domenica 19 gennaio 2025

4 europei e 1 statunitense - 12 gennaio 2025

Pur restando nell’ambito della mia lettura di riferimento, questo volta mi accingo ad un confronto impari. Abbiamo un solo libro di lingua inglese, contornato da islandesi (Arnaldur Indriðason), greci (Petros Markaris), svedesi (Hakan Nesser) e tedeschi (Brigitte Glaser). Eppure, anche se non di molto, Dennis Lehane si pone alla testa della cinquina odierna. Degli altri segnalo solo di evitare la poco brillante prova di Nesser, una scelta editoriale di tagli e pubblicazioni poco curate che sarebbe stato meglio evitare.

Dennis Lehane “Buio prendimi per mano” Repubblica Brivido Noir 28 euro 8,90

[A: 08/12/2020 – I: 01/10/2024 – T: 03/10/2024] - &&& e ½   

[tit. or.: Darkness, Take my Hand; ling. or.: inglese; pagine: 441; anno 1996]

Dennis Lehane è di certo un autore con un piglio sicuro che affonda le sue parole nel tessuto violento dell’America. Ha prodotto alcuni libri di alto livello, come “Mystic River” e “L’isola della paura”. Come tutti gli autori legati al mondo del thriller (o del buon “hard boiled” americano) ha scritto anche una saga seriale, incentrata sulle vicende di due detective bostoniani, Patrick Kenzie e Angela Dimassi Gennaro. E dopo il primo “Un drink prima di uccidere”, che non ho letto, quasi trent’anni fa pubblica questo “Buio prendimi per mano” che, seppur non a livello dei due citati, ha un sicuro posto nel panorama del genere.

Intanto, incontriamo i due protagonisti già inseriti nelle loro indagini investigative, dove ne scopriamo alcuni caratteri peculiari (che forse erano indicati nel primo libro e che qui ricostruiamo). Pat è un figlio della periferia di Boston, per l’esattezza del quartiere di Dorchester uno dei più degradati, negli anni Settanta. Teatro di lotte di mafia, ed al tempo gestito dalla mafia irlandese. Pat viene da grossi conflitti con il padre violento, ha alle spalle un matrimonio fallito ed in corso un rapporto che sembra di buon profilo con un’infermiera madre single. Ha lasciato alle spalle il mondo malavitoso, pur rimanendo in contatto con alcuni elementi al limite della legge, ma anche con poliziotti di buon profilo.

Da parte sua Angela è nipote di un boss mafioso di origini italiane e sta uscendo da un infelice matrimonio con Phil, marito molto manesco.

I due vengono coinvolti in una trama che inizia in sordina, ma che si ingrossa pagina dopo pagina. Una psicologa li coinvolge perché teme prima di essere coinvolta in una possibile vicenda di mafia, poi perché, risolta la prima grana, sembra in pericolo suo figlio. Pat e Angela risolvono il primo problema (con qualche violenza che permea sempre tutto il libro), poi prendono sottogamba il secondo. Tanto che il giovane Jason verrà trovato morto e massacrato.

Da qui, comincia la spirale delle indagini e della violenza. Che vengono trovati altri cadaveri, vuoi crocefissi, vuoi smembrati dopo rilevanti torture. Non abbiamo difficoltà a capire che, nel fondo, c’è l’ambiente di Dorchester, da cui tutti provengono, all’origine di tutto. Con lo strano particolare che alcune morti sembrano avere un filo rosso in comune, altre paiono solo essere avvenute perché il cattivo (o i cattivi) ha bisogno di esprimere la sua violenza uccidendo anche senza motivo.

La situazione diventa tanto pesante che non solo la polizia interviene a fianco dei nostri, ma si muove anche l’FBI. Riusciamo così a trovare il primo tassello: un detenuto, psicopatico, che sconta un ergastolo per un omicidio dalle caratteristiche simile agli attuali. Cosa che non ha potuto fare di persona, ma che compie in modo eterodiretto, dopo aver sottomesso un suo compagno di cella. Non solo sessualmente, ma anche psicologicamente.

