Pur restando nell’ambito della mia lettura di riferimento, questo volta mi accingo ad un confronto impari. Abbiamo un solo libro di lingua inglese, contornato da islandesi (Arnaldur Indriðason), greci (Petros Markaris), svedesi (Hakan Nesser) e tedeschi (Brigitte Glaser). Eppure, anche se non di molto, Dennis Lehane si pone alla testa della cinquina odierna. Degli altri segnalo solo di evitare la poco brillante prova di Nesser, una scelta editoriale di tagli e pubblicazioni poco curate che sarebbe stato meglio evitare.
Dennis Lehane “Buio prendimi
per mano” Repubblica Brivido Noir 28 euro 8,90
[A: 08/12/2020 – I: 01/10/2024 – T: 03/10/2024]
- &&& e ½
[tit. or.: Darkness, Take my Hand; ling. or.: inglese;
pagine: 441; anno 1996]
Dennis Lehane è di certo un
autore con un piglio sicuro che affonda le sue parole nel tessuto violento
dell’America. Ha prodotto alcuni libri di alto livello, come “Mystic River” e
“L’isola della paura”. Come tutti gli autori legati al mondo del thriller (o
del buon “hard boiled” americano) ha scritto anche una saga seriale, incentrata
sulle vicende di due detective bostoniani, Patrick Kenzie e Angela Dimassi
Gennaro. E dopo il primo “Un drink prima di uccidere”, che non ho letto, quasi
trent’anni fa pubblica questo “Buio prendimi per mano” che, seppur non a
livello dei due citati, ha un sicuro posto nel panorama del genere.
Intanto, incontriamo i due
protagonisti già inseriti nelle loro indagini investigative, dove ne scopriamo
alcuni caratteri peculiari (che forse erano indicati nel primo libro e che qui
ricostruiamo). Pat è un figlio della periferia di Boston, per l’esattezza del
quartiere di Dorchester uno dei più degradati, negli anni Settanta. Teatro di
lotte di mafia, ed al tempo gestito dalla mafia irlandese. Pat viene da grossi
conflitti con il padre violento, ha alle spalle un matrimonio fallito ed in
corso un rapporto che sembra di buon profilo con un’infermiera madre single. Ha
lasciato alle spalle il mondo malavitoso, pur rimanendo in contatto con alcuni
elementi al limite della legge, ma anche con poliziotti di buon profilo.
Da parte sua Angela è nipote
di un boss mafioso di origini italiane e sta uscendo da un infelice matrimonio
con Phil, marito molto manesco.
I due vengono coinvolti in una
trama che inizia in sordina, ma che si ingrossa pagina dopo pagina. Una
psicologa li coinvolge perché teme prima di essere coinvolta in una possibile
vicenda di mafia, poi perché, risolta la prima grana, sembra in pericolo suo
figlio. Pat e Angela risolvono il primo problema (con qualche violenza che
permea sempre tutto il libro), poi prendono sottogamba il secondo. Tanto che il
giovane Jason verrà trovato morto e massacrato.
Da qui, comincia la spirale
delle indagini e della violenza. Che vengono trovati altri cadaveri, vuoi
crocefissi, vuoi smembrati dopo rilevanti torture. Non abbiamo difficoltà a
capire che, nel fondo, c’è l’ambiente di Dorchester, da cui tutti provengono,
all’origine di tutto. Con lo strano particolare che alcune morti sembrano avere
un filo rosso in comune, altre paiono solo essere avvenute perché il cattivo (o
i cattivi) ha bisogno di esprimere la sua violenza uccidendo anche senza
motivo.
La situazione diventa tanto
pesante che non solo la polizia interviene a fianco dei nostri, ma si muove
anche l’FBI. Riusciamo così a trovare il primo tassello: un detenuto,
psicopatico, che sconta un ergastolo per un omicidio dalle caratteristiche
simile agli attuali. Cosa che non ha potuto fare di persona, ma che compie in
modo eterodiretto, dopo aver sottomesso un suo compagno di cella. Non solo
sessualmente, ma anche psicologicamente.
