domenica 23 febbraio 2025

Ritorno italiano - 23 febbraio 2025

Dopo aver ripreso le trame con una forte dose di bei romanzi stranieri, eccoci che si torna anche al mio pallino di gialli ambientati in Italia. Una settimana che si barcamena tra il discreto ed il sufficiente. Una prova un po’ datata della coppia Guccini – Macchiavelli, un thriller di stampo legale di Francesco Caringella ed un avventura siciliana di Antonino Genovese. Poco sotto, la fiction-non fiction di Fabiano Massimi ed un inizio di storia seriale di Massimo Blini.

Una settimana di passaggio, quasi relax, che ricordiamo solo per un augusto compleanno giubilare ed un accenno, nelle note citate, ad un inusuale nome amicale.

Fabiano Massimi “L’angelo di Monaco” Repubblica Brivido Noir 23 euro 8,90

[A: 08/11/2020 – I: 08/08/2024 – T: 10/08/2024] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 570; anno: 2020]

Di Fabiano Massimi avevo apprezzato alcuni anni fa il libro che vinse il Premio Tedeschi indetto da Mondadori. Un libro abbastanza complesso, eppur interessante nell’intreccio che l’autore mostrava di maneggiare con cura. Questo secondo libro, “L’angelo di Monaco”, di sicuro scritto dopo una documentazione forte ed approfondita, in realtà è meno riuscito, proprio, forse, per alcuni risvolti politici che ne appesantiscono la trama.

L’idea di base è una fiction-non fiction, cioè una partenza da dati reali per estrapolare una storia che poteva essere ma che, appunto, solo i voli della scrittura di finzione permettono di portare avanti. Qui non abbiamo bisogno di prove, ma solo di verosimiglianze. E Massimi riesce a trovarne e descriverne in modo esauriente.

La partenza deriva da una notizia forte, documentata anche se non portata mai alla sua soluzione, ed all’indicazione di due nomi. Nelle cronache tedesche dei primi ammi ’30, si riporta che il 18 settembre 1931, nella sua abitazione di Prinzregentenplatz 16 a Monaco di Baviera muore Angela Maria Raubal chiamata Geli, e ad indagare sulla vicenda inizialmente sono due poliziotti Sauer e Forster. Mentre sappiamo molto di Geli, poco o nulla sappiamo dei poliziotti. Per cui Massimi, con una discreta inventiva, appoggiandosi comunque a documenti storici, costruisce questa interessante storia.

Perché Geli Raubal era la nipote di Adolf Hitler, ed in quella abitazione, insieme a famigli vari, loro due vivevano. Geli infatti, è figlia di Angela, sorellastra di Adolf nata sei anni prima di lui dalla seconda moglie del padre (Adolf nasce dalla terza moglie). Geli nasce nel 1908 ( ha quindi circa venti anni meno di Adolf), e trascorre la prima parte della vita in luoghi altri dello zio. Solo a metà degli anni Venti la famiglia si riavvicina, e da quel momento Adolf, oltre ad essere nominato tutore, diventa un’ombra possessiva sulla bella fanciulla.

Molte le storie che si intrecciano, sfociando anche in rapporti para-incestuosi tra i due, dove di sicuro c’è la gelosia ossessiva di Adolf. Geli prima spera addirittura di sposare lo zio. Poi, probabilmente in incontri non proprio ben voluti da Hitler, conosce anche altre persone. E forse vorrebbe tornare a Vienna, sia per volare da sola, sia per costruirsi una vita altra.

Le ipotesi quasi storiche a questo punto si intrecciano e si moltiplicano. La più accredita, ufficialmente, è che Geli, non riuscendo a sottrarsi a Hitler, si uccide con un colpo di pistola (inciso: pistola che sarà la stessa che userà Hitler per suicidarsi nel ’45). Altre voci vogliono che Hitler sia stato o l’esecutore o quanto meno il mandante della morte di Geli, sia perché non riusciva a domarla, sia perché aveva delle mire sulla segretaria di Heinrich Hoffmann suo fotografo ufficiale, tale Eva Braun.

