisamente diversa dalla televisione. Nel primo episodio, il serial cambia un interessante viaggio a Praga con un soggiorno presso una spa; inoltre viene aggiunto un morto che il testo non prevede, laddove ci sono solo elementi spionistici. Nel secondo, il morto c’è, ma è solo in tv che si costruisce una complessa ipotesi di morte accidentale, che nel testo viene data per assodata e quasi ignorata. Infine, nel terzo e quarto racconto non ci sono proprio i morti, ma solo elementi letterari, di interesse maggiore per me.

Comunque, per i meno addentro alle trame di Màkari, ricordo che abbiamo il personaggio principale, Saverio Lamanna, un tempo addentro alla bella vita politica romana, ora ritiratosi nella Sicilia avita, con scrittura di libri di buon successo. Sua spalla il “comico” Peppe Piccionello, spesso fuori misura, ma buon aiuto e spesso con uscite risolutive. Non manca l’amore con la bella Suleima, giovane architetta non si sa in base a quale alchimia innamoratasi di Saverio.

Tre testi li avevo già recensiti, e ne riporto alcuni elementi salienti.

La segreta alchimia” [15-96] era contenuto in “Viaggiare in giallo".

Essendo una delle prime uscite del buon Saverio così scrivevo: “Conosciamo Saverio, il “disoccupato d’oro”, la sua corte di svitati siciliani di San Vito lo Capo, la sua dolce metà lontana Suleima. E ci immergiamo in una fantastica escursione nella Praga kafkiana. Con voli Ryanair (stranamente puntuali), signorine di bell’aspetto, segreti industriali. Ma soprattutto Saverio, la sua souplesse, il suo modo di vedere la città cui da tanto ormai si manca, il suo stare con Suleima. Beandoci alle improvvide uscite del suo amico Peppe (l’infradito per Mala Strana è da ricordi ancestrali, su cui torneremo). L’intrigo qui è veramente poco significativo, se non per qualche risvolto da spionaggio internazionale. Ma il personaggio intriga.”

I colpevoli sono matti” [97-154] era contenuto in "Un anno in giallo".

Fu la mia prima lettura del mondo di Lamanna. Ne seguiamo l’arrivo in quel di Màkari, le conoscenze e gli avvicinamenti con Peppe e Suleima. C’è la scomparsa di un bambino, ritrovato morto in un pozzo ed un anziano non proprio in sintonia con la testa che si accusa della morte. Ovvio che Saverio smonta l’ingenua falsità, pur non arrivando a decrittare la morte, se non facendoci capire che dovrebbe (ma in che modo?) essere accidentale. Ed io chiosavo: “Mi intriga questo Saverio Lamanna con i suoi arzigogoli (mitico quando interrompe il lavoro di pittura non pagato per l’amica Marilù adducendo come scusa: “Devo andare a rileggere ‘Salario, prezzo e profitto” di Marx). La storia inoltre regge abbastanza”

La città perfetta” [155-208] è uscito come racconto a sé nella collana di Repubblica “Italia in giallo”.

Ne scrisse abbondantemente, ma vi riporto solo la parte saliente che riguarda la descrizione ambientale e la parte artistica: “Qui, l’ambiente è forse la cosa migliore. Che tutto si svolge a Gibellina, sia vecchia che nuova. E soprattutto nella valle (terremotata) del Belìce. Inciso: ebbene sì, questa è la pronuncia corretta, derivante dal fiume che gli arabi chiamavano “U-Bilìk”. E da sempre, i locali mettono l’accento sulla “i”. Fu colpa della RAI, nel ’68, ai tempi del terremoto, che mandando incolti giornalisti sul posto, questi cominciarono a pronunciare il nome all’italiana, con l’accento sulla “e”. Potenza dei media, ora quasi nessuno chiama i posti con il nome corretto.

Il “giallo” tra molte virgolette, è la scoperta poco dopo della scomparsa dal museo cittadino di uno dei pezzi pregiati: un arazzo di Boetti. Non entro nella descrizione né delle opere di Alighiero e Boetti (così si firmava l’autore), né nella bellissima presentazione del “Cretto” di Burri che ci fa Suleima. Altri esperti d’arte migliori di me ne possono e ne devono parlare.

