E
come vedrete dagli spiegoni, questa volta, “old is better”.
Francisco
González Ledesma “Storia di un dio da marciapiede” Corriere Noir 19 euro 8,90
[A:
06/12/2022 – I: 30/11/2024 – T: 02/12/2024] - &&
[tit.
or.: Historia de Dios en una Esquina;
ling. or.: spagnolo; pagine: 351; anno 1991]
Francisco González Ledesma è stato un
interessante scrittore e giornalista spagnolo. Forse per dirlo meglio, più che
spagnolo, barcelloneta. Ha scritto per 25 anni su “La Vanguardia”, ed ha
ambientato un gran numero di romanzi nella sua città. Non ha scritto solo
“novela policiaca”, ma ha dato un grande impulso al genere, dove gli si
riconosce il primato di aver scritto, primo in Spagna, dei “romanzi polizieschi
sociali”. Ciò, dove il giallo, il poliziesco, è inserito nel contesto sociale
reale, divenendone una espressione globale.
Lo scrittore, purtroppo, ci ha lasciato dieci
anni fa, sulla soglia degli 88 anni, ma qui lo esploriamo in uno dei libri
cardine della sua espressività. Scrisse infatti dieci romanzi ed una raccolta
di racconti incentrati sulla figura di un ispettore di polizia, Ricardo Méndez,
non proprio esemplare nel suo modo di vivere, nel suo modo di indagare.
Méndez (che viene sempre indicato con il
cognome e solo attraverso una ricerca mirata ho scoperto chiamarsi Ricardo) è
discretamente maleducato, sicuramente malvestito, onnivoro e bevitore
impenitente di cognac a buon mercato, ma anche disincantato, moderatamente
ironico, che sa come nel presente la virtù sia realmente assente. Ha una vita
sessuale disastrosa, ma una forte empatia per il piccolo crimine, tanto che
difficilmente decide per l’arresto al posto di un chiarimento in una sordida
taverna. Vive, lavora, respira sempre e solo a Barcellona, da dove si
allontana, costretto, solo due volte per recarsi a Madrid, ed una per andare in
Egitto.
In fondo, ha un sacro dispetto (non è un
errore di battuta) per le leggi, tanto che può essere preso ad emblema dello
spirito poliziesco di transizione tra la dittatura e la democrazia. Non a caso,
i libri con Méndez sono pubblicati tra il 1983 ed il 2013, con uno strano
andamento: cinque nei primi dieci anni, poi dieci anni di pausa, poi altri
cinque negli ultimi dieci anni.
Per venire a questo (che con molta
probabilità rimarrà una lettura isolata), la narrazione è un fiume in piena,
che travolge anche l’autore. Un hard boiled all’americana (alla fine ci saranno
almeno una decina di morti uccisi con violenza) in salsa paella, con
l’attenzione di cui si diceva all’inizio, al sociale, alle dinamiche di vita
nei quartieri alti ed in quelli bassi, con un occhio attento anche alla
politica nazionale.
Méndez comincia in sordina, cercando di
salvare la vita ad un cagnolino randagio, inseguendo il quale, sin dentro il
Cimitero Nuovo di Barcellona, scopre il corpo di una bambina uccisa. Si pensa
sia la figlia di un detenuto (uno dei pochi da lui arrestato) che scappa di
prigione per vendicarla. Ma è una falsa pista, che quella vera li porta ad un
poliziotto corrotto, che viene ucciso mentre Méndez cerca di interrogarlo.
Unico indizio sono le tracce di un delinquente di medio calibro che sembra
avere le mani in pasta. Tant’è che dopo diversi giri e inseguimenti, il nostro
aiutato dal detenuto fuggiasco, raggiunge il tizio, capisce che lui è
l’esecutore, ma lo uccide prima di scoprire chi è il mandante.
Tutto chiuso? No, che siamo solo all’inizio.