Molti sono gli intrecci: la
psicologa aveva fatto condannare lo psicopatico, il quale era figlio di un
poliziotto, che, addolorato dalla deriva del figlio finirà nel morire
prematuramente. Lasciando sul campo, per poco, il suo partner alla stradale.
Che però ben presto si allontana dalla polizia e si mette a gestire un bar.
Quando anche Pat e Angela
vengono minacciati direttamente, sempre più forte si fa il sentimento che tutto
derivi dal passato nel quartiere dove tutti hanno vissuto o vivono. La violenza
latente su Pat rischia di colpire anche la sua amante infermiera, che,
giustamente, lo lascia.
Arriveremo così ad una corsa
verso il finale, con tante morti, più o meno brutali, e con l’uscita allo
scoperto degli assassini. Non solo del succube dello psicopatico, ma della
mente (o braccio pensante) di tutto ciò. Di cui supponiamo ben presto sia l’esistenza
sia la presenza. Non potrà che finire in un bagno di sangue, con l’unico
spiraglio del finalmente ricongiungimento di Angela e Pat, che poi sappiamo
continueranno le avventure con altre storie e con un diverso modo di
affrontarle. Non anticipo altro, che chissà forse se ne leggerà altro.
Il bello del libro, oltre ad
una cruda e reale fotografia di Boston, è la mancanza di momenti calanti. Tutto
si mantiene su di un filo forte, in un crescendo di emozioni (e di morti).
Lehane riesce a descrivere, anche se mai direttamente, la paura che sottende la
vita, sorretta da un potere che deriva improvvisamente nella follia. Non mi
convince molto la descrizione dei molti cattivi della storia, ma soprattutto è
poco coinvolgente (forse troppo cinematografica) la lotta finale tra il bene ed
il male. Anche perché del cattivo principe vediamo e scopriamo le azioni, ma
forse non riusciamo ad entrare nella sua psicologia, nelle sue motivazioni.
È un thriller nel senso
proprio della parola, è un romanzo pieno di azione e di suspense. Forse non
riesce a trasmetterci tutto l’orrore che le vicende potrebbero suscitare. Anche
perché, il racconto è in prima persona dalla parte di Pat, per cui sappiamo già
che lui è la parte buona della storia, pur se le sue azioni a volte non sembra
lo siano sino in fondo.
Ma Lehane è comunque un grande
della nostra amata letteratura.
Arnaldur Indriðason “In silenzio si uccide”
Repubblica Profondo Noir 23 euro 8,90
[A: 29/11/2021 – I: 22/10/2024 – T:
24/10/2024] &&&
[tit. or.: Dauðarósir; ling. or.: islandese; pagine: 296; anno
1998]
Finalmente, gli editori italiani e qualche
collana illuminata hanno deciso che anche le prime inchieste del commissario
Erlandur Sveinsson uscite dalla penna del maestro del giallo islandese, Arnaldur
Indriðason, potevano trovare spazio nel panorama editoriale italiano. Questa,
in effetti, è la seconda inchiesta del nostro commissario, laddove mi manca (ma
so che è stata pubblicata) solo la prima uscita. Perché, ricordo, quando,
sull’onda del giallo scandinavo, cominciavano ad arrivare in Italia i libri del
Nord, le storie di Arnaldur vennero pubblicate a partire dalla terza inchiesta.
Misteri nostrani!
Certo, noi che si è letto l’opera omnia del
nostro autore, ne vediamo alcuni elementi iniziali che fondano quello che,
libro dopo libro, sarebbe diventato Erlandur. Ma anche, e questo è l’apporto
filologico per un’analisi dello scrittore, come Arnaldur si sia evoluto nel
corso del tempo. Evoluto, ma anche involuto, che dagli afflati sociali dei
primi scritti, si passa ad una dimensione più intima e personale.