Qui torniamo al filo del discorso: furto, indagini di Saverio, qualche evento collaterale, ma questa parte, che serve a giustificare la “giallosità” del racconto, è inessenziale. Mentre è più coinvolgente tuta la discussione sulla ricostruzione, sullo spostamento della città nel nuovo sito, sulla tristezza delle vie vuote di vita della nuova Gibellina, sulle possibilità, purtroppo non sfruttate, dei regali artistici presenti. I Burri, i Boetti ma anche Fausto Pirandello, De Pisis, Rosai, Guttuso, Carla Accardi, Mario Schifano. Un patrimonio di arte contemporanea di assoluto valore. Ma il Museo è spesso chiuso, tanto che anche nella mia ultima visita non sono riuscito a visitarlo.”

Tutti i libri del mondo” [209-275] è inserito nell’antologia “Cinquanta in blu. Otto racconti gialli”.

Questo è l’unico che non avevo letto, e nel testo non c’è un assassinio né un morto, ma una discussione sulla possibile sussistenza di plagio in un’opera di Saverio, che viene sventata abbastanza velocemente. Il bello è l’ambientazione in un salone del libro, il gioco verso autori di gialli che ben conosciamo, e che interagiscono con Lamanna. Ma due sono poi gli elementi migliori. Il primo è il dibattito di meta-finzione, in cui Piccionello viene intervistato in quanto co-protagonista degli scritti di Saverio. E qui Savatteri ben si spende in un gioco di specchi tra la realtà e la sua descrizione in un libro che riporta una finzione che nella finzione è reale.

Il secondo elemento deriva dalla struttura da cui nasce il testo. Sellerio, infatti, per un suo evento celebrativo, aveva chiesto ad alcuni suoi autori di collegarsi ad uno dei libri della casa editrice. Ora, Saverio per far confessare ad un giudice la poca attenzione in un processo per tangenti ricorre al meraviglioso “Il procuratore della Giudea” di Anatole France. Ne fa una piccola parafrasi, che dovete leggere. E ci ricorda la chiusa. C’è Lamia, un senatore romano, che in un simposio invita Ponzio Pilato, ex-procuratore nella Giudea. Lamia si ricorda di una giovane donna che lo aveva colpito ed il racconto così finisce (traduzione mia):

“Un giorno è scomparsa e non l'ho più vista. L'ho cercata a lungo nei vicoli e nelle taverne sospette. … . Dopo alcuni mesi dalla sua perdita, venni a sapere, per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e donne che seguivano un giovane taumaturgo galileo. Il suo nome era Gesù; era di Nazaret e fu crocifisso per non so quale crimine. Ponzio, ti ricordi di quest'uomo?

Ponzio Pilato aggrottò la fronte e si portò la mano alla fronte come uno che scruta nella sua memoria. Poi, dopo qualche istante di silenzio:

"Gesù?" mormorò “Gesù di Nazaret? Non mi ricordo”.

Superba meta citazione.

Mi mancano solo un ricordo prima di chiudere questa forse troppo lunga trama. Un ricordo di un racconto sulle infradito a Praga. Me ne parlò il mio amico Massimo che, tornando da Cuba con un volo disastroso, fece tappa a Praga, dove sbarcarono studenti cubani in trasferta di studio in Europa. Era febbraio, e loro sceso dall’aereo in infradito e con quelle camminavano nella neve invernale. I Piccionello degli anni Ottanta.

Infine, Savatteri mi continua a piacere, e continuerò a leggerne, anche se l’ultimo libro (ne ho già parlato) è in minore. Ma queste sono prove veloci e d’annata. E sono delle buone prove.

Enrico Franceschini “Ferragosto” Repubblica Essenza Noir 10 euro 8,90

[A: 30/08/2022 – I: 05/11/2025 – T: 07/11/2025] &&&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 2021]

Secondo episodio delle avventure del giornalista in pensione Andrea Muratori detto Mura scritte dal suo alter-ego, il giornalista in pensione Enrico Franceschini. Ho già parlato, ed anche decentemente bene, del primo episodio (per i meno attenti “Bassa marea”, tramato a giugno del ’24). In attesa del terzo (che prima o poi si leggerà), parliamo di queste avventure molto estive di Mura e dei suoi sodali.