Méndez, senza motivi validi, viene quindi spedito a Madrid per far da guardia
ad un imprenditore basco pare minacciato dalla mafia. Qui scopre: che la
minaccia è reale, che forse le minacce sono due, che la bambina morta è una
bambina cieca, adottata da una ragazza anche lei nata cieca, ma anche
immensamente ricca. Tant’è che oltre alla bimba autistica ha adottato anche una
seconda bimba down.
Interessante e politica è la storia della
famiglia di Clara, la cieca, che non vi dico, altrimenti spoilero tutto. Ma
qualcosa si intreccia. Tutti, Clara, la seconda figlia, l’imprenditore in
pericolo nonché i vari killer, ed ovviamente il nostro, sono nello stesso
albergo. C’è un tentativo di stupro di Clara, sventato non vi dico da chi. E
c’è un primo tentativo di uccidere il basco, sventato uccidendo il killer. Poi,
senza un vero perché, tutti decidono di andare in Egitto. Clara e la sua
famiglia per allontanarsi dalla bimba morta, l’imprenditore per allontanarsi
dal pericolo, e solo Méndez lo fa a sue spese, subodorando che qualcosa non
vada per il suo verso.
In Egitto si scopre che tutto nasce da
ricatti subiti dalla famiglia di Clara, che ogni volta vuole pagare, e qualche
fatto improvviso lo impedisce. Non solo, l’imprenditore subisce un secondo
attentato, anche questo sventato. E tutta l’azione finisce in due tappe. La
prima nella Città dei Morti del Cairo, dove muoiono altri due killer ed un
poliziotto. La seconda, nella nave da crociera dove sono tutti i protagonisti,
dove Méndez fa il riassunto di tutto quanto è avvenuto sin lì, consentendo
anche a noi poveri lettori di unire tutti i puntini del disegno criminale. E
dove tutto si risolve. Se la soluzione sia secondo giustizia o meno, sarà il
caso che lo decidano i fortunati lettori del libro.
Che ripeto, non è brutto, anzi. Ha
sicuramente punte di validità notevoli, sia in sé che verso di me. Ma è troppo
pieno di tutto, tanto che non solo io ma anche l’autore ogni tanto si fa
prendere la mano. Tipo che all’inizio compare un giornalista che occupa un
lungo capitolo di discorsi con Méndez e poi scompare. Forse è qualcuno di
precedenti puntate. Come di altri episodi potrebbe essere un secondo
giornalista scambiato per un possibile pedofilo. Così come i killer che
pullulano nella seconda parte, che sembrano avere familiarità con il nostro
ispettore, ma è un rapporto che non viene chiarito.
Il tutto messo sulla bilancia che ha
sull’altro piatto, i discorsi sul sesso e sulle donne, che ora sarebbero
“politically incorrect” ma che ci stanno nell’economia del testo. Le
descrizioni delle periferie, di Barcellona, ma anche di Madrid. Un Barcellona
che, ad esempio, non è solo bettole del Barrio Chino e marciapiedi del Poble
Sec, o dei turisti delle Ramblas, ma giri e rigiri per zone che solo i migliori
sanno collocare, come Sant-Estaciò e Horta.
Dal mio punto di vista, poi, tutta la deriva
egiziana è degna di ricordo, a cominciare dall’albergo dove tutti convergono
all’inizio, il Mena House, dove sostai anch’io esattamente due anni prima della
scrittura del libro. Per poi non scordarsi, navigando con Méndez sulla “Nile
Dream” le mie crociere sul Nilo stesso, e tutte le visite. Ogni parola egizia,
mi risuonava nel cuore con note di bei e mai dimenticati ricordi. Come anche
per l’Hotel Marriott a Zamalek, i passaggi per lo Shepard Hotel o per piazza Tahir.
Insomma come si fa a dimenticare l’Egitto?
