In
definitiva, una settimana decisamente di buone letture.
Hernan Diaz “Trust” Feltrinelli euro 22 (in
realtà, scontato a 20,90 euro)
[A: 28/08/2024 – I: 12/10/2024 – T:
14/10/2024] - &&&
e ½
[tit. or.: Trust; ling. or.: inglese; pagine: 378; anno 2022]
Questo libro nasce da una delle liste
recenti di possibili novità che sto facendo nell’ultimo periodo. È inserito
nell’elenco dei libri più interessanti degli anni 2000, ed inoltre è il
vincitore, ad ex-equo con “Demon Copperhead” di Barbara Kingsolver del Premio
Pulitzer per la Narrativa del 2023. Tutti validi motivi per leggerlo, ed anche
per leggerlo abbastanza presto.
Data l’esperienza giornalistica non
meraviglia sia la spigliata scrittura di Diaz, sia la capacità di assumere
diversi punti di vista per imbastire una storia che si aggira intorno ad un
nodo spinoso della vita, soprattutto americana, raccontare il modo in cui
vengono fatti i soldi. Per il suo intento il nostro autore si inventa una sorta
di “Rashomon” sulla finanza americana. Descrive così una saga familiare
complessa, e ci lascia dubbi alle spalle, che ognuno colmerà come più gli
aggrada il proprio temperamento.
Parlo del grande film di Kurosawa
perché la narrazione si sviluppa in quattro racconti, che potrebbero essere
libri a sé stanti, narrati da voci diverse, ma che girano sempre intorno alla
domanda iniziale, e per spiegare come si arriva ad accumulare i soldi, Diaz si
inventa una plausibile famiglia americana. Le voci servono a dipingerla,
facendolo diventare un emblema di quanto ci vuole narrare.
Allora, veniamo alle quattro voci del
libro.
La prima parte è un romanzo che
racconta l’ascesa di un capitalista senza scrupoli nell’America che va da
inizio Novecento a dopo la Seconda guerra mondiale. Il ricco americano sposa
una ragazza da sempre vissuta in Europa, e creano un sodalizio di ferro. Lui,
con il suo fiuto, fa e disfa imperi. Tanto che si mormora che, avendo venduto
tutto, abbia creato lui la bolla che portò al crollo della borsa nel ’29. Lei,
filantropica, investe senza scopi apparenti in operazioni benefiche nelle arti.
Ma la pressione economica è centripeta: spinge il denaro verso di lui e spinge
lei verso la pazzia. Finché viene ricoverata in un sanatorio-manicomio in
Svizzera, dove una cura sperimentale approvata dal marito la uccide.
Il secondo testo è invece
un’autobiografia. Andrew, che il finto narratore aveva dipinto spietato e
crudele nel romanzo, decide di prendere la penna e ristabilire la sua verità,
su come abbia fatto fortuna e sui suoi rapporti con la moglie Mildred. Questa
sua vita si capisce subito essere edulcorata e piena di buchi. Andrew tenta di
dimostrare come il suo guadagno, oltre che onesto, si fondasse sulla sua
convergenza verso il bene pubblico. E la moglie non diventa pazza, ma le viene
diagnosticato un cancro che la porta alla tomba.
Nella terza parte scopriamo parte del
mistero che la scrittura precedente aveva instaurato. Non era Andrew che
scriveva, ma Ida Partenza, una ghostwriter figlia di un anarchico italiano.
Durante il rapporto con Andrew rimane sempre più colpita dalla figura della
moglie, ma il libro di Andrew rimane incompiuto per la morte del magnate. Ida
diventa nel tempo a sua volta scrittrice, rimanendo sempre con la mente alla
vicenda che le ha segnato la vita. Tanto da scoprire, in vecchiaia, un diario
dimenticato di Mildred.
E finalmente, nell’ultima parte,
seguiamo direttamente le parole di Mildred, che mettono tutta la storia in una
luce inaspettata e nuova. Non è la solitaria donna del primo romanzo né lo
spettro impalpabile dell’autobiografia. Ma cosa sia ve lo lascio leggere, che
forse, con tutti i limiti del romanzo nel complesso, è forse l’idea migliore
uscita dalla penna di Diaz.
Insieme a due altri elementi.
L’analisi della nascita di un impero economico, avendo sempre in mente che la
ricchezza non è mai un elemento unificante, anzi è sempre un elemento che
divide scrittori e lettori. L’altra è la consapevolezza, quando leggi il modo
di presentare gli avvenimenti, che, come narratori della nostra personale
verità, siamo tutti inaffidabili. Una constatazione che potrebbe far partire
una seria riflessione sulla scrittura.
Vorrei però tornare sul titolo del
romanzo, e sulle implicazioni del suo uso in questo contesto narrativo,
sottolineando che, fortunatamente, i traduttori non hanno cercato di usarne
improprie traduzioni italiani. Perché “Trust” in inglese è una parola dalle
molteplici accezioni, tutte sfruttate in questo romano. Significa coalizione di
imprese, e qui si parla molto di finanza, di capitalismo, di società economiche
e/o morali collegate. Una coalizione, il trust, che serve a sbaragliare la
concorrenza puntando all’aumento dei profitti per le imprese partecipanti. Ma
“trust” vuol dire anche fiducia. E di che dobbiamo averne? Dello scrittore che
romanza la vita di Andrew e Mildred o della ghostwriter che cerca di separare,
per quanto possa, buone o false notizie? Di Andrew che narra la sua storia,
autoglorificandosi e marginalizzando Mildred o di Mildred che cambia le care in
tavola?
Per questo, all’inizio mi rifacevo,
anche, a “Rashomon”, perché anche qui, alla fine, ci si chiede quale sia la
verità, di quale racconto ci si può fidare. Questo è uno dei pregi del testo,
unito alla capacità letteraria dell’autore nell’affrontare un tema di non
facile approccio. Certo, per me, la prima parte, quando si narrano le vicende avvenute nel sanatorio, risulta un
po’ lunga e pesante.
