domenica 26 gennaio 2025

Torna la montagna - 26 gennaio 2025

 Avendo percorso tra dicembre e gennaio un buon numero di letture montuose, questa settimana la dedichiamo all’esimia collana di Repubblica. Che tutto sommato è stata discretamente deludente. Come in questa cinquina, mai elevatasi oltre una sufficienza di molto incoraggiamento e sprofondata con una prova poco leggibile di Paola Cosolo Marangon. Non ci meravigliamo quindi che le letture migliori vengano da autori collaudati con Nico Orengo e Marco Vichi.

Max Solinas “Il lupo e l’equilibrista” Repubblica Montagna 19 euro 9,90

[A: 24/07/2021 – I: 14/09/2024 – T: 15/09/2024] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno: 2019]

Max Solinas è uno scultore che vive in un borgo veneto, dedito alle sue (apprezzate) scultore devote alle figure femminili, accompagnato da Arja, la sua lupa cecoslovacca con cui divide i suoi giorni. Giorni che a volte decide di dedicare alla scrittura, producendo alcuni discreti libri di ambiente pedemontano e naturalista. Tra questi, decide di trasfondere il suo incontro con il selvaggio animale, in una favola che non è autobiografica nella trama quanto nell’idea di base: incontro e costruzione di un rapporto tra l’uomo e l’animale.

Nasce così questo racconto, in cui seguiamo la maturazione verso qualcosa, che non vediamo all’inizio, di Chris, alter ego del nostro scrittore.

Chris ha da sempre vissuto in montagna e per la montagna, di cui conosce ogni curva, ogni sasso, ogni salita ed ogni discesa. Eventi dolorosi l’hanno costretto a distaccarsi dal quotidiano montano. Ed altre decisioni, per poter vivere, lo portano spesso in giro per il mondo al fine di sponsorizzare gli articoli di un’azienda che lo paga per delle arrampicate acrobatiche con indosso i propri prodotti. Un lavoro di certo molto redditizio, ma poco gratificante.

Con l’unica soddisfazione che, dopo un viaggio lontano, può tornare alle sue terre dove lo aspetta la sua compagna, Francesca, veterinaria e di un’empatia unica verso gli animali, soprattutto quelli feroci e problematici. Al ritorno di uno di questi viaggi, sempre più insoddisfatto, Francesca gli fa trovare una sorpresa.

Un circo della zona con numeri appunto da circo con animali di diverso genere deve trovare il modo di sbarazzarsi di un lupo che, non riuscendo ad avere un sano rapporto con il suo domatore, gli ha mostrato i denti, segno di una potenziale e pericolosa aggressività. Il lupo, dopo quel gesto, ha come perso la fiducia nel mondo degli umani, e sembra voler lasciarsi morire di fame non trovando nessuno spunto per restare al mondo.

Una morte che Francesca vorrebbe evitare, e trova che l’unico modo possibile sia stabilire una connessione tra Chris e il lupo. Una connessione che sembra scattare al primo sguardo, che Chris rimane ammaliato dal lupo. Ma che il lupo non sembra ricambiare, avendo da attraversare lunghi momenti di riconquista della fiducia. Una fiducia che, tuttavia, anche Chris non sa come suscitare.

Federica deve correre verso altre cure, e lascia Chris e il lupo a trovare il modo di comunicare. Vediamo così e seguiamo il percorso dell’uomo che osserva a lungo il lupo, fermo in un angolo della gabbia senza aver voglia né di muoversi né di mangiare. Vediamo Chris preparare ciotole di cibo, che, con lentezza, ma con una discreta costanza, avvicina al lupo. Che rimane diffidente, poi sembra addolcire lo sguardo, anche se non mangia mai con umani vicini.

Tuttavia, il filo tra i due si comincia a dipanare, e noi seguiamo questo filo, seguiamo il cammino delle due entità che, mute e guardinghe, trovano il loro modo di comunicare la reciproca solitudine e la reciproca fiducia. Fino a che, Chris non decida che sia arrivato il momento decisivo. Andar per la montagna con il lupo, in un cammino che lo porti per alcuni giorni lontano da tutti, solo lui ed il selvaggio animale. Se si è stabilita la connessione, si vedrà solo se torneranno insieme e rispettosi delle proprie sfere.

Vediamo così questo percorso, felice, di un uomo che parte alla ricerca di sé stesso e di un lupo che gli insegna a guardare la realtà con uno sguardo diverso e che impara da Chris che esistono anche uomini di cui si può avere fiducia.

Ho apprezzato in Solinas la minuziosa descrizione dell’ambiente montana, e quel progressivo aumento della fiducia reciproca, attraverso l’uso di un elemento spesso poco apprezzato, la pazienza. Purtroppo, pur salendo per monti e scendendo per valli, il tono generale rimane un po’ da altopiano, senza grandi coinvolgimenti. Un libro che passa presto, lasciando piccoli echi di memoria. Ed una grande frase sul rapporto con i libri che faccio senz’altro mia.

“Ogni libro mi ha insegnato qualcosa, soprattutto quelli che non mi sono piaciuti, e non perché fossero scritti male, ma perché evidentemente non era il momento giusto di affrontarli: a loro rendo il merito di avermi fatto capire da che parte andare. Del resto, io sono la somma di tutti i libri che ho letto e di ognuno ho conservato una parola, una frase.” (172)

Nico Orengo “Di viole e liquirizia” Repubblica Montagna 9 euro 9,90

[A: 13/05/2021 – I: 05/10/2024 – T: 06/10/2024] && e ½     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno: 2005]

Pur avendone sentito parlare, in particolare ricordo un commento positivo di mia madre su di un suo libro ambientato in Liguria (purtroppo non ricordo quale), non avevo mai letto nulla del marchese Nicola Orengo detto Nico. So che lavorò a lungo in Einaudi e fu a lungo responsabile di quell’esimia pubblicazione che tratta di libri com’è tuttora “Tuttolibri” supplemento de “La Stampa”. Questa prova conferma la presenza di una bella penna, di una buona idea narrativa, anche se, nel complesso, è stata una lettura discreta ma non esaltante.

Buona in particolare per l’aspetto geografico, dove facendo centro nella città di Alba, ci si sposta su e giù per le Langhe, attraversando vigneti e discettando dei vini piemontesi, che è sempre una buona cosa. Meno coinvolgente nella parte narrativa, anche se la storia di Daniel Lorenzi prende abbastanza e ci si appassiona alla sua passione.

Daniel è un sommelier francese immotivatamente appassionato dei vini piemontesi. Su invito di Amalia, proprietaria dell’enoteca “Tastevin” viene a tenere un corso di degustazione sui Grandi di Francia, intesi come vini esimi dei nostri cugini. Daniel viene da un lungo divorzio doloroso, con una ex che continua a rimproverargli di tutto, e con una figlia ventenne da poco uscita da qualche grosso problema di droghe, ed in cerca di arie nuove.

In quel di Alba, il nostro si imbatte nei problemi di Amelia, legati alla cascina di famiglia, “La Ginotta”, che sarebbe perfetta se qualcuno si curasse di seguire il Barbaresco che potrebbe esservi prodotto. Ma Amelia ha un pessimo ricordo della cascina, legata ad un doloroso episodio che a suo tempo portò alla morte del padre. Un ricordo condiviso, ma non con la stessa tensione, con il fratello Giulio, che a partire da quel lontano episodio sviluppa un rapporto di amore e odio con la sorella.

La presenza di Daniel, cui da subito Amelia sembra avere una piccola propensione, scatena il malessere di Giulio, che in una serata maldestra, perde a poker la sua metà della cascina. E non con una persona qualsiasi, ma con lo squallido Baravalle, un rozzo vignaiolo che da tempo voleva tutta la tenuta e che si comporta nella sua metà con fare strafottente e molto sopra le righe.

Dopo vari giri e rigiri, gradevoli per quel vagabondare per le terre e per le persone che si incrociano, bisognerà arrivare ad una resa dei conti finale. Dove Daniel si batterà sfidando il Baravalle in una degustazione cieca di vini locali, in cui Daniel non solo deve riconoscere il vino che sta degustando, ma indicarne l’annata e la cantina di provenienza. Una sfida tremenda, che io, da degustatore dilettante, trovo assolutamente insensata. Ma Orengo la descrive e ce ne fa partecipi in modo gradevole e coinvolgente.

Riuscirà Daniel a vincere la sfida? Riuscirà al fine a tagliare i cordoni con la ex moglie e ad aprirsi verso Amelia, cui non vediamo che anche lui ha un coinvolgimento non banale? Piccoli dettagli che lascio alla benevolenza di possibili lettori.

Io torno su alcuni dettagli. Altri attori della trama, ad esempio. Il simpatico Lorenzo, un taxista che scarrozza Daniel in lungo e largo per il territorio, e che, in controtendenza con i locali, beve soltanto birra. La misteriosa Maria, una giapponese dal nome italico, venuta in Italia per fare un giro delle cantine con lo scopo di assaggiare vini da commerciare in Giappone. La stessa figlia di Daniel, che capita lì per essere coccolata dal padre, e che diventa subito amica di Maria, e con lei decide di proseguire il tour italiano su vini e cantine. E poi, di contorno, giocatori di pallone elastico (lo sport più praticato nelle Langhe), vinificatori, scommettitori di varia intensità, ed ovviamente, i turisti stranieri (che girano per l’Italia dove non vanno gli italiani).

Ricordo con piacere poi le prime cinquanta (circa) pagine del libro dove si gira per paesi, vigne storiche e produttori locali. Pagine che mi riportano ad una delle domande dell’esame di sommelier su quali siano i tre vitigni bianchi del Piemonte (risposta per chi non ha voglia di cercare: Arneis, Erbaluce e Timorasso).

Ma la vena di Orengo, tra un bicchiere e l’altro, riesce anche a far passare qualche messaggio sociopolitico come l’abbandono del territorio o il ruolo della FIAT in Piemonte. Una vena che ci ha lasciato ormai da quindici anni, ma che, con gentilezza, qui risuona. Un delicato piacere di lettura, anche se non di forte impatto emotivo.

Paola Cosolo Marangon “La donna che rincorreva le nuvole” Repubblica Montagna 23 euro 9,90

[A: 22/08/2021 – I: 08/12/2024 – T: 10/12/2024] & +     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno: 2013]

Paola Cosolo Marangon è una pedagogista di professione, alpinista per vocazione e scrittrice per diletto, laddove diletto sta nel piacere di scrivere per comunicare con gli altri, per condividere con gli altri i suoi momenti montanari. Almeno questo è quanto mi arriva da questo libro, pur sapendo che l’autrice ha scritto anche altro. Ma noi stiamo parlando di montagne e su questo tema rimaniamo.

Con uno scritto che per una serie di ragione non è entrato nelle mie corde. Come difficilmente lo sono anche altri volumi di questa raccolta che ho collezionato per aprire uno spiraglio di possibilità verso un mondo che mi incuriosisce se parliamo di camminare, meno mi attrae quando si passa a scalate o altre avventure montuose per me assai perigliose.

