domenica 26 gennaio 2025

Torna la montagna - 26 gennaio 2025

 Avendo percorso tra dicembre e gennaio un buon numero di letture montuose, questa settimana la dedichiamo all’esimia collana di Repubblica. Che tutto sommato è stata discretamente deludente. Come in questa cinquina, mai elevatasi oltre una sufficienza di molto incoraggiamento e sprofondata con una prova poco leggibile di Paola Cosolo Marangon. Non ci meravigliamo quindi che le letture migliori vengano da autori collaudati con Nico Orengo e Marco Vichi.

Max Solinas “Il lupo e l’equilibrista” Repubblica Montagna 19 euro 9,90

[A: 24/07/2021 – I: 14/09/2024 – T: 15/09/2024] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno: 2019]

Max Solinas è uno scultore che vive in un borgo veneto, dedito alle sue (apprezzate) scultore devote alle figure femminili, accompagnato da Arja, la sua lupa cecoslovacca con cui divide i suoi giorni. Giorni che a volte decide di dedicare alla scrittura, producendo alcuni discreti libri di ambiente pedemontano e naturalista. Tra questi, decide di trasfondere il suo incontro con il selvaggio animale, in una favola che non è autobiografica nella trama quanto nell’idea di base: incontro e costruzione di un rapporto tra l’uomo e l’animale.

Nasce così questo racconto, in cui seguiamo la maturazione verso qualcosa, che non vediamo all’inizio, di Chris, alter ego del nostro scrittore.

Chris ha da sempre vissuto in montagna e per la montagna, di cui conosce ogni curva, ogni sasso, ogni salita ed ogni discesa. Eventi dolorosi l’hanno costretto a distaccarsi dal quotidiano montano. Ed altre decisioni, per poter vivere, lo portano spesso in giro per il mondo al fine di sponsorizzare gli articoli di un’azienda che lo paga per delle arrampicate acrobatiche con indosso i propri prodotti. Un lavoro di certo molto redditizio, ma poco gratificante.

Con l’unica soddisfazione che, dopo un viaggio lontano, può tornare alle sue terre dove lo aspetta la sua compagna, Francesca, veterinaria e di un’empatia unica verso gli animali, soprattutto quelli feroci e problematici. Al ritorno di uno di questi viaggi, sempre più insoddisfatto, Francesca gli fa trovare una sorpresa.

Un circo della zona con numeri appunto da circo con animali di diverso genere deve trovare il modo di sbarazzarsi di un lupo che, non riuscendo ad avere un sano rapporto con il suo domatore, gli ha mostrato i denti, segno di una potenziale e pericolosa aggressività. Il lupo, dopo quel gesto, ha come perso la fiducia nel mondo degli umani, e sembra voler lasciarsi morire di fame non trovando nessuno spunto per restare al mondo.

Una morte che Francesca vorrebbe evitare, e trova che l’unico modo possibile sia stabilire una connessione tra Chris e il lupo. Una connessione che sembra scattare al primo sguardo, che Chris rimane ammaliato dal lupo. Ma che il lupo non sembra ricambiare, avendo da attraversare lunghi momenti di riconquista della fiducia. Una fiducia che, tuttavia, anche Chris non sa come suscitare.

Federica deve correre verso altre cure, e lascia Chris e il lupo a trovare il modo di comunicare. Vediamo così e seguiamo il percorso dell’uomo che osserva a lungo il lupo, fermo in un angolo della gabbia senza aver voglia né di muoversi né di mangiare. Vediamo Chris preparare ciotole di cibo, che, con lentezza, ma con una discreta costanza, avvicina al lupo. Che rimane diffidente, poi sembra addolcire lo sguardo, anche se non mangia mai con umani vicini.

