Max Solinas “Il lupo e l’equilibrista”
Repubblica Montagna 19 euro 9,90
[A: 24/07/2021 – I: 14/09/2024 – T:
15/09/2024] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno:
2019]
Max Solinas è uno scultore che vive in un
borgo veneto, dedito alle sue (apprezzate) scultore devote alle figure
femminili, accompagnato da Arja, la sua lupa cecoslovacca con cui divide i suoi
giorni. Giorni che a volte decide di dedicare alla scrittura, producendo alcuni
discreti libri di ambiente pedemontano e naturalista. Tra questi, decide di
trasfondere il suo incontro con il selvaggio animale, in una favola che non è
autobiografica nella trama quanto nell’idea di base: incontro e costruzione di
un rapporto tra l’uomo e l’animale.
Nasce così questo racconto, in cui seguiamo
la maturazione verso qualcosa, che non vediamo all’inizio, di Chris, alter ego
del nostro scrittore.
Chris ha da sempre vissuto in montagna e per
la montagna, di cui conosce ogni curva, ogni sasso, ogni salita ed ogni
discesa. Eventi dolorosi l’hanno costretto a distaccarsi dal quotidiano
montano. Ed altre decisioni, per poter vivere, lo portano spesso in giro per il
mondo al fine di sponsorizzare gli articoli di un’azienda che lo paga per delle
arrampicate acrobatiche con indosso i propri prodotti. Un lavoro di certo molto
redditizio, ma poco gratificante.
Con l’unica soddisfazione che, dopo un
viaggio lontano, può tornare alle sue terre dove lo aspetta la sua compagna,
Francesca, veterinaria e di un’empatia unica verso gli animali, soprattutto
quelli feroci e problematici. Al ritorno di uno di questi viaggi, sempre più
insoddisfatto, Francesca gli fa trovare una sorpresa.
Un circo della zona con numeri appunto da
circo con animali di diverso genere deve trovare il modo di sbarazzarsi di un
lupo che, non riuscendo ad avere un sano rapporto con il suo domatore, gli ha
mostrato i denti, segno di una potenziale e pericolosa aggressività. Il lupo,
dopo quel gesto, ha come perso la fiducia nel mondo degli umani, e sembra voler
lasciarsi morire di fame non trovando nessuno spunto per restare al mondo.
Una morte che Francesca vorrebbe evitare, e
trova che l’unico modo possibile sia stabilire una connessione tra Chris e il
lupo. Una connessione che sembra scattare al primo sguardo, che Chris rimane
ammaliato dal lupo. Ma che il lupo non sembra ricambiare, avendo da
attraversare lunghi momenti di riconquista della fiducia. Una fiducia che,
tuttavia, anche Chris non sa come suscitare.
Federica deve correre verso altre cure, e
lascia Chris e il lupo a trovare il modo di comunicare. Vediamo così e seguiamo
il percorso dell’uomo che osserva a lungo il lupo, fermo in un angolo della
gabbia senza aver voglia né di muoversi né di mangiare. Vediamo Chris preparare
ciotole di cibo, che, con lentezza, ma con una discreta costanza, avvicina al
lupo. Che rimane diffidente, poi sembra addolcire lo sguardo, anche se non
mangia mai con umani vicini.
Tuttavia, il filo tra i due si comincia a
dipanare, e noi seguiamo questo filo, seguiamo il cammino delle due entità che,
mute e guardinghe, trovano il loro modo di comunicare la reciproca solitudine e
la reciproca fiducia. Fino a che, Chris non decida che sia arrivato il momento
decisivo. Andar per la montagna con il lupo, in un cammino che lo porti per
alcuni giorni lontano da tutti, solo lui ed il selvaggio animale. Se si è
stabilita la connessione, si vedrà solo se torneranno insieme e rispettosi delle
proprie sfere.