L’altro motivo di minor attrazione è il fatto che, seppur con una fondamentale unita di luogo e di intenti, il testo si compone di una serie di racconti, che toccano qua e là delle corde, ma, come spesso mi succede in questi testi, mi lasciano al fine abbastanza freddo e lontano.

Certo, la natura entra prepotentemente in tutti i testi del libro, una natura forte come spesso è in montagna. Una natura anche pericolosa, che, laddove siamo immersi in un territorio che non è il nostro, bisogna armarsi di una sana umiltà ed affrontarlo con la riverenza verso un ambiente che, sicuramente, può nascondere delle insidie.

Il teatro della narrazione è fondamentalmente la cittadina carnica di Forni di Sopra, che Paola ha imparato a conoscere da bimba, e che ha continuato ad amare e frequentare sempre. Questi è anche un tasto che tocca bene nel narrato, dove non solo facendo salti temporali ci si ricorda di esservi cresciuta nei primi anni della maturità cognitiva, ma, e questo è di sicuro un pregio, con quell’innocenza bambina che solo i personaggi di una vita serena possono portare nella loro maturità.

Così si parla delle favole narrate dai nonni, piene di fate e di folletti, ma anche dei personaggi bui, che la montagna vede camminare sui suoi costanti anche orsi, che nella mente diventano Yeti o altre figure che portano paura. Ma poi le favole rimangono dentro, così che Paola incontra (sogna?) le fatine dei boschi, ed altre situazioni fantastiche e/o oniriche.

Pur affrontando tutto ciò con molta serenità, qui compare l’altro elemento discostante della narrazione. Un’espressione sempre soggettiva, con alcuni cambi di soggetto che non si percepiscono a prima lettura, rimanendone quindi leggermente spiazzati. Come uno dei racconti che meno mi ha coinvolto, dove è un faggio contornato da abeti, che parla narrando la sua storia, citando fulmini e tempeste, financo un terremoto. Ma senza riuscire in me a suscitare lo straniamento che servirebbe per aderire alla narrazione fantastica.

Negli altri testi si svaria molto, da minute descrizioni di ambienti montani, che quasi cartograficamente vengono fuori dalle pagine, a momenti di vita rurale, da elencazioni di una flora vasta e complessa, la cui comprensione rimando a chi, ben più di me, conosce queste espressioni di vita. Per me sono delle macchie di colore, bellissime macchie, ma elementi di cui non riesco a capire la natura. Per poi passare, in alcuni punti e soprattutto nel finale, a ricordarci che la montagna va sempre affrontata con molta cautela, che il pericolo e finanche la morte sono lì, appena dietro l’angolo.

Nel complesso, tuttavia, non è un testo che mi ha lasciato molte altre tracce. Ed anche la scrittura mi è rimasta molto esterna e poco coinvolgente. Solo in alcuni momenti, è riuscita a varcare le soglie del cuore. In un momento topografico ed in un ricordo colto a volo.

Che pur non avendo spesso frequentato i luoghi, di certo il testo mi ha riportato momenti della mia grande famiglia, laddove, pur essendo Forni in Friuli, è sulla strada statale che da Tolmezzo, svalicando sul Lago di Cadore, arriva sino a Cortina d’Ampezzo, luogo natio di due miei zii, nonché di un mio caro cugino. E queste storie mi riportano a loro, ai loro racconti, ed a quelli della Valle del Boite di un altro cugino.

Finisco cogliendo a volo una carezza al cuore, laddove a pagina 33, Paola ricorda alcune frasi di uno dei grandi amici e sodali di mio padre, il presbitero, filosofo e poeta Davide Maria Turoldo. Un pensiero di pace mi ha accolto in quelle parole. Di pace e di speranza.

“Si continua … a voler cercare la solitudine che fa comprendere l’importanza degli altri, la bellezza delle relazioni.” (24)

Marco Vichi “Il brigante” Repubblica Montagna 6 euro 9,90

[A: 25/04/2021 – I: 07/01/2025 – T: 08/01/2025] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 175; anno: 2006]

Marco Vichi è una vecchia frequentazione della mia libreria, dove è presente per il suo lato giallista con le avventure del commissario Bordelli (credo sette romanzi). Qui compare con una narrazione che, seppur inserita nel tema della collana, non ha una grande attinenza con le montagne, se non per il fatto che si parla di briganti ed i briganti, si sa, non vivono in pianura.

Nelle storie di Bordelli, Vichi aveva ed ha ben esplorato quei sottili confini che separano il bene dal male, una labile frontiera di cui non sempre si ha chiarezza. Qui abbiamo una storia, o meglio diverse storie in cui ad azioni malvagie fanno seguito reazioni anch’esse non ortodosse, dove neanche l’amore riesce a riscattare i protagonisti. Ma per raccontarci una sorta di apologo prende la strada delle antiche narrazioni, quelle che i vecchi facevano intorno al fuoco, la sera, per tenersi compagnia, bevendo vino e riflettendo ad alta voce.

Capitiamo così in una locanda sperduta, il Tasso Morto, unico possibile rifugio, in base ad un vecchio proclama, in cui il più feroce brigante della zona, Giovanni di Castelnero detto Frate Capestro, può trovare riposo, senza tema di essere preso della guardie ducali. L’azione, o meglio i racconti, che di azione diretta ne vediamo poca, si srotola dalla memoria di quattro avventori, capitati per casso nella locanda, dove incontro appunto il brigante che riposa. Racconti che si collocano nel Granducato di Toscana, tra il regno di Pietro Leopoldo (1747 – 1792) e Leopoldo II (1797 – 1870, anche se abdica nel 1859).

Seppur importanti le date suddette, i fatti che gli avventori raccontano a volte spaziano molto e fanno capire che spesso le gesta dell’uno sono riflesso di gesta anche di molti e diversi. Che se il locandiere comincia narrando i fatti e le fughe di Frate Capestro avvenute al tempo di Pietro Leopoldo, le vicende coeve al narrato si collocano intorno al 1820 o anche al 1830. Un lasso di tempo troppo ampio. Ma la finzione narrativa ne sorregge l’impianto, che le fughe di Frate Capestro ben esemplificano la figura di un brigante ladro sì, ma un po’ Robin Hood.

Vediamo che non tocca mai le donne, che uccide malvagi, che si dispiace se coinvolge innocenti. E mentre dorme, o finge di dormire, gli avventori narrano. Quello a cui mancano due dita parla della maledizione del nonno, che lanciò anatemi ai suoi discendenti non approvando il matrimonio tra suo figlio di primo letto e la figlia di primo letto della sua seconda moglie. E dita mozze ci narra come tutta la sua stirpe muore di morte violenta.

Poi viene il vecchio, che potrebbe essere coevo del Frate, che narra dello stupro che, per rabbia commette, per poi pentirsi, fuggire, fare la vita randagia del brigante, fino a ritrovare in un bosco una bimba accanto alla madre morta di morte violenta. Bimba che, per i capricci del caso, risulterà essere sua nipote.

Lunga è poi la storia dell’ultimo arrivato, nato povero, preso a ben volere da un Marchese per motivi strampalati, cresciuto come domestico fino all’incontro con un sedicente rivoluzionario, imbevuto dello spirito della Rivoluzione Francese. Che gli spiega, e ci spiega, che i nobili, anche quando sono apparentemente buoni, nel fondo non possono che essere malvagi che non muovono un dito per migliorare le sorti dei contadini e di chi è costretto al duro lavoro senza speranza di redenzione. Il giovane si infiamma e si unisce alla lotta, per questo ora si aggira tra i monti, per non essere incarcerato.

Al fine, Frate Capestro si sveglia e narra anche lui la sua storia di orfano, cresciuto ed abusato in un monastero, dove, quando diventa giovanotto, fa una strage per iniziare la sua vita di brigante. Potrebbe e può finire così, tutti hanno narrato, tutti si sentono espiati delle colpe commesse, ognuno per la sua strada. Ma Vichi è tormentato dal troppo buonismo, così che propone anche un diverso finale, in cui non tutti si salvano, e chi si salva non sappiamo se perché ha un fondo di dirittura morale interna, pur nel mondo del male, o perché è veramente la malvagità che trionfa nel nostro mondo non certo buono.

Voleva fare un racconto a tema, forse. Purtroppo, ne escono storie a volte interessanti, a volte scontate, che si legano solo perché narrate intorno ad un fuoco. Forse l’unica morale che ne traiamo è che tutti i protagonisti venivano da famiglie povere, tutti erano stati colpiti da sventure, tutti erano quindi stati spinti a vendicarsi compiendo azioni malvagie.

Anche la scrittura, che altrove in Vichi si fa narrazione e partecipazione, qui rimane descrittiva e molto esterna al possibile sacro furore antisistema dei protagonisti. Insomma, non proprio una lettura indimenticabile, laddove alcuni strali contro il potere non possono che essere condivisibili e fatti nostri.

Sara Loffredi “Fronte di scavo” Repubblica Montagna 15 euro 9,90

[A: 22/06/2021 – I: 18/01/2025 – T: 19/01/2025] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno: 2020]

Sara Loffredi non ancora cinquantenne, milanese, esperta divulgatrice per bambini, ha scritto anche romanzi (seppur non molti), tra cui questo “Fronte di scavo” che di sicuro è in linea con le linee guida della collana di Repubblica “Storie di Montagna”, ma è anche, come si evince dalle ultime righe della nota finale, un tributo ed un ricordo dedicato al padre.

Dicevo in linea con la collana perché, rispetto anche ad altri libri inseriti dall’editore, qui si parla e con dovizia di riferimenti, di montagna, e di storie di montagna. Visto che il filo conduttore del testo è il lavoro relativo al traforo del Monte Bianco. Traforo cui aveva partecipato anche il padre della scrittrice.

Fatte queste premesse, il libro, se nelle parti più strettamente montuose, ha degli elementi di interesse, nella parte romanzata risulta un po’ di superfice, senza purtroppo mai affondare il discorso in profondità. Noi seguiamo le vicende del traforo, dal maggio 1961 all’abbattimento dell’ultimo diaframma, il 14 agosto 1962, attraverso gli occhi ed i pensieri di un fittizio ingegnere, Ettore, trentacinquenne di non grande esperienza, ma di grande voglia di imparare.

Non entriamo mai nel dettaglio del lavoro di Ettore, che seguiamo invece in alcuni momenti montanari e personali. L’approccio alla montagna, innanzi tutto, guidato dal capocantiere, con cui comincia ad affrontare le strade dei monti intorno al massiccio del Bianco, e con lui seguiamo l’approssimarsi ad una vicinanza con la natura. Da intarsi vari, sapremo che Ettore non è stato mai un appassionato di cime montuose, avendo al massimo passato le estati giovanili a Bellagio, su Lago di Como.

Vedremo quindi come, salita dopo salita, passeggiata dopo passeggiata, Ettore acquisti dimestichezza, ed alla fine confesserà di essersi preso un bell’amore per i monti. Anche quando si riempirà di vesciche (ed allora, via con gli scarponcini nuovi), sia quando una brutta storta sembra costringerlo in casa (ed ecco comparire la figura tipica del conciaossa o, in termini locali, il “rabeilleur”, una persona, molto presente nelle icnografie valligiane, dotata di grande sensibilità manuale, con la quale allevia o risolve i problemi del corpo).