Finisco, riportando un commento che
l’autore stesso ripropone discutendo del suo scritto. Laddove sostiene che il
capitalismo, per sua natura, non può che collassare, a meno che non esca fuori
(dove? Su quali basi?) un capitalismo dal volto umano. Un ossimoro o una
speranza?
“So che i giorni che mi aspettano
sono meno di quelli che mi sono lasciato alle spalle. … A ciascuno di noi è
assegnata una certa quantità di tempo. … Tuttavia, anche se i nostri giorni su
questa terra sono limitati, possiamo sempre … sperare di estendere la nostra
influenza nel futuro.” (130)
“La peggiore letteratura … è sempre
scritta con le migliori intenzioni.” (198)
Abraham Verghese “La porta delle lacrime”
Neri Pozza euro 22 (in realtà, scontato a 20,90 euro)
[A: 28/08/2024 – I: 30/10/2024 – T: 01/11/2024] - &&&
[tit. or.: Cutting for Stone; ling. or.: inglese; pagine: 630; anno 2009]
Di
Verghese avevo già scritto dopo la prima lettura, ma riprendo brevemente il
filo. Lui è essenzialmente un medico, nato ad Addis Abeba in Etiopia da
genitori indiani. Risulterebbe un bravo medico, almeno da quanto si dice in
rete, e di sicuro ha un buon talento nel riversare sue esperienze in scrittura.
In particolare, in questo primo libro, che, di certo, contiene molte parti che,
se non sono autobiografiche, di sicuro ci si avvicinano.
Comunque,
al solito, facciamo la ripetitiva ramanzina agli editori italiani. Il titolo
inglese si fondava su un gioco di rimandi plurimo. Il narratore della storia è
Marion Stone (inciso, Marion è un nome maschile, messo al ragazzo in onore di
James Marion Sims, considerato il fondatore della ginecologia moderna). Non
solo, ma nasce con un parto gemellare, e con il gemello, Shiva, legato con un
piccolo peduncolo sulla testa, in pratica gemelli siamesi molto “light” e
subito separati. Cioè, tagliati, “cutting”. In Italia, tutto ciò viene
accantonato in favore della menzione, in italiano, di un luogo fisico, eponimo
per chi dall’India si avvia alle terre africane degli altopiani etiopi ed
eritrei. Si tratta di “Bab el-Mandeb”, che già se fosse citata in originale
potrebbe trasportarci nei luoghi dell’azione. Viene addirittura scelta una
traduzione italiana, e dico una che “Mandeb” potrebbe anche indicare “lamento
funebre”, che si accompagna, ma non sempre, alle lacrime, ma che, per lo
stretto in questione indica solo il punto di ingresso per il Canale di Suez. Ci
sarebbero fiumi di parole da dire, ma per ora finiamola qui.
La
storia dei gemelli Stone si spande dal 1954 ai giorni della scrittura (insomma
una cinquantina di anni) con qualche puntata nel passato al fine di spiegare
l’origine di alcuni personaggi, nonché le loro storie ed il loro intreccio. Che
al solito, nella prosa di Verghese non può prescindere dall’intrecciarsi anche
con le vicende politiche locali.
Intanto
vediamo i personaggi della storia.
Un
punto centrale, anche se poi agisce in persona solo nell’ultima parte, è Thomas
Stone, chirurgo dalle mani d’oro, impegnato nei paesi del Terzo Mondo in una
missione “Emergency” ante-litteram. Certo non vive al meglio tutto il dolore
che incontra. Unico suo rifugio, il suo aiuto, la suora infermiera. Lei è suor Mary
Joseph Praise, indiana cattolica del Kerala, inviata in Africa come
missionaria, ma che si ferma lì, ad Addis Abeba, avendo incontrato Thomas e
capendo l’importanza dei loro sforzi per il funzionamento dell’ospedale.
Capiremo
poi come e quando hanno un rapporto intimo, ma di sicuro c’è, che Mary rimane
incinta, ma durante il parto travagliato, i gemelli vengono salvati, lei no. E
Thomas, distrutto dal dolore, fugge e non tornerà più in Africa.
A
salvare i gemelli, ed a costruire intorno a loro una famiglia saranno la
dottoressa Kalpana Hemlatha, detta Hema, ginecologa, ed il dottor Abhi Ghosh,
medico generico e poi chirurgo per forza (non ce n’erano altri). Morta la
madre, fuggito il padre, Hema e Ghosh uniscono le loro forze, anche se
impiegheranno del tempo a chiarirsi tra loro. Ma per non far morire MarionShiva
c’è bisogno di latte, che verrà fornito dalla balia che ha appena partorito una
bambina Genet.
Non
vi dico tutte le peripezie dei nostri, che servono a riempire il ponderoso
volume di Verghese, anche se non posso non ricordare che, per narrare del
parto, vengono impiegate più di cento pagine. Ma i nostri tre crescono ognuno
con il loro carattere: chiuso, introverso, intelligente ma demotivato Marion,
solare, estroverso, quasi senza freni Shiva, debole farfalla preda di tanti
furori, pronta a seguire ogni piccola piega di quella che lei chiama libertà
Genet.
Procederanno
per anni nel loro mondo, là dove da piccoli nasceva il mito dell’imperatore Hailé
Selassié, là dove un sodale di Ghosh e Hema nel 1963 tentò e fallì un colpo di
stato, e tutte le vicende che portarono al potere, intorno alla metà degli anni
Settanta, Menghistu Hailé Mariàm, detto il Negus Rosso, che per quattordici
anni instaurò un regime di terrore in quelle terre.
Ma
intanto i nostri avevano avuto una forte diaspora. Shiva, sotto la guida di
Hema, rimane sempre a fare il dottore ad Addis Abeba e diventa uno specialista
nella cura delle fistole vaginali. Genet si associa a vari movimenti eritrei
(lei non era etiope) fino a dover fuggire in America, dove ritroverà Marion.