Tuttavia, il filo tra i due si comincia a dipanare, e noi seguiamo questo filo, seguiamo il cammino delle due entità che, mute e guardinghe, trovano il loro modo di comunicare la reciproca solitudine e la reciproca fiducia. Fino a che, Chris non decida che sia arrivato il momento decisivo. Andar per la montagna con il lupo, in un cammino che lo porti per alcuni giorni lontano da tutti, solo lui ed il selvaggio animale. Se si è stabilita la connessione, si vedrà solo se torneranno insieme e rispettosi delle proprie sfere.

Vediamo così questo percorso, felice, di un uomo che parte alla ricerca di sé stesso e di un lupo che gli insegna a guardare la realtà con uno sguardo diverso e che impara da Chris che esistono anche uomini di cui si può avere fiducia.

Ho apprezzato in Solinas la minuziosa descrizione dell’ambiente montana, e quel progressivo aumento della fiducia reciproca, attraverso l’uso di un elemento spesso poco apprezzato, la pazienza. Purtroppo, pur salendo per monti e scendendo per valli, il tono generale rimane un po’ da altopiano, senza grandi coinvolgimenti. Un libro che passa presto, lasciando piccoli echi di memoria. Ed una grande frase sul rapporto con i libri che faccio senz’altro mia.

“Ogni libro mi ha insegnato qualcosa, soprattutto quelli che non mi sono piaciuti, e non perché fossero scritti male, ma perché evidentemente non era il momento giusto di affrontarli: a loro rendo il merito di avermi fatto capire da che parte andare. Del resto, io sono la somma di tutti i libri che ho letto e di ognuno ho conservato una parola, una frase.” (172)

Nico Orengo “Di viole e liquirizia” Repubblica Montagna 9 euro 9,90

[A: 13/05/2021 – I: 05/10/2024 – T: 06/10/2024] && e ½     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno: 2005]

Pur avendone sentito parlare, in particolare ricordo un commento positivo di mia madre su di un suo libro ambientato in Liguria (purtroppo non ricordo quale), non avevo mai letto nulla del marchese Nicola Orengo detto Nico. So che lavorò a lungo in Einaudi e fu a lungo responsabile di quell’esimia pubblicazione che tratta di libri com’è tuttora “Tuttolibri” supplemento de “La Stampa”. Questa prova conferma la presenza di una bella penna, di una buona idea narrativa, anche se, nel complesso, è stata una lettura discreta ma non esaltante.

Buona in particolare per l’aspetto geografico, dove facendo centro nella città di Alba, ci si sposta su e giù per le Langhe, attraversando vigneti e discettando dei vini piemontesi, che è sempre una buona cosa. Meno coinvolgente nella parte narrativa, anche se la storia di Daniel Lorenzi prende abbastanza e ci si appassiona alla sua passione.

Daniel è un sommelier francese immotivatamente appassionato dei vini piemontesi. Su invito di Amalia, proprietaria dell’enoteca “Tastevin” viene a tenere un corso di degustazione sui Grandi di Francia, intesi come vini esimi dei nostri cugini. Daniel viene da un lungo divorzio doloroso, con una ex che continua a rimproverargli di tutto, e con una figlia ventenne da poco uscita da qualche grosso problema di droghe, ed in cerca di arie nuove.

In quel di Alba, il nostro si imbatte nei problemi di Amelia, legati alla cascina di famiglia, “La Ginotta”, che sarebbe perfetta se qualcuno si curasse di seguire il Barbaresco che potrebbe esservi prodotto. Ma Amelia ha un pessimo ricordo della cascina, legata ad un doloroso episodio che a suo tempo portò alla morte del padre. Un ricordo condiviso, ma non con la stessa tensione, con il fratello Giulio, che a partire da quel lontano episodio sviluppa un rapporto di amore e odio con la sorella.

La presenza di Daniel, cui da subito Amelia sembra avere una piccola propensione, scatena il malessere di Giulio, che in una serata maldestra, perde a poker la sua metà della cascina. E non con una persona qualsiasi, ma con lo squallido Baravalle, un rozzo vignaiolo che da tempo voleva tutta la tenuta e che si comporta nella sua metà con fare strafottente e molto sopra le righe.

