Inizia l’ultimo mese dell’anno e come spesso negli ultimi mesi, abbiamo una trama piena di gialli (a partire dal titolo). E come nella mia migliore e personale tradizione, sono gialli italiani, quelli per cui ho sempre avuto un debole. Certo, si comincia malino con un giallo poco leggibile di Nicola Verde. Poi si passa a scrittore seriali, che hanno già molte frecce ai loro archi e che non mi hanno deluso. Il gatto detective di Serena Venditto, lo scrittore detective di Gaetano Savatteri, il giornalista detective di Enrico Franceschini. Finendo, finalmente con un ispettore, anzi un vicequestore, a me ed a molti nel cuore, l’ottimo Rocco Schiavone di Antonio Manzini.
Nicola Verde “Sa morte secada” Corriere
Gazzetta 12 euro 7,99
[A:
28/08/2023 – I: 11/08/2025 – T: 13/08/2025] &
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 201; anno: 2004]
È il primo libro che leggo del campano Nicola Verde e devo
dire che un po’ mi ha deluso. Un libro che cerca di volare alto, ma che alla
fine si fa decifrare presto, e tutto il resto è un contorno che serve ad
allungare i tempi del pasto. Con un finale che allude velatamente ai gialli di
ben altra fattura di Dürrenmatt. Tra l’altro è una riproposizione in terza
battuta del testo, opera prima di Verde pubblicata nel 2004 e poi riproposta
dai Fratelli Frilli nel 2020 (ed in parte rivista), ed ora ripresentata dalla
collana del Corriere che, comunque, ha il merito di spingere verso letture di
autori italiani.
Detto
quindi delle troppe aspettative dell’autore, seppur lodevole la ricerca di
presentarci una Sardegna non convenzionale, rimane troppo in superficie in
alcuni punti, ed in altri si va incartando nel tentativo di creare un’atmosfera
magica che non viene suscitata nel lettore. Un certo interesse nasce dalla
costruzione del personaggio del maresciallo Carmine Dioguardi, anche se avrei
evitato quel sottotitolo evocativo ma solo per catturare il lettore di
passaggio. Sottotitolo che riporto qui per non dargli veste di importanza:
“Un’indagine del maresciallo Dioguardi nel cuore nero della Sardegna”.
Evito
commenti sul cuore nero, e passo oltre. Cioè torno sulla figura di Dioguardi,
campano doc con moglie Ines, trasferito, senza motivi apparenti in quel di
Bonela (luogo fittizio, ma di sicuro, per lo svolgimento della trama, situato
verso Porto Torres). Per tutto il testo, oltre a svolgere l’indagine, Dioguardi
cerca di capire se e come tornare nel continente, e se e come capire modi di
vita dei locali. Per poi nell’ultimo capitolo, battezzato “XXXVI” ma che io
avrei rinominato “Epilogo”, Dioguardi pensionato ripensa alla vicenda. Non si è
mai più mosso da Bonela, ne ha imparato pregi e difetti, ed ora confessa il suo
finale, che per la verità era “cognito” sin dalle prime battute (spero qualcuno
capirà…).
Insomma,
appena insediato il nuovo maresciallo viene coinvolto nella scomparsa e poi
nell’uccisione del piccolo Cosimo Frau. Scomparsa denunciata dalla zia,
Costantina, e ritrovamento in una contrada vicina, sopra un idolo nuragico,
spolpato dagli animali selvatici, con tracce inequivocabili di terra, come se
fosse stato spostato di luogo in luogo a seguito di chissà quali riti (non
certo quello neri del titolo).
Intanto,
visto che le vicende si intrecciano con la nascita del polo industriale di
Porto Torres (il famoso Petrolchimico di Nino Rovelli), siamo agli inizi degli
anni Sessanta. Questo per far sì che si possa parlare di una terra arretrata.
Tant’è che si parla spesso in dialetto (abbastanza riprodotto in italiano, ma non
sempre), e che dal dialetto trae anche il titolo, che tradotto è un detto che
invita ad andare sino in fondo a quanto si sta facendo.
Intorno
al maresciallo, abbiamo la gente di Bonela. Il prete buono, don Melchiorre,
intuitivo che cerca di far progredire la città, e don Mario, il prete cattivo,
di sicuro usuraio e forse anche attratto da gonne diverse da quelle
sacerdotali. C’è la famiglia Frau, dove Natalia, stuprata dal suo datore di
lavoro quando era giovane, decide di andare a Sassari, dove farà “la vita”,
anche se nell’epilogo sembra aver fatto scelte coraggiose. Ma di certo non può
portarsi appresso il figlio della colpa, che lascia in custodia alla sorella
Costantina. Una che invece sembra tutta casa e chiesa, ed anche piena di
momenti visionari che Verde cerca di riproporci purtroppo con scarsi risultati.