Che in America c’era andato per due motivi: una rottura forse insanabile con
Shiva e l’impossibilità di sottostare al regime terroristico del Negus Rosso.
Ovvio che anche Marion diventerà un chirurgo e di ottime capacità.
Ci
saranno catarsi e spiegazioni, in America, sui ruoli di ognuno, e forse alla
fine Marion riuscirà ad essere positivo e propositivo, tanto da scrivere questo
libro per spiegare la loro vita. Un libro che, seppur marginalmente come detto
tocca le questioni politiche dell’area abissina, è caratterizzato dalla forte
impronta tesa alla risoluzione dei problemi personali.
Problemi
che derivano da razze e culture diverse, ma anche da modi di affrontare la
vita. E soluzioni che devono affrontare e sanare il rapporto tra i due fratelli
che sempre per una donna hanno visto scomparire la loro unione.
Tuttavia,
è anche un libro con una forte componente medica. Si parla dei problemi medici
del terzo mondo, laddove non ci sono medicine adeguate. Si descrivono, e
lungamente, operazioni ed altre avventure mediche. Una parte che,
personalmente, è quella che mi ha appassionato molto meno. Bravo Verghese nelle
descrizioni, ma a volte prendono troppo spazio.
L’unico
elemento forte della parte medica è l’insegnamento, che deriva ai giovani dalle
parole sia di Stone che di Gosh (anche se il mantra di Ghosh era amare,
imparare, insegnare), e che, a sua volta deriva dalle parole del medico
ottocentesco Francis Peabody, che, nel suo “Care of the patient” scrive:
“Francis Peabody: Una delle qualità essenziali del medico è l'interesse verso
il genere umano, perché il segreto per curare il paziente è nel prendersi cura
di lui.” L’empatia che solo i bravi medici, ed io ne conosco, riescono ad
avere.
Un
libro poderoso al fine, contento di averlo letto, ma dall’autore mi aspettavo
qualcosa in più.
“La
chiave della felicità consiste nel prendere possesso … di sé stessi, del
proprio aspetto e della propria famiglia, delle proprie qualità e dei propri
difetti. … Il destino si crea non solo con le azioni, ma anche con le
omissioni.” (335)
“I
figli dovrebbero annotare ogni parola rivolta loro dal padre. Io ci provavo.
Perché c’era voluta una malattia, per farmi scoprire il valore di ogni minuto
trascorso con lui? Sembra che gli esseri umani non imparino mai, e così la
lezione ci si ripresenta sa capo ad ogni generazione. … facciamo la predica ai
nostri amici: ‘Cogli l’attimo! Vivi nel presente!’. La maggior parte di noi non
può tornare indietro a riparare i torti. Non possiamo rimediare a quello che
dovevamo o potevamo fare.” (403)
Julio
Cortázar “Il gioco del mondo Rayuela” Repubblica Latinoamericana 6 euro 9,90
[A:
28/02/2020 – I: 03/11/2024 – T: 07/11/2024] - &&&&
---
[tit.
or.: Rayuela; ling. or.: spagnolo; pagine: 635; anno 1963]
Un libro ed un autore veramente entrambi
complessi. Cortázar è uno scrittore (anche se a me verrebbe meglio definirlo
intellettuale, nel senso bello del termine) che, pur essendo argentino da
genitori argentini, nasce in periferia di Bruxelles, vive i primi anni tra il
Belgio e la Svizzera, torna in Argentina con l famiglia sino ai 37 anni, per
poi collocarsi direttamente a Parigi, dove morirà verso i settant’anni. Finirà
anche col prendere la nazionalità francese, per protesta con la dittatura
argentina che proibì i suoi libri.
Cortázar, oltre le mille piccole attività,
scrive, e scrive disordinato, o forse con una sua idea in testa: la scrittura
esce da te, ma chi la riceve non può essere solo parte passiva. Così che,
spesso, sono i racconti che ne contribuiscono la conoscenza. Ma sarà
quest’opera che, in forma inusuale, gli renderà giustizia per collocarlo nel
pantheon della scrittura.
Un’opera che viene definita antiromanzo, che
lui chiamò contro-romanzo, ma che io battezzerei iper-racconto. Che in realtà i
155 capitoli del testo, sono altrettanti racconti, intesi come brani che escono
dalla penna dello scrittore, vengono stampati, ed arrivano all’occhio del lettore.
Un percorso che solo un anno prima era stato teorizzato da Umberto Eco nel suo
“Opera aperta”.
Intanto, bisogna dire che non è obbligatorio
leggere questo libro, che va affrontato solo se ci si sente in grado di fare a
braccio di ferro con Julio. In realtà, come ben descrisse Franco Moretti
(fratello di Nanni) è “un’opera mondo”, come possono essere classificate “Cent’anni
di solitudine”, “Moby Dick” o “Faust”, opere aperte che producono una
rappresentanza del mondo che trascende il contesto della scrittura, usando,
anche, molteplici tecniche narrative: flussi di coscienza, allegorie ad
interpretazione aperta e una narrazione senza inizio né fine.
Allora, andando per gradi nell’avvicinarsi al
testo, cominciamo dal titolo. In origine, l’autore pensava di chiamarlo
“Mandala”, un termine multi-significato, ma che pur nelle diverse forme, si può
condensare in “raggiungere l’essenza”. Ma sarebbe stato già indirizzare il
lettore su di una strada che, il lettore stesso, dovrebbe intraprendere da sé.
Così si passa al termine “Rayuela”, che indica un gioco di bimbi noto in tutto
il mondo. E non a caso, quando questo testo viene tradotto, le varie edizioni
utilizzano proprio il loro termine proprio: “Himmel und Hölle” in Germania,
“Macaca” in Portogallo, “Hopscotch” nei paesi anglofoni o “Marelle” nei paesi
francofoni. In Italia, quindi, si sarebbe dovuto chiamare “Campana”, il termine
più diffuso tra i bimbi rispetto al pur corretto “Gioco del Mondo”. Che ricordo
è un gioco con dieci caselle che vanno dalla Terra al Cielo, da affrontare
saltando su di una gamba sola (una sintesi veloce, ma non riesco a fare disegni
qui).