Ricordo infatti che, oltre a Mura che poi è il motore primo delle azioni, ci sono al contorno Danilo Baroncini detto Barone, primario ospedaliero con la sua girlfriend brasiliana Raffa, Pietro Gabrielli detto Professore, bibliotecario con la sua eterna fidanzata Carla, Sergio Baldazzi detto Ingegnere, di professione tuttologo con Mari, la sua morosa, e c’è Caterina detta Cate, giornalista corrispondente di guerra, nonché “scopamica” di Mura. E sebbene tutti loro entrano ed escono dalla trama, in fondo servono solo per quelle azioni corali, che trapuntano di ironia il testo. Ricordo, per precisione, che il lume tutelare dei nostri è il conte Lello Mascetti, interpretato da Ugo Tognazzi in Amici miei. E non serve dire altro.

La storia, al solito, si svolge a Borgomarina, lì sulla Riviera Romagnola, tra Rimini e Riccione, dove Mura ha deciso di passare la sua vita da pensionato. E dove le avventure non le va a cercare, ma lo trovano loro. Così, dopo che assistiamo alla poco onorevole morte del fotografo Montanari, Mura viene investito da un doppio incarico, nel suo ruolo di investigatore dilettante. Josephine, la moglie brasiliana del fotografo, lo ingaggia affinché smonti le accuse che Giorgio, il figlio del fotografo, monta verso di lei.

Dalle chiacchiere da spiaggia, viene poi incaricato dalla prosperosa Stefi di capire se il marito le mette le corna. E qui, abbiamo gli intrecci che, nel mondo lontano dalla carta, si vedono poco, anche se forse ci sono. Mura, pedinando il fedifrago, trova che lui tradisce la Stefi, ma non con altre donne, bensì con Trudi, un (una?) trans brasiliano (brasiliana?). Trudi di cui pare innamoratissimo Giorgio che, sentite conversazioni riservate del padre, è sicuro di riscattare la sua poco brillante vita con il ritrovamento di un grande tesoro.

Tesoro di cui il fotografo parlava con dei suoi sodali fascistoni. Tesoro che Mura capisce possa riferirsi a qualche strascico delle diverse attribuzioni economiche di uno che quei luoghi ben frequentava, tanto da averci fatto una villa. Ed è proprio questa, forse, la parte migliore. La storia di Villa Mussolini e del tesoro (o dei tesori) del buon Benito. Franceschini fa una lunga, ed interessante, digressione sul “tesoro di Dongo” (vi invito a leggerne anche in rete, che è molto interessante), sulle ultime ore di Benito e Claretta, nonché sulle corrispettive ore di tutta una serie di personaggi che gravitavano lì intorno: Walter Audisio “Colonnello Valerio”, Luigi Canali “capitano Neri”, Giuseppina Tuissi “Gianna” (e dovrete contare quante morti senza colpevoli ci saranno).

Mura, alla fine, risolve tutto, pur correndo alcuni pericoli (cosa che non guasta mai in questo tipo di trame). Certo non trova l’oro di Dongo, ma ci fa fare un viaggio immaginario nel tesoro di Rachele, ritrovandone tracce tra Montecorduzzo e Melbourne. Scopre sia il vero che il falso assassino del fotografo (con un passaggio alla Simenon in bilico tra verità e giustizia). Smaschera le piccole trame di Stefi e del marito. Finendo in bella compagnia per il pranzo di Ferragosto. Intessendo piccole e grandi trame che, per gli over Cinquanta, hanno il sapore di un tuffo benefico nel passato.

Certo, Franceschini è uomo che ha girato e conosce il mondo, oltre ad essere un bravo giornalista. Per cui, nelle trame della trama, inserisce anche momenti di riflessione. Non solo sull’oro di Dongo di cui sopra, ma sui trans, sui viados, sui pedalò e sui pattini (accento sulla i mi raccomando). Non è di sicuro per la trama gialla che si faranno ricordare i suoi scritti, ma per un buon intreccio di avventure e di ricordi, che tanto mi hanno fatto riflettere in lettura.