Tra l’altro, la figlia di Hoffman era una delle migliori amiche di Geli, ed anch’essa insidiata da Adolf. Hoffmann pare inoltre avesse foto compromettenti del grande capo, foto cui forse miravano i biechi personaggi vicini a Hitler ma non sempre in sintonia con lui, come Goring, Rohm, Himmler o Goebbels. Senza dimenticare Rudolf Hess che negli anni Venti era l’autista di Hitler e pare fosse stato il primo chaperon della tresca tra Adolf e Geli.

Quindi, forse suicidio, forse omicidio diretto o indiretto, o forse omicidio per mettere in difficoltà la carriera in ascesa di Adolf Hitler, che nel ’31 aveva ancora margini di difficoltà.

Dei due poliziotti invece, indicati nelle indagini, null’altro si sa. Così che Massimi ha buon gioco per costruire su di loro la trama investigativa, nonché una trama di rapporti umani, amicizie e scontri. Sauer è il problematico, entrato giovane nelle SA (il primo gruppo paramilitare del Partito Nazista, note come “camice brune”) ma anche velocemente uscito. È riflessivo, pensoso, solitario, ma anche quello che riesce a fare i collegamenti più arditi ed efficaci per costruire un castello sulle vicende di Geli. Mentre Forster è più istintivo, più diretto, compagnone ma con delle punte di poca chiarezza (nei pensieri che mi vengono durante la lettura).

Il castello che Massimi costruisce lungo le quasi seicento pagine ha di certo alcuni spunti interessanti, laddove mette in luce che già agli inizi degli anni ’30 i nazisti avevano atteggiamenti e tare che non potevano che aggravarsi negli anni. Le cose migliori riguardano, per me, la costruzione, pagina dopo pagina, della personalità di Sauer, che, con tutti i suoi dubbi, rimane l’elemento positivo sui rivolgere le proprie simpatie. Ed anche la descrizione di Monaco e della sua vita minuta, in quei tormentati giorni, che tra l’altro coincidevano con la famosa Oktober Fest di quell’anno.

Al contrario, pallose e poco coinvolgenti sono le vicende che toccano i vertici del Partito Nazista. Di certo ben documentate in una completa bibliografia in appendice, ma che Massimi non riesce a trasformare in momenti interessanti del discorso romanzesco complessivo.

Ovvio, infine, che, benché ponga tante possibili soluzioni sul piatto, Massimi non possa puntare su una sola. Può solo puntare sul dubbio, e sul fatto che Sauer, che di tante ipotesi ha fatto costruzioni credibili, non possa che finire o ucciso o fuggitivo. Alla vostra lettura, se vi va, lo scioglimento di questo e di piccoli altri misteri.

Alla fine della lettura, personalmente, ho trovato il libro utile per alcuni spunti, ma non mi ha coinvolto emotivamente, né intellettualmente, come sarebbe potuto succeder quando dalla realtà passiamo alle ipotesi sulla realtà stessa. Ma Massimi sa scrivere (e tradurre) e credo che il suo percorso editoriale e letterario potrà portare altri elementi quanto meno di interesse.

Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli “La pioggia fa sul serio” Repubblica Anima Noir 19 euro 8,90

[A: 02/11/2021 – I: 09/10/2024 – T: 11/10/2024] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 296; anno: 2014]

Come avevo anticipato tramando il “Tempo da Elfi”, ecco che stiamo in lettura disordinata dei libri appenninici dei nostri due scrittori emiliani, ma con qualche tosca venatura. Dato che, infatti, Guccini sta in quel di Pavana, sul versante pistoiese del crinale e Macchiavelli a Monteombraro, sul versante modenese, a meno di 50 chilometri da Francesco. Nessuna meraviglia quindi che abbiano dedicato del tempo ad avventure di montagna.