Molti sono gli intrecci: la psicologa aveva fatto condannare lo psicopatico, il quale era figlio di un poliziotto, che, addolorato dalla deriva del figlio finirà nel morire prematuramente. Lasciando sul campo, per poco, il suo partner alla stradale. Che però ben presto si allontana dalla polizia e si mette a gestire un bar.

Quando anche Pat e Angela vengono minacciati direttamente, sempre più forte si fa il sentimento che tutto derivi dal passato nel quartiere dove tutti hanno vissuto o vivono. La violenza latente su Pat rischia di colpire anche la sua amante infermiera, che, giustamente, lo lascia.

Arriveremo così ad una corsa verso il finale, con tante morti, più o meno brutali, e con l’uscita allo scoperto degli assassini. Non solo del succube dello psicopatico, ma della mente (o braccio pensante) di tutto ciò. Di cui supponiamo ben presto sia l’esistenza sia la presenza. Non potrà che finire in un bagno di sangue, con l’unico spiraglio del finalmente ricongiungimento di Angela e Pat, che poi sappiamo continueranno le avventure con altre storie e con un diverso modo di affrontarle. Non anticipo altro, che chissà forse se ne leggerà altro.

Il bello del libro, oltre ad una cruda e reale fotografia di Boston, è la mancanza di momenti calanti. Tutto si mantiene su di un filo forte, in un crescendo di emozioni (e di morti). Lehane riesce a descrivere, anche se mai direttamente, la paura che sottende la vita, sorretta da un potere che deriva improvvisamente nella follia. Non mi convince molto la descrizione dei molti cattivi della storia, ma soprattutto è poco coinvolgente (forse troppo cinematografica) la lotta finale tra il bene ed il male. Anche perché del cattivo principe vediamo e scopriamo le azioni, ma forse non riusciamo ad entrare nella sua psicologia, nelle sue motivazioni.

È un thriller nel senso proprio della parola, è un romanzo pieno di azione e di suspense. Forse non riesce a trasmetterci tutto l’orrore che le vicende potrebbero suscitare. Anche perché, il racconto è in prima persona dalla parte di Pat, per cui sappiamo già che lui è la parte buona della storia, pur se le sue azioni a volte non sembra lo siano sino in fondo.

Ma Lehane è comunque un grande della nostra amata letteratura.

Arnaldur Indriðason “In silenzio si uccide” Repubblica Profondo Noir 23 euro 8,90

[A: 29/11/2021 – I: 22/10/2024 – T: 24/10/2024] &&&  

[tit. or.: Dauðarósir; ling. or.: islandese; pagine: 296; anno 1998]

Finalmente, gli editori italiani e qualche collana illuminata hanno deciso che anche le prime inchieste del commissario Erlandur Sveinsson uscite dalla penna del maestro del giallo islandese, Arnaldur Indriðason, potevano trovare spazio nel panorama editoriale italiano. Questa, in effetti, è la seconda inchiesta del nostro commissario, laddove mi manca (ma so che è stata pubblicata) solo la prima uscita. Perché, ricordo, quando, sull’onda del giallo scandinavo, cominciavano ad arrivare in Italia i libri del Nord, le storie di Arnaldur vennero pubblicate a partire dalla terza inchiesta. Misteri nostrani!

Certo, noi che si è letto l’opera omnia del nostro autore, ne vediamo alcuni elementi iniziali che fondano quello che, libro dopo libro, sarebbe diventato Erlandur. Ma anche, e questo è l’apporto filologico per un’analisi dello scrittore, come Arnaldur si sia evoluto nel corso del tempo. Evoluto, ma anche involuto, che dagli afflati sociali dei primi scritti, si passa ad una dimensione più intima e personale.

Teniamo quindi a mente il fatto che il romanzo è stato scritto nel 1998, un dato che serve per dare una dimensione a tutti i retroscena del caso. Che parte con una morte dalla messa in scena improbabile. Una ragazza sicuramente dedita alla droga viene trovata nuda sopra la tomba, contornata di rose, dell’eroe dell’indipendentismo islandese Jón Sigurðsson. Nessun documento, solo una “J” tatuata su di una natica.