Teniamo quindi a mente il fatto che il
romanzo è stato scritto nel 1998, un dato che serve per dare una dimensione a
tutti i retroscena del caso. Che parte con una morte dalla messa in scena
improbabile. Una ragazza sicuramente dedita alla droga viene trovata nuda sopra
la tomba, contornata di rose, dell’eroe dell’indipendentismo islandese Jón
Sigurðsson. Nessun documento, solo una “J” tatuata su di una natica.
Noi già conosciamo il futuro della serie, ma
qui vediamo i primi passi del malinconico ispettore Erlandur Sveinsson e del
suo assistente Sigurður Óli. Alla ricerca di indizi, Erlandur chiede aiuto
anche alla figlia, Eva Lind, da poco ritrovata, ed anche lei molto out, per
droghe ed altro. Trovano tracce, ma non decisive, se non alcuni accenni su un
possibile commercio di stupefacenti, e su di un ragazzo, Janus, che spesso si
accompagnava alla morta.
Tutti gli indizi, compresa la provenienza
dell’eroe Jón portano verso i fiordi dell’Ovest, dove i nostri si recano per
cercare tracce della ragazza. Ne trovano. Si chiamava Birta, fuggita appena
possibile da casa, e perdutasi nel fondo nero della disperazione della
capitale. Quello che Erlandur vede anche è lo spopolamento del territorio
dell’Ovest, cosa che ho ritrovato anche io quando feci il mio primo giro verso Ísafjörður
e dintorni. Poche cittadine, poche case spesso abbandonate o diventate seconde
case per chi ha trovato spazio lavorativo altrove. Ma su questo torneremo.
Incrociando le informazioni ottenute sul
territorio, nonché il rapimento di un possibile capobanda degli spacciatori,
tal Herbert, i nostri si fanno un’idea sempre più precisa del contesto. Un
sodale di Herbert, Kalmann, costruisce una rete di accaparramento delle “quote
di pesca” (anche qui riprenderemo il discorso), lasciando i pescatori senza
lavoro, se non in cooperative dove non possono che diventare più poveri, o
lasciare il territorio.
Kalmann, sui terreni abandonati, impianta
possibili speculazioni edilizie, mentre il suo sodale Herbert, gli fornisce
materia per i suoi vizi privati: giovani donne che accettano anche di essere
malmenate in cambio di soldi e della droga di Herbert. Non è un caso che Birta
sia finita in quel giro, ma ne ha anche capito i meccanismi. Che forse intende
usare o forse no, ma che di sicuro confida all’amico Janus.
In un crescendo di ambientazioni sempre più
cupe e degradate, il nostro commissario viene a capo del mistero, anche se in
un modo che non è del tutto atteso.
Certo, la scrittura di Arnaldur non ha la
fluidità dei successivi romanzi, ma qui ha di sicuro il tocco della denuncia
sociale per la deriva che sta avendo il mondo islandese. Riprendendo gli
accenni sociali cui accennavo, nel 1992 il governo islandese istituisce le
cosiddette “quote di pesca”, in base alle quali i pescatori avevano dei tetti
massimi di pesce da pescare. Su questo, speculatori avidi e pieni di soldi,
istituivano un acquisto massiccio delle quote dai pescatori singoli,
trasformando completamente il mercato. Laddove avevano altri interessi, non
usavano le quote, ed i pescatori, ed il loro indotto, erano costretti ad
emigrare verso la capitale. Innescando un meccanismo economico perverso che nel
2008 porterà alla famosa crisi della bolla speculativa islandese, portando il
paese oltre l’orlo della crisi, ad un vero crack finanziario. Il governo,
tuttavia, si è rimboccato le maniche ed ora, a quindici anni di distanza, il
paese si è di sicuro risollevato, ed è anche molto attrattivo, non solo per le
sue bellezze naturali. Un solo elemento vorrei sottolineare: nel 2017 il
governo ha emesso una legge che ha reso obbligatoria la parità di stipendio tra
uomo e donna.
Tornando al libro, capite bene che è un libro
sull’identità. Quella perduta che rimpiange Erlandur, quella non ancora trovata
dove si perdono, ad esempio, i suoi figli, Eva Lind nella droga e Sindri Snaer
nell’alcool. Un libro amaro, dove, l’attrazione per le luci sfavillanti della
modernizzazione porta a sfracelli umani ed economici.