Avevamo conosciuto i nostri personaggi in “Malastagione”, e li avevamo ritrovati negli Elfi, ora ne facciamo una specie di controllo incrociato, leggendone l’episodio mediano e cercando di rannodare i fili. Non tanto del giallo, che c’è ma è solo uno sfondo anche per altro, quanto, appunto, dei messaggi che attraverso questi libri ci mandano i nostri.

Quello di fondo è la costatazione dello sfascio cui la natura è sottoposta per mano dell’uomo che non sa più come rispettarla. Ci vogliono i vecchi locali (e non per nostalgia ma per bisogno di memoria) a ricordarci il rispetto che andrebbe portato a quei luoghi. Disboscamento selvaggio, movimenti motorizzati che sfasciano i sentieri, costruzioni che non tengono conto del paesaggio, non in senso estetico, ma funzionale. E poi viene la pioggia (con bombe d’acqua portate dai cambiamenti climatici) e non ci si può meravigliare che ci siano frane, interruzioni ed altre sventure territoriali.

Francesco e Loriano usano quindi questo mezzo per mandarci un messaggio chiaro e forte: non ci vorrà molto ed arriveremo ad un punto di non ritorno. Peccato che l’appennino, non solo quello tosco-emiliano, potrebbe essere sfruttato meglio. Pieno com’è di sentieri che si usavano per pellegrinaggi verso Roma, con cappelle votive, chiesette ed altre piccole presenze boschive che dovrebbero, anch’esse, essere meglio sfruttate. Non a caso, i nostri prendono spunto da una cappella per costruire questa storia.

Ma oltre alle denunce dello scempio territoriali, nel testo si rimanda anche alle pratiche antiche della campagna e della sua cucina. Al solito, non per nostalgia dei tempi andati (anche se ormai Guccini va verso gli 85 e Macchiavelli ha doppiato il capo dei 90), ma per ricordarne le buone usanze civiche. Così, oltre alla storia, troviamo ben descritte e ricordate la trebbiatura a mano, che comincia con l’imbuinatura dell’aia (cioè l’aia viene ricoperta di uno strato di argilla, terra e letame per rassodarla), la battitura con il correggiato (strumento fatto di due bastoni di diversa lunghezza che serviva a battere il grano) e l’arrivo delle donne a raccogliere quanto fatto, magari portando ai contadini le zampanelle (sottili crepe farcite di lardo cui andrebbe fatto un discorso a parte).

Tuttavia non ci dimentichiamo che c’è anche un giallo. Con il suo protagonista principale, l’ispettore forestale Marco Gherardini detto “Poiana”. Inciso: qui finalmente sapremo il motivo del soprannome (ma non ve lo dico) menzionando di passaggio che a Pavana c’è un’ottima “Ferramenta Gherardini”. Lo scenario è un po’ cambiato, anche se noi già se ne sa. È arrivato un nuovo responsabile dei carabinieri, che collabora con la forestale per risolvere il caso. Al posto del vecchio parroco c’è un prete polacco. Ma rimangono fedeli al loro posto il bar-trattoria di Benito, con Benito dietro al banco e Amdi il marocchino (o tunisino) a servire ai tavoli, la tabaccheria di Nerina, aiutata dalla bella Roberta, e Adumas il bracconiere pentito (sul cui nome sono già intervenuto e vediamo se qualcuno ne ricorda i motivi).

Altra costante è l’avvicinamento di Marco alla bella di turno. Francesca nel primo episodio, Elena nel terzo, qui con l’inglesina Betty. Tuttavia sembra che alla fine, Poiana resti sempre solo.

Comunque, la storia gialla, che si intreccia con le denunce ambientali, prevede l’arrivo di un geologo che controlla le frane, ma si interessa anche d’altro, e ad un certo punto viene ucciso. C’è uno studioso inglese con bella nipote al seguito che cerca cappelle ed altri elementi antichi per le campagne tosco-emiliana. C’è un agriturismo in crisi che cerca di trovare vie alternative per aumentare gli introiti. C’è un affresco nascosto che potrebbe essere di Piero della Francesca. C’è la possibilità, forse remota, forse no, che il sottosuolo contenga metano.