Ovvio
che c’è il contorno dei benpensanti cittadini, dal sindaco al farmacista, dal
direttore di banca all’ingegnere del Petrolchimico. Ma tutti messi lì a
riempire qualche vuoto, che sono poco funzionali alle indagini ed allo
svolgimento del libro. Verde cerca in tutti i modi di creare suspense, ma il
tentativo non riesce bene.
Quel
che riesce è forse la descrizione di una certa Sardegna, selvaggia, arcaica,
con i suoi riti a volte non proprio comprensibili, ma di certo con un modo di
rapportarsi internamente alla struttura sociale che dall’esterno è scarsamente
comprensibile. Capiamo la caccia, capiamo le mangiate di terra (che i sardi non
sono gente di mare), ma, personalmente, poco capisco la gente. Un po’ come
Dioguardi, che solo dopo quarant’anni converge con quanto noi si è pensato da
molto tempo.
Ritengo
sempre lodevole chi scrive e chi pubblica, e sono contento che si scriva e si
pubblichi. Del resto, posso anche dire cosa mi piace e cosa no. Questo libro
non mi ha soddisfatto.
Serena
Venditto “Aria di neve. La prima indagine di Mycroft, il gatto detective”
Repubblica Profondo Noir 42 euro 8,90
[A:
12/04/2024 – I: 16/09/2025 – T: 17/09/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2014]
Serena
Venditto è un interessante realtà della scrittura gialla, con all’attivo una
mezza dozzina di titoli, credo, in cui compre, come elemento determinante della
risoluzione dell’intrigo, un gatto. Venditto è ovviamente anche una profonda
conoscitrice dell’universo poliziesco, sia per una serie di citazioni che colgo
in questa prima indagine, sia per il fatto che il gatto, spalla e deus ex
machina dell’avventura si chiama Mycroft. Che tutti sanno essere il nome del
fratello di Sherlock Holmes.
Essendo
la prima avventura, publicata una decina di anni fa, la scrittrice deve
predisporre l’ambiente generale in cui ci si va a muovere. Intanto siamo a
Napoli, che sembra, insieme ai gatti, un must per la scrittrice. Tanto che ad
un certo punto la protagonista che potrebbe vivere ovunque nel mondo, spiega
come Napoli sia il solo posto in cui si sente di vivere. Ed in seconda, anche
se non di colpo, entriamo i contatto con i protagonisti
La
prima è la voce narrante, Ariel, quella che si vive solo a Napoli, laureata
plurilingue con doppio passaporto italo-americano, la incontriamo che viene
appena lasciata da un poliziotto molto antipatico. Subiamo un po’ troppe pagine
della sua crisi esistenziale, prima che la sua datrice di lavoro come
traduttrice la invita a cambiare casa ed andare in un palazzotto con altri
coinquilini. Nasce così la congrega di Palazzo d’Atri, che proprio lì, nel
palazzo degli Acquaviva in via Atri 36 si trasferisce Ariel e conosce i tre
altri inquilini, per non parlar del gatto.
La
più intrigante è Malù, archeologa con la passione del giallo, che di sicuro ha
qualche scheletro nascosto, ma di cui ancora non sappiamo nulla. È però dotata
di mente fina ed occhio attento, che ad un primo sguardo ci narra vita, morte e
miracoli di Ariel. Gli altri abitanti della casa sono Samuel un palestrato
rappresentanti di gelati sardo-nigeriano e Kobe, pianista di talento con
fidanzata agli archi ma a Cremona, che, in un esilarante italiano, fornisce
alla congrega le sue perle di saggezza. Che tra l’altro fornisce il titolo al
romanzo quando dice “Aria di neve, certo. Quando tu sai che qualcosa accadrà no
perché qualcuno ti dice, ma perché senti profumo diverso intorno a te.”
L’ultimo
inquilino è ovviamente Mycroft gatto nominalmente di Malù ma in pratica padrone
di tutta la casa (composta da quattro stanze da letto, un bagno ed un luogo
comune con cucina) e che, sornione come i gatti di ingegno, quando c’è da
intervenire lo fa con miagolii ed appostamenti che permettono a Malù ed ai suoi
di risolvere l’intricato giallo.
Nel
palazzo, ma non nella casa, è poi presente la professoressa Mariella in
pensione, che controlla chi frequenta il Palazzo, sottoponendo gli sconosciuti
a domande in latino, oppure a quesiti di storia o di letteratura, fornendoci
altri esilaranti momenti di lettura (ovviamente insieme alle sparate di Kobe
verso la fidanzata lontana).
Comunque,
una volta conosciuti i personaggi, pensando che ne incontreremo in altre
avventure (ho già altri tre libri della scrittrice in biblioteca), possiamo
dedicarci alla parte gialla, che tuttavia non è così difficile da risolvere,
pur impostata con dei buoni propositi ed anche misteriosi. Si tratta di capire
se la morte della cantante messicana Teresa sia omicidio o suicidio.