Il secondo punto da affrontare è il modo di
leggere il testo stesso. È sempre Cortázar che nella prima pagina invita il
lettore ad usare uno dei due modi possibili di leggere il libro. Leggerlo in
sequenza dal capitolo 1 al capitolo 56, avendone un lettura da romanzo
tradizionale, e tralasciare il resto. Il lettore coraggioso, invece, poteva
iniziare dal capitolo 73, e proseguire, alla fine di ogni capitolo, verso
quello indicato dal numero a piè di pagina. Ma Cortázar era stato poco
previdente, che poco dopo l’uscita del libro, ricevette lettere su lettere che
proponevano modi alternativi: lancio dei dadi, i tarocchi, terne arbitrarie,
aperture casuali libri. Insomma, si può essere (secondo una definizione di
Morelli, un alter ego di Cortázar, e personaggio della terza parte del libro)
“lettori-femmina” (sequenziali), “lettori-maschi” (casuali ma ordinati) o
“lettori attivi” (autoesplicativo).
Io ho scelto la modalità maschile, anche se
questo implicava un loop tra i capitoli 131 e 58, ed il salto del capitolo 55.
Io, alla fine, ho rotto il loop e letto il 55.
Detto delle modalità di lettura, anche
seguendo le indicazioni dello scrittore, i capitoli da 1 a 36 sono indicati con
il termine collettivo “Dall’altra parte” (ed in effetti l’azione si svolge
principalmente in Europa), i capitoli da 37 a 56 con “Da questa parte” (con
l’azione sviluppantesi in Argentina) ed i capitoli da 57 a 155 con “Da altre
parti”, con un sottotitolo esplicativo che quindi non commento: “capitoli dei
quali si può fare a meno”.
Se fossi un lettore-femmina potrei narrare la
trama “superficiale” del libro. Tutto gira intorno ad Horacio Oliveira, un
argentino che incontriamo nella prima parte a Parigi. Non si capisce bene cosa
faccia per vivere, ma seguiamo cosa fa vivendo. Ha un rapporto sbilanciato con
Lucia, una profuga uruguayana, da lui chiamata “la Maga”, perché, pur di
normali capacità intellettuali ha l’abilità di capire a fondo modi e
situazioni. Il loro contorno è costituito da un gruppo di vari intellettuali
che si riuniscono chiamandosi con il nome “Club del Serpente”. Ci sono una
coppia di intellettuali statunitensi, Ronald e Babs, spesso ubriachi, un
pittore, Etienne, ed un suo amico, Guy, che tenterà il suicidio, un immigrato cinese
dedito a macabri estetismi, Wong, e uno spagnolo appassionato del jazz delle
origini, Perico Romero. E poi c’è Ossip Gregorovius, un singolare e misterioso personaggio,
che continua ad inventarsi un passato misterioso, e che sta molto vicino a
Lucia. Tanto che Horacio suppone, erroneamente, che i due siano amanti.
È invece lui ad avere un’amante, Pola, una
giovane francese che morirà di un tumore al seno. Ci sono altri elementi
tragici, che portano da un lato alla scomparsa di Lucia, e dall’altro ad un
fermo di polizia di Horacio e ad un suo (immaginiamo) conseguente rimpatrio
forzato in patria.
Qui ritrova i suoi amici, Manolo e Talita.
Che lo aiutano, in parte a superare la perdita di Lucia. Prima accogliendolo,
poi facendolo lavorare con loro in un circo. E dopo che il circo fallisce, con
loro diventa dipendente di una clinica psichiatrica. Anche se ha una nuova
fidanzata, Horacio trasfigura Talita nella sua Maga perduta. Forse perde anche
lui la ragione nella clinica dei matti. Forse si suicida (almeno così sembra
verso il capitolo 56). Forse si salva (se andiamo oltre il capitolo 80). O forse
no. Anzi, forse è il lettore che decide cosa possa succedere, dato che deve,
secondo l’autore, diventare parte attiva e controparte dello scrittore e del
romanzo.
Le scrittura dall’altra parte, poi, sono
brani, commenti, fogli volanti, scritti dell’italiano Morelli, ed altre piccole
cose che servono a riempire il mondo a cui partecipiamo con il nostro gioco. Un
gioco che serve a descrivere, in un flusso non di coscienza ma di vita,
l’amore, la vita, la morte, le passioni, l’arte. Proprio l’opera mondo, come si
diceva. Per affrontare la prima tematica dicotomica del testo. Ordine contro
caos. La vita è un caos indecifrabile cui noi cerchiamo, inutilmente, di dare un
ordine. Un caos ordinato, forse, come tutte le improvvisazioni jazz che
costellano la prima parte del testo, dove si accenna un motivo, e poi il
solista parte per riversare nei suoni i suoi ragionamenti interiori, anche
fuori dal contesto che stavamo seguendo.
Poi, al fondo, c’è il negativismo
dell’autore, laddove tutti i personaggi sono dei falliti in cerca di qualcosa.
Soprattutto Horacio la cui vita è senza speranza, che lui stesso si considera
votato al fallimento. Ma se noi leggiamo le parole dalla nostra ottica e non da
quella dello scrittore, come ci invitano sempre a fare Eco e Calvino, magari
più che ai fallimenti di Horacio, ci leghiamo ad altro. Io, ad esempio, seguivo
al meglio, anche per ragioni di età, gli scritti ed i comportamenti di Morelli.