Ed in effetti, alla fine bisogna dire altre due cose. La prima è l’inserzione, nel corso delle parti più distese della trama, di rimandi cinefili che farebbero felici i miei cugini. La seconda è la colonna sonora che il Prof fornisce a Mura per punteggiare la sua trama. Che questa volta è dedicata alle canzoni balneari (riporto in coda la playlist), che mi hanno trasportato al Bar Conchiglia di Tortoreto Lido per le mie lunghe estati giovanili. In più, fuori dalla playlist, a pagina 249 si cita un verso di una canzone di un duo che per me È (maiuscolo d’obbligo) la mia estate.

Si tratta (è qui di sicuro qualche cugino si alzerà dal divano) di “Ho scritto t’amo sulla sabbia” di Franco IV e Franco I, dal “Disco per l’estate 1968”.

Per quanto riguarda la cinefilia, tutto potrebbe essere ok, meno una discussione che ormai è infinita sulla frase “Hai una pistola in tasca o sei semplicemente felice di vedermi?”. La disse veramente Mae West o è solo un “rumors” che si tramanda? Pare che in realtà Mae West negli anni ’40 abbia detto “È una spada quella o sei felice di vedermi?”. Quindi, rispetto alla battuta di pagina 60, io rispondo con la citazione relativa alla città di Liegi: “Città nota per la pronuncia dei suoi abitanti. La C dolce viene infatti comunemente chiamata la C liegina”. E vediamo chi la conosce…

“Non sei vecchio, sei solo un po’ vintage.” (11)

Antonio Manzini “Sotto mentite spoglie” Sellerio euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro)

A: 04/11/2025 – I: 15/11/2025 – T: 17/11/2025] &&& e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 546; anno: 2025]

Potevamo mancare di comprare, leggere e tramare subito l’ultima avventure del vicequestore Rocco Schiavone? Certo che no. E come direbbe il nostro, ‘sti cazzi!

Decisamente in risalita dopo le ultime prove. Anzi, direi, dopo aver toccato il fondo con “Riusciranno…”, ogni nuovo episodio sale di un gradino sopra il precedente. Forse questo è al solito un po’ lungo, specie nella prima parte? Forse. Forse la fine è al solito troppo veloce? Forse. Forse che nelle ultime pagine si respira aria di un futuro nuovo episodio? Certo. Tuttavia il risultato finale è stato gradevole. Mi domando solo, pur se ha un suo senso, perché sia stato utilizzato un titolo già presente non solo nel mercato letterario italiano (due raccolte di racconti, una di Angela Ferranti ed un’antologia curata da Ernesto Chiabotto), ma, peggio ancora, già usato in un film di scarso rilievo del 2007, per la regia di Vincenzo Salemme, interpretato da lui stesso, Giorgio Panariello, Lucrezia Lante della Rovere e Luisa Ranieri.

Certo, come detto, il senso globale è ben presente nel titolo. Ci sono persone che si travestono e non vengono riconosciute, ci sono opere truffaldine mascherate da altro, ci sono, infine, sentimenti che si nascondono sotto diversi strati di menzogne autoinflitte.

Devo dire che, nonostante alcuni suoi limiti, la parte personale del testo mi è risultata più gradevole. Ci sono vari siparietti tra Michela ed il marito, tra Rocco e Sandra, tra Baldi e Sara, tra Rocco e Caterina, tra Rocco, Brizio e Furio, tra D’Intino ed il resto del mondo, che, chi più chi meno, si leggono. Soprattutto, ho apprezzato la scomparsa, spero definitiva, dei corsivi di Marina. Caro Rocco, ormai il lutto dovresti averlo elaborato. Allora, certo, la donna unica del tuo cuore sarà sempre lei. Ma bisogna pur vivere (come diceva Battiato, “Bisogna pur che il corpo esulti”) ed il piccolo romance con Cleo non ci dispiace. Forse solo D’Intino eviterei di portarlo troppo avanti. Non è un emulo di Catarella, ed allora tanto valeva avvicinarlo a casa.

Per farla breve, da questo lato: Sandra si trasferisce con il suo uomo a Torino, ora che si è ripresa dai problemi dell’episodio precedente; continuano le vicende tranquille di Deruta con Federico e di Ugo con Eugenia (e per fortuna che c’è l’ottimo figlio Carlo); così come procedono le coppie storiche (Michela e l’anatomopatologo) e se ne formano di nuove (Baldi e l’archeologa). Rimane appunto Rocco, che ha sempre Marina nel cuore, che poteva buttarsi con Sandra, ma non lo ha fatto, e che potrà continuare il suo piccolo cabotaggio di scopamicizia.