Vedremo anche nascere, crescere e morire (forse) un amore tra Ettore e la bella Nina. Che si era rifugiata lassù nei cantieri del traforo, sia per sfuggire al marito, che per mettere distanze con un amante gran dottore milanese. Ovvio che Ettore ed il capocantiere entreranno in conflitto su Nina. Ettore avrà la meglio, ma alla fine Nina tornerà in città. Soprattutto a fronte delle cure necessarie per riprendersi da un incidente in montagna. Incidente realmente avvenuto, anche se con diverse  modalità e risultati.

Avremo anche dei flashback sulla giovinezza di Ettore (amori ancillari ed altre turbe giovanili), nonché sul rapporto con il fratello che, senza motivi apparenti, ad un certo punto prende la via dell’alienazione, e verrà ricoverato in un ospedale psichiatrico. Tutti elementi che servono a restituirci la personalità di Ettore, ma che non riescono a farcelo sentire più “umano”.

Sull’altro versante c’è la storia, per cenni e piccole digressioni, del traforo del Monte Bianco. Una galleria che affascinava i savoiardi sin dal Settecento, ma che solo dopo la guerra prende una via costruttiva. Per merito di un industriale visionario, il Conte Secondino “Dino” Lora Totino, che con le sole sue forze comincia a scavare, per poi coinvolgere le autorità italiane e francesi sull’utilità e sulla fattibilità del traforo. Anche utilizzando il lavoro di un altro pioniere il geometra Pietro Alaria, temerario triangolatore delle misurazioni necessarie agli scavi.

Vediamo l’avanzare dei lavori, le ferite che vengono inferte alla montagna, la ribellione della montagna stessa. Incessantemente con l’acqua che minaccia le gallerie. Ma in particolare con la valanga, improvvisa e mortale, che il 5 aprile del ’62 investe le casette degli operai, provocando tre morti. La valanga che nella finzione letteraria travolge e rischia di far morire Nina, salvata, anche, dall’intervento di Ettore.

Ed alla fine anche la rincorsa delle due equipe di scavatori per raggiungere per primi il punto mediano, di 5800 metri di percorso. Corsa che verrà, per un pelo, vinta dagli italiani, che il 14 agosto, fanno saltare l’ultimo diaframma.

Insomma, un racconto leggero, con qualche spunto di piccole riflessioni (rapporti umani e rapporti con la natura), che non ne fanno un testo che prende, ma che lo rendono leggibile e garbato. Un giudizio che non è da poco, in tempi di letture che spaziano dall’orrendo al sublime. Anche perché ci porta ad un finale aperto, dove lasciamo Ettore ed il capocantiere alle gioie del lavoro benfatto, ma non sappiamo cosa faranno dopo, cosa farà Nina, cosa succederà a tutti. Non importa granché, in fondo, abbiamo fatto una salita con tutti loro, ad esso è il nostro passo a guidare la discesa.

Viviamo tempi grami e sembra che non se ne veda un limpido rifiorire. Così ben mi vengono in mente due frasi di Stéphane Hessel tratte dal suo veloce pamphlet “Indignatevi!”:

“Il nostro è un mondo vasto. … Ma in questo mondo esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo … L’indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti … Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue” (15)

“Continuiamo a invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti.” (30)

E sulla stessa lunghezza d’onda, se ben ne riflettete, è la prima frase di Edith Wharton proveniente da “L'età dell'innocenza”: “Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che non riusciva più a vivere diversamente” (340) Perché tutti noi, il nostro dovere lo abbiamo fatto. L’ultima frase, sempre dallo stesso libro mi (e ci) aiuta a riflettere sull’età (Tiziano dipinse la “Pietà” per la sua tomba a quasi novant’anni): “D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)

Volge alla fine il primo mese del nuovo anno, e dopo un po’ di attesa si ricomincia non a leggere, che non si smette mai, ma a viaggiare. Per cui non potrò esservi vicino per qualche tempo. Ma solo in scrittura, che le mie parole sono sempre vicine a chi mi legge ed a chi le leggerà quando a tempo. Quindi, al ritorno vi farò sapere com’è andata questa nuova avventura. Per ora non vi faccio mancare i miei abbracci.

domenica 19 gennaio 2025

Rava vs. Varesi - 19 gennaio 2025

Una settimana dedicata a due autori italiani ed ai loro personaggi. Da un lato, Cristina Rava con il basso continuo del suo personaggio di fondo, il commissario Bartolomeo Rebaudengo, qui con l’aiuto e poi con il passaggio in primo piano del medico legale Ardelia Spinola. Dall’altra le avventure ormai storiche (ne sono usciti ben 17 episodi) del commissario Franco Soneri di Valerio Varesi.

Il risultato volge in favore di Cristina per un po’ di freschezza nelle trame, mentre Valerio rimane troppo impelagato nelle brume del parmense.

Cristina Rava “Di punto in bianco” Repubblica Anima Noir 26 euro 8,90

[A: 18/12/2021 – I: 25/09/2024 – T: 26/09/2024] &&&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 270; anno: 2019]

Si, lo so, sono un lettore di complesse letture e di lunghi rimandi, nonché di salti quantici nelle storie. Piccolo inizio iperbolico per confessare di aver letto la prima avventura del commissario Bartolomeo Rebaudengo ben dieci anni fa. Trovandola gradevole come noir, interessante negli intrecci personali, molto coinvolgenti nei paesaggi frequentati.

Salto subito nelle braccia di questo primo romanzo, dove, a far da piccolo contraltare al commissario, c’è una bravissima dottoressa in funzione di medico legale, Ardelia Spinola. E fin da allora si intuiva un sottotraccia di possibili intrecci e convergenze.

Volendo ricostruire il percorso letterario di Cristina, dobbiamo seguirne anche il percorso editoriale. A partire da quella prima indagine, pubblica altri quattro romanzi incentrati su Rebaudengo, tutti presso la benemerita Fratelli Frilli di Genova. Nel 2012, per rinnovare un po’ la trama che si stava inaridendo, passa alla Garzanti, dove pubblica quattro libri il cui centro diventa Ardelia. Poi nel 2019, con questo libro, cambia di nuovo casacca, passa alla Rizzoli, dove pubblica sei nuovi libri, dove nella metà si centra l’attenzione più sul commissario e nell’altra metà più sul medico legale.

Quindi, se volessimo riunire la scrittura in un corpo multiplo, diciamo che questo è il decimo volume, ed avendone saltati gli otto intermedi, dobbiamo fare un po’ di salti per riconnettere la vita dei protagonisti. Intanto, Rebaudengo, forte dei successi delle sue indagini, è andato per un po’ in America, nel solito corso di profiler a Quantico (un classico). Al ritorno si è messo a fare il docente di criminologia a Roma, fino a che, la morte di una ricca zia non lo ha dotato di una cospicua rendita, nonché di un villa nella sua terra natia, le Langhe. Per cui, lascia la polizia, e si ritira in campagna, continuando comunque nella sua attività di scrittore e divulgatore.

Più oscura la vicenda di Ardelia, che intuiamo possa aver avuto una qualche storia, non andata molto avanti con il commissario, per poi trovare un amore forte e coinvolgente con il maturo Vittorio. Che tuttavia (credo nel precedente libro) muore di un male incurabile, motivo per cui in questo vediamo Ardelia agire, sì, ma con molta tristezza nel cuore. Ed anche con un difficile modo di rapportarsi a Bartolomeo. Qualche mistero rimane che forse scopriremo nel futuro.

Intanto, proprio nelle Langhe nasce il mistero che contorna il libro. Anche se mistero è una parola grossa, che, se pur c’è un morto, sappiamo sin dal primo capitolo chi ne provoca la dipartita finale, ed anche le motivazioni. Tutto ruota intorno a tal Graziano, cui tre anni prima muore un figlio a seguito, pare, di un’operazione mal condotta. Il nostro, morta anche la moglie, cade in depressione, con l’unico scopo di vendicarsi del medico che ritiene responsabile di quella morte. Cosa che gli capita incontrando il povero Dario, in fin di vita. Ma invece di curarlo, lo lascia morire, cercando di costruire intorno al morto una serie di prove per incastrare il medico.

Da qui parte tutta una serie di piccole vicissitudini, di spostamenti, di spaesamenti ed altre vicende, che leggiamo ogni volta da una prospettiva differente (la nostra cambia spesso il punto di vista descrittivo). Vedendo come, accumulando indizi, si muove Ardelia cercando di capire cause e motivazioni delle condizioni del corpo. Come si muove Rebaudengo, che essendo in pensione non può che figurare come consulente. Come agisce il PM o l’amico poliziotto o il povero ex-poliziotto colpito da un trauma che vede molte cose, ma che ha difficoltà nel connetterle. Ma tutto alla fine verrà concluso in una fine che sa molto di odor di Simenon, ma che non ci interessa qui approfondire più di tanto.

Che come dicevo, molto del fascino della scrittura di Cristina Rava sta negli ambienti, in queste Langhe piemontesi che si dovrà visitare prima o poi. Ci sono le descrizioni dei luoghi, ed in particolare delle colline. Ma ci sono anche i piatti della tradizione piemontesi, quelli che al commissario cucina la fida Nora (e che spesso, per motivi di indagine, Bartolomeo deve saltare). Ci sono gli ottimi vini, dal Barbaresco al Dolcetto, dal Roero al Nebbiolo, magari finendo con un amaro o con una grappa.

La scrittura della nostra poliedrica autrice è regolare, senza troppi salti, senza pretese di essere diversa da quella che è. Ne esce fuori una narrazione godibile, magari non proprio ricca di suspense dal punto di vista “poliziesco”, anche se la suspense stessa si sposta sui sentimenti dei personaggi. Che ci piace veder uscire dalle pagine, che mi piace immaginare nel proseguimento della loro vita, magari anticipando quello che potrò leggere un futuro.

Se ne riparlerà senza dubbio.

Cristina Rava “I segreti del professore” Repubblica Brivido Noir 32 euro 8,90

[A: 05/01/2021 – I: 04/11/2024 – T: 05/11/2024] &&&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 302; anno: 2020]

Quindi, dopo dieci anni di assenza, ecco che, passato poco più di un mese, ritroviamo la combriccola delle Langhe piemontesi, alle prese con una nuova avventura. Che viene messe sempre sotto il cappello dell’ex-commissario, anche se l’anatomopatologa ha un suo ruolo ed è ben presente. Vedremo, quando si leggeranno testi sotto il cappello di Ardelia Spinola come si svilupperà l’intreccio e le attività dei vari personaggi.

Lungo tutto il testo, prima che alla parte noir, diamo anche un’occhiata al contorno. In primo piano, com’è ovvio, Bartolomeo Rebaudengo, il nostro ex-commissario, ora profiler e scrittore di criminologia. Continua la sua vita nella magione eredita, con annessa rendita vitalizia che lo toglie dai problemi. Cerca di usufruire della cucina di Nora, riuscendoci solo in parte. Ha qualche soprassalto erotico in una storia laterale e senza problema. Ma soprattutto un grande rapporto di amore/amicizia con Ardelia. Suppongo avessero avuto una storia con lei (in qualche libro precedente), ma è cosa passata. Rimane la comune consuetudine di parlare e confrontarsi, su tutto e di tutto.