Come in tutti i suoi primi libri, Arnaldur ha
più interesse a raccontarci il suo paese, probabilmente per scuotere i suoi
concittadini. Ma lo fa con grande capacità, sia nella denuncia sociale che
nelle descrizioni dei paesaggi. Con un percorso che lo porterà anche a
delineare meglio i suoi personaggi, che qui sono ancora solo disegnati e non
ben dipinti.
Due considerazioni finali. Uno degli elementi
che porteranno alla soluzione della vicenda è il caso, come se Arnaldur avesse
letto i libri del grande giallista italiano Augusto De Angelis, che sosteneva
appunto il fatto che, nella maggior parte delle inchieste, il caso svolge un
suo ruolo non marginale.
L’altro, al solito, è il titolo. Quello
italiano non serve a nulla, se non ad invogliare un amante del giallo ad
accostarsi al libro. L’originale riporta invece “Le rose della morte”, che
acquisterà nel corso dell’indagine una sua importanza, dato che Birta viene
deposta, morta, proprio in un tripudio di rose.
Pur nei quasi trent’anni dalla scrittura, e
scontando una certa lentezza nella carburazione, è comunque una lettura
interessante.
Petros Markaris “Il tempo dell’ipocrisia” Repubblica Brivido Noir 10 euro
8,90
[A: 19/08/2020– I: 01/11/2024 – T: 04/11/2024] - &&
[tit. or.: Η εποχή της υποκρισίας; ling. or.: greco; pagine: 329; anno 2019]
Ragionando un po’ in
controtendenza, pur essendo e rimanendo un assiduo e abbastanza attento lettore
dei libri di Petros Markaris, devo dire che le ultime prove le ho trovate un
po’ scontate e ripetitive. Come tutti i personaggi complessi e che seguiamo da
una vita (il primo libro che ha visto il commissario Kostas Charitos come
protagonista è uscito ormai trent’anni fa) Kostas si è evoluto, ed anche
allargato nella vita privata e nella vita pubblica.
Su questo torneremo presto,
mentre dobbiamo rilevare che Markaris, variando sul tema, continua a riproporci
lo stesso schema: morte di personaggi pubblici (in genere tre, mai meno di due)
ed indagini che intrecciano politica, economica e sentimenti sociali dei poveri
greci, tartassati da tutto (internamente ed esternamente).
Si diceva degli allargamenti. Nel
pubblico, Kostas diventa responsabile dell’apparato poliziesco, visto che il
suo capo è andato in pensione. Ed in questo ruolo diventa meno burbero e più
collaborativo. Tanto che in questa inchiesta lo vediamo collaborare con il
responsabile delle frodi fiscali e quello dei crimini informatici, mentre un
tempo eravamo abituati a vederlo agire quasi in solitaria.
Nella parte pubblica, che qui
avrà un largo spazio, si annunciano e si vivono grandi epifanie. La prima è la
nascita del figlio di Caterina e di Fanis, così che Kostas diventa nonno.
Nipote che verrà chiamato Lambros, come il grande amico di famiglia, comunista,
ex-perseguitato politico, che da sempre è vicino a tutti i Charitos. La nascita
darà vita, come ovvio, a suntuosi banchetti di festeggiamento, nonché a piccole
cene improvvisate quando c’è poco tempo tra una poppata ed una colichetta del
piccolo. Da ricordare senz’altro i Γεμιστά, piatto eponimo della moglie
Adriana, ed i Σουβλάκι, i terribili e buonissimi spiedini greci. Su entrambi
torneremo.
Tralasciando quindi la parte
privata, sempre ben tratteggiata da Markaris, anche se non è l’elemento
trascinante del testo, veniamo al nocciolo della questione.