Come in tutti i gialli di accumulazione, quello che preme agli autori è farci vedere gli indizi e come questi aumentino convergendo ora su di uno ora su di un altro dei sospettati. Purtroppo, e questa è una grande pecca del romanzo, la soluzione si adombra già dalle prime pagine, ma è un indizio che i nostri lasciano correre, e che salta fuori, in modo palese, solo verso il finale. Quando, con molta più attenzione, Forestali e Carabinieri avrebbero dovuto seguirne le tracce.

Così, alla fine, è solo un buon accompagnamento per i boschi (reali, non narrativi), con una bella chicca riguardante la storia degli affreschi di Piero della Francesca (che sicuramente fu nei luoghi descritti nel finale degli anni Cinquanta del 1499), ed in particolare di quello denominato “Madonna del Parto”. Affresca che ha una bella storia (è una delle poche rappresentazioni della Madonna incinta) sia per la devozione che ebbe all’epoca, sia per il bando eretico che promulgò il Concilio di Trento, sia per la sua collocazione attuale, conservato in un museo mono opera in quel di Monterchi, la cittadina materna in provincia di Arezzo.

In conclusione, discreto il romanzo, buoni i rimandi ecologici, intrigante la citazione che riporto, poco entusiasmante il versante poliziesco. Tra l’altro credo che dopo la trilogia del Poiana non siano usciti altri romanzi della serie.

“La madre lo aveva chiamato Amos. Suonava bene, era un nome importante e l’aveva scelto perché le sembrava riscattasse un cognome che più plebeo non avrebbe potuto essere … Con un Amos davanti … le cose, secondo lei, sarebbero cambiate, e di molto. La conferma le arrivò quando qualcuno le disse che Amos, in ebraico, significava forza.” (279)

Maurizio Blini “La ragazza di Lucento” Corriere Gazzetta 34 euro 7,99

[A: 24/01/2024 – I: 11/12/2024 – T: 12/12/2024] &&     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 253; anno: 2018]

Torniamo dopo un bel po’ di tempo alla collana di gialli italiani editi dai Fratelli Frilli e riproposti dal Corriere in una interessante anche se non sempre ben riuscita collana. Qui incontriamo Maurizio Blini, ex-Commissario in quel di Torino, laureato in Scienza dell’Investigazione e per anni animatore di Torinonoir, un collettivo di scrittori nato per raccontare i cambiamenti di Torino con il mezzo del giallo-noir. Ed infatti anche in questo romanzo Torino c’è (anche se molto come citazione datata della squadra, ai tempi del romanzo allenata da Emiliano Mondonico).

Questo romanzo nasce dalla rielaborazione di un racconto breve dello stesso Blini, intitolato “Giulia”, che gli era valso dei premi. Purtroppo, nella vena di indicare possibili romanzi seriali, nel sottotitolo viene epigrafato come “la prima inchiesta di Alessandro Meucci e Maurizio Vivaldi”. Certo, i due assurgono il ruolo di investigatori, ma senza, ad ora, creare squadra, se non nel fatto che entrambi lavorano nella Questura di Torino. Non conoscendo l’estesa (almeno leggendo il sito dell’autore) bibliografia di Blini, dal testo si capisce solo che questa è la prima volta che i due, seppur disgiuntamente, indagano. Tanto che la vicenda, principalmente, si svolge nel 1990.

Il fatto che il nucleo narrativo sia un racconto viene fuori abbastanza chiaramente, che molte parti sembrano servire solo ad “allungare il brodo”. Facendoci saltare, per un certo periodo, tra il ’68, il ’74, il ’76 ed il presente del romanzo. Salti che servono solo a cercare, senza troppo riuscirci, di connotare meglio quello che sembra il principale protagonista, Maurizio. Lo vediamo ad otto anni con la paura dei ragni, a quattordici giocare a pallone con un foglio di carta appallottolato, a sedici non riuscire a rapportarsi con una sua coetanea, preferendo rifugiarsi in una cantina a suonare la chitarra.