Ben più complicata è la trama gialla, anche perché comincia con una rapina che si allunga per cento pagine, ed uno si chiede: è tutto lì e mo’ che si fa per il resto del libro? Oppure, e questo sarà a lungo il mio pensiero, visto che il resto è dedicato ad altro, che c’entrano quelle prime cento pagine? Forse solo a prevedere un primo episodio della nuova serie televisiva?

In ogni caso, c’è una rapina in banca, con tanto di ostaggi, dove i rapinatori escono travestiti ad uno ad uno (sono tre) come fossero gli ostaggi liberati perché in cattive condizioni di salute. Prima il capo, travestito da donna con i diamanti sotto il cappotto. Poi i due ragazzi simulando un attacco di diabete. Quando si accorge dell’inganno, saranno giorni e giorni di sfottò per tutta la squadra di Schiavone. I risultati di questa parte di indagine saranno presto acclarati, e noi li dimentichiamo subito (o meglio, ve li leggete da soli).

Quello che serviva della rapina è che una persona che scompare subito dopo aveva una cassetta di sicurezza nella banca, dove si era recato subito prima della rapina, mentre il balordo che lo pedinava non aveva fatto in tempo ad uscire dalla banca, in quanto diventato subito ostaggio della rapina di cui sopra. Con l’unico risultato che la sua auto, messa in strada un po’ alla buona, subisce qualche ammaccatura inaspettata.

Perché il filo duro e puro delle indagini porta Rocco ad indagare sulla morte di un polacco, fatto affogare in un laghetto lì intorno con cento chili di zavorra da palombaro ai piedi. Il polacco era stato visto spesso con tal Stefano di professione procuratore calcistico, con un vivaio di possibili talenti in Senegal. Ma il business del polacco era legato ad un chimico che sfruttando la sua posizione in un’industria farmaceutica valdostana, pare abbia un suo tornaconto segreto producendo e/o sintetizzando sostanze la cui natura andrà scoperta.

Saputo della morte del polacco, il chimico come detto sparisce e Stefano, al momento in Senegal, risulta irreperibile. Il brodo delle ricerche di Schiavone e soci si allunga per tutte le ulteriori quattrocento pagine del testo, alla fine del quale scopriamo che: il chimico è in combutta con il polacco ed altri chimici dell’azienda per la produzione di quelle sostanze che il polacco e Stefano utilizzeranno in qualche modo. Ma al contorno, qualcuno, forse allertato dal fatto che la sperimentazione in Senegal ha prodotto qualche risultato nefasto, si vuole introdurre nel business. Anche con le maniere forti. E, laddove la banda del chimico non ceda, intanto fanno fuori il polacco.

Tante saranno le strade che si incroceranno lungo la via, e Manzini, purtroppo, qualche via se la dimentica per strada. Certo, il nucleo del risultato sarà palesato alla fine (anche con piccola sparatoria, senza però le conseguenze di quella famosa che costò un rene a Schiavone), pur se con la solita eccessiva velocità. Ma rimarranno in sospeso le questioni sul ruolo della cassiera e del direttore della banca, su come e quando Stefano e forse il chimico torneranno dal Senegal, sulle decisione che l’azienda prenderà nei confronti dei suoi dipendenti un po’ troppo allegri.

L’obiettivo minimale di Manzini questa volta era lanciare un piccolo sasso nello stagno delle vicende dei procuratori calcistici, lancio riuscito, e di prevedere uno sviluppo meno problematico per il futuro di Rocco, e qui non ci siamo.

In fondo poi, dopo che per tutto il romanzo, veniamo martellati dalla promessa di un arrivo nuovo per aumentare il peso della squadra di Rocco, e vedendo questo arrivo relegato nelle ultime tre pagine, è facile deduzione che, prima o poi, uscirà un nuovo episodio.

Termino con un piccolo inciso personale. Ad un certo punto, Rocco ricorda che da ragazzo amava leggere le strisce di fumetti di “Beetle Bailey”. Ebbene, le leggevo anche io, ed ho anche tre Oscar Mondadori con quasi tutte le strisce pubblicate in Italia, corredate da una suntuosa introduzione di Oreste del Buono. Grande Rocco!