Noi già conosciamo il futuro della serie, ma qui vediamo i primi passi del malinconico ispettore Erlandur Sveinsson e del suo assistente Sigurður Óli. Alla ricerca di indizi, Erlandur chiede aiuto anche alla figlia, Eva Lind, da poco ritrovata, ed anche lei molto out, per droghe ed altro. Trovano tracce, ma non decisive, se non alcuni accenni su un possibile commercio di stupefacenti, e su di un ragazzo, Janus, che spesso si accompagnava alla morta.

Tutti gli indizi, compresa la provenienza dell’eroe Jón portano verso i fiordi dell’Ovest, dove i nostri si recano per cercare tracce della ragazza. Ne trovano. Si chiamava Birta, fuggita appena possibile da casa, e perdutasi nel fondo nero della disperazione della capitale. Quello che Erlandur vede anche è lo spopolamento del territorio dell’Ovest, cosa che ho ritrovato anche io quando feci il mio primo giro verso Ísafjörður e dintorni. Poche cittadine, poche case spesso abbandonate o diventate seconde case per chi ha trovato spazio lavorativo altrove. Ma su questo torneremo.

Incrociando le informazioni ottenute sul territorio, nonché il rapimento di un possibile capobanda degli spacciatori, tal Herbert, i nostri si fanno un’idea sempre più precisa del contesto. Un sodale di Herbert, Kalmann, costruisce una rete di accaparramento delle “quote di pesca” (anche qui riprenderemo il discorso), lasciando i pescatori senza lavoro, se non in cooperative dove non possono che diventare più poveri, o lasciare il territorio.

Kalmann, sui terreni abandonati, impianta possibili speculazioni edilizie, mentre il suo sodale Herbert, gli fornisce materia per i suoi vizi privati: giovani donne che accettano anche di essere malmenate in cambio di soldi e della droga di Herbert. Non è un caso che Birta sia finita in quel giro, ma ne ha anche capito i meccanismi. Che forse intende usare o forse no, ma che di sicuro confida all’amico Janus.

In un crescendo di ambientazioni sempre più cupe e degradate, il nostro commissario viene a capo del mistero, anche se in un modo che non è del tutto atteso.

Certo, la scrittura di Arnaldur non ha la fluidità dei successivi romanzi, ma qui ha di sicuro il tocco della denuncia sociale per la deriva che sta avendo il mondo islandese. Riprendendo gli accenni sociali cui accennavo, nel 1992 il governo islandese istituisce le cosiddette “quote di pesca”, in base alle quali i pescatori avevano dei tetti massimi di pesce da pescare. Su questo, speculatori avidi e pieni di soldi, istituivano un acquisto massiccio delle quote dai pescatori singoli, trasformando completamente il mercato. Laddove avevano altri interessi, non usavano le quote, ed i pescatori, ed il loro indotto, erano costretti ad emigrare verso la capitale. Innescando un meccanismo economico perverso che nel 2008 porterà alla famosa crisi della bolla speculativa islandese, portando il paese oltre l’orlo della crisi, ad un vero crack finanziario. Il governo, tuttavia, si è rimboccato le maniche ed ora, a quindici anni di distanza, il paese si è di sicuro risollevato, ed è anche molto attrattivo, non solo per le sue bellezze naturali. Un solo elemento vorrei sottolineare: nel 2017 il governo ha emesso una legge che ha reso obbligatoria la parità di stipendio tra uomo e donna.

Tornando al libro, capite bene che è un libro sull’identità. Quella perduta che rimpiange Erlandur, quella non ancora trovata dove si perdono, ad esempio, i suoi figli, Eva Lind nella droga e Sindri Snaer nell’alcool. Un libro amaro, dove, l’attrazione per le luci sfavillanti della modernizzazione porta a sfracelli umani ed economici.