Vediamo così questo percorso, felice, di un
uomo che parte alla ricerca di sé stesso e di un lupo che gli insegna a
guardare la realtà con uno sguardo diverso e che impara da Chris che esistono
anche uomini di cui si può avere fiducia.
Ho apprezzato in Solinas la minuziosa
descrizione dell’ambiente montana, e quel progressivo aumento della fiducia
reciproca, attraverso l’uso di un elemento spesso poco apprezzato, la pazienza.
Purtroppo, pur salendo per monti e scendendo per valli, il tono generale rimane
un po’ da altopiano, senza grandi coinvolgimenti. Un libro che passa presto,
lasciando piccoli echi di memoria. Ed una grande frase sul rapporto con i libri
che faccio senz’altro mia.
“Ogni libro mi ha insegnato qualcosa,
soprattutto quelli che non mi sono piaciuti, e non perché fossero scritti male,
ma perché evidentemente non era il momento giusto di affrontarli: a loro rendo
il merito di avermi fatto capire da che parte andare. Del resto, io sono la
somma di tutti i libri che ho letto e di ognuno ho conservato una parola, una
frase.” (172)
Nico Orengo “Di viole e liquirizia”
Repubblica Montagna 9 euro 9,90
[A: 13/05/2021 – I: 05/10/2024 – T:
06/10/2024] &&
e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno:
2005]
Pur avendone sentito parlare, in particolare
ricordo un commento positivo di mia madre su di un suo libro ambientato in
Liguria (purtroppo non ricordo quale), non avevo mai letto nulla del marchese
Nicola Orengo detto Nico. So che lavorò a lungo in Einaudi e fu a lungo
responsabile di quell’esimia pubblicazione che tratta di libri com’è tuttora
“Tuttolibri” supplemento de “La Stampa”. Questa prova conferma la presenza di
una bella penna, di una buona idea narrativa, anche se, nel complesso, è stata
una lettura discreta ma non esaltante.
Buona in particolare per l’aspetto
geografico, dove facendo centro nella città di Alba, ci si sposta su e giù per
le Langhe, attraversando vigneti e discettando dei vini piemontesi, che è
sempre una buona cosa. Meno coinvolgente nella parte narrativa, anche se la
storia di Daniel Lorenzi prende abbastanza e ci si appassiona alla sua
passione.
Daniel è un sommelier francese
immotivatamente appassionato dei vini piemontesi. Su invito di Amalia,
proprietaria dell’enoteca “Tastevin” viene a tenere un corso di degustazione
sui Grandi di Francia, intesi come vini esimi dei nostri cugini. Daniel viene
da un lungo divorzio doloroso, con una ex che continua a rimproverargli di
tutto, e con una figlia ventenne da poco uscita da qualche grosso problema di
droghe, ed in cerca di arie nuove.
In quel di Alba, il nostro si imbatte nei
problemi di Amelia, legati alla cascina di famiglia, “La Ginotta”, che sarebbe
perfetta se qualcuno si curasse di seguire il Barbaresco che potrebbe esservi
prodotto. Ma Amelia ha un pessimo ricordo della cascina, legata ad un doloroso
episodio che a suo tempo portò alla morte del padre. Un ricordo condiviso, ma
non con la stessa tensione, con il fratello Giulio, che a partire da quel
lontano episodio sviluppa un rapporto di amore e odio con la sorella.
La presenza di Daniel, cui da subito Amelia
sembra avere una piccola propensione, scatena il malessere di Giulio, che in
una serata maldestra, perde a poker la sua metà della cascina. E non con una
persona qualsiasi, ma con lo squallido Baravalle, un rozzo vignaiolo che da
tempo voleva tutta la tenuta e che si comporta nella sua metà con fare
strafottente e molto sopra le righe.