Dopo vari giri e rigiri, gradevoli per quel vagabondare per le terre e per le persone che si incrociano, bisognerà arrivare ad una resa dei conti finale. Dove Daniel si batterà sfidando il Baravalle in una degustazione cieca di vini locali, in cui Daniel non solo deve riconoscere il vino che sta degustando, ma indicarne l’annata e la cantina di provenienza. Una sfida tremenda, che io, da degustatore dilettante, trovo assolutamente insensata. Ma Orengo la descrive e ce ne fa partecipi in modo gradevole e coinvolgente.

Riuscirà Daniel a vincere la sfida? Riuscirà al fine a tagliare i cordoni con la ex moglie e ad aprirsi verso Amelia, cui non vediamo che anche lui ha un coinvolgimento non banale? Piccoli dettagli che lascio alla benevolenza di possibili lettori.

Io torno su alcuni dettagli. Altri attori della trama, ad esempio. Il simpatico Lorenzo, un taxista che scarrozza Daniel in lungo e largo per il territorio, e che, in controtendenza con i locali, beve soltanto birra. La misteriosa Maria, una giapponese dal nome italico, venuta in Italia per fare un giro delle cantine con lo scopo di assaggiare vini da commerciare in Giappone. La stessa figlia di Daniel, che capita lì per essere coccolata dal padre, e che diventa subito amica di Maria, e con lei decide di proseguire il tour italiano su vini e cantine. E poi, di contorno, giocatori di pallone elastico (lo sport più praticato nelle Langhe), vinificatori, scommettitori di varia intensità, ed ovviamente, i turisti stranieri (che girano per l’Italia dove non vanno gli italiani).

Ricordo con piacere poi le prime cinquanta (circa) pagine del libro dove si gira per paesi, vigne storiche e produttori locali. Pagine che mi riportano ad una delle domande dell’esame di sommelier su quali siano i tre vitigni bianchi del Piemonte (risposta per chi non ha voglia di cercare: Arneis, Erbaluce e Timorasso).

Ma la vena di Orengo, tra un bicchiere e l’altro, riesce anche a far passare qualche messaggio sociopolitico come l’abbandono del territorio o il ruolo della FIAT in Piemonte. Una vena che ci ha lasciato ormai da quindici anni, ma che, con gentilezza, qui risuona. Un delicato piacere di lettura, anche se non di forte impatto emotivo.

Paola Cosolo Marangon “La donna che rincorreva le nuvole” Repubblica Montagna 23 euro 9,90

[A: 22/08/2021 – I: 08/12/2024 – T: 10/12/2024] & +     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno: 2013]

Paola Cosolo Marangon è una pedagogista di professione, alpinista per vocazione e scrittrice per diletto, laddove diletto sta nel piacere di scrivere per comunicare con gli altri, per condividere con gli altri i suoi momenti montanari. Almeno questo è quanto mi arriva da questo libro, pur sapendo che l’autrice ha scritto anche altro. Ma noi stiamo parlando di montagne e su questo tema rimaniamo.

Con uno scritto che per una serie di ragione non è entrato nelle mie corde. Come difficilmente lo sono anche altri volumi di questa raccolta che ho collezionato per aprire uno spiraglio di possibilità verso un mondo che mi incuriosisce se parliamo di camminare, meno mi attrae quando si passa a scalate o altre avventure montuose per me assai perigliose.

L’altro motivo di minor attrazione è il fatto che, seppur con una fondamentale unita di luogo e di intenti, il testo si compone di una serie di racconti, che toccano qua e là delle corde, ma, come spesso mi succede in questi testi, mi lasciano al fine abbastanza freddo e lontano.