Come in tutti i suoi primi libri, Arnaldur ha più interesse a raccontarci il suo paese, probabilmente per scuotere i suoi concittadini. Ma lo fa con grande capacità, sia nella denuncia sociale che nelle descrizioni dei paesaggi. Con un percorso che lo porterà anche a delineare meglio i suoi personaggi, che qui sono ancora solo disegnati e non ben dipinti.

Due considerazioni finali. Uno degli elementi che porteranno alla soluzione della vicenda è il caso, come se Arnaldur avesse letto i libri del grande giallista italiano Augusto De Angelis, che sosteneva appunto il fatto che, nella maggior parte delle inchieste, il caso svolge un suo ruolo non marginale.

L’altro, al solito, è il titolo. Quello italiano non serve a nulla, se non ad invogliare un amante del giallo ad accostarsi al libro. L’originale riporta invece “Le rose della morte”, che acquisterà nel corso dell’indagine una sua importanza, dato che Birta viene deposta, morta, proprio in un tripudio di rose.

Pur nei quasi trent’anni dalla scrittura, e scontando una certa lentezza nella carburazione, è comunque una lettura interessante.

Petros Markaris “Il tempo dell’ipocrisia” Repubblica Brivido Noir 10 euro 8,90

[A: 19/08/2020– I: 01/11/2024 – T: 04/11/2024] - &&  

[tit. or.: Η εποχή της υποκρισίας; ling. or.: greco; pagine: 329; anno 2019]

Ragionando un po’ in controtendenza, pur essendo e rimanendo un assiduo e abbastanza attento lettore dei libri di Petros Markaris, devo dire che le ultime prove le ho trovate un po’ scontate e ripetitive. Come tutti i personaggi complessi e che seguiamo da una vita (il primo libro che ha visto il commissario Kostas Charitos come protagonista è uscito ormai trent’anni fa) Kostas si è evoluto, ed anche allargato nella vita privata e nella vita pubblica.

Su questo torneremo presto, mentre dobbiamo rilevare che Markaris, variando sul tema, continua a riproporci lo stesso schema: morte di personaggi pubblici (in genere tre, mai meno di due) ed indagini che intrecciano politica, economica e sentimenti sociali dei poveri greci, tartassati da tutto (internamente ed esternamente).

Si diceva degli allargamenti. Nel pubblico, Kostas diventa responsabile dell’apparato poliziesco, visto che il suo capo è andato in pensione. Ed in questo ruolo diventa meno burbero e più collaborativo. Tanto che in questa inchiesta lo vediamo collaborare con il responsabile delle frodi fiscali e quello dei crimini informatici, mentre un tempo eravamo abituati a vederlo agire quasi in solitaria.

Nella parte pubblica, che qui avrà un largo spazio, si annunciano e si vivono grandi epifanie. La prima è la nascita del figlio di Caterina e di Fanis, così che Kostas diventa nonno. Nipote che verrà chiamato Lambros, come il grande amico di famiglia, comunista, ex-perseguitato politico, che da sempre è vicino a tutti i Charitos. La nascita darà vita, come ovvio, a suntuosi banchetti di festeggiamento, nonché a piccole cene improvvisate quando c’è poco tempo tra una poppata ed una colichetta del piccolo. Da ricordare senz’altro i Γεμιστά, piatto eponimo della moglie Adriana, ed i Σουβλάκι, i terribili e buonissimi spiedini greci. Su entrambi torneremo.

Tralasciando quindi la parte privata, sempre ben tratteggiata da Markaris, anche se non è l’elemento trascinante del testo, veniamo al nocciolo della questione.

Si comincia facendo saltare in aria il magnate Paris Fokidis. Imprenditore che partendo da un albergo nella natia Calcidica, costruisce una catena alberghiera con hotel da Anàvyssos a Noùfaro, località dove è avvenuto l’assassinio, arrivando a Sifnos, a Creta e a Xilòkastro (e chi conosce la Grecia avrà capito la potenza economica). Nonché è titolare di un’agenzia di viaggi con sede a Londra. Non contento, si occupa di dare un tetto agli immigrati con una sua associazione filantropica. Insomma tutto bene?