Dopo vari giri e rigiri, gradevoli per quel
vagabondare per le terre e per le persone che si incrociano, bisognerà arrivare
ad una resa dei conti finale. Dove Daniel si batterà sfidando il Baravalle in
una degustazione cieca di vini locali, in cui Daniel non solo deve riconoscere
il vino che sta degustando, ma indicarne l’annata e la cantina di provenienza.
Una sfida tremenda, che io, da degustatore dilettante, trovo assolutamente
insensata. Ma Orengo la descrive e ce ne fa partecipi in modo gradevole e coinvolgente.
Riuscirà Daniel a vincere la sfida? Riuscirà
al fine a tagliare i cordoni con la ex moglie e ad aprirsi verso Amelia, cui
non vediamo che anche lui ha un coinvolgimento non banale? Piccoli dettagli che
lascio alla benevolenza di possibili lettori.
Io torno su alcuni dettagli. Altri attori
della trama, ad esempio. Il simpatico Lorenzo, un taxista che scarrozza Daniel
in lungo e largo per il territorio, e che, in controtendenza con i locali, beve
soltanto birra. La misteriosa Maria, una giapponese dal nome italico, venuta in
Italia per fare un giro delle cantine con lo
scopo di assaggiare vini da commerciare in Giappone. La stessa figlia di
Daniel, che capita lì per essere coccolata dal padre, e che diventa subito
amica di Maria, e con lei decide di proseguire il tour italiano su vini e
cantine. E poi, di contorno, giocatori di pallone elastico (lo sport più
praticato nelle Langhe), vinificatori, scommettitori di varia intensità, ed
ovviamente, i turisti stranieri (che girano per l’Italia dove non vanno gli
italiani).
Ricordo
con piacere poi le prime cinquanta (circa) pagine del libro dove si gira per
paesi, vigne storiche e produttori locali. Pagine che mi riportano ad una delle
domande dell’esame di sommelier su quali siano i tre vitigni bianchi del
Piemonte (risposta per chi non ha voglia di cercare: Arneis, Erbaluce e
Timorasso).
Ma
la vena di Orengo, tra un bicchiere e l’altro, riesce anche a far passare
qualche messaggio sociopolitico come l’abbandono del territorio o il ruolo
della FIAT in Piemonte. Una vena che ci ha lasciato ormai da quindici anni, ma
che, con gentilezza, qui risuona. Un delicato piacere di lettura, anche se non
di forte impatto emotivo.
Paola Cosolo Marangon “La donna che
rincorreva le nuvole” Repubblica Montagna 23 euro 9,90
[A: 22/08/2021 – I: 08/12/2024 – T:
10/12/2024] & +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 173; anno:
2013]
Con uno scritto che per una serie di ragione
non è entrato nelle mie corde. Come difficilmente lo sono anche altri volumi di
questa raccolta che ho collezionato per aprire uno spiraglio di possibilità
verso un mondo che mi incuriosisce se parliamo di camminare, meno mi attrae
quando si passa a scalate o altre avventure montuose per me assai perigliose.
L’altro motivo di minor attrazione è il fatto
che, seppur con una fondamentale unita di luogo e di intenti, il testo si
compone di una serie di racconti, che toccano qua e là delle corde, ma, come
spesso mi succede in questi testi, mi lasciano al fine abbastanza freddo e
lontano.
Certo, la natura entra prepotentemente in
tutti i testi del libro, una natura forte come spesso è in montagna. Una natura
anche pericolosa, che, laddove siamo immersi in un territorio che non è il
nostro, bisogna armarsi di una sana umiltà ed affrontarlo con la riverenza
verso un ambiente che, sicuramente, può nascondere delle insidie.
Il teatro della narrazione è fondamentalmente
la cittadina carnica di Forni di Sopra, che Paola ha imparato a conoscere da
bimba, e che ha continuato ad amare e frequentare sempre. Questi è anche un
tasto che tocca bene nel narrato, dove non solo facendo salti temporali ci si
ricorda di esservi cresciuta nei primi anni della maturità cognitiva, ma, e
questo è di sicuro un pregio, con quell’innocenza bambina che solo i personaggi
di una vita serena possono portare nella loro maturità.