Nel presente, trentenne, è diventato poliziotto, e mettendo a posto le sue cose in vista di un trasloco, ritrova un barattolo (come quello che conteneva i ragni) con dentro il foglio. Si ricorda allora che con i suoi amici del tempo aveva fatto una scommessa sul contenuto del foglio. Scommessa poi passato in oblio. Ma ora ritrovata, e da qui nasce la storia vera e propria. Sul foglio c’è scritto: “aiuto, sono Giulia Caretta, sono stata rapita”. Ma sono passati sedici anni, e cosa è diventato di quella storia?

Che in effetti, Giulia, all’epoca, risultava rapita, risultava pagato un riscatto, ma non risultava fosse mai ricomparsa. Liquidati ben presto gli inutili amici (e le pagine a loro dedicate sono altrettanto inutili), l’unica cosa che può fare è chiedere aiuto ad un altro poliziotto, di poco più grande, Alessandro, appunto. Maurizio è roso dai sensi di colpa (cosa sarebbe successo se avesse letto il foglio quando lo trovò?), e non può esimersi dallo scavare nel passato.

In questo, Alessandro è di certo un aiuto, che conosce meglio i meandri polizieschi, sa dove andare a scavare. Con l’aiuto anche di un amico giornalista e con il parroco, seppur con immensa fatica di pagine, scopriamo riga dopo riga, una lettura degli avvenimenti molto diversa.

Il padre di Giulia, di giorno onesto meccanico, di notte frequentava luoghi poco raccomandabili, con relative perversioni sessuali. Luoghi in cui spendeva fior di quattrini senza averli. Per cui decide, con il suo usuraio principe e con l’aiuto di suoi due sodali, di inscenare un finto rapimento, al fine di avere soldi freschi dalla banca e pagare il cattivo. Cosa che riesce in parte, che alla fine Giulia non riappare. Uccisa dall’usuraio? Scappata non si sa come?

Tra l’altro, il padre portava Giulia stessa, dodicenne, in quei luoghi di perdizione, al fine anche di pagarsi il suo piacere attraverso il prestito del corpo della piccola ad altri. Il tutto con una madre diciamo quanto meno reticente. Ma al non ritorno di Giulia, molte cose precipitano. Il padre comincia a bere, la madre si allontana dal marito riconoscendone il cattivo uso della sua e della altrui vita. Poi il padre muore (come?), poi muore la madre. Rimane solo quel pezzo di carta che Maurizio non riesce a dimenticare. Anche perché l’usuraio, ora in prigione per altri motivi, continua a sostenere che Giulia sia fuggita.

In una sera di grandi pensieri, Alessandro, Maurizio, il giornalista ed il prete si mettono ad elaborare teorie su teorie, domandandosi a chi Giulia potesse rivolgersi in caso di bisogno. Non alla famiglia, che di certo non la trattava bene. Non alla sua amica del cuore, troppo piccola. Non al prete, che, da maschio non avrebbe capito. Però è lo stesso prete che ha l’illuminazione, ed in un crescendo di rivelazioni già scontate, si arriva alla descrizione di tutti gli avvenimenti, con una soluzione, appunto, prevedibile e poco innovativa, rispetto al testo.

La scrittura è corretta, ma non esaltante, la trama vuol toccare molti punti, senza riuscire ad affondare. Pedofilia, sadomasochismo, debiti con usurai: tutte cose attraversate senza portare niente di nuovo sotto il sole. Un buon compito, ma poco di più.

Unica cosa in più è la citazione a pagina 162 di un articolo di giornale, scritto per altre vicende, ma che porta la firma del mio amico Emilio Radice. Cui, fuori contesto, auguro di fare ancora tanti viaggi con la sua moto.

Francesco Caringella “Oltre ogni ragionevole dubbio” Repubblica Anima Noir 33 euro 8,90

[A: 02/02/2022 – I: 06/01/2025 – T: 07/01/2025] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 250; anno: 2019]

Nella nuova tradizione di aggiornare i meri racconti gialli, anche di derivazione non italiana, l’ex-magistrato Francesco Caringella costruisce in questo romanzo un vero e proprio legal thriller che si basa sulla giurisprudenza italiana. Portandoci così in primo piano una tipologia di approccio ai processi che spesso dimentichiamo, troppo abituati ai Perry Mason e discendenti.