Ed allora perché il delitto viene rivendicato da un fantomatico “Esercito degli Idioti Nazionali” che sfida la polizia a trovare i motivi della morte. Rivendicazioni che taglia subito fuori connotazioni mafiose, che la Mafia non rivendica, uccide e basta.

Ovvio che scavando si trovano le magagne. Negli alberghi, dopo che sono avviati con personale di livello, in genere di mezz’età, questi vengono licenziati e sostituiti con gli ospiti delle strutture di immigrazione, con notevoli risparmi economici. Inoltre la società non è di diritto greco, ma iscritta nelle Cayman, con conseguenti agevolazioni fiscali.

Non ci vuole molte a Kostas a comprendere che Paris era ipocrita. Come ipocrita sarà il secondo morto, un addetto all’Ufficio Statistico, che addomesticava le analisi dell’occupazione greca, sia per mascherare l’effettiva povertà, sia per venire incontro a velate richieste di Eurostat.

Potrebbe essere ipocrita anche la responsabile dei controlli bancari della Banca di Grecia, anche se, per pura casualità, l’attentato colpisce una persona innocente. Ma questa morte inutile serve a scatenare la crisi interna dell’Esercito di cui sopra. Nel finale, Kostas con le sue deduzioni e collegamenti arriva a comprendere come sia composta la formazione. Contemporaneamente i militanti del gruppo, in preda i rimorsi, si fanno arrestare.

Un finale un po’ veloce e poco coinvolgente, dove velatamente si riaffacciano antichi fantasmi del passato. Uccidere degli ipocriti (con l’opinione pubblica che velatamente approva la punizione se non l’atto) rimanda ad assassini politici di vecchia data. Ma uccidere, per noi e per Kostas non è né sarà mai una soluzione. Forse anche per Markaris che tuttavia non si risparmia denunciando i guasti del mondo del lavoro, i licenziamenti in età adulta, la classe benestante che si arricchisce sulle spalle della classe medio-bassa, dei danni economici derivanti dalla falsa crescita del PIL. Insomma tutti i guasti politici ed economici presenti non solo in Grecia ma in tutta l’area europea. Piccole denunce, nessuna soluzione, se non un richiamo all’onestà. Potrà bastare?

Noi, per non intristirci di più, torniamo almeno al cibo. A quello di strada che piace tanto a Kostas, con i souvlaki, gli spiedini di carne comprati per via. O, ancora meglio, a ghemistà che si citavano sopra, che, ricordo, sono pomodori o peperoni ripieni a volte solo di riso (ed allora si chiamano “orfani”) oppure anche con diversi tipi di carne (chiamati quindi “maritati”). Tra l’altro ricordo che la parola, in greco, significa “ripieni”.

Insomma, meglio una bella tavola imbandita da Adriana con le sue vivande, ed impreziosita da qualche alcolico ben fatto portato dal vecchio Lambros. Nell’attesa che, mangiando e bevendo, anche Petros ci porti qualcosa di nuovo.

Håkan Nesser “La nemica del cuore” Repubblica Profondo Noir 41 euro 8,90

[A: 05/04/2024 – I: 09/11/2024 – T: 10/11/2024] - & e ½   

[tit. or.: Kära Agnes; ling. or.: svedese; pagine: 136; anno 2002]

Cominciamo con alcune dovute precisazioni. Intanto ho scritto come anno di scrittura 2002, perché così vuole sia la vulgata editoriale, sia il fatto che risulterebbe l’anno di uscita in volume di questo testo. In realtà, questo, unito ad altri due romanzi brevi, faceva parte di un libro uscito nel 1996 dal titolo “Barins Triangel” (“Il triangolo di Barins”), dove venivano presentate tre storie che secondo l’autore rappresentavano momenti e situazioni eponime.