Così si parla delle favole narrate dai nonni,
piene di fate e di folletti, ma anche dei personaggi bui, che la montagna vede
camminare sui suoi costanti anche orsi, che nella mente diventano Yeti o altre
figure che portano paura. Ma poi le favole rimangono dentro, così che Paola
incontra (sogna?) le fatine dei boschi, ed altre situazioni fantastiche e/o
oniriche.
Pur affrontando tutto ciò con molta serenità,
qui compare l’altro elemento discostante della narrazione. Un’espressione
sempre soggettiva, con alcuni cambi di soggetto che non si percepiscono a prima
lettura, rimanendone quindi leggermente spiazzati. Come uno dei racconti che
meno mi ha coinvolto, dove è un faggio contornato da abeti, che parla narrando
la sua storia, citando fulmini e tempeste, financo un terremoto. Ma senza
riuscire in me a suscitare lo straniamento che servirebbe per aderire alla narrazione
fantastica.
Negli altri testi si svaria molto, da minute
descrizioni di ambienti montani, che quasi cartograficamente vengono fuori
dalle pagine, a momenti di vita rurale, da elencazioni di una flora vasta e
complessa, la cui comprensione rimando a chi, ben più di me, conosce queste
espressioni di vita. Per me sono delle macchie di colore, bellissime macchie,
ma elementi di cui non riesco a capire la natura. Per poi passare, in alcuni
punti e soprattutto nel finale, a ricordarci che la montagna va sempre
affrontata con molta cautela, che il pericolo e finanche la morte sono lì,
appena dietro l’angolo.
Nel complesso, tuttavia, non è un testo che
mi ha lasciato molte altre tracce. Ed anche la scrittura mi è rimasta molto
esterna e poco coinvolgente. Solo in alcuni momenti, è riuscita a varcare le
soglie del cuore. In un momento topografico ed in un ricordo colto a volo.
Che pur non avendo spesso frequentato i
luoghi, di certo il testo mi ha riportato momenti della mia grande famiglia,
laddove, pur essendo Forni in Friuli, è sulla strada statale che da Tolmezzo,
svalicando sul Lago di Cadore, arriva sino a Cortina d’Ampezzo, luogo natio di
due miei zii, nonché di un mio caro cugino. E queste storie mi riportano a
loro, ai loro racconti, ed a quelli della Valle del Boite di un altro cugino.
Finisco cogliendo a volo una carezza al
cuore, laddove a pagina 33, Paola ricorda alcune frasi di uno dei grandi amici
e sodali di mio padre, il presbitero, filosofo e poeta Davide Maria Turoldo. Un
pensiero di pace mi ha accolto in quelle parole. Di pace e di speranza.
“Si continua … a voler cercare la
solitudine che fa comprendere l’importanza degli altri, la bellezza delle
relazioni.” (24)
Marco Vichi “Il brigante” Repubblica
Montagna 6 euro 9,90
[A: 25/04/2021 – I: 07/01/2025 – T:
08/01/2025] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 175; anno:
2006]
Nelle
storie di Bordelli, Vichi aveva ed ha ben esplorato quei sottili confini che
separano il bene dal male, una labile frontiera di cui non sempre si ha
chiarezza. Qui abbiamo una storia, o meglio diverse storie in cui ad azioni
malvagie fanno seguito reazioni anch’esse non ortodosse, dove neanche l’amore
riesce a riscattare i protagonisti. Ma per raccontarci una sorta di apologo
prende la strada delle antiche narrazioni, quelle che i vecchi facevano intorno
al fuoco, la sera, per tenersi compagnia, bevendo vino e riflettendo ad alta
voce.