Come detto, Caringella, per la sua storia personale, ben conosce i meccanismi delle aule dei tribunali. Qui, decide di adattare, con tutte le modifiche del caso, sia il film “La parola ai giurati” di Sidney Lumet sia le analisi e le conseguenze del caso Bebawi. Nel primo caso, dovendo raggiungere l’unanimità per la condanna capitale (così dice la legge americana), un giurato si oppone e rivedendo tutto il processo, alla fine fa assolvere l’imputato. Nel secondo, i coniugi Bebawi accusati dell’omicidio del libanese Farouk, si accusano a vicenda, e la giuria, non potendo sciogliere il nodo, li assolve, almeno in primo grado. Una vicenda del 1964 che se non conoscete, vi invito a ricercarne notizie.

Perché dico aggiorna e ripropone? Innanzi tutto, nella legislazione italiana, non si deve avere l’unanimità; è sufficiente una maggioranza, ma in caso di pareggio vige la regola dell’assoluzione, visto che la colpevolezza non viene provata “oltre ogni ragionevole dubbio”. Secondo poi, anche qui abbiamo due persone accusate, ma il castello di dichiarazioni, prove e smentite è decisamente più complicato.

La scrittura dell’autore rende molto bene le fasi dibattimentali della giuria, mentre è meno efficace sia quando ripropone l’esterno del tribunale con il circo mediatico su cui giornalisti senza scrupoli vanno a nozze, sia quando tenta di approfondire il passato del giudice che gestisce il processo, Virginia Della Valle. Qua e là ci sono sottili ammiccamenti ad un autore che credo Caringella ami profondamente, il belga Simenon. Quando ad esempio fa dire ad un giurato che “Dietro ogni delitto c’è una vicenda umana più interessante del delitto stesso.” Inoltre l’epilogo finale, che ci si aspettava da un po’, ricalca molto situazioni che riecheggiano scritti del capostipite del giallo italiano moderno, Giorgio Scerbanenco.

Ma veniamo alla vicenda. Un imprenditore scompare e dopo indagini abbastanza veloci vengono incriminati della sua scomparsa la sua seconda moglie Antonella ed il suo amante Giulio. I due forniscono versioni contradditorie. In una intercettazione sono sollevati di non essere stati scoperti. Poi nelle prime dichiarazioni, si accusano a vicenda. Quindi, negli interrogatori formali ognuno dei due accusa sé stesso, discolpando l’amante. Il tutto condito dalla mancanza del corpo della vittima e dal fatto che i suoi conti correnti sono stati ripuliti e il testamento cambiato di recente a favore della seconda moglie.

Dato questo quadro, il giudice Virginia con il suo giudice a latere e sei giurati popolari si riuniscono in camera di consiglio per deliberare: condannare entrambi gli imputati sulla base di indizi frammentari o assolverli entrambi per insufficienza di prove. Vediamo così il tipico svolgersi di un caso controverso. Dichiarazioni iniziali divergenti: chi parte in tromba con la colpevolezza di entrambi, chi vorrebbe colpevoli differenziati, chi si trincera nel dubbio e nella indecidibilità. I giurati dibattono, calmierati da Virginia. Comunque si palesano le varie personalità. L’arrogante, la studiosa, il patito di libri gialli, la magistrata mancata. Queste sono le parti migliori, dove si analizzano i fatti presenti, si soppesano le alternative. Insomma si discute su tutto a ruota libera.

Dopo ore di sfibranti discussioni, ci si avvia verso i punti finali. Un primo pronunciamento informale senza risultati, poi discussioni accanite che portano alla votazione finale che porta 4 colpevoli, 3 innocenti e si rimane in attesa del pronunciamento di Virginia. Il risultato del processo lo leggerete nel finale del libro, pieno anche delle altre piccole cose che danno un senso compiuto a tutte le frammentarietà che costellavano le prime duecento pagine.