Si comincia facendo saltare in
aria il magnate Paris Fokidis. Imprenditore che partendo da un albergo nella
natia Calcidica, costruisce una catena alberghiera con hotel da Anàvyssos a
Noùfaro, località dove è avvenuto l’assassinio, arrivando a Sifnos, a Creta e a
Xilòkastro (e chi conosce la Grecia avrà capito la potenza economica). Nonché è
titolare di un’agenzia di viaggi con sede a Londra. Non contento, si occupa di
dare un tetto agli immigrati con una sua associazione filantropica. Insomma
tutto bene?
Ed allora perché il delitto viene
rivendicato da un fantomatico “Esercito degli Idioti Nazionali” che sfida la
polizia a trovare i motivi della morte. Rivendicazioni che taglia subito fuori
connotazioni mafiose, che la Mafia non rivendica, uccide e basta.
Ovvio che scavando si trovano le
magagne. Negli alberghi, dopo che sono avviati con personale di livello, in
genere di mezz’età, questi vengono licenziati e sostituiti con gli ospiti delle
strutture di immigrazione, con notevoli risparmi economici. Inoltre la società
non è di diritto greco, ma iscritta nelle Cayman, con conseguenti agevolazioni
fiscali.
Non ci vuole molte a Kostas a
comprendere che Paris era ipocrita. Come ipocrita sarà il secondo morto, un
addetto all’Ufficio Statistico, che addomesticava le analisi dell’occupazione
greca, sia per mascherare l’effettiva povertà, sia per venire incontro a velate
richieste di Eurostat.
Potrebbe essere ipocrita anche la
responsabile dei controlli bancari della Banca di Grecia, anche se, per pura
casualità, l’attentato colpisce una persona innocente. Ma questa morte inutile
serve a scatenare la crisi interna dell’Esercito di cui sopra. Nel finale,
Kostas con le sue deduzioni e collegamenti arriva a comprendere come sia
composta la formazione. Contemporaneamente i militanti del gruppo, in preda i
rimorsi, si fanno arrestare.
Un finale un po’ veloce e poco
coinvolgente, dove velatamente si riaffacciano antichi fantasmi del passato.
Uccidere degli ipocriti (con l’opinione pubblica che velatamente approva la
punizione se non l’atto) rimanda ad assassini politici di vecchia data. Ma
uccidere, per noi e per Kostas non è né sarà mai una soluzione. Forse anche per
Markaris che tuttavia non si risparmia denunciando i guasti del mondo del
lavoro, i licenziamenti in età adulta, la classe benestante che si arricchisce
sulle spalle della classe medio-bassa, dei danni economici derivanti dalla
falsa crescita del PIL. Insomma tutti i guasti politici ed economici presenti
non solo in Grecia ma in tutta l’area europea. Piccole denunce, nessuna
soluzione, se non un richiamo all’onestà. Potrà bastare?
Noi, per non intristirci di più,
torniamo almeno al cibo. A quello di strada che piace tanto a Kostas, con i
souvlaki, gli spiedini di carne comprati per via. O, ancora meglio, a ghemistà
che si citavano sopra, che, ricordo, sono pomodori o peperoni ripieni a volte
solo di riso (ed allora si chiamano “orfani”) oppure anche con diversi tipi di
carne (chiamati quindi “maritati”). Tra l’altro ricordo che la parola, in
greco, significa “ripieni”.
Insomma, meglio una bella tavola
imbandita da Adriana con le sue vivande, ed impreziosita da qualche alcolico
ben fatto portato dal vecchio Lambros. Nell’attesa che, mangiando e bevendo,
anche Petros ci porti qualcosa di nuovo.
Håkan Nesser “La nemica del cuore”
Repubblica Profondo Noir 41 euro 8,90
[A: 05/04/2024 – I: 09/11/2024 – T: 10/11/2024]
- &
e ½
[tit. or.: Kära Agnes; ling. or.: svedese; pagine: 136; anno 2002]
Cominciamo con alcune dovute
precisazioni. Intanto ho scritto come anno di scrittura 2002, perché così vuole
sia la vulgata editoriale, sia il fatto che risulterebbe l’anno di uscita in
volume di questo testo. In realtà, questo, unito ad altri due romanzi brevi,
faceva parte di un libro uscito nel 1996 dal titolo “Barins Triangel” (“Il
triangolo di Barins”), dove venivano presentate tre storie che secondo l’autore
rappresentavano momenti e situazioni eponime.