Per finire, però, c’è una domanda forte di
cui non capisco le possibili risposte. Il libro è scritto nel 1991 (ed in
effetti si parla di una Barcellona in ricostruzione in vista delle Olimpiadi
del ’92) ma il riscatto richiesto viene espresso in euro. Poiché l’euro sarà
introdotto in Spagna solo otto anni dopo, nel 1999, mi chiedo se sia una
revisione (inutile) o un errore macroscopico dei traduttori. Che nella prima
parte, quando si parla di soldi, si menzionano i “duros”, nome con cui veniva
indicata la moneta da 5 pesetas. Un nome utilizzato poi anche nei suoi
multipli, tanto che 100 pesetas venivano dette 20 duros. Allora, è facile
pensare che duros sia un errore di battitura, dove si doveva scrivere “euros”.
Ma se qualcuno lo ha pensato, io penso che debba essere licenziato su due
piedi.
Dashiell Hammett “La chiave di vetro”
Mondadori euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 09/12/2024 – I: 30/12/2024 – T: 31/12/2024] - &&& e ½
[tit. or.: The Glass Key; ling. or.: inglese; pagine: 215 anno 1931]
Una delle quattro liste che ho
stilato nell’ultimo mese del 2024 riguardava l’elenco di una serie di gialli
“storici” che l’opinione letteraria giudicava imperdibili. In questa lista, non
poteva mancare uno dei padri putativi di un genere che, nato in America, ha poi
pervaso molta letteratura poliziesca: il giallo “hard boiled” ed il suo primo
ed elevato esponente, Dashiell Hammett.
Hammett non è stato un autore
prolifico (ha in realtà scritto solo 5 romanzi, anche se ha al suo attivo molti
racconti e un buon numero di sceneggiature), ed ha prodotto (o meglio
pubblicato) la maggior parte delle sue opere tra il ’28 ed il ’40. Ma dopo la
pausa della guerra, il suo essere sempre di sinistra (iscritto al tempo anche
per un periodo al partito comunista americano) lo ha ben presto messo nella
lista nera del senatore McCarthy. Non ha mai deviato dalla sua linea di
condotta, ma non ha più avuto contratti, ha cominciato a bere pesantemente, ed
è morto di cancro nel 1961, sei mesi prima del suicidio di Hemingway (non
c’entra nulla, solo date coincidenti, come anche per la nascita di mio fratello
Paolo).
L’estrema pulizia e chiarezza delle
idee, portano Hammett a credere che, anche nella scrittura, siano i fatti a
dover essere presentati. Noi che ne leggiamo, dobbiamo avere, con gli strumenti
asettici che ci fornisce, il modo di farci meglio il quadro d’insieme, le
motivazioni, le psicologie dei personaggi. Lui descrive, interrompe la
narrazione con dei dialoghi (si vede la mano dello sceneggiatore), e
soprattutto si fissa e ci fa fissare su dettagli. Come vestono i personaggi,
come si muovono. Ci fa notare, ad esempio, che il protagonista spesso si tocca
i baffi con un unghia quando è impegnato in un momento saliente della
conversazione.
Oppure, nella sua insistenza su di un
cappello. Che viene nominato quasi subito, senza che si capisca il motivo, che
il protagonista trafuga, poi indossa pur essendo di una taglia più grande, e
solo nel finale ne capiamo il motivo, ed il perché di tutta questa insistenza.
Dicevo dei dettagli: sempre senza farci capire che la nostra attenzione deve
seguire le azioni del protagonista, trova il modo di farcelo balzare agli occhi
ad ogni capitolo. Dei 58 capitoli del libro
ben sedici iniziano con il nome del protagonista.
Intanto, pur non nominandola mai, ma
facendoci intendere che è un esempio tipico di una città americana degli anni
’30, capiamo da alcuni accenni che possa trattarsi di Baltimora, nel Maryland
dove Hammett visse molti anni. Una città corrotta, dove i gangster la fanno da
padroni. In particolare, Paul Madvig è l’anima nera del luogo, le mani in pasta
in molti traffici illeciti, e con al libro paga buona parte
dell’amministrazione cittadina, nonché il senatore locale, Ralph Bancroft Henry.