Poi Nesser decide di spacchettarle, e farli diventare tre libri, accomunati dal sottotitolo “Intrigo”, e dove la prima “Rein” (in italiano “Morte di uno scrittore”) esce quasi subito ed io ne ho già analizzato la trama due anni fa. Poi nel 2002 esce questa, in originale “Kära Agnes” e poi ne parleremo del perché. La terza esce nel 2015 con il titolo “Alois” ma non è ancora stata tradotta in italiano.

Intanto veniamo al titolo, che in originale, appunto, riporta l’inizio di una lettera. Ed in effetti molta parte del breve romanzo è costituito da lettere che si scambiano le due protagoniste, Agnes e Henny. Il titolo italiano invece si rifà alle modalità di rapporto tra le due, cercando di mescolare le carte per non far capire chi sia l’amica e chi la nemica. Al solito, io non approvo.

Per quanto riguarda invece il testo e lo sviluppo della trama, risulta debole, scontata e senza dubbio inferiore al primo libro, che già non era all’altezza delle prove migliori di Nesser. Capita che ad un autore non tutte le ciambelle riescano bene, ed io avrei evitato di riproporle in italiano, soprattutto in questa forma slegata e poco accattivante.

Detto quindi di un contesto che non permette di apprezzare al meglio il testo, è la storia stessa che risulta scopiazzata nelle idee, non particolarmente ben svolta nel suo dipanarsi nel tempo e nello spazio, con un finale annunciato da alcuni sottofinali che, letti attentamente, rendono inutile proseguire per le ultime venti pagine.

Nesser prova ad intrecciare un nero di stampo classico, del tipo che si apprezzava cinquanta o sessanta anni fa dalla penna di Cornell Woolrich. Mescolando il presente ed il passato di Agnes e Henny, ma dandoci un’ottica parziale, che la giovinezza delle due è vista solo con gli occhi di Agnes. Attraverso i quali vediamo nascere un’amicizia classica giovanile per poi deteriorarsi con il passare degli anni.

Henny soffia il bel ragazzino che piaceva ad Agnes, poi aiuta l’amica ad imparare una parte in un dramma, immedesimandosi talmente che alla fine partecipa anche lei all’audizione sbaragliando tutto il campo delle aspiranti attrici. Poi, finalmente, le due si perdono di vista, per poi ritrovarsi al funerale del marito di Agnes.

Qui si avvertono le prime crepe che di questo Erich morto relativamente giovane, si parla quasi come se lo si dovesse conoscere, mentre a me risulta un illustre sconosciuto. Tuttavia l’incontro tra le due ex-amiche dà il via alla parte più nera del testo, che risulta tuttavia una rimaneggiatura con varianti di un classico del genere.

Mi riferisco al bellissimo “Sconosciuti in treno”, classico noir del 1950 uscito dalla penna di Patricia Highsmith e poi portato magistralmente sullo schermo nel 1951 da Alfred Hitchcock con il titolo “Delitto per delitto” o “L’altro uomo” (anche qui, perché non utilizzare il titolo originale?). Rispetto al doppio delitto del libro, qui c’è un delitto a fronte di compensi in denaro, ma il meccanismo è lo stesso: tu uccidi una persona che non conosci ed io ti pago. Un mix tra ricerca di un sicario e scambio di delitti. Un meccanismo usato tante volte a partire dal primo libro e che vedrà un epigono complesso con incroci fino a tre persone come abbiamo letto anni fa in uno dei più brutti libri di Camilla Läckberg.

Nesser cerca di incuriosire il lettore con lo scambio di lettere, con i tuffi nel passato delle due donne, amiche ed altri elementi di contorno. Del tipo i modi progressivi per cui una convince l’altra ad accettare il patto di sangue, e poi la maniera di organizzare l’omicidio, i passi falsi da evitare, gli alibi da creare. Tutto però risulta vano ed inconcludente.

Si arriva alla fine delle meno di 150 pagine senza essere coinvolti più di tanto, neanche nella ricerca di un senso agli avvenimenti. E comunque, ritengo che la lettura del triangolo originale (vedi inizio trama) possa dare elementi maggiori di comprensione al testo.