Teresa
è un personaggio solare che sforna dolci meravigliosi. È messicana, ma si è
innamorata di un napoletano di qualche anno più vecchio. Al ritorno da un lungo
viaggio in patria, misteriosamente viene trovata impiccata in una stanza
chiusa. Non ci sono elementi per supporre intrusioni misteriose, che Mariella
non ha notato nessuno nell’ora del delitto.
Veniamo
però a sapere che Teresa era insofferente della vita angusta che stava vivendo.
Il marito le aveva promesso viaggi e bei momenti, ma tutto finito ben presto.
Vorrebbe figli, cosa che il marito non vuole. Ha degli amanti, di cui, forse,
rimane in cinta. Ma soprattutto vorrebbe tornare in Messico. È ovvio che ben
presto la cerchia di possibili assassini si restringe tra il marito e l’amante.
Anche perché, con l’aiuto di Mycroft, si capisce il meccanismo dell’omicidio.
Strangolamento, mascherato da impiccagione, con un trucco ingegnoso (unico
elemento veramente divertente della parte poliziesca) per trasformare
l’omicidio in un delitto della camera chiusa.
Ovvio
che Malù, Ariel e Mycroft risolveranno il caso, e noi ci sposteremo alla
seconda puntata.
Un
cozy crime, di leggerezza in lettura e di buona resa nel contorno, tanto che ho
alzato, seppur di poco, la benevolenza nei confronti del libro. Vedremo i
prossimi.
Gaetano
Savatteri “I colpevoli sono matti. Quattro indagini a Màkari” Sellerio euro 15
(in realtà, scontato a 14,25 euro)
A:
15/02/2022 – I: 19/10/2025 – T: 21/10/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 275; anno: 2022]
In
concomitanza con la quarta serie televisiva delle avventure a Màkari, finisco
di leggere l’ultima antologia di Savatteri presente nella mia biblioteca. Non
ci sono tutte le avventure di Lamanna, che spesso escono nelle antologie
annuali di Sellerio, ma con questi quattro racconti diamo una bella sistemata
all’autore ed alla serie. Con una constatazione immediata: lo scritto è
decisamente superiore alla realizzazione televisive. Non perché Claudio Gioé,
Domenico Centamore ed Ester Pantano non siano di livello (onesti e degnissimi
attori), ma penso sia la sceneggiatura, capeggiata da Leonardo Marino, che non
tenga il passo delle idee di carta di Savatteri.
In
questa antologia sono presenti quattro racconti, editi in vario modo tra il ’17
ed il ’19, per poi essere radunati in volume da Sellerio l’anno successivo. Da
notare che il secondo racconto venne anche preso come base del primo episodio
della serie televisiva, mentre gli altri tre fanno parte degli ultimi tre
episodi della terza serie. E per rimanere in tema di raffronti, quello che
subito si nota è l’accento che la televisione pone sulla parte gialla. Non che
sia particolarmente attraente, ma negli scritti, spesso, omicidi ed indagini
sono a volte accennati, quando non volutamente ignorati.
Anzi,
diciamo subito che questa antologia è decisamente diversa dalla televisione.
Nel primo episodio, il serial cambia un interessante viaggio a Praga con un
soggiorno presso una spa; inoltre viene aggiunto un morto che il testo non
prevede, laddove ci sono solo elementi spionistici. Nel secondo, il morto c’è,
ma è solo in tv che si costruisce una complessa ipotesi di morte accidentale,
che nel testo viene data per assodata e quasi ignorata. Infine, nel terzo e
quarto racconto non ci sono proprio i morti, ma solo elementi letterari, di
interesse maggiore per me.
Comunque,
per i meno addentro alle trame di Màkari, ricordo che abbiamo il personaggio
principale, Saverio Lamanna, un tempo addentro alla bella vita politica romana,
ora ritiratosi nella Sicilia avita, con scrittura di libri di buon successo.
Sua spalla il “comico” Peppe Piccionello, spesso fuori misura, ma buon aiuto e
spesso con uscite risolutive. Non manca l’amore con la bella Suleima, giovane
architetta non si sa in base a quale alchimia innamoratasi di Saverio.
Tre
testi li avevo già recensiti, e ne riporto alcuni elementi salienti.
“La
segreta alchimia” [15-96] era contenuto in “Viaggiare in giallo".
Essendo
una delle prime uscite del buon Saverio così scrivevo: “Conosciamo Saverio, il
“disoccupato d’oro”, la sua corte di svitati siciliani di San Vito lo Capo, la
sua dolce metà lontana Suleima. E ci immergiamo in una fantastica escursione
nella Praga kafkiana. Con voli Ryanair (stranamente puntuali), signorine di
bell’aspetto, segreti industriali. Ma soprattutto Saverio, la sua souplesse, il
suo modo di vedere la città cui da tanto ormai si manca, il suo stare con
Suleima. Beandoci alle improvvide uscite del suo amico Peppe (l’infradito per
Mala Strana è da ricordi ancestrali, su cui torneremo). L’intrigo qui è
veramente poco significativo, se non per qualche risvolto da spionaggio
internazionale. Ma il personaggio intriga.”