Poi Nesser decide di
spacchettarle, e farli diventare tre libri, accomunati dal sottotitolo
“Intrigo”, e dove la prima “Rein” (in italiano “Morte di uno scrittore”) esce
quasi subito ed io ne ho già analizzato la trama due anni fa. Poi nel 2002 esce
questa, in originale “Kära Agnes” e poi ne parleremo del perché. La terza esce
nel 2015 con il titolo “Alois” ma non è ancora stata tradotta in italiano.
Intanto veniamo al titolo, che in
originale, appunto, riporta l’inizio di una lettera. Ed in effetti molta parte
del breve romanzo è costituito da lettere che si scambiano le due protagoniste,
Agnes e Henny. Il titolo italiano invece si rifà alle modalità di rapporto tra
le due, cercando di mescolare le carte per non far capire chi sia l’amica e chi
la nemica. Al solito, io non approvo.
Per quanto riguarda invece il
testo e lo sviluppo della trama, risulta debole, scontata e senza dubbio
inferiore al primo libro, che già non era all’altezza delle prove migliori di
Nesser. Capita che ad un autore non tutte le ciambelle riescano bene, ed io
avrei evitato di riproporle in italiano, soprattutto in questa forma slegata e
poco accattivante.
Detto quindi di un contesto che
non permette di apprezzare al meglio il testo, è la storia stessa che risulta
scopiazzata nelle idee, non particolarmente ben svolta nel suo dipanarsi nel
tempo e nello spazio, con un finale annunciato da alcuni sottofinali che, letti
attentamente, rendono inutile proseguire per le ultime venti pagine.
Nesser prova ad intrecciare un
nero di stampo classico, del tipo che si apprezzava cinquanta o sessanta anni
fa dalla penna di Cornell Woolrich. Mescolando il presente ed il passato di
Agnes e Henny, ma dandoci un’ottica parziale, che la giovinezza delle due è
vista solo con gli occhi di Agnes. Attraverso i quali vediamo nascere
un’amicizia classica giovanile per poi deteriorarsi con il passare degli anni.
Henny soffia il bel ragazzino che
piaceva ad Agnes, poi aiuta l’amica ad imparare una parte in un dramma,
immedesimandosi talmente che alla fine partecipa anche lei all’audizione
sbaragliando tutto il campo delle aspiranti attrici. Poi, finalmente, le due si
perdono di vista, per poi ritrovarsi al funerale del marito di Agnes.
Qui si avvertono le prime crepe
che di questo Erich morto relativamente giovane, si parla quasi come se lo si
dovesse conoscere, mentre a me risulta un illustre sconosciuto. Tuttavia
l’incontro tra le due ex-amiche dà il via alla parte più nera del testo, che
risulta tuttavia una rimaneggiatura con varianti di un classico del genere.
Mi riferisco al bellissimo
“Sconosciuti in treno”, classico noir del 1950 uscito dalla penna di Patricia
Highsmith e poi portato magistralmente sullo schermo nel 1951 da Alfred
Hitchcock con il titolo “Delitto per delitto” o “L’altro uomo” (anche qui, perché
non utilizzare il titolo originale?). Rispetto al doppio delitto del libro, qui
c’è un delitto a fronte di compensi in denaro, ma il meccanismo è lo stesso: tu
uccidi una persona che non conosci ed io ti pago. Un mix tra ricerca di un
sicario e scambio di delitti. Un meccanismo usato tante volte a partire dal
primo libro e che vedrà un epigono complesso con incroci fino a tre persone
come abbiamo letto anni fa in uno dei più brutti libri di Camilla Läckberg.
Nesser cerca di incuriosire il
lettore con lo scambio di lettere, con i tuffi nel passato delle due donne,
amiche ed altri elementi di contorno. Del tipo i modi progressivi per cui una
convince l’altra ad accettare il patto di sangue, e poi la maniera di
organizzare l’omicidio, i passi falsi da evitare, gli alibi da creare. Tutto
però risulta vano ed inconcludente.