Speriamo di tornare presto a leggere di Gunnar Barbarotti.

Brigitte Glaser “Buffet al veleno” Repubblica Brivido Noir 18 euro 8,90

[A: 29/09/2020 – I: 17/11/2024 – T: 18/11/2024] - && e ½  

[tit. or.: Himmel un Ääd; ling. or.: tedesco; pagine: 382; anno 2012]

È il quarto libro che leggo della simpatica Brigitte Glaser, tutti dedicati alle avventure poliziesco-culinarie della cuoca Katherine Schweitzer. Anche se, visto che comunque non ho una passione sviscerata per Brigitte, dopo i primi tre letti in sequenza, ne ho saltati due e questa è la sesta indagine della nostra Kate.

Visto inoltre che sono passati, oltre a due libri, anche venti mesi dall’ultima lettura, prima di immetterci nelle vicende narrate, cerchiamo di fare una piccola ricapitolazione. Allora Katherine Schweitzer, dove vari anni passati girovagando tra le cucine europee, tra Vienna, Bruxelles e la Germania, nel terzo episodio riesce ad aprire un suo ristorante, il Giglio Bianco. Ristorante atipico, dove si mangia gomito a gomito su lunghe tavolate e dove una grosse vetrata separa la sala dalla cucina, così che si possano vedere come lavorano i cuochi.

Dopo molto altalenarsi, finalmente ha un rapporto (quasi) stabile con il suo storico fidanzato Ecki, dato che lui fa il cuoco al Giglio e vive con lei, sempre nella casa della storica amica di Kate, Adela. Una convivenza multipla, visto che lì vive anche il compagno di Adela, il poliziotto in pensione Kuno. Non so dire molto sui libri mancati, se non che penso venga introdotta la curda Arin, che qui funge da cuoca in seconda per il Giglio.

Un altro passo prima di addentrarci nei meandri della trama riguarda il titolo. Ora il “buffet” del titolo italiano può solo riferirsi al catering proposto nel primo capitolo e che serve ad introdurre alcuni personaggi, soprattutto il bieco Eilert. Ma lì non muore nessuno, e ci sono solo relazioni velenose che magari verranno fuori nel seguito. Il titolo originale, che capisco di non facile traduzione, si riferisce ad un piatto della cucina renana, che in italiano suonerebbe “Cielo e Terra”, dato che vede uniti un purè di mele (cielo) ed un purè di patate (terra) mescolati con cipolle rosolate e qualcosa di maiale. Un tempo era sanguinaccio, ma ora che questo è di difficile fattura, si usano salsicce. Un piatto che verso la fine del libro, la nostra Kate mangia con gusto e non vi dico con chi.

Per la storia, invece, vediamo crescere pian piano una macchinazione criminosa nell’ambito della ristorazione. Il bieco Eilert di cui sopra è anche un affarista a tutto tondo, ed ora si è messo in testa di entrare nella ristorazione, con una formula che chiama “All-inclusive”, una specie di McDonald di livello, o di street food organizzato, dove in ampi locali ci sono isole gastronomiche dove ordini i tuoi piatti, ed un cicalino che ti avverte quando sono pronti. Un modo di mangiare che ho visto spesso recentemente in Asia, ma che, ovvio, risente di un abbassamento qualitativo del cibo, dovendo servire molta gente non educata a sapori particolari.

Per i suoi scopi, Eilert ha bisogno di spazi, per cui punta dei locali spaziosi o in posizioni interessanti, e poi manda all’avanguardia il suo “mister Wolf”, un tale Tomasz o Thomas o Tommi che si incarica di trovare il modo, spesso non proprio ortodosso, di cacciare i proprietari.