Ma qui entriamo in terreni che non sono più i miei, magari verso gli effetti
sull’utente delle modalità dell’arrivo del messaggio (Marshall McLuhan?). O
forse verso la pazzia, che tutti sono alterati, e gli ultimi capitoli si
svolgono in un ospedale psichiatrico. D’altronde, come dice Vasco Rossi, “la
vita è tutta un equilibrio sopra la pazzia”.
Vorrei solo finire questa lunga e contorta
trama citando il capitolo che più mi ha interessato, il 34. Un capitolo
illeggibile se non ci fosse detto che le righe dispari sono l’inizio del
romanzo dello scrittore spagnolo Benito Pérez Galdos “Lo Prohibido” (un libro
che vi invito a cercare in rete, esempio interessante del realismo spagnolo
dell’Ottocento). Mentre le righe pari seguono i pensieri di Horacio mentre
legge il libro (che sappiamo aveva iniziato a leggere nel capitolo 31). Un
tentativo quindi di riprodurre un momento di realtà come tutti noi lo viviamo:
leggiamo un testo ma non smettiamo certo di pensare. Qui, Cortázar prova a
restituirci questa sensazione. L’ho trovato uno dei tanti momenti alti del
testo.
Che ovviamente ne ha tanti, di testo,
sottotesto, rimandi, citazioni, giochi di parole. Se fossi un docente di
letteratura ispanica sfiderei uno studente a farne una tesi di laurea.
“Je ne veux pas mourir sans avoir compris pourquoi j’avais vécu.” (80)
[scritto in francese; “Non voglio morire senza aver capito perché ho vissuto”]
“Esiste una ben nota differenza tra
l’ignorante e lo sciocco, e tutti lo sanno tranne lo sciocco … Confondeva
sapere con capire … capiva benissimo un mucchio di cose che noi ignoriamo a
forza di saperle.” (599)
Benjamin Labatut “Quando abbiamo smesso di
capire il mondo” Adelphi euro 18 (in realtà, scontato a 15,30 euro)
[A: 09/12/2024 – I: 14/12/2024 – T:
16/12/2024] - &&&
[tit. or.: Un verdor terrible; ling.
or.: spagnolo; pagine: 180; anno 2019]
Ho
letto con molto interesse l’ultimo libro di Labatut (“MANIAC”), per cui non ho
avuto esitazione, quando la lista dei migliori libri degli anni 2000 del NYT lo
ha inserito, ho preso e subito letto questo scritto precedente. Ho messo
“scritto” che in realtà è un testo che non può avere una sua collocazione
precisa. Può essere un saggio in forma di romanzo, un viaggio tra scienza e
stati d’animo estremi, un compendio ragionato e divulgativo di Wikipedia
(questo è un po’ cattivo come giudizio).
La
forma è quella che abbiamo già notato in “MANIAC”: una serie di testi che
ruotano (o dovrebbero ruotare) intorno ad un’idea unificante. E qui, credo,
l’idea sia l’esplorazione delle connessioni che si instaurano tra il pensiero e
la realtà in cui viviamo. Un’esplorazione che spesso viene coronata da un
notevole progresso scientifico. Ma andiamo per gradi.
Qui,
intanto, Labatut scrive ancora in spagnolo. Inoltre, il titolo originale è di
tutt’altro tenore di quello poi ripreso, prima dall’edizione inglese e poi da
quella italiana. Labatut lo aveva infatti titolato come “Una terribile cappa di
verde”, utilizzando un’immagine che viene dall’epilogo del testo quando
descrive un’invasione di licheni in un bosco cileno dove stava passeggiando. A
significare la vicinanza tra bene e male, in un connubio spesso indissolubile.
In italiano (ma perché?) viene invece presentato con la traduzione dal titolo
inglese (che è anche il titolo del quarto capitolo del libro). Secondo l’autore
(e concordo) questo porta ad avere una visione parziale di un libro forse non
eccelso, ma di sicuro stimolante.
Infatti,
vi dico subito che, partendo dagli spunti del testo ho passato ore ed ore ad
approfondire molti degli elementi descritti. Anche se, come dice l’autore
stesso, questo è un libro di finzione che parte da dati reali. Non so, forse
neanche mi interessa, sapere dove sia la finzione, che mi è servita per leggere
il libro senza troppe necessità di chiedermelo, e gustandone lo sviluppo
appunto come un romanzo. Poi, gli elementi sicuramente reali (legati ai nomi
dei vari protagonisti) mi hanno spinto ad indagare, leggere, e guardare anche
altro.
Ed i
personaggi, gli attori reali del teatro di Labatut sono tanti in realtà. Si
comincia con l’alchimista Johann Konrad Dippel che, nel 1706, lavorando con il
fabbricante di tinture Johann Jacob Diesbach, nel tentativo di creare un rosso
intenso dalle cocciniglie, unì al composto del cremor tartaro e produsse un
colore blu intenso, che chiamò “blu di Prussia” (che tra l’altro ritroveremo
nella pittura di Van Gogh). Nel 1782, il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele,
lavorando a quel blu, in uno dei suoi esperimenti, vi unì un cucchiaino di
acido solforico, producendo il cianuro. Andando ancora avanti negli anni, ai
primi del Novecento, un altro chimico, il tedesco Fritz Haber, noto per aver
sviluppato l’ammoniaca, unendo vari componenti, crea un potente diserbante, un
ciclone sintetico, non a caso chiamato Zyklon. Ma Haber era interessato agli
usi belli di gas invalidanti, e ne creò un sottoprodotto, che venne utilizzato
dai tedeschi a Ypres (da cui il nome di iprite) facendo morire non meno di 5000
soldati francesi. Nonostante questo, nel 1918, per i suoi lavori
sull’ammoniaca, venne conferito ad Haber il premio Nobel. Per farla breve, nei
laboratori tedeschi si continuò a lavorare a quel gas, fino a produrre lo
Zyklon-B, utilizzato per sterminare gli ebrei nei campi di concentramento.