“I
colpevoli sono matti” [97-154] era contenuto in "Un anno in
giallo".
Fu
la mia prima lettura del mondo di Lamanna. Ne seguiamo l’arrivo in quel di
Màkari, le conoscenze e gli avvicinamenti con Peppe e Suleima. C’è la scomparsa
di un bambino, ritrovato morto in un pozzo ed un anziano non proprio in
sintonia con la testa che si accusa della morte. Ovvio che Saverio smonta
l’ingenua falsità, pur non arrivando a decrittare la morte, se non facendoci
capire che dovrebbe (ma in che modo?) essere accidentale. Ed io chiosavo: “Mi
intriga questo Saverio Lamanna con i suoi arzigogoli (mitico quando interrompe
il lavoro di pittura non pagato per l’amica Marilù adducendo come scusa: “Devo
andare a rileggere ‘Salario, prezzo e profitto” di Marx). La storia inoltre
regge abbastanza”
“La
città perfetta” [155-208] è uscito come racconto a sé nella collana di
Repubblica “Italia in giallo”.
Ne
scrisse abbondantemente, ma vi riporto solo la parte saliente che riguarda la
descrizione ambientale e la parte artistica: “Qui, l’ambiente è forse la cosa
migliore. Che tutto si svolge a Gibellina, sia vecchia che nuova. E soprattutto
nella valle (terremotata) del Belìce. Inciso: ebbene sì, questa è la pronuncia
corretta, derivante dal fiume che gli arabi chiamavano “U-Bilìk”. E da sempre,
i locali mettono l’accento sulla “i”. Fu colpa della RAI, nel ’68, ai tempi del
terremoto, che mandando incolti giornalisti sul posto, questi cominciarono a
pronunciare il nome all’italiana, con l’accento sulla “e”. Potenza dei media,
ora quasi nessuno chiama i posti con il nome corretto.
Il
“giallo” tra molte virgolette, è la scoperta poco dopo della scomparsa dal
museo cittadino di uno dei pezzi pregiati: un arazzo di Boetti. Non entro nella
descrizione né delle opere di Alighiero e Boetti (così si firmava l’autore), né
nella bellissima presentazione del “Cretto” di Burri che ci fa Suleima. Altri
esperti d’arte migliori di me ne possono e ne devono parlare.
Qui
torniamo al filo del discorso: furto, indagini di Saverio, qualche evento
collaterale, ma questa parte, che serve a giustificare la “giallosità” del
racconto, è inessenziale. Mentre è più coinvolgente tuta la discussione sulla
ricostruzione, sullo spostamento della città nel nuovo sito, sulla tristezza
delle vie vuote di vita della nuova Gibellina, sulle possibilità, purtroppo non
sfruttate, dei regali artistici presenti. I Burri, i Boetti ma anche Fausto
Pirandello, De Pisis, Rosai, Guttuso, Carla Accardi, Mario Schifano. Un
patrimonio di arte contemporanea di assoluto valore. Ma il Museo è spesso
chiuso, tanto che anche nella mia ultima visita non sono riuscito a visitarlo.”
Questo è l’unico che non avevo letto, e nel
testo non c’è un assassinio né un morto, ma una discussione sulla possibile
sussistenza di plagio in un’opera di Saverio, che viene sventata abbastanza
velocemente. Il bello è l’ambientazione in un salone del libro, il gioco verso
autori di gialli che ben conosciamo, e che interagiscono con Lamanna. Ma due
sono poi gli elementi migliori. Il primo è il dibattito di meta-finzione, in
cui Piccionello viene intervistato in quanto co-protagonista degli scritti di Saverio.
E qui Savatteri ben si spende in un gioco di specchi tra la realtà e la sua
descrizione in un libro che riporta una finzione che nella finzione è reale.
Il secondo elemento deriva dalla struttura
da cui nasce il testo. Sellerio, infatti, per un suo evento celebrativo, aveva
chiesto ad alcuni suoi autori di collegarsi ad uno dei libri della casa
editrice. Ora, Saverio per far confessare ad un giudice la poca attenzione in
un processo per tangenti ricorre al meraviglioso “Il procuratore della Giudea”
di Anatole France. Ne fa una piccola parafrasi, che dovete leggere. E ci
ricorda la chiusa. C’è Lamia, un senatore romano, che in un simposio invita
Ponzio Pilato, ex-procuratore nella Giudea. Lamia si ricorda di una giovane
donna che lo aveva colpito ed il racconto così finisce (traduzione mia):
“Un
giorno è scomparsa e non l'ho più vista. L'ho cercata a lungo nei vicoli e
nelle taverne sospette. … . Dopo alcuni mesi dalla sua perdita, venni a sapere,
per caso, che si era unita a un piccolo gruppo di uomini e donne che seguivano
un giovane taumaturgo galileo. Il suo nome era Gesù; era di Nazaret e fu
crocifisso per non so quale crimine. Ponzio, ti ricordi di quest'uomo?