Ardelia, da parte sua, non ha una vita personale semplice. Coltiva il rapporto con Bartolomeo, ma entra ed esce dalla relazione con Arturo, di cui non vede sbocchi, ma neanche, al momento, motivi seri di allontanamento. È sempre sul pezzo, dal punto di vista professionale, portando ogni tanto piccoli tasselli utili. Anche se in questa storia, servono a poco. Meglio vanno infatti i ragionamenti del nostro protagonista. Unico elemento di novità, l’amicizia, nell’ultima parte dell’episodio, con un’altra anatomopatologa, Monica Rebaudengo, omonima del nostro. Chissà se le vedremo ancora operare insieme.

Il noir si scatena il 14 marzo con la morte di un’ecologista locale, uccisa con tre colpi di pistola al petto. E poi si intorbida il 14 aprile con la morte di uno psicanalista, ucciso con le stesse modalità. Il problema è che tra i due morti non sembra esserci nessun collegamento, oltre il modus operandi.

I contorni si riempiono poi di altre figure. C’è don Biagio che, sentito degli omicidi dal telegiornale, vuole parlare con Bartolomeo. Peccato che l’età avanzata e qualche cruccio che al momento non conosciamo, lo portano ad un arresto cardiaco ed alla morte. Solo in finale sapremmo, casualmente (ed il caso è molto presente nella trama) cosa aveva da dire.

C’è Angelina, una parrucchiera con velleità letterarie, che, ricevendo un plico anonimo con una trama gialla, riesce a confezionare un decente giallo. Peccato che il giallo ricalchi in modo impressionante, la vicenda degli omicidi. Presa da panico, ed ossessionata dal possibile assassino che lei immagina la stia cercando, si nasconde, riuscendo a farsi trovare solo molto tardi, debilitata e con una gamba (è caduta nella fuga) che sta andando in cancrena.

Tuttavia, avendo incontrato casualmente Bartolomeo, confessa a lui il tutto, dando al nostro ed alla polizia un filo da seguire: chi si cela dietro i personaggi del plico e chi lo ha scritto? Sarà questa ricerca che muove tutta la seconda parte del romanzo. Dove scopriamo esserci una donna morta suicida, donna amata dallo scrittore. Che fa morire nel plico l’ecologista che aveva fatto incontrare la sua donna con un dongiovanni, il dottore che non aveva diagnosticato le tendenze suicide della giovane, nonché il dongiovanni che dopo poco tempo aveva lasciato la giovane per sollazzarsi in altri lidi.

Due sono allora i misteri che restano: lo scrittore ed il dongiovanni.

La scrittrice onnisciente ci fa da guida, svelandoci ben presto che lo scrittore è un professore di italiano, diventato uno scrittore di giallo di media caratura, ma comunque localmente noto.

Noi invece seguiamo i vari tentativi di scoprire il resto dei misteri insieme a Bartolomeo, Ardelia ed al giovane PM. In un finale un po’ lunghetto, ma tuttavia sapientemente orchestrato, dove il caso gioca una parte importante, alla fine tutto si chiarisce. I come, i perché ed i chi. Che ovviamente sarei tentato di svelarvi, ma non lo faccio.

Dal punto di vista della scrittura, continua ad essere, come ho detto in precedenza, una scrittrice che ben si muove tra le parole, e che ci porta colori e profumi del vasto territorio tra le Langhe e la riviera ligure, Alassio in particolare. Il mio solo cruccio, che però credo derivi da scelte della casa editrice, è la mancanza di spaziatura quando, all’interno di un capitolo, si passa che so dalle vicende di Bartolomeo a quelle di Angelina. Senza cesure, ogni volta bisogna fermarsi e rileggere qualche riga.

Valerio Varesi “Oro, incenso e polvere” Repubblica Profondo Noir 16 euro 8,90

[A: 12/10/2023 – I: 14/11/2024 – T: 15/11/2024] && +

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 264; anno: 2007]

SONERI08

Dopo anni di astinenza, a distanza di circa sei mesi eccomi ad affrontare una nuova avventura del commissario Soneri. Un episodio “storico” visto che, arrivato al diciassettesimo episodio, con questo si risale all’ottava uscita. Laddove l’unico elemento nuovo (che fa meritare il + nei voti) è dato dal fatto che finalmente so anche il nome di battesimo del nostro poliziotto: Franco. Non come diminutivo, ma come nome a sé stante, così come fu quello di mio padre.

Con la distanza temporale dalle serie tv, mi sto “dimenticando” della sovrapposizione con l’interprete televisivo, riprendendo quindi a seguire con più attenzione le vicende narrate, anche se non riesco ad entrarci sempre fino in fondo. C’è quel senso di malinconia che pervade il testo e le sue atmosfere che le vela un po’ troppo, le rende sempre quel filo triste che non aiuta ad appassionarsi. C’è solo l’arrivo di un nuovo personaggio di contorno, il decaduto marchese Sbarazza, che riesce a dare un tono di ironia ai suoi comportamenti.

Sbarazza ha perso tutto, case e soldi, e vive da barbone aristocratico sedendosi alla tavola di commensali che lasciano avventori frettolosi, eminentemente donne, mangiandone e bevendone. Con una filosofia di vita, che ad un tratto narra anche al nostro commissario e che dona quel tocco di leggerezza che per il resto il testo non riesce a raggiungere.

La storia, più di altre volte, si sviluppa sui soliti due binari, pubblico e privato, laddove però il privato è forse un po’ troppo presente, ed anche poco attraente. Soneri ed Angela sono ad un punto morto, lui troppo preso dal lavoro, lei bisognosa di un atteggiamento più frizzante e propositivo. C’è un lungo tormentone, tra le paturnie di Soneri che non comprende le necessità di Angela, tornando sempre alla solfa del “perché mi vuoi lasciare? Perché se stiamo bene? Perché…?”. E sempre senza fare un passo in avanti. Angela è tormentata dal brivido del nuovo e dalla consapevolezza della solidità sicura e del comportamento (sempre?) corretto del commissario. Avendo noi poveri lettori a volte casuali letto già le avventure successive, sappiamo già come si evolve questa parte. Ma non posso non sottolineare che è un po’ pesante, servendo solo a sottolineare vieppiù la malinconia della bassa.

Abbiamo poi il noir vero e proprio. C’è un corpo bruciato ritrovato nei campi nebbiosi. C’è un anziano rumeno che muore d’infarto alla periferia cittadina. Ci sono i rom che si aggirano nelle pianure e che forse, o forse no, hanno visto qualcosa. Ma soprattutto c’è Soneri che, per instino o per caso, pensa ci siano collegamenti tra i due. Scavando e collegando, qualcosa trova, che il corpo è di una ragazza rumena, Nina, e per giunta in cinta.

Soneri ed i suoi allora cominciano a ripercorrere la vita della bella rumena, che è per l’appunto bella, piena di contatti con molti personaggi, della media e dell’alta borghesia parmense, ma che non rinuncia alla sua indipendenza, che continua a lavorare per comunque mantenersi. Ben presto la rete si stringe verso una famiglia imprenditrice che lavora l’oro per fabbricare oggetti religiosi. Il marito, scapestrato, cocainomane dalle mani bucate. La moglie imprenditrice, molto legata all’ambiente clericale, e che, seppur accetta scappatelle continue del fedifrago, non farà mai un passo che possa mettere in pericolo il suo lavoro.

Un noir che poteva anche essere ridotto a poche righe, guidato da quel titolo troppo esplicito, se pensiamo alla polvere come a quella bianca da molti, inaspettatamente, usata.

Ma Varesi ha anche altro in testa, e le parti migliori sono dedicate a problemi già presenti vent’anni fa. L’immigrazione dall’est, l’integrazione degli stranieri, i rapporti con i rumeni e con i rom. Che, giustamente, Varesi invita a non fare di tutta l’erba un fascio, che non bisogna portare subito alla conclusione l’equazione rom = ladri, e altre stupide ovvietà. Ovunque ci sono persone buone e/o cattive. Sono le persone ad esserlo, non la loro razza o la loro provenienza.

Un messaggio che condivido in pieno, anche se l’autore non ne ricava un testo più incisivo. Per questo, alla fine, preferisco sedermi con Franco, alla trattoria di Egisto, a mangiare molliche di grana, accompagnate da un buon rosso.

“Una storia finita a cinquant’anni può segnare il confine tra un uomo vivo e un uomo rassegnato.” (69)

“Essere precari è la condizione umana. La differenza è che a pensarci sono in pochi e la maggior parte fa finta di niente.” (99)

“Sei migliore della gente che frequenti … della gente perbene di questa città.” (261)

Valerio Varesi “La paura nell’anima” Repubblica Anima Noir 24 euro 8,90

[A: 07/12/2021 – I: 16/12/2024 – T: 18/12/2024] & e ½

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 376; anno: 2018]

SONERI14

Come vedete, si passa dall’ottavo al quattordicesimo episodio delle vicende del commissario Soneri, avendo io già tramato le vicende intermedie, eccetto la tredicesima, una delle due che mi manca per avere la serie completa. Detto ciò, devo anche sottolineare che ritengo questa una delle meno riuscite inchieste di Varesi, lenta, poco coinvolgente, con alcuni rimandi che vedremo, ma senza un vero punto di forza.

Anzi, con una serie di debolezze, la più forte è nel sottotitolo (presente sia in questa riproposizione di Repubblica che nella pubblicazione originale) che riporta: “L’ultima inchiesta del commissario Soneri”. Ora, per me ultima significa che poi non ce ne sono altre, affermazione smentita dalle tre uscite seguenti. Poteva forse significare ultima rispetto alle precedenti o ultima nella mente dell’autore. In ogni caso, o un errore dell’autore o uno degli editori, che, ristampandolo, avrebbero dovuto eliminarlo o modificarlo.

Il secondo punto è la lontananza da Parma, che era una delle cifre migliori dell’agire di Soneri, una lontananza che si riflette anche in un’assenza quasi totale dei suoi collaboratori storici. Altri elementi che non sorreggono la trama. Una trama, un’inchiesta che il nostro deve affrontare in solitaria, anche se con qualche supporto locale, sostenuto, almeno nella prima metà, dalla presenza di Angela, con tutti gli addendi di questo rapporto duraturo nel tempo ma mai consolidato. Il tutto anche perché siamo in ambiente premontano, a Montepiano.

Come ha confessato in un’intervista, lo spunto narrativo gli è arrivato dalle vicende di poco precedenti la scrittura, relative alle imprese ed alla fuga di Igor il Russo. Ricordo che il criminale noto con quel nome, in realtà non era russo ma serbo, non si chiamava Igor Vaclavić ma Norbert Feher, e spesso usava il soprannome Ezechiele. Se ne ripercorrete le vicende, molte sono riportate da Varesi in questo libro, inclusa la caccia dove furono impiegate squadre speciali da 150 elementi a turno dotate di visori notturni a infrarossi e cani molecolari.