In vista delle elezioni, Paul cerca il modo di appoggiare il senatore, e di
rifarsi una verginità, sia cercando di sposare Janet, la figlia del senatore,
sia ostacolando il rapporto tra sua figlia Opal e l’altro figlio del senatore,
Taylor. Il quale, si capisce dalla trama, è uno sfaccendato dilapidatore dei
soldi di famiglia e dedito anche a loschi affari.
Quando Taylor viene trovato morto con
la testa spaccata, Paul non può che affidarsi al suo confidente, consigliere
nonché anche amico Ned Beaumont. Che diventa il fulcro delle azioni. Ned è
anche lui luci ed ombre, giocatore di poker, scommettitore sui cavalli, ma
dotato di una qualità fuori luogo nell’ambiente: è leale, e, nella misura
dell’ambito in cui si muove, corretto. Così Ned si improvvisa investigatore,
soprattutto per allontanare possibili sospetti di coinvolgimenti di Paul nella
morte di Taylor. Assistiamo così ad una lunga cavalcata nel crimine e nel
malaffare.
Opal sospetta del padre che gli ha
allontanato Taylor. Janet sospetta di Paul perché non ne accetta la corte, e
vede che nessuno sembra voler indagare seriamente sulla morte del fratello. Ned
si muove in tutto ciò, dovendo anche far fronte al rivale di Paul, l’irlandese
Shad O’Rery che, approfittando della debolezza di Paul, sta cercando di
esautorarlo dalle manovre di potere. Ned si muove, toglie una serie di nomi dai
possibili assassini, subisce percosse dagli scagnozzi di Shad, convince sia
Opal che Janet dei loro errori, riesce anche a ribaltare le posizioni inducendo
lo sgherro di Shad ad uccidere il suo capo (una delle scene più cruente e
meglio descritte dell’hard boiled classico).
Ned sembra arrendersi solo quando,
scartati molti sospetti, è Paul stesso che confessa di essere l’assassino. Ned
non gli crede, e per questo rompe l’amicizia, anche perché durante le sue
ricerche sembra essersi innamorato lui di Janet. Ma il fido Ned non può fermare
le sue indagini, troverà il colpevole, andrà a New York con Janet ed Hammett,
senza chiudere tutte le domande, ci lascia con Ned che guarda chiudersi una
porta.
Come dire chiudere qualcosa potrà
dire aprire altro? Un tocco di psicologia, che torna anche in un altro aspetto
del romanzo. Il titolo, infatti, esce fuori da un sogno di Janet dove lei e Ned
cercano di chiudere dei serpenti in una casa chiudendo la porta con una chiave
di vetro. Che però si rompe e i due vengono assaliti dai rettili. Il sogno
esemplifica probabilmente, e forse un po’ ingenuamente, l’impossibilità di
sfuggire ai meccanismi criminali del potere.
Hammett scrive tutto da narratore, ma
non onnisciente, che non dà mai giudizi, e con la creazione dell’atmosfera
generale del romanzo ci fornisce una realtà forse semplificata, ma di certo
molto vicina al vero. C’è denuncia sociale nel suo libro, c’è lo sconfortante
panorama, ora come allora, della democrazia statunitense. Se facciamo un opera
di sostituzione, ponendo la finanza al posto del crimine organizzato, e l’uso
dei social media per manipolare l’informazione al posto dei metodi violenti
dell’epoca, abbiamo un ritratto dell’oggi neanche troppo lontano dalla verità.
In tutto ciò, da buon conoscitore
degli ambienti sociali di tutte le risme (non a caso ha fatto per anni anche
l’agente dell’agenzia investigativa Pinkerton), Hammett realizza in Ned
Beaumont il suo eroe più umano, meno ideale e fuori dal contesto sociale come
Sam Spade. Ned infatti non è buono, ha i suoi lati oscuri (o grigi) ma ha
un’indistruttibile codice d’onore.