Ponzio
Pilato aggrottò la fronte e si portò la mano alla fronte come uno che scruta
nella sua memoria. Poi, dopo qualche istante di silenzio:
"Gesù?"
mormorò “Gesù di Nazaret? Non mi ricordo”.
Superba
meta citazione.
Mi
mancano solo un ricordo prima di chiudere questa forse troppo lunga trama. Un
ricordo di un racconto sulle infradito a Praga. Me ne parlò il mio amico
Massimo che, tornando da Cuba con un volo disastroso, fece tappa a Praga, dove
sbarcarono studenti cubani in trasferta di studio in Europa. Era febbraio, e
loro sceso dall’aereo in infradito e con quelle camminavano nella neve
invernale. I Piccionello degli anni Ottanta.
Infine,
Savatteri mi continua a piacere, e continuerò a leggerne, anche se l’ultimo
libro (ne ho già parlato) è in minore. Ma queste sono prove veloci e d’annata.
E sono delle buone prove.
Enrico
Franceschini “Ferragosto” Repubblica Essenza Noir 10 euro 8,90
[A:
30/08/2022 – I: 05/11/2025 – T: 07/11/2025] &&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 313; anno: 2021]
Secondo
episodio delle avventure del giornalista in pensione Andrea Muratori detto Mura
scritte dal suo alter-ego, il giornalista in pensione Enrico Franceschini. Ho
già parlato, ed anche decentemente bene, del primo episodio (per i meno attenti
“Bassa marea”, tramato a giugno del ’24). In attesa del terzo (che prima o poi
si leggerà), parliamo di queste avventure molto estive di Mura e dei suoi
sodali.
Ricordo
infatti che, oltre a Mura che poi è il motore primo delle azioni, ci sono al
contorno Danilo Baroncini detto Barone, primario ospedaliero con la sua
girlfriend brasiliana Raffa, Pietro Gabrielli detto Professore, bibliotecario
con la sua eterna fidanzata Carla, Sergio Baldazzi detto Ingegnere, di
professione tuttologo con Mari, la sua morosa, e c’è Caterina detta Cate,
giornalista corrispondente di guerra, nonché “scopamica” di Mura. E sebbene
tutti loro entrano ed escono dalla trama, in fondo servono solo per quelle
azioni corali, che trapuntano di ironia il testo. Ricordo, per precisione, che
il lume tutelare dei nostri è il conte Lello Mascetti, interpretato da Ugo
Tognazzi in Amici miei. E non serve dire altro.
La
storia, al solito, si svolge a Borgomarina, lì sulla Riviera Romagnola, tra
Rimini e Riccione, dove Mura ha deciso di passare la sua vita da pensionato. E
dove le avventure non le va a cercare, ma lo trovano loro. Così, dopo che
assistiamo alla poco onorevole morte del fotografo Montanari, Mura viene
investito da un doppio incarico, nel suo ruolo di investigatore dilettante.
Josephine, la moglie brasiliana del fotografo, lo ingaggia affinché smonti le
accuse che Giorgio, il figlio del fotografo, monta verso di lei.
Dalle
chiacchiere da spiaggia, viene poi incaricato dalla prosperosa Stefi di capire
se il marito le mette le corna. E qui, abbiamo gli intrecci che, nel mondo
lontano dalla carta, si vedono poco, anche se forse ci sono. Mura, pedinando il
fedifrago, trova che lui tradisce la Stefi, ma non con altre donne, bensì con
Trudi, un (una?) trans brasiliano (brasiliana?). Trudi di cui pare
innamoratissimo Giorgio che, sentite conversazioni riservate del padre, è
sicuro di riscattare la sua poco brillante vita con il ritrovamento di un
grande tesoro.
Tesoro
di cui il fotografo parlava con dei suoi sodali fascistoni. Tesoro che Mura
capisce possa riferirsi a qualche strascico delle diverse attribuzioni
economiche di uno che quei luoghi ben frequentava, tanto da averci fatto una
villa. Ed è proprio questa, forse, la parte migliore. La storia di Villa
Mussolini e del tesoro (o dei tesori) del buon Benito. Franceschini fa una
lunga, ed interessante, digressione sul “tesoro di Dongo” (vi invito a leggerne
anche in rete, che è molto interessante), sulle ultime ore di Benito e
Claretta, nonché sulle corrispettive ore di tutta una serie di personaggi che
gravitavano lì intorno: Walter Audisio “Colonnello Valerio”, Luigi Canali
“capitano Neri”, Giuseppina Tuissi “Gianna” (e dovrete contare quante morti
senza colpevoli ci saranno).
Mura,
alla fine, risolve tutto, pur correndo alcuni pericoli (cosa che non guasta mai
in questo tipo di trame). Certo non trova l’oro di Dongo, ma ci fa fare un
viaggio immaginario nel tesoro di Rachele, ritrovandone tracce tra
Montecorduzzo e Melbourne. Scopre sia il vero che il falso assassino del
fotografo (con un passaggio alla Simenon in bilico tra verità e giustizia).