Come detto siamo in alta collina (o bassa montagna), dove Soneri trascorre alcuni giorni di riposo lontano dalla Questura. Varesi ci fa immergere nella cultura locale, fatta di incontri tra le persone, spesso solitarie, fatta di mangiate in trattoria, di camminate, ma anche di sentimenti di collettività. Tutte cosa che vengono scardinate dall’annuncio dell’arrivo in loco del latitante serbo, autore già di svariati crimini. C’è tutto il filone della caccia all’uomo infruttuosa, che serve a dare il tono all’atmosfera, ma che non fa parte del nucleo del testo. Serve a scatenare la paura dell’altro, a tirar fuori sospetti ed altre insicurezze.

Mentre la storia, quella locale prende il via dal ferimento immotivato di un valligiano, cui segue a breve distanza la morte di un ragazzo, sempre di Montepiano, un po’ sbandato e molto in crisi ed in lotta con la famiglia. Una famiglia da sempre guardata di traverso, da sempre con il sospetto che il ragazzo non sia figlio del padre. Con il figlio che per anni millanta uno studio universitario ed una laurea, che però non ha mai preso. Quasi volesse rendere pan per focaccia al padre non padre ed alla madre poco accogliente.

Un figlio da cattive compagnie, forse anche dedito a vendere il proprio corpo per raccogliere soldi per la sua vita, non dico dissoluta, ma sempre alla ricerca di un galleggiamento che le scarse possibilità familiari non gli garantiscono. Un ferimento ed una morte che si inseriscono nel clima di paura e di tensione scatenate dalla famigerata presenza del latitante, ma che, forse hanno una soluzione più semplice e fors’anche più triste.

Fatto sta che Soneri, unendo i vari puntini del puzzle, tra un avvicinamento ad Angela e qualche dissapore, che rientra presto, trova la soluzione, in un finale quasi alla Maigret, dove, ed è uno dei pochi punti interessanti, ci si interroga se serva a qualcosa una spiegazione corretta di tutti i fatti o non sia sufficiente un disegno corretto della stessa senza approfondimenti. Frasi un po’ criptiche ma non si può spoilerare troppo.

Dato quindi il tono poco accattivante di tutta la materia, quello che meglio riesce dalla penna di Varesi è il disegno dei vari personaggi di contorno che servono ad animare il teatrino di Montepiano. C’è Tilò, il mulattiere, emblema di una tradizione di rapporti reciproci, tradizione che il mutare del tempo sta erodendo a poco a poco. C’è l’ex-sindaco Benati esempio vivente, anche se verso la fine, della tutela istituzionale di una comunità con legami secolari. Ovvia la presenza della Chiesa in queste comunità, anche se don Filippo ne mostra tutta la presente impotenza. Non può manca, in una comunità ristretta ed isolata, una guaritrice fuori dal coro, Artenice, che ovviamente è guardata con sospetto ed emarginata. E tutti i corifei della tragedia: i gestori della locanda dove tutti vanno a mangiare ed a confidarsi, Adelmo e Rina, il postino, il fornaio, il meccanico, l’attuale sindaco, il farmacista, la maestra in pensione. Varesi attinge a tutto il possibile sentimento nazional-popolare dei luoghi lontani dalle città, con uno spirito da acquarellista, ma senza coinvolgere molto noi lettori.

Certo il meccanismo scatenato da Varesi nella dicotomia latitante – paese messo sotto scacco, si intravedono i germi di tanti discorsi. La psicologia quando lavorare su di un insieme di persone sotto pressione, il folklore locale, il ruolo dell’inconscio, la presenza della nuova criminalità. Usando mai trovato serbo come una Nemesi che serve a scatenare tutte le possibili incomprensioni in un mondo chiuso ed autoreferente.

Una paura, reale, quella di Igor che si ricollega ai miti appenninici, alla figura del Baffardello, un folletto che compie scherzi e dispetti ai più deboli della comunità. Ma qui si andrebbe molto fuori dal seminato, anche perché, nonostante tutti i tentativi dell’autore, tutta la commedia intorno al nucleo tragico non viene trattata con sufficiente amalgama. Si slega molto, e solo la solida presenza di Soneri consente di andare avanti nella lettura, portarla a termine e sperare che si torni ad un tratteggio migliore delle vicende umane, come nei primi romanzi.

“Non si impara mai abbastanza, anche se di tutto ciò ci si rende conto solo con il tempo.” (227)

Valerio Varesi “Gli invisibili” Repubblica Brivido Noir 19 euro 8,90

[A: 04/10/2020 – I: 19/12/2024 – T: 21/12/2024] &&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno: 2019]

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Strani i destini dei personaggi seriali. A volte passano anni prima che mi capiti di leggere un nuovo episodio. A volte, come in questo caso, solo pochi giorni, quasi ci fosse un piccolo filo che unisce i testi, e che tocca a noi dipanare.

Qui Varesi aveva scritto questi due episodi un anno dopo l’altro, il primo seguendo fili di cronaca altri, questo anche dietro una precisa richiesta dell’editore che richiedeva un libro celebrativo delle proprie collane. Ma c’è anche un altro filo più nascosto che esce fuori leggendone in sequenza. Che se il libro sulla paura era, anche, una celebrazione della vita di comunità montane, qui celebriamo un’altra comunità, quella legata all’acqua, ed in particolare al fiume Po.

E tutta sul fiume ed intorno al fiume si svolge la vicenda. In particolare facendo perno su Torricella di Sissa, piccola cittadina affacciata su di un’ansa del fiume, una trentina di chilometri a nord di Parma. Eccoci, dunque, in un nuovo episodio lontano dalla bella cittadina, anche se, per motivi vari, Soneri ogni tanto vi torna. Ma è un romanzo fluviale e non cittadino.

Un romanzo costruito intorno ad una delle tante comunità che del fiume vivono. Una volta (ai tempi magari de “Il mulino del Po” di Bacchelli e di cui ricordo lo sceneggiato di Sandro Bolchi interpretato da Raf Vallone) era la macinatura del grano che dava da vivere. Poi tutto si evolve, rimangono le terre intorno, ma si sviluppa la pesca. Ed ora, con le nuove mode, anche con le case galleggianti ed i turisti.

Ma le nuove mode portano anche altro. Immigrati dell’est che fanno pesca di frodo, ma sono anche manovalanza per piccoli e grandi criminali. Carne da macello per rapine. Corrieri di varia entità per la droga. Il tutto importando anche criminalità organizzata, in tutte le sue declinazioni. Certo, molta camorra dal napoletano, ma anche con altri accenti malavitosi.

La zona era tutta sotto il controllo latifondiario di Gualtiero Gallerani, il grande vecchio e possidente, dal pugno di ferro ma anche dalla diffusa propensione verso il gentil sesso. Che comandava tutto e tutti, anche il dimesso fratello Giacomo. Gualtiero ha due figli, Fabio e Rinaldo, che ripetono l’andamento familiare. Fabio duro ed arrivista, Rinaldo introverso e molto legato al padre. Anche Giacomo ha una figlia, Elvira, che però si mormora sia anch’essa figlia di Gualtiero. Il quale, alla morte della moglie, si consola con un’immigrata napoletana, Carmela, fuggita dalla Campania alla morte del marito camorrista, per sfuggire alla morsa malavitosa, lasciando in paese il primo figlio, Gennaro.

Gualtiero trova pace con Carmela, ci fa un figlio, Giovanni detto Giannino. Ma il paese mormora, così Carmela apre una merceria a Parma, ed il figlio va in collegio. Alla morte di Gualtiero, tre o quattro anni prima del presente narrativo, tutto si sfascia. I figli prendono tutto, ma Elvira si ribella, convince anche Giannino a far causa ai fratelli per il riconoscimento dell’eredità. Giannino però sparisce, mentre Elvira fa un accordo ben remunerativo. Anche perché i Gallerani non aveva voglia che si andasse più a fondo nelle loro attività, visto che erano ormai entrati in affari anche con la camorra.

La storia che seguiamo insieme a Soneri è quella di un morto senza nome, trovato tre anni prima nel fiume, forse suicida forse ucciso. Dopo tre anni l’obitorio rivuole il posto occupato dalla salma che nessuno ha mai richiesto, ed a Soneri, nelle more agostane, viene richiesto di chiudere il caso. Ma Soneri non se la sente di seppellire il morto con una sigla, cominciando così ad indagare. Con la gente del Po, sulle stranezze del fiume. Frequentando il circolo nautico. Parlando con Casimiro detto il Matto per le sue stranezze ma che di certo matto non è.

Visita un ospedale da TSO, con gli alienati spesso in libera uscita. Guarda vecchie foto. Gli vengono in mente possibili scenari a partire da due dati: il morto, forse incontrato dal capitano della motonave che naviga sul fiume, aveva una erre francese, ed aveva un biglietto di motonave che poteva indicare fosse salito a bordo proprio a Torricella. Con fatica, aiutato da molte persone e molta fortuna, riesce a ricostruire le possibili vicende legate al morto, alla sua venuta lì in riva al Po, a collegamenti inizialmente astrusi, poi sempre più convincenti.

Alla fine, riesce a dare un nome alla salma. Non solo, ma ne ricostruisce la vita e la morte, avvenuta per mano di qualcuno. Il finale, che tutto chiarisce, lascia poi il campo a quel sapore alla Maigret di cui avevo già accennato in altre trame del nostro scrittore. A volte la verità e la giustizia non possono, o non debbono, coincidere.

Tuttavia, anche qui, non è il giallo che interessa a Varesi. C’è l’atmosfera delle comunità fluviali, di cui viene fatto un buon ritratto. C’è il crescere ed approfondire del rapporto tra Soneri ed Angela, che qui, in alcuni punti, diventa quasi un’aiutante del nostro commissario. Ma che a noi piace anche, se non di più, sia quando i due siedono ad una delle tante trattorie del territorio, sia quando si prendono una breve vacanza su di una casa galleggiante. Un’esperienza che prima o poi mi piacerebbe approfondire.

Soprattutto, però, c’è da seguire il filone del titolo, cercare gli invisibili che, per scelta o per i casi della vita, si incartano in un anonimato senza riconoscimenti, e già in vita, ma ancor di più in morte, perdono la loro dignità di individui. Così è per il morto cui Soneri riesce a dare un nome, così è per una vicenda laterale, assolutamente centripeta alla storia, e di cui non vi narro. Così è forse per lo stesso Soneri, che già si domanda se, quando sarà morto, pur con un nome sulla tomba, ci sarà qualcuno che lo ricorderà, cancellandone un possibile oblio futuro.

Piccole riflessioni, forse solo accennate da Varesi, con la sua scrittura forse troppo discreta per essere attraente, ma che mi sono sorte durante la lettura, anche stimolate da un richiamo, di passaggio, ad un cantautore francese, a me molto caro, ma di cui pochi ora si ricordano: Georges Brassens.

Altro coro di sottofondo, pur cambiando registri. Rimaniamo nel noir, ma passiamo in altre nazioni. Un primo passo, verso la Grecia di Petros Markaris con due pensieri sulla difficoltà dei rapporti, quando sono in difficoltà, e sulla presa di coscienza di chi oltre all’esperienza accumula anni.