Infine, pur contenendo molto,
asciugando al meglio la sua scrittura, sembra quasi voler applicare la
filosofia di Occam alla sua opera: “Non bisogna moltiplicare gli elementi più
del necessario”. E qui, tutto è necessario.
Inciso, la massima riportata, seppur
sintetizza la filosofia del rasoio di Occam, non compare mai nella sua opera,
ma è presente nel commentario scritto dal filosofo John Punch alle opere di
Duns Scoto. Piccolo gancio per i miei amici ed amiche filosofi.
Per concludere, sono contento di aver
letto il libro nella traduzione di Sergio Altieri che, meglio della prima fatta
dalla pur eccelsa Lisa Morpurgo, rende l’atmosfera cupa ed il gergo della
malavita americana.
Ian McEwan “Cortesie per gli ospiti”
Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 09/12/2024 – I: 01/02/2025 – T: 03/02/2025] - &&
[tit. or.: The Comfort of Strangers; ling. or.: inglese; pagine: 134; anno 1981]
Come
molti sanno, continuo a non essere un grande estimatore di Ian McEwan. Certo,
nulla da dire su bravura, capacità, inventiva ed altro. Ma non riesco ad
entrare nella sua cosmogonia, non riesco ad empatizzare con i suoi personaggi.
Ho provato anche qui, in questo che è uno dei suoi primi scritti, di più di
quaranta anni fa, che è anche inserito tra i cento libri noir e thriller
assolutamente da leggere.
Beh,
sarà forse un thriller psicologico, ma anche in quel senso, ho faticato nella
lettura, con poco o nulla che mi è rimasto nella mente una volta lette le
ultime righe.
Intanto,
un primo appunto sul titolo, che non so quale editore ha portato verso una
lettura di riferimento tra i personaggi centrali del testo ed i due che li
intrattengono in varie situazioni. Che cioè li fanno diventare “ospiti”,
riservando loro delle cortesie che mi sembrano molto ingannevoli. In realtà,
l’originale riporta “Il conforto degli estranei”, dove meglio si gioca sulla
non reciprocità delle posizioni (le due coppie in effetti sono reciprocamente
estranee) e sul contrappasso tra la ricerca di un aiuto, di un conforto, e cosa
viene effettivamente scambiato.
L’azione
si svolge in una città mai nominata, ma che, per accenni e per modalità varie,
possiamo identificare con Venezia. Soprattutto quando, per parlare di una
chiesa, McEwan riporta quasi integralmente un passo del libro “Le pietre di
Venezia” di John Ruskin che descrive la Basilica di San Marco. Per non parlare
dei passaggi per viottoli (calli?), isolette e bar collegati (quasi verrebbe in
mente anche l’Harry’s Bar).
La
storia segue le vicende di una coppia di amanti, Colin e Mary, in vacanza nella
suddetta città. Lei si sta separando dal marito, cui ha lasciato i due figli,
per passare del tempo con l’amante. Anche perché la loro relazione si sta
trascinando stancamente, quasi che non ritrovano stimoli ed altre motivazioni
per continuare la loro storia. Non parlano la lingua del posto, quindi faticano
anche a fare i turisti, ed a trovare luoghi di ristoro (bar, ristoranti e
simili).
Casualmente,
durante una di queste uscite senza costrutto, incontrano Robert che ben conosce
i luoghi e che soprattutto parla la loro lingua. Robert che si attacca a loro
come una cozza sullo scoglio, li porta a bere, li inonda di parole e di
descrizioni della sua vita (sorelle tremende, un padre autoritario da
dimenticare, ed altri fatti di vita a metà tra invenzioni e storie reali).
Colin e Mary, pur contenti della serata, ne sono un po’ intimoriti e per
qualche tempo non si muovono dall’albergo.