Si arriva alla fine delle meno di
150 pagine senza essere coinvolti più di tanto, neanche nella ricerca di un
senso agli avvenimenti. E comunque, ritengo che la lettura del triangolo
originale (vedi inizio trama) possa dare elementi maggiori di comprensione al
testo.
Speriamo di tornare presto a
leggere di Gunnar Barbarotti.
Brigitte Glaser “Buffet al veleno” Repubblica Brivido Noir 18 euro 8,90
[A: 29/09/2020 – I: 17/11/2024 – T: 18/11/2024] - &&
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[tit. or.: Himmel un Ääd; ling. or.: tedesco; pagine: 382;
anno 2012]
È il quarto libro che leggo della simpatica
Brigitte Glaser, tutti dedicati alle avventure poliziesco-culinarie della cuoca
Katherine Schweitzer. Anche se, visto che comunque non ho una passione
sviscerata per Brigitte, dopo i primi tre letti in sequenza, ne ho saltati due
e questa è la sesta indagine della nostra Kate.
Visto inoltre che sono passati, oltre a due
libri, anche venti mesi dall’ultima lettura, prima di immetterci nelle vicende
narrate, cerchiamo di fare una piccola ricapitolazione. Allora Katherine
Schweitzer, dove vari anni passati girovagando tra le cucine europee, tra
Vienna, Bruxelles e la Germania, nel terzo episodio riesce ad aprire un suo
ristorante, il Giglio Bianco. Ristorante atipico, dove si mangia gomito a
gomito su lunghe tavolate e dove una grosse vetrata separa la sala dalla
cucina, così che si possano vedere come lavorano i cuochi.
Dopo molto altalenarsi, finalmente ha un
rapporto (quasi) stabile con il suo storico fidanzato Ecki, dato che lui fa il
cuoco al Giglio e vive con lei, sempre nella casa della storica amica di Kate,
Adela. Una convivenza multipla, visto che lì vive anche il compagno di Adela,
il poliziotto in pensione Kuno. Non so dire molto sui libri mancati, se non che
penso venga introdotta la curda Arin, che qui funge da cuoca in seconda per il
Giglio.
Un altro passo prima di addentrarci nei
meandri della trama riguarda il titolo. Ora il “buffet” del titolo italiano può
solo riferirsi al catering proposto nel primo capitolo e che serve ad
introdurre alcuni personaggi, soprattutto il bieco Eilert. Ma lì non muore
nessuno, e ci sono solo relazioni velenose che magari verranno fuori nel
seguito. Il titolo originale, che capisco di non facile traduzione, si
riferisce ad un piatto della cucina renana, che in italiano suonerebbe “Cielo e
Terra”, dato che vede uniti un purè di mele (cielo) ed un purè di patate
(terra) mescolati con cipolle rosolate e qualcosa di maiale. Un tempo era
sanguinaccio, ma ora che questo è di difficile fattura, si usano salsicce. Un
piatto che verso la fine del libro, la nostra Kate mangia con gusto e non vi
dico con chi.
Per la storia, invece, vediamo crescere pian
piano una macchinazione criminosa nell’ambito della ristorazione. Il bieco
Eilert di cui sopra è anche un affarista a tutto tondo, ed ora si è messo in
testa di entrare nella ristorazione, con una formula che chiama
“All-inclusive”, una specie di McDonald di livello, o di street food
organizzato, dove in ampi locali ci sono isole gastronomiche dove ordini i tuoi
piatti, ed un cicalino che ti avverte quando sono pronti. Un modo di mangiare
che ho visto spesso recentemente in Asia, ma che, ovvio, risente di un
abbassamento qualitativo del cibo, dovendo servire molta gente non educata a
sapori particolari.