Capitiamo
così in una locanda sperduta, il Tasso Morto, unico possibile rifugio, in base
ad un vecchio proclama, in cui il più feroce brigante della zona, Giovanni di
Castelnero detto Frate Capestro, può trovare riposo, senza tema di essere preso
della guardie ducali. L’azione, o meglio i racconti, che di azione diretta ne
vediamo poca, si srotola dalla memoria di quattro avventori, capitati per casso
nella locanda, dove incontro appunto il brigante che riposa. Racconti che si
collocano nel Granducato di Toscana, tra il regno di Pietro Leopoldo (1747 –
1792) e Leopoldo II (1797 – 1870, anche se abdica nel 1859).
Seppur
importanti le date suddette, i fatti che gli avventori raccontano a volte
spaziano molto e fanno capire che spesso le gesta dell’uno sono riflesso di
gesta anche di molti e diversi. Che se il locandiere comincia narrando i fatti
e le fughe di Frate Capestro avvenute al tempo di Pietro Leopoldo, le vicende
coeve al narrato si collocano intorno al 1820 o anche al 1830. Un lasso di
tempo troppo ampio. Ma la finzione narrativa ne sorregge l’impianto, che le
fughe di Frate Capestro ben esemplificano la figura di un brigante ladro sì, ma
un po’ Robin Hood.
Vediamo
che non tocca mai le donne, che uccide malvagi, che si dispiace se coinvolge
innocenti. E mentre dorme, o finge di dormire, gli avventori narrano. Quello a
cui mancano due dita parla della maledizione del nonno, che lanciò anatemi ai
suoi discendenti non approvando il matrimonio tra suo figlio di primo letto e
la figlia di primo letto della sua seconda moglie. E dita mozze ci narra come
tutta la sua stirpe muore di morte violenta.
Poi
viene il vecchio, che potrebbe essere coevo del Frate, che narra dello stupro
che, per rabbia commette, per poi pentirsi, fuggire, fare la vita randagia del
brigante, fino a ritrovare in un bosco una bimba accanto alla madre morta di
morte violenta. Bimba che, per i capricci del caso, risulterà essere sua
nipote.
Lunga
è poi la storia dell’ultimo arrivato, nato povero, preso a ben volere da un
Marchese per motivi strampalati, cresciuto come domestico fino all’incontro con
un sedicente rivoluzionario, imbevuto dello spirito della Rivoluzione Francese.
Che gli spiega, e ci spiega, che i nobili, anche quando sono apparentemente
buoni, nel fondo non possono che essere malvagi che non muovono un dito per
migliorare le sorti dei contadini e di chi è costretto al duro lavoro senza
speranza di redenzione. Il giovane si infiamma e si unisce alla lotta, per
questo ora si aggira tra i monti, per non essere incarcerato.
Al
fine, Frate Capestro si sveglia e narra anche lui la sua storia di orfano,
cresciuto ed abusato in un monastero, dove, quando diventa giovanotto, fa una
strage per iniziare la sua vita di brigante. Potrebbe e può finire così, tutti
hanno narrato, tutti si sentono espiati delle colpe commesse, ognuno per la sua
strada. Ma Vichi è tormentato dal troppo buonismo, così che propone anche un
diverso finale, in cui non tutti si salvano, e chi si salva non sappiamo se
perché ha un fondo di dirittura morale interna, pur nel mondo del male, o
perché è veramente la malvagità che trionfa nel nostro mondo non certo buono.
Voleva
fare un racconto a tema, forse. Purtroppo, ne escono storie a volte
interessanti, a volte scontate, che si legano solo perché narrate intorno ad un
fuoco. Forse l’unica morale che ne traiamo è che tutti i protagonisti venivano
da famiglie povere, tutti erano stati colpiti da sventure, tutti erano quindi
stati spinti a vendicarsi compiendo azioni malvagie.