Certo, la natura entra prepotentemente in tutti i testi del libro, una natura forte come spesso è in montagna. Una natura anche pericolosa, che, laddove siamo immersi in un territorio che non è il nostro, bisogna armarsi di una sana umiltà ed affrontarlo con la riverenza verso un ambiente che, sicuramente, può nascondere delle insidie.

Il teatro della narrazione è fondamentalmente la cittadina carnica di Forni di Sopra, che Paola ha imparato a conoscere da bimba, e che ha continuato ad amare e frequentare sempre. Questi è anche un tasto che tocca bene nel narrato, dove non solo facendo salti temporali ci si ricorda di esservi cresciuta nei primi anni della maturità cognitiva, ma, e questo è di sicuro un pregio, con quell’innocenza bambina che solo i personaggi di una vita serena possono portare nella loro maturità.

Così si parla delle favole narrate dai nonni, piene di fate e di folletti, ma anche dei personaggi bui, che la montagna vede camminare sui suoi costanti anche orsi, che nella mente diventano Yeti o altre figure che portano paura. Ma poi le favole rimangono dentro, così che Paola incontra (sogna?) le fatine dei boschi, ed altre situazioni fantastiche e/o oniriche.

Pur affrontando tutto ciò con molta serenità, qui compare l’altro elemento discostante della narrazione. Un’espressione sempre soggettiva, con alcuni cambi di soggetto che non si percepiscono a prima lettura, rimanendone quindi leggermente spiazzati. Come uno dei racconti che meno mi ha coinvolto, dove è un faggio contornato da abeti, che parla narrando la sua storia, citando fulmini e tempeste, financo un terremoto. Ma senza riuscire in me a suscitare lo straniamento che servirebbe per aderire alla narrazione fantastica.

Negli altri testi si svaria molto, da minute descrizioni di ambienti montani, che quasi cartograficamente vengono fuori dalle pagine, a momenti di vita rurale, da elencazioni di una flora vasta e complessa, la cui comprensione rimando a chi, ben più di me, conosce queste espressioni di vita. Per me sono delle macchie di colore, bellissime macchie, ma elementi di cui non riesco a capire la natura. Per poi passare, in alcuni punti e soprattutto nel finale, a ricordarci che la montagna va sempre affrontata con molta cautela, che il pericolo e finanche la morte sono lì, appena dietro l’angolo.

Nel complesso, tuttavia, non è un testo che mi ha lasciato molte altre tracce. Ed anche la scrittura mi è rimasta molto esterna e poco coinvolgente. Solo in alcuni momenti, è riuscita a varcare le soglie del cuore. In un momento topografico ed in un ricordo colto a volo.

Che pur non avendo spesso frequentato i luoghi, di certo il testo mi ha riportato momenti della mia grande famiglia, laddove, pur essendo Forni in Friuli, è sulla strada statale che da Tolmezzo, svalicando sul Lago di Cadore, arriva sino a Cortina d’Ampezzo, luogo natio di due miei zii, nonché di un mio caro cugino. E queste storie mi riportano a loro, ai loro racconti, ed a quelli della Valle del Boite di un altro cugino.

Finisco cogliendo a volo una carezza al cuore, laddove a pagina 33, Paola ricorda alcune frasi di uno dei grandi amici e sodali di mio padre, il presbitero, filosofo e poeta Davide Maria Turoldo. Un pensiero di pace mi ha accolto in quelle parole. Di pace e di speranza.

“Si continua … a voler cercare la solitudine che fa comprendere l’importanza degli altri, la bellezza delle relazioni.” (24)

Marco Vichi “Il brigante” Repubblica Montagna 6 euro 9,90

[A: 25/04/2021 – I: 07/01/2025 – T: 08/01/2025] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 175; anno: 2006]

Marco Vichi è una vecchia frequentazione della mia libreria, dove è presente per il suo lato giallista con le avventure del commissario Bordelli (credo sette romanzi). Qui compare con una narrazione che, seppur inserita nel tema della collana, non ha una grande attinenza con le montagne, se non per il fatto che si parla di briganti ed i briganti, si sa, non vivono in pianura.