Ripeto, bene tuta la parte claustrofobica in camera di consiglio, meno coinvolgente il resto. Tuttavia, è interessante la figura di Virginia Della Valle, di cui ho conoscenza che l’autore l’abbia utilizzata in altri romanzi. Vedremo cosa ci tirerà fuori dal suo castello di scrittura.

“Da adolescente aveva divorato Maigret, ma con il passare degli anni s’era innamorata delle altre storie dello scrittore belga: racconti di uomini e donne risucchiati dalle ombre del passato, personaggi mediocri, imperfetti, in fuga da sé stessi.” (40)

“Una passione … che l’ha portato in giro per il mondo … Amore sconfinato per il jazz e i romanzi gialli.” (75)

Antonino Genovese “Scirocco e Zagara” Corriere Gazzetta 25 euro 7,99

[A: 22/11/2023 – I: 05/02/2025 – T: 05/07/2025] && e ½     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 169; anno: 2020]

Eccoci ad una nuova lettura di un episodio della grande collana del Corriere che ripropone un considerevole numero di gialli italiani, usciti in prima battuta presso i Fratelli Frilli editori.

In questo volume facciamo la conoscenza di un quarantenne anestesista siciliano, Antonino Genovese, già noto per una serie di pubblicazioni narrative per ragazzi. Negli ultimi anni, ha inserito anche il giallo o il noir nelle corde della sua scrittura, con risultati direi incoraggianti. Come in questo libro, ambientato, non a caso, nella città dove vive l’autore, Barcellona Pozzo di Gotto, con un paio di personaggi che meriterebbero (se non già fatto) un seguito in future avventure.

Altro punto a favore è la conoscenza dell’ambiente. Quando ci si muove nelle proprie tracce personali, di sicuro si riescono a trovare momenti descrittivi che altrove forse suonerebbero artificiali. Qui, l’ambiente, i luoghi che si percorrono, le persone che animano la scena suonano bene, sono ben intonati al contesto, e ne forniscono una bella fotografia.

Fotografia che invece non riesce altrettanto bene per quanto riguarda la trama, che, seppur in principio viene adombrata in tinte che potrebbero dar luogo a momenti interessanti, pian piano si ammorbidisce in un contesto abbastanza scontato. Qualche luogo comune e qualche scappatoia perché poi la Sicilia, terra di mafia, sempre Sicilia è. Con un giudizio complessivo, quindi, di buon livello, pur se non ai massimi punteggi.

Intanto si diceva dei personaggi, che in effetti sono due e mezzo. Il primo, che riempie la scena sia sul piano pubblico che su quello privato, è il commissario Gianluca Mariangelo. Di buona intuizione, ha alcuni problemi personali. Seppur coltiva un buon rapporto (in generale) con la moglie Giuseppina, è arrivato ad un punto difficile: lei vuole un figlio, ma non riescono a concepirlo. Inoltre, lei è di Lipari e Gianluca, per problemi d’infanzia, ha una forte fobia verso il mare aperto. I problemi personali di certo lo rendono cupo ed irascibile, dovendo alla fine decidere quanto il suo privato debba essere affrontato e risolto, anche a scapito di altro.

Il mezzo personaggio è il brigadiere Fabio Fascia, aiuto di Mariangelo e coscienza storica del mondo malavitoso e mafioso della città. Non è sempre presente, ma i suoi piccoli interventi, e, quando c’è, la sua presenza, consentono al commissario di ragionare sui due aspetti della sua vita, di prenderne coscienza ed agire di conseguenza.

L’altro personaggio è il territorio. Sia per la città teatro della storia, seconda città della provincia messinese, ma sempre un po’ in second’ordine (con un astio sotterraneo verso Milazzo che possiede un porto ed i traghetti verso le Eolie), sia per le atmosfere territoriali: la Chiesa, i migranti e gli immigrati, la mafia ed i suoi tentacoli, il potere in tutte le sue manifestazioni.