Il primo, tratto da “La lunga estate calda del commissario Charitos” ci ammonisce: “Come facevo a spigare ad Adriana la differenza tra un tempo, in cui uno temeva che l’altro se ne andasse, e il giorno d’oggi in cui uno teme che l’altro rimanga?” (25). Il secondo viene da “La balia” e dice: “Non so: forse sono stato sempre così, o forse lo sono diventato negli ultimi anni, ma ultimamente mi rendo conto che le cose me le godo di più da solo che in compagnia.” (169).

Il secondo passo ci fa saltare l’Oceano per incontrare Patricia Cornwell che in uno dei quasi primi romanzi di Kay Scarpetta, ci parla in vario modo di verità e conoscenza.

Tra l’altro il primo: “Sbarrare le porte è negare la realtà. Quando si nega, il passato, si tende a ripeterlo” (36), è di una banale attualità, visto i negazionisti attuali del nazismo e del fascismo.

Gli altri si legano alla conoscenza, allo studio ed a quel senso di giustizia che ci proviene dall’aver sempre amato Simenon (e chi ne ha letto, mi comprende).

“- Ci devo pensare. È grazie al pensiero che sono diventata quella che sono. … - Sei diventata quella che sei grazie alla conoscenza. … E conoscere è sentire, pensare è un modo per elaborare ciò che sentiamo. A furia di pensare ci nascondiamo la verità.” (59)

La verità non sempre è la cosa migliore o più giusta. … La verità può causare la rovina e per questo non sempre è saggio o sano essere sinceri.” (317)

Purtroppo questa settimana non posso finire né allegro né ottimista, ma solo sinceramente e dolorosamente colpito. Un incidente, imprevedibile e imprevisto, ha portato via una mia amica viaggatrice, con la quale feci bellissimi viaggi e bellissimi discorsi sui viaggi. Per cui meglio tacere, non farvi mancare i miei abbracci ed inviare un pensiero a chi sta cominciando un altro viaggio lassù.

Ciao Patrizia

4 europei e 1 statunitense - 12 gennaio 2025

Pur restando nell’ambito della mia lettura di riferimento, questo volta mi accingo ad un confronto impari. Abbiamo un solo libro di lingua inglese, contornato da islandesi (Arnaldur Indriðason), greci (Petros Markaris), svedesi (Hakan Nesser) e tedeschi (Brigitte Glaser). Eppure, anche se non di molto, Dennis Lehane si pone alla testa della cinquina odierna. Degli altri segnalo solo di evitare la poco brillante prova di Nesser, una scelta editoriale di tagli e pubblicazioni poco curate che sarebbe stato meglio evitare.

Dennis Lehane “Buio prendimi per mano” Repubblica Brivido Noir 28 euro 8,90

[A: 08/12/2020 – I: 01/10/2024 – T: 03/10/2024] - &&& e ½   

[tit. or.: Darkness, Take my Hand; ling. or.: inglese; pagine: 441; anno 1996]

Dennis Lehane è di certo un autore con un piglio sicuro che affonda le sue parole nel tessuto violento dell’America. Ha prodotto alcuni libri di alto livello, come “Mystic River” e “L’isola della paura”. Come tutti gli autori legati al mondo del thriller (o del buon “hard boiled” americano) ha scritto anche una saga seriale, incentrata sulle vicende di due detective bostoniani, Patrick Kenzie e Angela Dimassi Gennaro. E dopo il primo “Un drink prima di uccidere”, che non ho letto, quasi trent’anni fa pubblica questo “Buio prendimi per mano” che, seppur non a livello dei due citati, ha un sicuro posto nel panorama del genere.

Intanto, incontriamo i due protagonisti già inseriti nelle loro indagini investigative, dove ne scopriamo alcuni caratteri peculiari (che forse erano indicati nel primo libro e che qui ricostruiamo). Pat è un figlio della periferia di Boston, per l’esattezza del quartiere di Dorchester uno dei più degradati, negli anni Settanta. Teatro di lotte di mafia, ed al tempo gestito dalla mafia irlandese. Pat viene da grossi conflitti con il padre violento, ha alle spalle un matrimonio fallito ed in corso un rapporto che sembra di buon profilo con un’infermiera madre single. Ha lasciato alle spalle il mondo malavitoso, pur rimanendo in contatto con alcuni elementi al limite della legge, ma anche con poliziotti di buon profilo.

Da parte sua Angela è nipote di un boss mafioso di origini italiane e sta uscendo da un infelice matrimonio con Phil, marito molto manesco.

I due vengono coinvolti in una trama che inizia in sordina, ma che si ingrossa pagina dopo pagina. Una psicologa li coinvolge perché teme prima di essere coinvolta in una possibile vicenda di mafia, poi perché, risolta la prima grana, sembra in pericolo suo figlio. Pat e Angela risolvono il primo problema (con qualche violenza che permea sempre tutto il libro), poi prendono sottogamba il secondo. Tanto che il giovane Jason verrà trovato morto e massacrato.

Da qui, comincia la spirale delle indagini e della violenza. Che vengono trovati altri cadaveri, vuoi crocefissi, vuoi smembrati dopo rilevanti torture. Non abbiamo difficoltà a capire che, nel fondo, c’è l’ambiente di Dorchester, da cui tutti provengono, all’origine di tutto. Con lo strano particolare che alcune morti sembrano avere un filo rosso in comune, altre paiono solo essere avvenute perché il cattivo (o i cattivi) ha bisogno di esprimere la sua violenza uccidendo anche senza motivo.

La situazione diventa tanto pesante che non solo la polizia interviene a fianco dei nostri, ma si muove anche l’FBI. Riusciamo così a trovare il primo tassello: un detenuto, psicopatico, che sconta un ergastolo per un omicidio dalle caratteristiche simile agli attuali. Cosa che non ha potuto fare di persona, ma che compie in modo eterodiretto, dopo aver sottomesso un suo compagno di cella. Non solo sessualmente, ma anche psicologicamente.

Molti sono gli intrecci: la psicologa aveva fatto condannare lo psicopatico, il quale era figlio di un poliziotto, che, addolorato dalla deriva del figlio finirà nel morire prematuramente. Lasciando sul campo, per poco, il suo partner alla stradale. Che però ben presto si allontana dalla polizia e si mette a gestire un bar.

Quando anche Pat e Angela vengono minacciati direttamente, sempre più forte si fa il sentimento che tutto derivi dal passato nel quartiere dove tutti hanno vissuto o vivono. La violenza latente su Pat rischia di colpire anche la sua amante infermiera, che, giustamente, lo lascia.

Arriveremo così ad una corsa verso il finale, con tante morti, più o meno brutali, e con l’uscita allo scoperto degli assassini. Non solo del succube dello psicopatico, ma della mente (o braccio pensante) di tutto ciò. Di cui supponiamo ben presto sia l’esistenza sia la presenza. Non potrà che finire in un bagno di sangue, con l’unico spiraglio del finalmente ricongiungimento di Angela e Pat, che poi sappiamo continueranno le avventure con altre storie e con un diverso modo di affrontarle. Non anticipo altro, che chissà forse se ne leggerà altro.

Il bello del libro, oltre ad una cruda e reale fotografia di Boston, è la mancanza di momenti calanti. Tutto si mantiene su di un filo forte, in un crescendo di emozioni (e di morti). Lehane riesce a descrivere, anche se mai direttamente, la paura che sottende la vita, sorretta da un potere che deriva improvvisamente nella follia. Non mi convince molto la descrizione dei molti cattivi della storia, ma soprattutto è poco coinvolgente (forse troppo cinematografica) la lotta finale tra il bene ed il male. Anche perché del cattivo principe vediamo e scopriamo le azioni, ma forse non riusciamo ad entrare nella sua psicologia, nelle sue motivazioni.

È un thriller nel senso proprio della parola, è un romanzo pieno di azione e di suspense. Forse non riesce a trasmetterci tutto l’orrore che le vicende potrebbero suscitare. Anche perché, il racconto è in prima persona dalla parte di Pat, per cui sappiamo già che lui è la parte buona della storia, pur se le sue azioni a volte non sembra lo siano sino in fondo.

Ma Lehane è comunque un grande della nostra amata letteratura.

Arnaldur Indriðason “In silenzio si uccide” Repubblica Profondo Noir 23 euro 8,90

[A: 29/11/2021 – I: 22/10/2024 – T: 24/10/2024] &&&  

[tit. or.: Dauðarósir; ling. or.: islandese; pagine: 296; anno 1998]

Finalmente, gli editori italiani e qualche collana illuminata hanno deciso che anche le prime inchieste del commissario Erlandur Sveinsson uscite dalla penna del maestro del giallo islandese, Arnaldur Indriðason, potevano trovare spazio nel panorama editoriale italiano. Questa, in effetti, è la seconda inchiesta del nostro commissario, laddove mi manca (ma so che è stata pubblicata) solo la prima uscita. Perché, ricordo, quando, sull’onda del giallo scandinavo, cominciavano ad arrivare in Italia i libri del Nord, le storie di Arnaldur vennero pubblicate a partire dalla terza inchiesta. Misteri nostrani!

Certo, noi che si è letto l’opera omnia del nostro autore, ne vediamo alcuni elementi iniziali che fondano quello che, libro dopo libro, sarebbe diventato Erlandur. Ma anche, e questo è l’apporto filologico per un’analisi dello scrittore, come Arnaldur si sia evoluto nel corso del tempo. Evoluto, ma anche involuto, che dagli afflati sociali dei primi scritti, si passa ad una dimensione più intima e personale.

Teniamo quindi a mente il fatto che il romanzo è stato scritto nel 1998, un dato che serve per dare una dimensione a tutti i retroscena del caso. Che parte con una morte dalla messa in scena improbabile. Una ragazza sicuramente dedita alla droga viene trovata nuda sopra la tomba, contornata di rose, dell’eroe dell’indipendentismo islandese Jón Sigurðsson. Nessun documento, solo una “J” tatuata su di una natica.

Noi già conosciamo il futuro della serie, ma qui vediamo i primi passi del malinconico ispettore Erlandur Sveinsson e del suo assistente Sigurður Óli. Alla ricerca di indizi, Erlandur chiede aiuto anche alla figlia, Eva Lind, da poco ritrovata, ed anche lei molto out, per droghe ed altro. Trovano tracce, ma non decisive, se non alcuni accenni su un possibile commercio di stupefacenti, e su di un ragazzo, Janus, che spesso si accompagnava alla morta.

Tutti gli indizi, compresa la provenienza dell’eroe Jón portano verso i fiordi dell’Ovest, dove i nostri si recano per cercare tracce della ragazza. Ne trovano. Si chiamava Birta, fuggita appena possibile da casa, e perdutasi nel fondo nero della disperazione della capitale. Quello che Erlandur vede anche è lo spopolamento del territorio dell’Ovest, cosa che ho ritrovato anche io quando feci il mio primo giro verso Ísafjörður e dintorni. Poche cittadine, poche case spesso abbandonate o diventate seconde case per chi ha trovato spazio lavorativo altrove. Ma su questo torneremo.