Nelle storie di Bordelli, Vichi aveva ed ha ben esplorato quei sottili confini che separano il bene dal male, una labile frontiera di cui non sempre si ha chiarezza. Qui abbiamo una storia, o meglio diverse storie in cui ad azioni malvagie fanno seguito reazioni anch’esse non ortodosse, dove neanche l’amore riesce a riscattare i protagonisti. Ma per raccontarci una sorta di apologo prende la strada delle antiche narrazioni, quelle che i vecchi facevano intorno al fuoco, la sera, per tenersi compagnia, bevendo vino e riflettendo ad alta voce.

Capitiamo così in una locanda sperduta, il Tasso Morto, unico possibile rifugio, in base ad un vecchio proclama, in cui il più feroce brigante della zona, Giovanni di Castelnero detto Frate Capestro, può trovare riposo, senza tema di essere preso della guardie ducali. L’azione, o meglio i racconti, che di azione diretta ne vediamo poca, si srotola dalla memoria di quattro avventori, capitati per casso nella locanda, dove incontro appunto il brigante che riposa. Racconti che si collocano nel Granducato di Toscana, tra il regno di Pietro Leopoldo (1747 – 1792) e Leopoldo II (1797 – 1870, anche se abdica nel 1859).

Seppur importanti le date suddette, i fatti che gli avventori raccontano a volte spaziano molto e fanno capire che spesso le gesta dell’uno sono riflesso di gesta anche di molti e diversi. Che se il locandiere comincia narrando i fatti e le fughe di Frate Capestro avvenute al tempo di Pietro Leopoldo, le vicende coeve al narrato si collocano intorno al 1820 o anche al 1830. Un lasso di tempo troppo ampio. Ma la finzione narrativa ne sorregge l’impianto, che le fughe di Frate Capestro ben esemplificano la figura di un brigante ladro sì, ma un po’ Robin Hood.

Vediamo che non tocca mai le donne, che uccide malvagi, che si dispiace se coinvolge innocenti. E mentre dorme, o finge di dormire, gli avventori narrano. Quello a cui mancano due dita parla della maledizione del nonno, che lanciò anatemi ai suoi discendenti non approvando il matrimonio tra suo figlio di primo letto e la figlia di primo letto della sua seconda moglie. E dita mozze ci narra come tutta la sua stirpe muore di morte violenta.

Poi viene il vecchio, che potrebbe essere coevo del Frate, che narra dello stupro che, per rabbia commette, per poi pentirsi, fuggire, fare la vita randagia del brigante, fino a ritrovare in un bosco una bimba accanto alla madre morta di morte violenta. Bimba che, per i capricci del caso, risulterà essere sua nipote.

Lunga è poi la storia dell’ultimo arrivato, nato povero, preso a ben volere da un Marchese per motivi strampalati, cresciuto come domestico fino all’incontro con un sedicente rivoluzionario, imbevuto dello spirito della Rivoluzione Francese. Che gli spiega, e ci spiega, che i nobili, anche quando sono apparentemente buoni, nel fondo non possono che essere malvagi che non muovono un dito per migliorare le sorti dei contadini e di chi è costretto al duro lavoro senza speranza di redenzione. Il giovane si infiamma e si unisce alla lotta, per questo ora si aggira tra i monti, per non essere incarcerato.

Al fine, Frate Capestro si sveglia e narra anche lui la sua storia di orfano, cresciuto ed abusato in un monastero, dove, quando diventa giovanotto, fa una strage per iniziare la sua vita di brigante. Potrebbe e può finire così, tutti hanno narrato, tutti si sentono espiati delle colpe commesse, ognuno per la sua strada. Ma Vichi è tormentato dal troppo buonismo, così che propone anche un diverso finale, in cui non tutti si salvano, e chi si salva non sappiamo se perché ha un fondo di dirittura morale interna, pur nel mondo del male, o perché è veramente la malvagità che trionfa nel nostro mondo non certo buono.