Ma
Robert capita (casualmente?) nell’albergo, li costringe a venire con lui,
portandoli nella sua casa, dove cominciano ad avere strane esperienze.
Probabilmente drogati, o solo ubriachi, si ritrovano nudi e segregati sino al
mattino. Quando, rivestiti, conoscono Caroline, la moglie di Robert, confinata
su di una sedia a rotelle. E qui comincia uno strano gioco psicologico. Robert
si rivela ambivalente: manesco e deferente. Dà un pugno a Colin che rimane
tramortito, mentre Mary è intrattenuta da Caroline, che le narra le violenze
che subisce quotidianamente da Robert, in un rapporto fortemente sado-maso.
Poi
si scambiano i ruoli. Robert fa la corte a Mary mostrando le foto che ha
scattato in giro per la città, mentre Caroline implora Colin di non lasciarla
sola, di tornare ancora, che la sua presenza sembra calmare la rabbia di
Robert. Dopo altre inutile pagine, e vertigini psicologiche, arriviamo ad un
sorprendente finale tra tisane drogate, violenze gratuite, approcci sessuali
espliciti ma non sempre graditi e/o corrisposti.
Forse
qui si raggiungono quei momenti “thriller” che ne caratterizzano il modo in cui
viene considerato dai critici tutto il romanzo. Anche se per me, pur essendo
fortemente connotato dalla psicologia (e patologia) dei personaggi, non mi dà
la sensazioni di una connotazione di genere. È un libro. Punto. Ci sono persone
di diversa natura. Punto. E non per tutti finisce in modo positivo. Punto e
fine.
Credo
che, celate nelle pieghe delle vicende, McEwan voglia riflettere su due aspetti
della vita di ognuno: le conseguenze delle nostre azioni e le maschere che
indossiamo ogni giorno per nasconderci agli altri. Di certo punti non da poco
nella vita di tutti, ma che, per il mio intendimento, vengono qui buttati allo
sbaraglio, senza riuscire a coinvolgermi in un ragionamento che poteva essere
ben strutturato.
McEwan
scrive e scrive bene, ma non scrive per me.
Michael Connelly “La fiamma nel buio” Pickwick euro 10,90
[A: 01/12/2021– I: 16/02/2025 – T: 17/02/2025] - &&&
[tit. or.: The Night Fire; ling. or.: inglese; pagine: 389; anno 2019]
HB25; RB3; MH10
Poiché è ben noto il mio affetto
incondizionato verso il personaggio di Hieronymus “Harry” Bosch, non posso che
cominciare parlandone sommariamente bene, anche se questa venticinquesima
uscita del mio beniamino riserva qualche ruggine che dovrà essere sciolta prima
o poi.
Intanto continua ad infittirsi il
gioco di rimandi incrociati e di storie che si intrecciano, tanto che, pur
basato su pochi attori, sta sempre più diventando un “procedural thriller”. Dal
punto di vista dei personaggi, Bosch, purtroppo, sta invecchiando. Si avvia
alla settantina (un pupo direte voi), ha avuto una pallottola nella gamba nel
precedente romanzo, e qui, spesso, usa un bastone. Inoltre, si sente
vulnerabile perché troppo legato ormai a Maddie la figlia ritrovata. Tuttavia,
non esita a mettersi in gioco, ad agire ai limiti della legge ma sempre
all’interno di una correttezza formale.
È anche un romanzo che vede il nuovo
alter-ego di Bosch uscire sempre più allo scoperto. Renée è sempre anche lei ai
limiti, essendo emarginata dal maschilismo poliziesco. Vive in una tenda sulla
spiaggia, insieme alla sua cagnona Lola. Ed è contenta di continuare a lavorare
in notturna, avendo così meno contatti con un ambiente che non ama.