Incrociando le informazioni ottenute sul territorio, nonché il rapimento di un possibile capobanda degli spacciatori, tal Herbert, i nostri si fanno un’idea sempre più precisa del contesto. Un sodale di Herbert, Kalmann, costruisce una rete di accaparramento delle “quote di pesca” (anche qui riprenderemo il discorso), lasciando i pescatori senza lavoro, se non in cooperative dove non possono che diventare più poveri, o lasciare il territorio.

Kalmann, sui terreni abandonati, impianta possibili speculazioni edilizie, mentre il suo sodale Herbert, gli fornisce materia per i suoi vizi privati: giovani donne che accettano anche di essere malmenate in cambio di soldi e della droga di Herbert. Non è un caso che Birta sia finita in quel giro, ma ne ha anche capito i meccanismi. Che forse intende usare o forse no, ma che di sicuro confida all’amico Janus.

In un crescendo di ambientazioni sempre più cupe e degradate, il nostro commissario viene a capo del mistero, anche se in un modo che non è del tutto atteso.

Certo, la scrittura di Arnaldur non ha la fluidità dei successivi romanzi, ma qui ha di sicuro il tocco della denuncia sociale per la deriva che sta avendo il mondo islandese. Riprendendo gli accenni sociali cui accennavo, nel 1992 il governo islandese istituisce le cosiddette “quote di pesca”, in base alle quali i pescatori avevano dei tetti massimi di pesce da pescare. Su questo, speculatori avidi e pieni di soldi, istituivano un acquisto massiccio delle quote dai pescatori singoli, trasformando completamente il mercato. Laddove avevano altri interessi, non usavano le quote, ed i pescatori, ed il loro indotto, erano costretti ad emigrare verso la capitale. Innescando un meccanismo economico perverso che nel 2008 porterà alla famosa crisi della bolla speculativa islandese, portando il paese oltre l’orlo della crisi, ad un vero crack finanziario. Il governo, tuttavia, si è rimboccato le maniche ed ora, a quindici anni di distanza, il paese si è di sicuro risollevato, ed è anche molto attrattivo, non solo per le sue bellezze naturali. Un solo elemento vorrei sottolineare: nel 2017 il governo ha emesso una legge che ha reso obbligatoria la parità di stipendio tra uomo e donna.

Tornando al libro, capite bene che è un libro sull’identità. Quella perduta che rimpiange Erlandur, quella non ancora trovata dove si perdono, ad esempio, i suoi figli, Eva Lind nella droga e Sindri Snaer nell’alcool. Un libro amaro, dove, l’attrazione per le luci sfavillanti della modernizzazione porta a sfracelli umani ed economici.

Come in tutti i suoi primi libri, Arnaldur ha più interesse a raccontarci il suo paese, probabilmente per scuotere i suoi concittadini. Ma lo fa con grande capacità, sia nella denuncia sociale che nelle descrizioni dei paesaggi. Con un percorso che lo porterà anche a delineare meglio i suoi personaggi, che qui sono ancora solo disegnati e non ben dipinti.

Due considerazioni finali. Uno degli elementi che porteranno alla soluzione della vicenda è il caso, come se Arnaldur avesse letto i libri del grande giallista italiano Augusto De Angelis, che sosteneva appunto il fatto che, nella maggior parte delle inchieste, il caso svolge un suo ruolo non marginale.

L’altro, al solito, è il titolo. Quello italiano non serve a nulla, se non ad invogliare un amante del giallo ad accostarsi al libro. L’originale riporta invece “Le rose della morte”, che acquisterà nel corso dell’indagine una sua importanza, dato che Birta viene deposta, morta, proprio in un tripudio di rose.

Pur nei quasi trent’anni dalla scrittura, e scontando una certa lentezza nella carburazione, è comunque una lettura interessante.

Petros Markaris “Il tempo dell’ipocrisia” Repubblica Brivido Noir 10 euro 8,90

[A: 19/08/2020– I: 01/11/2024 – T: 04/11/2024] - &&  

[tit. or.: Η εποχή της υποκρισίας; ling. or.: greco; pagine: 329; anno 2019]

Ragionando un po’ in controtendenza, pur essendo e rimanendo un assiduo e abbastanza attento lettore dei libri di Petros Markaris, devo dire che le ultime prove le ho trovate un po’ scontate e ripetitive. Come tutti i personaggi complessi e che seguiamo da una vita (il primo libro che ha visto il commissario Kostas Charitos come protagonista è uscito ormai trent’anni fa) Kostas si è evoluto, ed anche allargato nella vita privata e nella vita pubblica.

Su questo torneremo presto, mentre dobbiamo rilevare che Markaris, variando sul tema, continua a riproporci lo stesso schema: morte di personaggi pubblici (in genere tre, mai meno di due) ed indagini che intrecciano politica, economica e sentimenti sociali dei poveri greci, tartassati da tutto (internamente ed esternamente).

Si diceva degli allargamenti. Nel pubblico, Kostas diventa responsabile dell’apparato poliziesco, visto che il suo capo è andato in pensione. Ed in questo ruolo diventa meno burbero e più collaborativo. Tanto che in questa inchiesta lo vediamo collaborare con il responsabile delle frodi fiscali e quello dei crimini informatici, mentre un tempo eravamo abituati a vederlo agire quasi in solitaria.

Nella parte pubblica, che qui avrà un largo spazio, si annunciano e si vivono grandi epifanie. La prima è la nascita del figlio di Caterina e di Fanis, così che Kostas diventa nonno. Nipote che verrà chiamato Lambros, come il grande amico di famiglia, comunista, ex-perseguitato politico, che da sempre è vicino a tutti i Charitos. La nascita darà vita, come ovvio, a suntuosi banchetti di festeggiamento, nonché a piccole cene improvvisate quando c’è poco tempo tra una poppata ed una colichetta del piccolo. Da ricordare senz’altro i Γεμιστά, piatto eponimo della moglie Adriana, ed i Σουβλάκι, i terribili e buonissimi spiedini greci. Su entrambi torneremo.

Tralasciando quindi la parte privata, sempre ben tratteggiata da Markaris, anche se non è l’elemento trascinante del testo, veniamo al nocciolo della questione.

Si comincia facendo saltare in aria il magnate Paris Fokidis. Imprenditore che partendo da un albergo nella natia Calcidica, costruisce una catena alberghiera con hotel da Anàvyssos a Noùfaro, località dove è avvenuto l’assassinio, arrivando a Sifnos, a Creta e a Xilòkastro (e chi conosce la Grecia avrà capito la potenza economica). Nonché è titolare di un’agenzia di viaggi con sede a Londra. Non contento, si occupa di dare un tetto agli immigrati con una sua associazione filantropica. Insomma tutto bene?

Ed allora perché il delitto viene rivendicato da un fantomatico “Esercito degli Idioti Nazionali” che sfida la polizia a trovare i motivi della morte. Rivendicazioni che taglia subito fuori connotazioni mafiose, che la Mafia non rivendica, uccide e basta.

Ovvio che scavando si trovano le magagne. Negli alberghi, dopo che sono avviati con personale di livello, in genere di mezz’età, questi vengono licenziati e sostituiti con gli ospiti delle strutture di immigrazione, con notevoli risparmi economici. Inoltre la società non è di diritto greco, ma iscritta nelle Cayman, con conseguenti agevolazioni fiscali.

Non ci vuole molte a Kostas a comprendere che Paris era ipocrita. Come ipocrita sarà il secondo morto, un addetto all’Ufficio Statistico, che addomesticava le analisi dell’occupazione greca, sia per mascherare l’effettiva povertà, sia per venire incontro a velate richieste di Eurostat.

Potrebbe essere ipocrita anche la responsabile dei controlli bancari della Banca di Grecia, anche se, per pura casualità, l’attentato colpisce una persona innocente. Ma questa morte inutile serve a scatenare la crisi interna dell’Esercito di cui sopra. Nel finale, Kostas con le sue deduzioni e collegamenti arriva a comprendere come sia composta la formazione. Contemporaneamente i militanti del gruppo, in preda i rimorsi, si fanno arrestare.

Un finale un po’ veloce e poco coinvolgente, dove velatamente si riaffacciano antichi fantasmi del passato. Uccidere degli ipocriti (con l’opinione pubblica che velatamente approva la punizione se non l’atto) rimanda ad assassini politici di vecchia data. Ma uccidere, per noi e per Kostas non è né sarà mai una soluzione. Forse anche per Markaris che tuttavia non si risparmia denunciando i guasti del mondo del lavoro, i licenziamenti in età adulta, la classe benestante che si arricchisce sulle spalle della classe medio-bassa, dei danni economici derivanti dalla falsa crescita del PIL. Insomma tutti i guasti politici ed economici presenti non solo in Grecia ma in tutta l’area europea. Piccole denunce, nessuna soluzione, se non un richiamo all’onestà. Potrà bastare?

Noi, per non intristirci di più, torniamo almeno al cibo. A quello di strada che piace tanto a Kostas, con i souvlaki, gli spiedini di carne comprati per via. O, ancora meglio, a ghemistà che si citavano sopra, che, ricordo, sono pomodori o peperoni ripieni a volte solo di riso (ed allora si chiamano “orfani”) oppure anche con diversi tipi di carne (chiamati quindi “maritati”). Tra l’altro ricordo che la parola, in greco, significa “ripieni”.

Insomma, meglio una bella tavola imbandita da Adriana con le sue vivande, ed impreziosita da qualche alcolico ben fatto portato dal vecchio Lambros. Nell’attesa che, mangiando e bevendo, anche Petros ci porti qualcosa di nuovo.

Håkan Nesser “La nemica del cuore” Repubblica Profondo Noir 41 euro 8,90

[A: 05/04/2024 – I: 09/11/2024 – T: 10/11/2024] - & e ½   

[tit. or.: Kära Agnes; ling. or.: svedese; pagine: 136; anno 2002]

Cominciamo con alcune dovute precisazioni. Intanto ho scritto come anno di scrittura 2002, perché così vuole sia la vulgata editoriale, sia il fatto che risulterebbe l’anno di uscita in volume di questo testo. In realtà, questo, unito ad altri due romanzi brevi, faceva parte di un libro uscito nel 1996 dal titolo “Barins Triangel” (“Il triangolo di Barins”), dove venivano presentate tre storie che secondo l’autore rappresentavano momenti e situazioni eponime.

Poi Nesser decide di spacchettarle, e farli diventare tre libri, accomunati dal sottotitolo “Intrigo”, e dove la prima “Rein” (in italiano “Morte di uno scrittore”) esce quasi subito ed io ne ho già analizzato la trama due anni fa. Poi nel 2002 esce questa, in originale “Kära Agnes” e poi ne parleremo del perché. La terza esce nel 2015 con il titolo “Alois” ma non è ancora stata tradotta in italiano.

Intanto veniamo al titolo, che in originale, appunto, riporta l’inizio di una lettera. Ed in effetti molta parte del breve romanzo è costituito da lettere che si scambiano le due protagoniste, Agnes e Henny. Il titolo italiano invece si rifà alle modalità di rapporto tra le due, cercando di mescolare le carte per non far capire chi sia l’amica e chi la nemica. Al solito, io non approvo.