Una
piccola parabola, che serve a Labatut per farci entrare nell’orecchio il ciclo
perverso delle ricerche scientifiche che, da piccoli passi, portano in molte
direzioni, spesso nocive.
Per
non spaventarci, abbassa i toni e ci narra Karl Schwarzschild un matematico
tedesco, che, dalle trincee della guerra, risolve in maniera esatta le
equazioni di campo della relatività generale, inviandole ad Einstein, con una
nota che sottolineava come, portando all’estreme conseguenze i risultati,
l’energia si sarebbe collassata in un punto dal potenziale infinito. Aveva
scoperto la possibile esistenza dei “buchi neri”. Peccato che in trincea sul
fronte russo contrae una malattia autoimmune di cui muore pochi mesi dopo aver
scritto ad Einstein.
Labatut
fa un altro passo avanti, portandoci ai giorni nostri, dove, meno di dieci anni
fa, il matematico giapponese Shinichi Mochizuki propone una ponderosa
dissertazione per la dimostrazione di una particolare congettura. Non vi tedio
dei dettagli, non servono né a me né a voi. L’idea è da un lato mostrare come
le dimostrazioni di Mochizuki possa produrre una descrizione del mondo particolarmente
astrusa, tanto che è quasi completamente rigettata dal mondo scientifico.
Dall’altra portarci alla genesi delle idee di Mochizuki, derivanti dallo studio
e l’approfondimento del lavoro di un matematico apolide, Alexander Grothendieck,
dedito fino ai 60 anni ad un lavoro teorico per la rifondazione e la
sistematizzazione della matematica. Ma da lì, senza motivo e senza spiegazione,
si ritira dal mondo accademico, e va a vivere in uno sperduto paesino francese,
dove muore in povertà nel 2014.
Quindi,
siamo sempre lì. Nascita di idee, tentativi, ipotesi, colpi di genio. Sempre in
precario equilibrio tra realtà e follia.
Un’equazione
che si ritrova nel punto più intenso del libro, laddove si ripercorre la
nascita, intorno agli anni Venti, della ridefinizione della costituzione fisica
del nostro mondo, attraverso la meccanica quantistica. A parte le narrazioni
romanzate, sappiamo di certo che, partendo dal lavoro di Einstein, un
matematico francese, Louis-Victor Pierre Raymond de Broglie sviluppa un modello
dualistico onda-particella che gli vale il Nobel nel 1929.
Partendo
dal suo lavoro, due eminenti fisici sviluppano due approcci differenti: Erwin
Schrödinger trova una costruzione solida seppur semplificata attraverso
l’ipotesi ondulatoria, mentre Werner Karl Heisenberg si fionda sulla parte
particellare. Entrambi creano ipotesi affascinanti, momenti di discussione
intensi e laceranti, e su cui torneremo in finale. Non sappiamo (ancora) se
esite un modo di capire il mondo, se non con il fatto che le due teorie (non mi
chiedete perché) convergono producendo gli stessi risultati pratici. Ma
partendo da queste ipotesi, utilizzando le equazioni di Schwarzschild,
Heisenberg in Germania e von Neumann, fuggendo in America, arriveranno alla
definizione teorica dei processi di fissione nucleare. Un processo che poi
Labatut svilupperà nel suo successivo romanzo.
In
questa ragnatela fatta da tanti episodi ho volutamente ignorato ciò di cui non
so, utilizzando appunto il monito di Wittgenstein (“ciò di cui non si può
parlare, si deve tacere”), mentre mi interessava solo citare fatti, per pensare
che la scienza è in grado di toccare vette altissime per poi affacciarsi a
profondi baratri. Quello che ci deve fornire la scienza è un metodo per poter
guardare, anche, in fondo a quegli abissi. Per poter cavalcare queste visioni
non è la scienza che ci manca, purtroppo ci manca la coscienza di saperla
utilizzare.
La
parte che meno mi ha convinta è l’epilogo che lo scrittore pone per chiudere i
suoi discorsi sulla scienza. Epilogo che vi lascio leggere, se volete, per poi
aprirne un dibattito.
Mentre,
per chiudere, tornerei proprio ad un dibattito cui accennavo. Siamo a
Bruxelles, nell’ottobre del 1927, in un congresso dove si presentavano i
risultati che avrebbero dato le basi alla meccanica quantistica. Un insieme di
scienziati, in cui erano presenti ben diciassette scienziati che avevano avuto
o avranno inseguito, il premio Nobel. A fronte delle ipotesi sugli andamenti
casuali del moto degli elettroni, Einstein, che presidiava il dibattito,
notoriamente avverso all’introduzione di elementi casuali nella descrizione del
mondo, perse la pazienza ed esclamò “Dio non gioca a dadi col mondo”. Frase cui
Niels Bohr, fisico danese e mentore di Heisenberg, rispose: “non spetta a noi
dire a Dio come manovrare il mondo”.
Quindi,
concludendo, una scrittura sempre interessante quella di Labatut, e di sicuro
stimolante. Non tutti i passi che ci propone mi hanno convinto, ma lo ritengo,
in ogni caso, un libro da leggere, ognuno nell’ottica che gli è propria.
Per Olov Enquist “Il
libro di Blanche e Marie” Iperborea euro 17 (in realtà, scontato a 14,45 euro)
[A:
09/12/2024 – I: 28/12/2024 – T: 30/12/2024] - &&&
[tit.
or.: Boken om Blanche och Marie; ling. or.: svedese; pagine: 260;
anno 2004]
Enquist
è stato un nome illustre dell’élite svedese, amico e conoscente di tanti
personaggi illustri (da Bergman a Olaf Palme, ad esempio), poliedrico
personaggio, scrittore, sceneggiatore, giornalista. Purtroppo, non
particolarmente tradotto in italiano (mi risultano solo otto suoi libri, in
genere, come questo, pubblicati da Iperborea). Questo, che non conoscevo e che
ringrazio Franco Cordelli di averlo menzionato tra i libri eponimi di questo
secolo, è il terzo che leggo, dopo “La partenza dei musicanti” e “Il medico di
corte”. Tutti di un degno livello di scrittura.