Voleva fare un racconto a tema, forse. Purtroppo, ne escono storie a volte interessanti, a volte scontate, che si legano solo perché narrate intorno ad un fuoco. Forse l’unica morale che ne traiamo è che tutti i protagonisti venivano da famiglie povere, tutti erano stati colpiti da sventure, tutti erano quindi stati spinti a vendicarsi compiendo azioni malvagie.

Anche la scrittura, che altrove in Vichi si fa narrazione e partecipazione, qui rimane descrittiva e molto esterna al possibile sacro furore antisistema dei protagonisti. Insomma, non proprio una lettura indimenticabile, laddove alcuni strali contro il potere non possono che essere condivisibili e fatti nostri.

Sara Loffredi “Fronte di scavo” Repubblica Montagna 15 euro 9,90

[A: 22/06/2021 – I: 18/01/2025 – T: 19/01/2025] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno: 2020]

Sara Loffredi non ancora cinquantenne, milanese, esperta divulgatrice per bambini, ha scritto anche romanzi (seppur non molti), tra cui questo “Fronte di scavo” che di sicuro è in linea con le linee guida della collana di Repubblica “Storie di Montagna”, ma è anche, come si evince dalle ultime righe della nota finale, un tributo ed un ricordo dedicato al padre.

Dicevo in linea con la collana perché, rispetto anche ad altri libri inseriti dall’editore, qui si parla e con dovizia di riferimenti, di montagna, e di storie di montagna. Visto che il filo conduttore del testo è il lavoro relativo al traforo del Monte Bianco. Traforo cui aveva partecipato anche il padre della scrittrice.

Fatte queste premesse, il libro, se nelle parti più strettamente montuose, ha degli elementi di interesse, nella parte romanzata risulta un po’ di superfice, senza purtroppo mai affondare il discorso in profondità. Noi seguiamo le vicende del traforo, dal maggio 1961 all’abbattimento dell’ultimo diaframma, il 14 agosto 1962, attraverso gli occhi ed i pensieri di un fittizio ingegnere, Ettore, trentacinquenne di non grande esperienza, ma di grande voglia di imparare.

Non entriamo mai nel dettaglio del lavoro di Ettore, che seguiamo invece in alcuni momenti montanari e personali. L’approccio alla montagna, innanzi tutto, guidato dal capocantiere, con cui comincia ad affrontare le strade dei monti intorno al massiccio del Bianco, e con lui seguiamo l’approssimarsi ad una vicinanza con la natura. Da intarsi vari, sapremo che Ettore non è stato mai un appassionato di cime montuose, avendo al massimo passato le estati giovanili a Bellagio, su Lago di Como.

Vedremo quindi come, salita dopo salita, passeggiata dopo passeggiata, Ettore acquisti dimestichezza, ed alla fine confesserà di essersi preso un bell’amore per i monti. Anche quando si riempirà di vesciche (ed allora, via con gli scarponcini nuovi), sia quando una brutta storta sembra costringerlo in casa (ed ecco comparire la figura tipica del conciaossa o, in termini locali, il “rabeilleur”, una persona, molto presente nelle icnografie valligiane, dotata di grande sensibilità manuale, con la quale allevia o risolve i problemi del corpo).

Vedremo anche nascere, crescere e morire (forse) un amore tra Ettore e la bella Nina. Che si era rifugiata lassù nei cantieri del traforo, sia per sfuggire al marito, che per mettere distanze con un amante gran dottore milanese. Ovvio che Ettore ed il capocantiere entreranno in conflitto su Nina. Ettore avrà la meglio, ma alla fine Nina tornerà in città. Soprattutto a fronte delle cure necessarie per riprendersi da un incidente in montagna. Incidente realmente avvenuto, anche se con diverse  modalità e risultati.