Ed è proprio dalla Chiesa che nasce la storia, in seguito all’uccisione del prete padrino locale, don Giovanni Rossi. Ben in vista nelle situazioni locali, promotore di onlus che si occupano di immigrati e di recupero sociale, è anche noto per la sua vita sopra le righe, quasi come se (ma senza quasi) dei denari che circolano tra le sue attività, buona parte rimanesse nelle sue tasche senza poi uscirne. Un prete che nella prima maturità aveva dato vita ad un progetto di aiuto agli orfani (progetto “Tulipano”) ed ora nel pieno della sua vita, ad una onlus dedicata all’accoglienza dei migranti (“Amore senza limiti”).

Il Tulipano si bloccò per il suicidio di una ragazza lì ospitata, mentre la onlus ora prospera ricevendo sovvenzioni per ogni migrante accolto. Un flusso di denaro che non può non suscitare le mire della mafia locale. Sembra facile sciogliere i dubbi sulla morte, sapendo che una cameriera delle feste di don Rossi era la sorella della ragazza suicidatasi. Troppi facile. Come facile sarebbe coinvolgere la mafia che gli intrighi ecclesiastici non vogliono partecipe dei loro affari.

Ma noi si ha anche un’altra traccia, del povero cantore che scrive storie strampalate, un po’ vere e un po’ inventate, dove, se ne decodifichiamo il messaggio, si intravede la possibilità di soluzioni altre.

Alla fine, certo, una storia di pedofilia, di immigrazione, di violenza sulle donne, dove Mariangelo si trova a lottare contro massonerie e poteri forti al fine di trovare il modo di proteggere le vittime silenziose di un mondo corrotto. E dove, tra l’inebriante profumo di zagara e il vento soffocante di scirocco (da cui il titolo), alla fine si troverà a risolvere il giallo ed anche a trovare una strada per i suoi problemi personali.

Come detto, una buona scrittura, una trama che dalla metà in poi si annacqua un po’, ma con dei caratteri che possono consentire al buon Genovese di ipotizzare nuove avventure.

Essendomi ormai votato al contrappasso letterario, ecco che mi viene in mente di dedicarvi alcune perle di David Herbert Lawrence tratte da “L'amante di Lady Chatterley”, un libro che molti citano ma non molti hanno letto.

“Una donna vuole che tu l’apprezzi e che tu le parli … e, allo stesso tempo, che tu la ami e che tu la desideri… mi sembra che le due cose si escludano a vicenda.” (63)

“Se la civiltà vuol farci del bene, deve aiutarci a dimenticare i nostri corpi, e allora il tempo scorrerà piacevolmente.” (84)

“La solitudine andava accettata. Bisognava conviverci …e i momenti in cui il vuoto si colmava erano da apprezzare. Ma non li si poteva forzare.” (161)

“-Non potresti vivere senza lavorare? –Io? Forse sì, se intendi vivere solo della mia pensione. Sì, forse sì. Ma io devo lavorare, se no muoio. Voglio dire, ho bisogno di avere qualcosa che mi tenga occupato. E non ho il carattere giusto per un’occupazione in proprio. Deve essere un lavoro che svolgo per qualcun altro, se no, in un momento di rabbia, poteri mandare tutto all’aria nel giro di un mese.” (186)

“Quello che non sopporto è l’impudenza idiota, autoritaria di coloro che governano il mondo. Io odio l’arroganza del denaro e quella di classe. Quindi, in questo tipo di mondo, che cos’ho da offrire a una donna?” (308)

Quindi, ormai ripresi dai viaggi sudamericani, ed in attesa di pensare al prossimo, ci fermiamo qui. In un momento di grande tensione. Malati eccellenti cui portiamo saluti per guarire. Folli che rischiano di farci finire anzitempo il periodo a noi concesso dalle Parche. Sono ancora ore di grandi tensioni e di flebili speranze. Per cui dobbiamo farci forza tutti insieme, in un grande abbraccio.

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