Per quanto riguarda invece il testo e lo sviluppo della trama, risulta debole, scontata e senza dubbio inferiore al primo libro, che già non era all’altezza delle prove migliori di Nesser. Capita che ad un autore non tutte le ciambelle riescano bene, ed io avrei evitato di riproporle in italiano, soprattutto in questa forma slegata e poco accattivante.

Detto quindi di un contesto che non permette di apprezzare al meglio il testo, è la storia stessa che risulta scopiazzata nelle idee, non particolarmente ben svolta nel suo dipanarsi nel tempo e nello spazio, con un finale annunciato da alcuni sottofinali che, letti attentamente, rendono inutile proseguire per le ultime venti pagine.

Nesser prova ad intrecciare un nero di stampo classico, del tipo che si apprezzava cinquanta o sessanta anni fa dalla penna di Cornell Woolrich. Mescolando il presente ed il passato di Agnes e Henny, ma dandoci un’ottica parziale, che la giovinezza delle due è vista solo con gli occhi di Agnes. Attraverso i quali vediamo nascere un’amicizia classica giovanile per poi deteriorarsi con il passare degli anni.

Henny soffia il bel ragazzino che piaceva ad Agnes, poi aiuta l’amica ad imparare una parte in un dramma, immedesimandosi talmente che alla fine partecipa anche lei all’audizione sbaragliando tutto il campo delle aspiranti attrici. Poi, finalmente, le due si perdono di vista, per poi ritrovarsi al funerale del marito di Agnes.

Qui si avvertono le prime crepe che di questo Erich morto relativamente giovane, si parla quasi come se lo si dovesse conoscere, mentre a me risulta un illustre sconosciuto. Tuttavia l’incontro tra le due ex-amiche dà il via alla parte più nera del testo, che risulta tuttavia una rimaneggiatura con varianti di un classico del genere.

Mi riferisco al bellissimo “Sconosciuti in treno”, classico noir del 1950 uscito dalla penna di Patricia Highsmith e poi portato magistralmente sullo schermo nel 1951 da Alfred Hitchcock con il titolo “Delitto per delitto” o “L’altro uomo” (anche qui, perché non utilizzare il titolo originale?). Rispetto al doppio delitto del libro, qui c’è un delitto a fronte di compensi in denaro, ma il meccanismo è lo stesso: tu uccidi una persona che non conosci ed io ti pago. Un mix tra ricerca di un sicario e scambio di delitti. Un meccanismo usato tante volte a partire dal primo libro e che vedrà un epigono complesso con incroci fino a tre persone come abbiamo letto anni fa in uno dei più brutti libri di Camilla Läckberg.

Nesser cerca di incuriosire il lettore con lo scambio di lettere, con i tuffi nel passato delle due donne, amiche ed altri elementi di contorno. Del tipo i modi progressivi per cui una convince l’altra ad accettare il patto di sangue, e poi la maniera di organizzare l’omicidio, i passi falsi da evitare, gli alibi da creare. Tutto però risulta vano ed inconcludente.

Si arriva alla fine delle meno di 150 pagine senza essere coinvolti più di tanto, neanche nella ricerca di un senso agli avvenimenti. E comunque, ritengo che la lettura del triangolo originale (vedi inizio trama) possa dare elementi maggiori di comprensione al testo.

Speriamo di tornare presto a leggere di Gunnar Barbarotti.

Brigitte Glaser “Buffet al veleno” Repubblica Brivido Noir 18 euro 8,90

[A: 29/09/2020 – I: 17/11/2024 – T: 18/11/2024] - && e ½  

[tit. or.: Himmel un Ääd; ling. or.: tedesco; pagine: 382; anno 2012]

È il quarto libro che leggo della simpatica Brigitte Glaser, tutti dedicati alle avventure poliziesco-culinarie della cuoca Katherine Schweitzer. Anche se, visto che comunque non ho una passione sviscerata per Brigitte, dopo i primi tre letti in sequenza, ne ho saltati due e questa è la sesta indagine della nostra Kate.

Visto inoltre che sono passati, oltre a due libri, anche venti mesi dall’ultima lettura, prima di immetterci nelle vicende narrate, cerchiamo di fare una piccola ricapitolazione. Allora Katherine Schweitzer, dove vari anni passati girovagando tra le cucine europee, tra Vienna, Bruxelles e la Germania, nel terzo episodio riesce ad aprire un suo ristorante, il Giglio Bianco. Ristorante atipico, dove si mangia gomito a gomito su lunghe tavolate e dove una grosse vetrata separa la sala dalla cucina, così che si possano vedere come lavorano i cuochi.

Dopo molto altalenarsi, finalmente ha un rapporto (quasi) stabile con il suo storico fidanzato Ecki, dato che lui fa il cuoco al Giglio e vive con lei, sempre nella casa della storica amica di Kate, Adela. Una convivenza multipla, visto che lì vive anche il compagno di Adela, il poliziotto in pensione Kuno. Non so dire molto sui libri mancati, se non che penso venga introdotta la curda Arin, che qui funge da cuoca in seconda per il Giglio.

Un altro passo prima di addentrarci nei meandri della trama riguarda il titolo. Ora il “buffet” del titolo italiano può solo riferirsi al catering proposto nel primo capitolo e che serve ad introdurre alcuni personaggi, soprattutto il bieco Eilert. Ma lì non muore nessuno, e ci sono solo relazioni velenose che magari verranno fuori nel seguito. Il titolo originale, che capisco di non facile traduzione, si riferisce ad un piatto della cucina renana, che in italiano suonerebbe “Cielo e Terra”, dato che vede uniti un purè di mele (cielo) ed un purè di patate (terra) mescolati con cipolle rosolate e qualcosa di maiale. Un tempo era sanguinaccio, ma ora che questo è di difficile fattura, si usano salsicce. Un piatto che verso la fine del libro, la nostra Kate mangia con gusto e non vi dico con chi.

Per la storia, invece, vediamo crescere pian piano una macchinazione criminosa nell’ambito della ristorazione. Il bieco Eilert di cui sopra è anche un affarista a tutto tondo, ed ora si è messo in testa di entrare nella ristorazione, con una formula che chiama “All-inclusive”, una specie di McDonald di livello, o di street food organizzato, dove in ampi locali ci sono isole gastronomiche dove ordini i tuoi piatti, ed un cicalino che ti avverte quando sono pronti. Un modo di mangiare che ho visto spesso recentemente in Asia, ma che, ovvio, risente di un abbassamento qualitativo del cibo, dovendo servire molta gente non educata a sapori particolari.

Per i suoi scopi, Eilert ha bisogno di spazi, per cui punta dei locali spaziosi o in posizioni interessanti, e poi manda all’avanguardia il suo “mister Wolf”, un tale Tomasz o Thomas o Tommi che si incarica di trovare il modo, spesso non proprio ortodosso, di cacciare i proprietari.

Non si capisce se questo sia il caso, ma tutto inizia con la morte del vecchio padrone di casa che ha affittato il locale d Katherine. Casuale o dolosa non si sa, né si saprà, ma si ipotizza. Poi viene trovata morta in un canale Minka una lavorante di Katherine. In realtà è da qui che comincia realmente qualcosa a suona storto. Minka stava facendo dello spionaggio sulla situazione e le attività del Giglio Bianco, sia per conto di Tomasz sia in unione con Ecki, il supposto fidanzato di Kate, che per la giovane aveva preso una sbandata. Anzi, ci sono tutta una serie di indizi che porterebbero alla colpevolezza del tipo.

Nel mentre avanzano le indagini, muore precipitando da una finestra, ma con un morso di cobra nel tallone, l’erede del primo morto, poco prima di firmare con Kate il rinnovo del contratto d’affitto. Sarà ovviamente Kate a riunire i vari puntini sospesi della vicenda, presentarli in maniera organica al commissario Brandt incaricato delle indagine, ed a risolvere il caso in un finale pieno di serpenti velenosi.

Oltre alla soluzione del caso, due solo i risultati finali dell’episodio. Poiché Ecki realmente aveva avuto una storia con Minka alle spalle di Kate, lei lo manda, finalmente, a coltivare fiori in altri luoghi. Inoltre, si introduce il simpatico Brandt, utile nelle indagini, ma stranamente cultore di un orto di piante locali che sono di sicuro interesse per i nostri cuochi.

Con la solita preponderanza di citazioni culinarie durante tutta la trama, è un libro che scorre piacevolmente, ben congeniato nella parte non-mistery, mentre un po’ debole sul versante giallo. Anche se, al solito, Brigitte non manca di scagliarsi contro qualche malaffare, in questo caso la massificazione della ristorazione e la speculazione edilizia. Sempre lodevole.

Come sempre lodevoli sono le ricette di fine libro, dove, oltre a quella che dà il titolo al libro, ne vengono proposte altre. Non vi parlo dei dolci che sono classici, ma vi invito a pensare ai seguenti piatti: crema di piselli al wasabi, gamberetti e pane di segale; gelatina di cetrioli con crema al gin e trota affumicata, ravanelli e crescione asiatico; salmone crudo su crema di latticello al sambuco; asparagi con crepes tagliate a strisce e saltate in padella, prosciutto della Foresta Nera e salsa olandese.

Non sarà una grande scrittura, ma a me incuriosisce questo tocco di cucina.

“Dai, beviamoci una birra scura alla Mort Subite.” (247) [il locale si trova a Bruxelles ed è uno dei luoghi iconici dei miei lavori in Belgio, dove infatti andavo, dopo le riunioni in Comunità Europea, non per bere la Mort Subite (la Kriek è alla ciliegia, disgustosa), ma per deliziarmi con una “blanche” al limone]

Questa volta, invece del controcanto, mi lascio andare ad un coro di sottofondo, che, ripensando a queste frasi di Michael Connelly tratte da “La bionda di cemento” ci sarebbe da riflettere:

“Aveva sempre condotto una vita solitaria, ma questo non significava che fosse stato sempre solo. Aveva dei segreti, alcuni dei quali sepolti molto profondamente, e non se la sentiva di condividerli … Non ancora, almeno.” (64)

“Lui aveva otto anni di più e sapeva di dimostrarli, ma non si vergognava del proprio aspetto.” (120)

“Nessuno in questo mondo è quello che dice di essere … E nessuno conosce veramente gli altri, anche se è convinto del contrario. Il meglio che puoi sperare è conoscere te stesso. E certe volte, quando ci riesci, quando vedi sul serio come sei, devi guardare da un’altra parte…” (381)

Come forse qualcuno sa, si avvicina una piccola fuga sudamericana, prodroma, si spera, di altre e più ampie fughe. Abbiamo ancora avuto qualche rovescio di fortuna (strascichi dell’anno funesto), ma anche momenti interessanti. Laddove, per chi è di Roma o chi a Roma può passare, segnalo di andare a vedere i bellissimi mosaici della chiesa di Santa Pudenziana. Un trionfo di oro e di simboli, come simbolico è il mio caloroso abbraccio ad amici e lettori.