Anche
la scrittura, che altrove in Vichi si fa narrazione e partecipazione, qui
rimane descrittiva e molto esterna al possibile sacro furore antisistema dei
protagonisti. Insomma, non proprio una lettura indimenticabile, laddove alcuni
strali contro il potere non possono che essere condivisibili e fatti nostri.
Sara Loffredi “Fronte di scavo” Repubblica
Montagna 15 euro 9,90
[A: 22/06/2021 – I: 18/01/2025 – T:
19/01/2025] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 174; anno:
2020]
Sara Loffredi non
ancora cinquantenne, milanese, esperta divulgatrice per bambini, ha scritto
anche romanzi (seppur non molti), tra cui questo “Fronte di scavo” che di
sicuro è in linea con le linee guida della collana di Repubblica “Storie di
Montagna”, ma è anche, come si evince dalle ultime righe della nota finale, un
tributo ed un ricordo dedicato al padre.
Dicevo in linea con la collana perché,
rispetto anche ad altri libri inseriti dall’editore, qui si parla e con dovizia
di riferimenti, di montagna, e di storie di montagna. Visto che il filo
conduttore del testo è il lavoro relativo al traforo del Monte Bianco. Traforo
cui aveva partecipato anche il padre della scrittrice.
Fatte queste premesse, il libro, se nelle
parti più strettamente montuose, ha degli elementi di interesse, nella parte
romanzata risulta un po’ di superfice, senza purtroppo mai affondare il
discorso in profondità. Noi seguiamo le vicende del traforo, dal maggio 1961
all’abbattimento dell’ultimo diaframma, il 14 agosto 1962, attraverso gli occhi
ed i pensieri di un fittizio ingegnere, Ettore, trentacinquenne di non grande
esperienza, ma di grande voglia di imparare.
Non entriamo mai nel dettaglio del lavoro di
Ettore, che seguiamo invece in alcuni momenti montanari e personali.
L’approccio alla montagna, innanzi tutto, guidato dal capocantiere, con cui
comincia ad affrontare le strade dei monti intorno al massiccio del Bianco, e
con lui seguiamo l’approssimarsi ad una vicinanza con la natura. Da intarsi
vari, sapremo che Ettore non è stato mai un appassionato di cime montuose,
avendo al massimo passato le estati giovanili a Bellagio, su Lago di Como.
Vedremo quindi come, salita dopo salita,
passeggiata dopo passeggiata, Ettore acquisti dimestichezza, ed alla fine
confesserà di essersi preso un bell’amore per i monti. Anche quando si riempirà
di vesciche (ed allora, via con gli scarponcini nuovi), sia quando una brutta
storta sembra costringerlo in casa (ed ecco comparire la figura tipica del
conciaossa o, in termini locali, il “rabeilleur”, una persona, molto presente
nelle icnografie valligiane, dotata di grande sensibilità manuale, con la quale
allevia o risolve i problemi del corpo).
Vedremo anche nascere, crescere e morire
(forse) un amore tra Ettore e la bella Nina. Che si era rifugiata lassù nei
cantieri del traforo, sia per sfuggire al marito, che per mettere distanze con
un amante gran dottore milanese. Ovvio che Ettore ed il capocantiere entreranno
in conflitto su Nina. Ettore avrà la meglio, ma alla fine Nina tornerà in
città. Soprattutto a fronte delle cure necessarie per riprendersi da un
incidente in montagna. Incidente realmente avvenuto, anche se con diverse modalità e risultati.
Avremo anche dei flashback sulla giovinezza
di Ettore (amori ancillari ed altre turbe giovanili), nonché sul rapporto con
il fratello che, senza motivi apparenti, ad un certo punto prende la via
dell’alienazione, e verrà ricoverato in un ospedale psichiatrico. Tutti
elementi che servono a restituirci la personalità di Ettore, ma che non
riescono a farcelo sentire più “umano”.