Detto anche di un cammeo del
fratellastro di Bosch, Mickey che coinvolge il nostro in un processo, per poi
dargli via libera nel seguire il caso che ne consegue, ovviamente aiutato da
Renée, visto che qualcuno deve pur accedere a fonti ufficiali, veniamo alla
tramona.
Tutto inizia con la morte di John
Jack Thompson, il mentore di Bosch quando questi entrò in polizia. E come
lascito ereditario, la vedova consegna ad Harry un fascicolo d’indagine che JJ
teneva nel cassetto. Una morte per arma da fuoco di quasi trent’anni prima.
Mentre Bosch comincia a prendere notizie sul caso, Ballard è coinvolta nella
morte in un rogo di un forse clochard o forse no. Capitando in situazioni che
richiedono per lei informazioni in possesso di Bosch. Il tutto condito dal caso
passato loro dal fratellastro. Una volta assolto un accusato, rimane il mistero
della morte di un giudice.
Ecco allora che la premiata ditta B
& B si pone all’opera con tutti i mezzi a disposizione. Il primo e più
facile caso viene risolto con la scoperta di possibili connessioni ereditarie
legate alla morte per fuoco del tizio (i famosi fuochi notturni che illuminano
le scene losangeline). Ma una volta risolto questo, gli altri due sembrano più
intrigati ed intriganti.
Intanto, il giovane morto anni prima,
oltre ad essere legato al mondo degli spacciatori, era anche omosessuale. Un
motivo di preoccupazione per Bosch che sapeva l’avversione di JJ verso i gay.
Allora, il fascicolo lo teneva per indagare lui o per evitare che si indagasse
nel mondo gay? Su questa domanda vi lascio interrogare anche voi, ma i nostri
paladini tirano comunque avanti, riuscendo a ricostruire la trama di quella
morte, nonché a trovarne l’esecutore materiale.
Più complesso è il caso della morte
del giudice. Perché non si trovano prove. Perché una testimone sulla scena del
delitto non è quella che dice di essere. Perché ci sono diverse morti sospette
legate ad indagini effettuate dal giudice, ma anche legate ad un, sembra,
insospettabile ufficio legale. Mentre tutto sembra svanire nel campo delle
possibilità (un avvocato cerca di imbarcarsi per le Cayman, un galoppino fa un
volo di trenta piani), con alcuni colpo di genio (questi sì al limite, come
intercettazioni poco autorizzate ed altri interventi efficaci seppur dubbi), la
nostra coppia collega il tutto ad altri avvenimenti successi a Las Vegas,
arrivando a risolvere anche questo bandolo.
Insomma, pur con qualche caduta di
tensione, e ricordando che, di fondo, uno dei costanti bersagli di Connelly è
la corruzione nelle forze dell’ordine, devo dire appunto che il risultato
complessivo è gradevole. Anche nell’ottica di una futura ed ancor più stretta
collaborazione tra Bosch e Ballard.
Ricordato infine, qui come in molti
dei libri di Connelly, l’ottimo lavoro di traduzione di Alfredo Colitto, vorrei
menzionare due passaggi musicali che, al solito, mi hanno intrigato e legato
sempre più al mondo Connelly – Bosch. Tra pagina 180 e pagina 185 si parla
prima del sax tenore di Ben Webster, un musicista che percorse una lunghissima
carriera (dal 1930 al 1970) alternando esibizioni strabilianti a momenti di
cattiveria e violenza (dovute agli eccessi alcolici). Poi di un disco favoloso
(che ho in CD), il concerto di Charlie Mingus alla Carnegie Hall che contiene
due tracce stupende: “C Jam Blues” (24’41”) e “Perdido” (22’32”). Quasi
cinquanta minuti di musica inarrivabile. Grazie Harry.