Non si capisce se questo sia il caso, ma tutto inizia con la morte del vecchio padrone di casa che ha affittato il locale d Katherine. Casuale o dolosa non si sa, né si saprà, ma si ipotizza. Poi viene trovata morta in un canale Minka una lavorante di Katherine. In realtà è da qui che comincia realmente qualcosa a suona storto. Minka stava facendo dello spionaggio sulla situazione e le attività del Giglio Bianco, sia per conto di Tomasz sia in unione con Ecki, il supposto fidanzato di Kate, che per la giovane aveva preso una sbandata. Anzi, ci sono tutta una serie di indizi che porterebbero alla colpevolezza del tipo.

Nel mentre avanzano le indagini, muore precipitando da una finestra, ma con un morso di cobra nel tallone, l’erede del primo morto, poco prima di firmare con Kate il rinnovo del contratto d’affitto. Sarà ovviamente Kate a riunire i vari puntini sospesi della vicenda, presentarli in maniera organica al commissario Brandt incaricato delle indagine, ed a risolvere il caso in un finale pieno di serpenti velenosi.

Oltre alla soluzione del caso, due solo i risultati finali dell’episodio. Poiché Ecki realmente aveva avuto una storia con Minka alle spalle di Kate, lei lo manda, finalmente, a coltivare fiori in altri luoghi. Inoltre, si introduce il simpatico Brandt, utile nelle indagini, ma stranamente cultore di un orto di piante locali che sono di sicuro interesse per i nostri cuochi.

Con la solita preponderanza di citazioni culinarie durante tutta la trama, è un libro che scorre piacevolmente, ben congeniato nella parte non-mistery, mentre un po’ debole sul versante giallo. Anche se, al solito, Brigitte non manca di scagliarsi contro qualche malaffare, in questo caso la massificazione della ristorazione e la speculazione edilizia. Sempre lodevole.

Come sempre lodevoli sono le ricette di fine libro, dove, oltre a quella che dà il titolo al libro, ne vengono proposte altre. Non vi parlo dei dolci che sono classici, ma vi invito a pensare ai seguenti piatti: crema di piselli al wasabi, gamberetti e pane di segale; gelatina di cetrioli con crema al gin e trota affumicata, ravanelli e crescione asiatico; salmone crudo su crema di latticello al sambuco; asparagi con crepes tagliate a strisce e saltate in padella, prosciutto della Foresta Nera e salsa olandese.

Non sarà una grande scrittura, ma a me incuriosisce questo tocco di cucina.

“Dai, beviamoci una birra scura alla Mort Subite.” (247) [il locale si trova a Bruxelles ed è uno dei luoghi iconici dei miei lavori in Belgio, dove infatti andavo, dopo le riunioni in Comunità Europea, non per bere la Mort Subite (la Kriek è alla ciliegia, disgustosa), ma per deliziarmi con una “blanche” al limone]

Questa volta, invece del controcanto, mi lascio andare ad un coro di sottofondo, che, ripensando a queste frasi di Michael Connelly tratte da “La bionda di cemento” ci sarebbe da riflettere:

“Aveva sempre condotto una vita solitaria, ma questo non significava che fosse stato sempre solo. Aveva dei segreti, alcuni dei quali sepolti molto profondamente, e non se la sentiva di condividerli … Non ancora, almeno.” (64)

“Lui aveva otto anni di più e sapeva di dimostrarli, ma non si vergognava del proprio aspetto.” (120)

“Nessuno in questo mondo è quello che dice di essere … E nessuno conosce veramente gli altri, anche se è convinto del contrario. Il meglio che puoi sperare è conoscere te stesso. E certe volte, quando ci riesci, quando vedi sul serio come sei, devi guardare da un’altra parte…” (381)

Come forse qualcuno sa, si avvicina una piccola fuga sudamericana, prodroma, si spera, di altre e più ampie fughe. Abbiamo ancora avuto qualche rovescio di fortuna (strascichi dell’anno funesto), ma anche momenti interessanti. Laddove, per chi è di Roma o chi a Roma può passare, segnalo di andare a vedere i bellissimi mosaici della chiesa di Santa Pudenziana. Un trionfo di oro e di simboli, come simbolico è il mio caloroso abbraccio ad amici e lettori.

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