Per i suoi scopi, Eilert ha bisogno di
spazi, per cui punta dei locali spaziosi o in posizioni interessanti, e poi
manda all’avanguardia il suo “mister Wolf”, un tale Tomasz o Thomas o Tommi che
si incarica di trovare il modo, spesso non proprio ortodosso, di cacciare i
proprietari.
Non si capisce se questo sia il caso, ma
tutto inizia con la morte del vecchio padrone di casa che ha affittato il
locale d Katherine. Casuale o dolosa non si sa, né si saprà, ma si ipotizza.
Poi viene trovata morta in un canale Minka una lavorante di Katherine. In
realtà è da qui che comincia realmente qualcosa a suona storto. Minka stava
facendo dello spionaggio sulla situazione e le attività del Giglio Bianco, sia
per conto di Tomasz sia in unione con Ecki, il supposto fidanzato di Kate, che
per la giovane aveva preso una sbandata. Anzi, ci sono tutta una serie di
indizi che porterebbero alla colpevolezza del tipo.
Nel mentre avanzano le indagini, muore
precipitando da una finestra, ma con un morso di cobra nel tallone, l’erede del
primo morto, poco prima di firmare con Kate il rinnovo del contratto d’affitto.
Sarà ovviamente Kate a riunire i vari puntini sospesi della vicenda,
presentarli in maniera organica al commissario Brandt incaricato delle
indagine, ed a risolvere il caso in un finale pieno di serpenti velenosi.
Oltre alla soluzione del caso, due solo i
risultati finali dell’episodio. Poiché Ecki realmente aveva avuto una storia
con Minka alle spalle di Kate, lei lo manda, finalmente, a coltivare fiori in
altri luoghi. Inoltre, si introduce il simpatico Brandt, utile nelle indagini,
ma stranamente cultore di un orto di piante locali che sono di sicuro interesse
per i nostri cuochi.
Con la solita preponderanza di citazioni
culinarie durante tutta la trama, è un libro che scorre piacevolmente, ben
congeniato nella parte non-mistery, mentre un po’ debole sul versante giallo.
Anche se, al solito, Brigitte non manca di scagliarsi contro qualche malaffare,
in questo caso la massificazione della ristorazione e la speculazione edilizia.
Sempre lodevole.
Come sempre lodevoli sono le ricette di fine
libro, dove, oltre a quella che dà il titolo al libro, ne vengono proposte
altre. Non vi parlo dei dolci che sono classici, ma vi invito a pensare ai
seguenti piatti: crema di piselli al wasabi, gamberetti e pane di segale;
gelatina di cetrioli con crema al gin e trota affumicata, ravanelli e crescione
asiatico; salmone crudo su crema di latticello al sambuco; asparagi con crepes
tagliate a strisce e saltate in padella, prosciutto della Foresta Nera e salsa
olandese.
Non sarà una grande scrittura, ma a me
incuriosisce questo tocco di cucina.
“Dai, beviamoci una birra scura alla Mort
Subite.” (247) [il locale si trova a Bruxelles ed è uno dei luoghi iconici dei
miei lavori in Belgio, dove infatti andavo, dopo le riunioni in Comunità
Europea, non per bere la Mort Subite (la Kriek è alla ciliegia, disgustosa), ma
per deliziarmi con una “blanche” al limone]
Questa volta, invece del
controcanto, mi lascio andare ad un coro di sottofondo, che, ripensando a
queste frasi di Michael Connelly tratte da “La bionda di cemento” ci
sarebbe da riflettere:
“Aveva sempre condotto una
vita solitaria, ma questo non significava che fosse stato sempre solo. Aveva
dei segreti, alcuni dei quali sepolti molto profondamente, e non se la sentiva
di condividerli … Non ancora, almeno.” (64)
“Lui aveva otto anni di più e
sapeva di dimostrarli, ma non si vergognava del proprio aspetto.” (120)
“Nessuno in questo mondo è
quello che dice di essere … E nessuno conosce veramente gli altri, anche se è
convinto del contrario. Il meglio che puoi sperare è conoscere te stesso. E
certe volte, quando ci riesci, quando vedi sul serio come sei, devi guardare da
un’altra parte…” (381)
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