Sull’altro versante c’è la storia, per cenni
e piccole digressioni, del traforo del Monte Bianco. Una galleria che
affascinava i savoiardi sin dal Settecento, ma che solo dopo la guerra prende
una via costruttiva. Per merito di un industriale visionario, il Conte
Secondino “Dino” Lora Totino, che con le sole sue forze comincia a scavare, per
poi coinvolgere le autorità italiane e francesi sull’utilità e sulla
fattibilità del traforo. Anche utilizzando il lavoro di un altro pioniere il
geometra Pietro Alaria, temerario triangolatore delle misurazioni necessarie
agli scavi.
Vediamo l’avanzare dei lavori, le ferite che
vengono inferte alla montagna, la ribellione della montagna stessa.
Incessantemente con l’acqua che minaccia le gallerie. Ma in particolare con la
valanga, improvvisa e mortale, che il 5 aprile del ’62 investe le casette degli
operai, provocando tre morti. La valanga che nella finzione letteraria travolge
e rischia di far morire Nina, salvata, anche, dall’intervento di Ettore.
Ed alla fine anche la rincorsa delle due
equipe di scavatori per raggiungere per primi il punto mediano, di 5800 metri
di percorso. Corsa che verrà, per un pelo, vinta dagli italiani, che il 14
agosto, fanno saltare l’ultimo diaframma.
Insomma, un racconto leggero, con qualche
spunto di piccole riflessioni (rapporti umani e rapporti con la natura), che
non ne fanno un testo che prende, ma che lo rendono leggibile e garbato. Un
giudizio che non è da poco, in tempi di letture che spaziano dall’orrendo al
sublime. Anche perché ci porta ad un finale aperto, dove lasciamo Ettore ed il
capocantiere alle gioie del lavoro benfatto, ma non sappiamo cosa faranno dopo,
cosa farà Nina, cosa succederà a tutti. Non importa granché, in fondo, abbiamo
fatto una salita con tutti loro, ad esso è il nostro passo a guidare la
discesa.
Viviamo tempi grami e sembra che non se ne
veda un limpido rifiorire. Così ben mi vengono in mente due frasi di Stéphane Hessel tratte dal suo veloce pamphlet
“Indignatevi!”:
“Il
nostro è un mondo vasto. … Ma in questo mondo esistono cose intollerabili. Per
accorgersene occorre affinare lo sguardo … L’indifferenza è il peggiore di
tutti gli atteggiamenti … Comportandoci in questo modo, perdiamo una delle
componenti essenziali dell’umano. Una delle sue qualità indispensabili: la
capacità di indignarsi e l’impegno che ne consegue” (15)
“Continuiamo
a invocare una vera e propria insurrezione pacifica contro i mass media, che ai
nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il
disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la
competizione a oltranza di tutti contro tutti.” (30)
E sulla stessa lunghezza d’onda, se ben ne
riflettete, è la prima frase di Edith Wharton proveniente da “L'età dell'innocenza”: “Quando
uno aveva vissuto facendo il proprio dovere c’era un guaio: che non riusciva
più a vivere diversamente” (340) Perché tutti noi, il nostro dovere lo abbiamo
fatto. L’ultima frase, sempre dallo stesso libro mi (e ci) aiuta a riflettere
sull’età (Tiziano dipinse la “Pietà” per la sua tomba a quasi novant’anni): “D’un
tratto, davanti a uno splendido Tiziano, disse dentro di sé: ‘Ma ho soltanto
cinquantasette anni…’ e poi si volse per andare via.” (345)
Volge alla fine il primo mese del nuovo anno, e dopo un po’ di attesa si ricomincia non a leggere, che non si smette mai, ma a viaggiare. Per cui non potrò esservi vicino per qualche tempo. Ma solo in scrittura, che le mie parole sono sempre vicine a chi mi legge ed a chi le leggerà quando a tempo. Quindi, al ritorno vi farò sapere com’è andata questa nuova avventura. Per ora non vi faccio mancare i miei abbracci.
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