Smaschera le piccole trame di Stefi e del marito. Finendo in bella compagnia
per il pranzo di Ferragosto. Intessendo piccole e grandi trame che, per gli
over Cinquanta, hanno il sapore di un tuffo benefico nel passato.
Certo,
Franceschini è uomo che ha girato e conosce il mondo, oltre ad essere un bravo
giornalista. Per cui, nelle trame della trama, inserisce anche momenti di
riflessione. Non solo sull’oro di Dongo di cui sopra, ma sui trans, sui viados,
sui pedalò e sui pattini (accento sulla i mi raccomando). Non è di sicuro per
la trama gialla che si faranno ricordare i suoi scritti, ma per un buon
intreccio di avventure e di ricordi, che tanto mi hanno fatto riflettere in
lettura.
Ed
in effetti, alla fine bisogna dire altre due cose. La prima è l’inserzione, nel
corso delle parti più distese della trama, di rimandi cinefili che farebbero
felici i miei cugini. La seconda è la colonna sonora che il Prof fornisce a
Mura per punteggiare la sua trama. Che questa volta è dedicata alle canzoni
balneari (riporto in coda la playlist), che mi hanno trasportato al Bar
Conchiglia di Tortoreto Lido per le mie lunghe estati giovanili. In più, fuori
dalla playlist, a pagina 249 si cita un verso di una canzone di un duo che per
me È (maiuscolo d’obbligo) la mia estate.
Si
tratta (è qui di sicuro qualche cugino si alzerà dal divano) di “Ho scritto
t’amo sulla sabbia” di Franco IV e Franco I, dal “Disco per l’estate 1968”.
Per
quanto riguarda la cinefilia, tutto potrebbe essere ok, meno una discussione
che ormai è infinita sulla frase “Hai una pistola in tasca o sei semplicemente
felice di vedermi?”. La disse veramente Mae West o è solo un “rumors” che si
tramanda? Pare che in realtà Mae West negli anni ’40 abbia detto “È una spada
quella o sei felice di vedermi?”. Quindi, rispetto alla battuta di pagina 60,
io rispondo con la citazione relativa alla città di Liegi: “Città nota per la
pronuncia dei suoi abitanti. La C dolce viene infatti comunemente chiamata la C
liegina”. E vediamo chi la conosce…
“Non
sei vecchio, sei solo un po’ vintage.” (11)
Antonio
Manzini “Sotto mentite spoglie” Sellerio euro 17 (in realtà, scontato a 16,15
euro)
A:
04/11/2025 – I: 15/11/2025 – T: 17/11/2025] &&&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 546; anno: 2025]
Potevamo
mancare di comprare, leggere e tramare subito l’ultima avventure del
vicequestore Rocco Schiavone? Certo che no. E come direbbe il nostro, ‘sti
cazzi!
Decisamente
in risalita dopo le ultime prove. Anzi, direi, dopo aver toccato il fondo con
“Riusciranno…”, ogni nuovo episodio sale di un gradino sopra il precedente.
Forse questo è al solito un po’ lungo, specie nella prima parte? Forse. Forse
la fine è al solito troppo veloce? Forse. Forse che nelle ultime pagine si
respira aria di un futuro nuovo episodio? Certo. Tuttavia il risultato finale è
stato gradevole. Mi domando solo, pur se ha un suo senso, perché sia stato
utilizzato un titolo già presente non solo nel mercato letterario italiano (due
raccolte di racconti, una di Angela Ferranti ed un’antologia curata da Ernesto
Chiabotto), ma, peggio ancora, già usato in un film di scarso rilievo del 2007,
per la regia di Vincenzo Salemme, interpretato da lui stesso, Giorgio
Panariello, Lucrezia Lante della Rovere e Luisa Ranieri.
Certo,
come detto, il senso globale è ben presente nel titolo. Ci sono persone che si
travestono e non vengono riconosciute, ci sono opere truffaldine mascherate da
altro, ci sono, infine, sentimenti che si nascondono sotto diversi strati di
menzogne autoinflitte.
Devo
dire che, nonostante alcuni suoi limiti, la parte personale del testo mi è
risultata più gradevole. Ci sono vari siparietti tra Michela ed il marito, tra
Rocco e Sandra, tra Baldi e Sara, tra Rocco e Caterina, tra Rocco, Brizio e
Furio, tra D’Intino ed il resto del mondo, che, chi più chi meno, si leggono.
Soprattutto, ho apprezzato la scomparsa, spero definitiva, dei corsivi di
Marina. Caro Rocco, ormai il lutto dovresti averlo elaborato. Allora, certo, la
donna unica del tuo cuore sarà sempre lei. Ma bisogna pur vivere (come diceva
Battiato, “Bisogna pur che il corpo esulti”) ed il piccolo romance con Cleo non
ci dispiace. Forse solo D’Intino eviterei di portarlo troppo avanti. Non è un
emulo di Catarella, ed allora tanto valeva avvicinarlo a casa.