Anche
se la scrittura di Enquist non è sempre facile da seguire, qui in special modo
dove si fa nervosa, quasi a seguire l’isteria dei personaggi fondamentali, o
meglio di sottolinearne gli aspetti neurologici. È una “history-fiction”, cioè
si basa eminentemente su personaggi reali, imbastendone sottotraccia delle
storie, con diversi gradi di credibilità. Non sempre sappiamo tutto quello che
la gente fa, e quello che Enquist ci narra, se non è vero, è di certo
verosimile.
I
personaggi centrali, citati appunto nel titolo, sono poi donne, e questo è
sempre un elemento di difficoltà nell’esposizione. Devo dire che lo scrittore
riesce a trattare l’argomento con delicatezza, senza sopraffare il lato
femminile delle storie, cercando una neutralità espositiva rimarchevole, anche
se, dovendo in alcuni tratti esporsi sul lato femminile, ha di sicuro alcuni
passaggi che ritraggono la donna con un occhio inevitabilmente maschile.
Dicevo
del titolo, che si riferisce alle due protagoniste che attraversano tutto il
testo: Blanche Wittman e Maria Skłodowska Curie. Due personaggi reali, ben nota
soprattutto la seconda. Tuttavia, anche la prima ha una sua importanza. È
infatti la donna utilizzata dal grande medico francese Jean-Martin Charcot per
illustrare, in sedute pubbliche, i suoi studi su quella che veniva chiamata al
tempo “isteria femminile”. Charcot è stato un grande medico, per anni primario
in un ospedale eponimo dell’epoca, la Salpetrière,
antica fabbrica di salnitro, riconvertita in ricovero, spesso coatto, di donne
affette da vari disturbi.
Charcot
ha praticamente fondato la neurologia, ha identificato la sclerosi laterale
amiotrofica, ed ha avuto come allievi medici altrettanto famosi: Joseph
Babinski (scopritore, tra l’altro, di un riflesso plantare detto “riflesso di
Babinski”) e Gilles de la Tourette (scopritore del disturbo neurologico
chiamato “sindrome di Tourette”). E per un anno ebbe come segretario un
austriaco, Sigmund Freud, che poi si dissociò dalle analisi neurologiche di
Charcot.
Blanche,
venuta da un’infanzia non proprio ortodossa (abbandono della madre, abusi)
viene ricoverata alla Salpetrière a 18 anni, venne subito presa come esempio
delle sue ricerche da parte di Charcot, ed uscì dall’ospedale 15 anni dopo,
alla morte di Charcot, perfettamente guarita. Rimase però in ospedale come
assistente radiologica di Albert Londe. Data la scarsa conoscenza degli effetti
collaterali dei raggi X, il suo corpo ne fu compromesso, subendo prima
l’amputazione delle gambe, poi del braccio sinistro, morendo di cancro a 54
anni nel 1913.
Maria
Skłodowska, polacca, grande mente, visto che in Polonia le donne non potevano
andare all’Università, si trasferisce a 24 anni a Parigi dove si laurea in
fisica e matematica. Lì conosce Pierre Curie che divenne suo marito e che amò
per tutta la vita. Con Pierre studia scorie uraniche producendo con lui
notevoli studi sulle radiazioni, motivo per cui ricevette con il marito il
Nobel per la Fisica nel 1903. Comunque, le radiazioni avevano già indebolito i
loro corpi, soprattutto Pierre che, debole e svagato, fu investito e ucciso da
un carro merci all’altezza del Pont-Neuf nel 1906. Dopo anni di lutto ed
isolamento, nel 1911, pur conoscendolo da anni, si innamora del collega Paul
Langevin. Uno scandalo che Paul era sposato con quattro figli. Sei mesi di
passione, che finiscono con uno scandalo pubblico provocato dalla moglie di
Paul, che rischia di provocare la revoca del secondo Nobel aggiudicato alla
scienziata, quello della Chimica nello stesso 1911, dovuto alla sua scoperta di
due elementi radioattivi, il radio ed il polonio.
C’è
anche una terza figura storica femminile che attraversa il libro. Jeanne Louise
Beaudon anche lei ricoverata con Blanche alla Salpetrière, per due anni, per
poi fuggirne, diventare una grande ballerina con il nome di Jane Avril. Divenne
una delle stelle più grandi del Moulin Rouge, e fu immortalata da
Henri-Toulouse Lautrec in una stampa del 1893.
Su
questa storia si innesta la finzione di Enquist. Che dice di riprendere un
fittizio libro di memorie scritto da Blanche, quando amputata ed immobile, può
solo pensare e scrivere con l’unica mano rimastale. Un libro intitolato “Libro
delle domande”, che sono quelle che Blanche si pone per tutta la vita. Tutte
ruotando sull’estensione dell’isteria verso i sentimenti. Se movimenti
inconsulti, che possono anche essere provocati meccanicamente, provocano
atteggiamenti isterici, e quindi possono essere studiati, perché non
interrogarsi sull’amore, per cercare, ovviamente senza successo di spiegarlo.
Vediamo
così l’amore (forse fittizio) di Blanche con Charcot, mai consumato ma che
attraversa tutti gli ultimi anni del medico. Vediamo l’amore (tenero e reale)
di Maria per Pierre. Vediamo l’amore (sensuale e reale) di Maria per Paul.
Vediamo l’affetto che intreccia la vita delle tre donne. Laddove Jane e Blanche
di sicuro si incontrarono, mentre Blanche e Maria vengono collegate
fittiziamente, spostando la radiologia della Salpetrière verso gli studi sul
radio di Maria.