Avremo anche dei flashback sulla giovinezza di Ettore (amori ancillari ed altre turbe giovanili), nonché sul rapporto con il fratello che, senza motivi apparenti, ad un certo punto prende la via dell’alienazione, e verrà ricoverato in un ospedale psichiatrico. Tutti elementi che servono a restituirci la personalità di Ettore, ma che non riescono a farcelo sentire più “umano”.

Sull’altro versante c’è la storia, per cenni e piccole digressioni, del traforo del Monte Bianco. Una galleria che affascinava i savoiardi sin dal Settecento, ma che solo dopo la guerra prende una via costruttiva. Per merito di un industriale visionario, il Conte Secondino “Dino” Lora Totino, che con le sole sue forze comincia a scavare, per poi coinvolgere le autorità italiane e francesi sull’utilità e sulla fattibilità del traforo. Anche utilizzando il lavoro di un altro pioniere il geometra Pietro Alaria, temerario triangolatore delle misurazioni necessarie agli scavi.

Vediamo l’avanzare dei lavori, le ferite che vengono inferte alla montagna, la ribellione della montagna stessa. Incessantemente con l’acqua che minaccia le gallerie. Ma in particolare con la valanga, improvvisa e mortale, che il 5 aprile del ’62 investe le casette degli operai, provocando tre morti. La valanga che nella finzione letteraria travolge e rischia di far morire Nina, salvata, anche, dall’intervento di Ettore.

Ed alla fine anche la rincorsa delle due equipe di scavatori per raggiungere per primi il punto mediano, di 5800 metri di percorso. Corsa che verrà, per un pelo, vinta dagli italiani, che il 14 agosto, fanno saltare l’ultimo diaframma.

Insomma, un racconto leggero, con qualche spunto di piccole riflessioni (rapporti umani e rapporti con la natura), che non ne fanno un testo che prende, ma che lo rendono leggibile e garbato. Un giudizio che non è da poco, in tempi di letture che spaziano dall’orrendo al sublime. Anche perché ci porta ad un finale aperto, dove lasciamo Ettore ed il capocantiere alle gioie del lavoro benfatto, ma non sappiamo cosa faranno dopo, cosa farà Nina, cosa succederà a tutti. Non importa granché, in fondo, abbiamo fatto una salita con tutti loro, ad esso è il nostro passo a guidare la discesa.

Viviamo tempi grami e sembra che non se ne veda un limpido rifiorire. Così ben mi vengono in mente due frasi di Stéphane Hessel tratte dal suo veloce pamphlet “Indignatevi!”:

“Il nostro è un mondo vasto. … Ma in questo mondo esistono cose intollerabili. Per accorgersene occorre affinare lo sguardo … L’indifferenza è il peggiore di tutti gli atteggiamenti … Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue” (15)

“Continuiamo a invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti.” (30)

E sulla stessa lunghezza d’onda, se ben ne riflettete, è la prima frase di Edith Wharton proveniente da “L'età dell'innocenza”: “Quando uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che non riusciva più a vivere diversamente” (340) Perché tutti noi, il nostro dovere lo abbiamo fatto. L’ultima frase, sempre dallo stesso libro mi (e ci) aiuta a riflettere sull’età (Tiziano dipinse la “Pietà” per la sua tomba a quasi novant’anni): “D’un tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma ho soltanto cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)

Volge alla fine il primo mese del nuovo anno, e dopo un po’ di attesa si ricomincia non a leggere, che non si smette mai, ma a viaggiare. Per cui non potrò esservi vicino per qualche tempo. Ma solo in scrittura, che le mie parole sono sempre vicine a chi mi legge ed a chi le leggerà quando a tempo. Quindi, al ritorno vi farò sapere com’è andata questa nuova avventura. Per ora non vi faccio mancare i miei abbracci.

Nessun commento:

Posta un commento