Per
farla breve, da questo lato: Sandra si trasferisce con il suo uomo a Torino,
ora che si è ripresa dai problemi dell’episodio precedente; continuano le
vicende tranquille di Deruta con Federico e di Ugo con Eugenia (e per fortuna
che c’è l’ottimo figlio Carlo); così come procedono le coppie storiche (Michela
e l’anatomopatologo) e se ne formano di nuove (Baldi e l’archeologa). Rimane
appunto Rocco, che ha sempre Marina nel cuore, che poteva buttarsi con Sandra,
ma non lo ha fatto, e che potrà continuare il suo piccolo cabotaggio di
scopamicizia.
Ben
più complicata è la trama gialla, anche perché comincia con una rapina che si
allunga per cento pagine, ed uno si chiede: è tutto lì e mo’ che si fa per il
resto del libro? Oppure, e questo sarà a lungo il mio pensiero, visto che il
resto è dedicato ad altro, che c’entrano quelle prime cento pagine? Forse solo
a prevedere un primo episodio della nuova serie televisiva?
In
ogni caso, c’è una rapina in banca, con tanto di ostaggi, dove i rapinatori
escono travestiti ad uno ad uno (sono tre) come fossero gli ostaggi liberati
perché in cattive condizioni di salute. Prima il capo, travestito da donna con
i diamanti sotto il cappotto. Poi i due ragazzi simulando un attacco di
diabete. Quando si accorge dell’inganno, saranno giorni e giorni di sfottò per
tutta la squadra di Schiavone. I risultati di questa parte di indagine saranno
presto acclarati, e noi li dimentichiamo subito (o meglio, ve li leggete da
soli).
Quello
che serviva della rapina è che una persona che scompare subito dopo aveva una
cassetta di sicurezza nella banca, dove si era recato subito prima della
rapina, mentre il balordo che lo pedinava non aveva fatto in tempo ad uscire
dalla banca, in quanto diventato subito ostaggio della rapina di cui sopra. Con
l’unico risultato che la sua auto, messa in strada un po’ alla buona, subisce
qualche ammaccatura inaspettata.
Perché
il filo duro e puro delle indagini porta Rocco ad indagare sulla morte di un
polacco, fatto affogare in un laghetto lì intorno con cento chili di zavorra da
palombaro ai piedi. Il polacco era stato visto spesso con tal Stefano di
professione procuratore calcistico, con un vivaio di possibili talenti in
Senegal. Ma il business del polacco era legato ad un chimico che sfruttando la
sua posizione in un’industria farmaceutica valdostana, pare abbia un suo
tornaconto segreto producendo e/o sintetizzando sostanze la cui natura andrà
scoperta.
Saputo
della morte del polacco, il chimico come detto sparisce e Stefano, al momento
in Senegal, risulta irreperibile. Il brodo delle ricerche di Schiavone e soci
si allunga per tutte le ulteriori quattrocento pagine del testo, alla fine del
quale scopriamo che: il chimico è in combutta con il polacco ed altri chimici
dell’azienda per la produzione di quelle sostanze che il polacco e Stefano
utilizzeranno in qualche modo. Ma al contorno, qualcuno, forse allertato dal
fatto che la sperimentazione in Senegal ha prodotto qualche risultato nefasto,
si vuole introdurre nel business. Anche con le maniere forti. E, laddove la
banda del chimico non ceda, intanto fanno fuori il polacco.
Tante
saranno le strade che si incroceranno lungo la via, e Manzini, purtroppo,
qualche via se la dimentica per strada. Certo, il nucleo del risultato sarà
palesato alla fine (anche con piccola sparatoria, senza però le conseguenze di
quella famosa che costò un rene a Schiavone), pur se con la solita eccessiva
velocità. Ma rimarranno in sospeso le questioni sul ruolo della cassiera e del
direttore della banca, su come e quando Stefano e forse il chimico torneranno
dal Senegal, sulle decisione che l’azienda prenderà nei confronti dei suoi
dipendenti un po’ troppo allegri.
L’obiettivo
minimale di Manzini questa volta era lanciare un piccolo sasso nello stagno
delle vicende dei procuratori calcistici, lancio riuscito, e di prevedere uno
sviluppo meno problematico per il futuro di Rocco, e qui non ci siamo.
In
fondo poi, dopo che per tutto il romanzo, veniamo martellati dalla promessa di
un arrivo nuovo per aumentare il peso della squadra di Rocco, e vedendo questo
arrivo relegato nelle ultime tre pagine, è facile deduzione che, prima o poi,
uscirà un nuovo episodio.
Termino
con un piccolo inciso personale. Ad un certo punto, Rocco ricorda che da
ragazzo amava leggere le strisce di fumetti di “Beetle Bailey”. Ebbene, le
leggevo anche io, ed ho anche tre Oscar Mondadori con quasi tutte le strisce
pubblicate in Italia, corredate da una suntuosa introduzione di Oreste del
Buono. Grande Rocco!