Nelle
parole di Enquist-Blanche seguiamo di sicuro con maggior trasporto la vita di
Maria, in particolare tutto lo scandalo del suo amore con Paul, le meschinerie
della pubblica opinione francese, che costringono per un periodo Maria a
fuggire in Inghilterra presso Hertha Ayrton, una delle prime femministe
storiche. Maria, in fondo, è solo la punta di un iceberg che travolge il primo
decennio del secolo scorso.
C’è
una capacità letteraria indubbia nello scrittore svedese per farci vedere,
anche con poche frasi, come all’epoca fossero difficili una serie di dicotomia
apparentemente non contrapponibili. Arduo essere ammalati da donna. Arduo
essere innamorati ed essere donna. E soprattutto arduo essere intelligenti ed
essere donna. E se ci pensiamo, dopo più di cento anni, è ancora così.
Lo
scritto di Enquist contiene tante altre piccole e grandi cose, che vi invito a
scoprire leggendone. Magari iniziando prima dalla penetrante postfazione di
Dacia Maraini, per poi immergervi nella topaia della Salpetrière, nel
garage-laboratorio dei coniugi Curie, nell’alcova di Maria e Paul. Per poi
scoprire (e qui esce tutto il pessimismo di Enquist) che tutte le figure
maschili hanno pochi se non nulli lati positivi. Tutti per uno: allo scoppio
dello scandalo, Paul Langevin si defila e sparisce.
Un
buon libro, forse troppo di testa, ma meritevole di una buona posizione in ogni
libreria.
“Non
si può spiegare l’amore. Ma chi saremmo se non ci provassimo?” (43)
“Raccontando
si può arrivare fino al punto in cui l’inspiegabile diventa visibile … il che
non vuol dire che si capisca.” (158)
Benché già a metà febbraio, essendo la prima
lettura del mese, vi riporto le non poche letture del mese di novembre. Guidate
da una bella scrittura giapponese di Keiko Yoshimura, dalla eccellente novità
di Claire Keegan, e da due storici libri di due dei miei autori faro: Georges
Simenon e Italo Calvino. Mentre in fondo abbiamo ancora un libro del Sol
Levante, di Kitō Aya (ultimamente ho dato molto spazio alla letteratura
giapponese).
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Antonio
Manzini |
Il
passato è un morto senza cadavere |
Sellerio |
17
|
3,5 |
2 |
Petros
Markaris |
Il
tempo dell’ipocrisia |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
2 |
3 |
Cristina
Rava |
I
segreti del professore |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
3 |
4 |
Keiko
Yoshimura |
108
rintocchi |
Repubblica
Giappone |
8,90 |
4 |
5 |
Louise
Penny |
Un
uomo migliore |
Repubblica
Anima Noir |
8,90 |
3 |
6 |
Piergiorgio Pulixi |
La libreria dei
gatti neri |
Repubblica
Profondo Noir |
8,90 |
3 |
7 |
Hakan Nesser |
La nemica del
cuore |
Repubblica
Profondo Noir |
8,90 |
1,5 |
8 |
Barbara
Kingsolver |
Demon
Copperhead |
Neri
Pozza |
22
|
2 |
9 |
Valerio
Varesi |
Oro,
incenso e polvere |
Repubblica
Profondo Noir |
8,90 |
2 |
10 |
Riku
Onda |
Il
mistero della stanza blu |
Repubblica
Profondo Noir |
8,90 |
1,5 |
11 |
Brigitte
Glaser |
Buffet
al veleno |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
2,5 |
12 |
Georges
Simenon |
I superstiti
del Télémaque |
Repubblica |
9,90 |
4 |
13 |
Cristina
Cassar Scalia |
La
salita dei saponari |
Einaudi |
12
|
3 |
14 |
Margaret
Doody |
Aristotele
e la Montagna d’Oro |
Sellerio |
16
|
1,5 |
15 |
Kate
Thompson |
Sotto
le strade di Londra |
Garzanti |
s.p.
|
2 |
16 |
Kitō
Aya |
Un
litro di lacrime |
Corriere
Giappone |
8,90 |
1 |
17 |
Matteo
Guerrini |
Jiko
Identità oscura |
Mondadori |
7,90 |
2 |
18 |
Claire
Keegan |
Piccole
cose da nulla |
Einaudi
|
13 |
4 |
19 |
Italo
Calvino |
Un
ottimista in America |
Repubblica |
9,90 |
4 |
Per farvi riflette ancora un po’, vi invito a
seguire alcune frasi di Sandrone Dazieri
estratte dal suo bel libro “Attenti al gorilla”:
“Cercavo
di decidere quale ricordo avrei voluto conservare … Duecento chilometri con il
treno, il viaggio era stata per me la parte più bella della vacanza … Guardavo
dal finestrino i paesaggi di quella giornata di sole e le tenevo una mano sulla
gamba, ascoltandola dormire. Mi sentivo in pace con il mondo, non mi capita
mai.” (138)
“Solo
gli sciocchi non hanno paura, e tu non sei sciocco.” (142) [e neanche io]
“Tutti
abbiamo qualcosa che non funziona e che non ci piace. Non si combatte quello
che non si può cambiare. … In aikido tutto è equilibrio, perché l’universo è
equilibrio. Le energie del nostro corpo sono equilibrio, bene e male sono
equilibrio. Se ti accetterai, anche quello che non ti piace troverà il suo
posto.” (142)
Ma soprattutto, mi piace riprendere due frasi
cardine di Truman
Capote rimaste
nella mia penna dopo la lettura di “Colazione da Tiffany” (e pensando sempre ad Audrey Hepburn):
“La
patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“…
non sapere che cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)
Io,
forse, la mia patria la sto costruendo in questi anni.
Intanto, e mi ripeto, c’è stato un bel nuovo viaggio a ripercorrere strade antiche del mio sempre caro Perù. Ora è tempo di riposi italici, di momenti conviviali, di riflessioni e di più calme letture. Continuando a tener sempre cari i miei lettori, i miei parenti ed i miei amici, che tutti saluto con tanti abbracci.
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