Prima trama dell’ultimo mese, che ci riporta alle letture di quell’ottimo mese di settembre allietato da una superba fuga marsigliese. Per questo abbiamo “solo” sedici letture, guidate da un saggio inaspettato di Marco Malvaldi e dalla scoperta di nuovi personaggi con l’inglese Simon Mason. Là dove chiude la classifica un’illeggibile giallo di Tana French.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Anne Perry

Morte a doppio taglio

Mondadori

6,90

2

2

Ayu Utami

Le donne di Saman

Repubblica Voci d’Oriente

9,90

2

3

Anne Perry

Sia fatta vendetta

Mondadori

7,90

2

4

Nunzia Scalzo

La regola dell’ortica

Feltrinelli

15

2,5

5

Marco Malvaldi

Se fossi stato al vostro posto

Raffaello Cortina Editore

21

3,5

6

S. J. Bennett

Il nodo Windsor

Repubblica Noir

8,90

2,5

7

Mario Tobino

Il clandestino

Repubblica Resistenza

7,90

3

8

Sarah Savioli

I selvatici

Feltrinelli

12

2,5

9

Milena Palminteri

Come l’arancio amaro

Bompiani

20

2,5

10

Serena Venditto

Aria di neve

Repubblica Profondo Noir

8,90

3

11

Isabel Allende

Ritratto in seppia

Repubblica

9,90

2,5

12

Cristina Cassar Scalia

Delitto di benvenuto

Einaudi

19

3

13

Csaba dalla Zorza

La governante

Marsilio

s.p.

2

14

Tana French

Il rifugio

Corriere Noir

8,90

1

15

Hideo Yokoyama

Sei quattro

Corriere Giappone

8,90

2

16

Simon Mason

Il caso Poppy Clarke

Sellerio

16

3,5

 

Per questa volta, anche nelle citazioni, rimaniamo in Italia, seppur lontano dai gialli. Il primo autore, non notissimo psicanalista genovese, mi ha sempre incuriosito, pur essendo anni che non lo ritrovo in libreria. Ma in un lontano “Vorrei che fosse lei” cosa Lorenzo Licalzi sintetizzava un ben presente atteggiamento maschile:

“Fin dalla prima adolescenza, vuoi per il naturale sviluppo ormonale, vuoi per una certa predisposizione genetica … le donne e il sesso furono al centro dei miei pensieri, ma non fu per niente facile far sì che i pensieri si trasformassero in azioni … Furono anni di appostamenti e di approcci maldestri. Di sguardi obliqui o penetranti. Furono anni di domande idiote o mutismi assoluti. Furono anni di brutte figure, di situazioni imbarazzanti, di metaforiche ma dolorosissime bastonate.” (45)

C’è poi invece il ben noto, ma che non sempre mi ha convinto Giuseppe Pontiggia con alcune considerazioni estratte da “Nati due volte”:

“Quanti dialoghi dovrebbero svolgersi in tempi diversi. Occorrono talora anni per dare … le risposte adeguiate.” (28)

“- A cosa pensi? – A niente – mento (come sempre, quando si risponde così)." (57)

“Ammettere i propri errori è anche il primo alibi per ripeterli.” (65)

“Riluttiamo ad accettare, ingigantiti negli altri, i difetti che temiamo di avere.” (52)

Arrivati a questo punto sciogliamo il giallo del titolo, dove vi sarete chiesti il perché della parafrasi di Calvino, visto che non sono uno scrutatore. Ma non vi addormenterò narrandovi dei miei giorni. Solo evidenziando i momenti che dedico alla lettura ed alla scrittura, per comprendere come, da pensionato, indirizzo parte delle mie giornate. Nei giorni di vita normale, si legge dalle 6 alle 7. Poi dopo altre faccende di cui non vi interessa, si scrive dalle 11 alle 13. Anche il pomeriggio è scandito da letture, dalle 14 alle 16, e da scritture, dalle 19 alle 20. La sera, se non ci sono avvenimenti personali o familiari o convivialmente televisivi (pochi quest’ultimi) si continua a leggere e pensare. È così che si legge e si scrive tanto, perché, e lo sappiamo, “chi legge è un viaggiatore”. Ed io viaggio nello spazio e nelle parole. Senza però mai dimenticare di mandarvi un grande abbraccio.