Prima
trama dell’ultimo mese, che ci riporta alle letture di quell’ottimo mese di
settembre allietato da una superba fuga marsigliese. Per questo abbiamo “solo”
sedici letture, guidate da un saggio inaspettato di Marco Malvaldi e dalla
scoperta di nuovi personaggi con l’inglese Simon Mason. Là dove chiude la
classifica un’illeggibile giallo di Tana French.
|
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
|
1 |
Anne Perry |
Morte a doppio taglio |
Mondadori |
6,90 |
2 |
|
2 |
Ayu Utami |
Le donne di Saman |
Repubblica Voci d’Oriente |
9,90 |
2 |
|
3 |
Anne Perry |
Sia fatta vendetta |
Mondadori |
7,90 |
2 |
|
4 |
Nunzia Scalzo |
La regola dell’ortica |
Feltrinelli |
15 |
2,5 |
|
5 |
Marco Malvaldi |
Se fossi stato al vostro posto |
Raffaello Cortina Editore |
21 |
3,5 |
|
6 |
S. J. Bennett |
Il nodo Windsor |
Repubblica Noir |
8,90 |
2,5 |
|
7 |
Mario Tobino |
Il clandestino |
Repubblica Resistenza |
7,90 |
3 |
|
8 |
Sarah Savioli |
I selvatici |
Feltrinelli |
12 |
2,5 |
|
9 |
Milena Palminteri |
Come l’arancio amaro |
Bompiani |
20 |
2,5 |
|
10 |
Serena Venditto |
Aria di neve |
Repubblica Profondo Noir |
8,90 |
3 |
|
11 |
Isabel Allende |
Ritratto in seppia |
Repubblica |
9,90 |
2,5 |
|
12 |
Cristina Cassar Scalia |
Delitto di benvenuto |
Einaudi |
19 |
3 |
|
13 |
Csaba dalla Zorza |
La governante |
Marsilio |
s.p. |
2 |
|
14 |
Tana French |
Il rifugio |
Corriere Noir |
8,90 |
1 |
|
15 |
Hideo Yokoyama |
Sei quattro |
Corriere Giappone |
8,90 |
2 |
|
16 |
Simon Mason |
Il caso Poppy Clarke |
Sellerio |
16 |
3,5 |
Per questa volta, anche nelle citazioni,
rimaniamo in Italia, seppur lontano dai gialli. Il primo autore, non notissimo
psicanalista genovese, mi ha sempre incuriosito, pur essendo anni che non lo
ritrovo in libreria. Ma in un lontano “Vorrei che fosse lei” cosa
Lorenzo Licalzi sintetizzava un ben presente atteggiamento
maschile:
“Fin
dalla prima adolescenza, vuoi per il naturale sviluppo ormonale, vuoi per una
certa predisposizione genetica … le donne e il sesso furono al centro dei miei
pensieri, ma non fu per niente facile far sì che i pensieri si trasformassero
in azioni … Furono anni di appostamenti e di approcci maldestri. Di sguardi
obliqui o penetranti. Furono anni di domande idiote o mutismi assoluti. Furono
anni di brutte figure, di situazioni imbarazzanti, di metaforiche ma
dolorosissime bastonate.” (45)
C’è poi invece il ben noto, ma che non sempre
mi ha convinto Giuseppe Pontiggia
con alcune considerazioni estratte
da “Nati due volte”:
“Quanti dialoghi dovrebbero
svolgersi in tempi diversi. Occorrono talora anni per dare … le risposte
adeguiate.” (28)
“- A cosa pensi? – A niente –
mento (come sempre, quando si risponde così)." (57)
“Ammettere i propri errori è
anche il primo alibi per ripeterli.” (65)
“Riluttiamo ad accettare,
ingigantiti negli altri, i difetti che temiamo di avere.” (52)
Arrivati a questo punto sciogliamo il giallo del titolo, dove vi sarete chiesti il perché della parafrasi di Calvino, visto che non sono uno scrutatore. Ma non vi addormenterò narrandovi dei miei giorni. Solo evidenziando i momenti che dedico alla lettura ed alla scrittura, per comprendere come, da pensionato, indirizzo parte delle mie giornate. Nei giorni di vita normale, si legge dalle 6 alle 7. Poi dopo altre faccende di cui non vi interessa, si scrive dalle 11 alle 13. Anche il pomeriggio è scandito da letture, dalle 14 alle 16, e da scritture, dalle 19 alle 20. La sera, se non ci sono avvenimenti personali o familiari o convivialmente televisivi (pochi quest’ultimi) si continua a leggere e pensare. È così che si legge e si scrive tanto, perché, e lo sappiamo, “chi legge è un viaggiatore”. Ed io viaggio nello spazio e nelle parole. Senza però mai dimenticare di mandarvi un grande abbraccio.
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