John Dickson Carr “Le tra bare” Polillo
Editore euro 13,90 (in realtà, scontato a 13,20 euro)
[A: 09/12/2024 – I: 23/02/2025 – T: 25/02/2025] - &&&&
[tit. or.: The Three Coffins; ling. or.: inglese; pagine: 344 anno 1935]
Riprendo quanto detto con Dashiell
Hammett, questo libro viene da una lista stilata qualche mese fa e riguardante
l’elenco di una serie di gialli “storici” che l’opinione letteraria giudicava
imperdibili. Non poteva quindi mancare questo classico del 1935 di uno degli
autori più prolifici del genere. Ma soprattutto da quello che viene considerato
il maestro dei “delitti in una camera chiusa”: John Dickson Carr.
L’autore è infatti un tal maestro
teorico degli enigmi che dedica un intero capitolo del romanzo all’esame, per
bocca del dr. Gideon Fell, di tutte le varie possibili situazioni di delitti
apparentemente inspiegabili. Un capitolo che viene considerato uno degli
elementi cardine della letteratura gialla, paragonabile al famoso elenco di
S.S. Van Dine sulle “Venti regole per
scrivere romanzi polizieschi”.
Disquisizioni su cui torneremo,
mentre ora, percorrendo il romanzo notiamo due sicuri fatti: una scrittura che
risente molto degli anni Trenta in cui fu scritta, un po’ prolissa in alcuni
punti ed a volte tendenzialmente ingannevole (bisogna fare attenzione a tutto
quanto viene scritto e detto che indizi minuti vengono sapientemente sparsi nel
testo) e un’idea generale della trama molto complessa, tanto che ci vorranno un
congruo numero di pagine perché la soluzione del mistero venga spiegata (e
qualche rilettura perché venga capita).
La trama principale, in sé, sembra
essere lineare. Il professore di origini francesi Charles Grimaud, studioso di
miti e leggende basate sul sovrannaturale, ad una cena viene minacciato da un
attore illusionista, Pierre Fley, che rivela di essere fratello di Charles ed
accenna ad un misterioso terzo fratello che potrebbe essere pericoloso per lo
studioso. Sere dopo, Grimaud essendo chiuso nel suo studio, si sente uno sparo.
Un’irruzione nello studio, chiuso dall’interno, rivela un Grimaud morente per
un colpo di pistola. Ma né si trova la pistola, né si evince nessun luogo dove
qualcuno possa essere uscito: porta chiusa dall’interno, finestre chiuse, e
casa circondata da neve appena caduta senza nessuna impronta rilevabile.
La polizia si muove subito alla
ricerca di Fley, che però viene ritrovato morto per un colpo di pistola, con la
pistola stessa accanto al cadavere. Fley stava camminando in mezzo ad una
strada senza uscita, dove due signori, di poco avanti a lui, sentono parole di
minaccia, sentono il colpo d’arma da fuoco, si voltano e vedono solo Frey steso
in terra, nessuna orma intorno al corpo ed un poliziotto che accorre dalla
parte aperta della strada.
Due delitti, uno al chiuso ed uno
all’aperto, apparentemente inspiegabili.
Come in altri ventidue romanzi (di
cui questo è il sesto) l’investigatore principe è il dottor Gideon Fell. In
realtà, più che investigatore in senso stretto, è un collaboratore di Scotland
Yard, ma i suoi ragionamenti e le su scoperte portano, direttamente o
indirettamente, alla soluzione del mistero. È una persona corpulenta (di sicuro
supera i cento chili di peso e dovrebbe essere alta intorno al metro e
novanta), ha una folta chioma di capelli quasi completamente grigi, baffi
imponenti, voce tonante e soffre di asma. Indossa spesso un mantello e un
cappellaccio dalla tesa larga.
Oltre a Grimaud e Fley, vediamo gli
altri attori presenti agli avvenimenti. Ci sono Rosette Grimaud, la figlia di
Charles, e Boyd Mangan, giornalista e fidanzato di Rosette che durante il primo
delitto scoperto sono in una stanza a pian terreno della casa. C’è Stuart Mills,
il segretario del professore, seduta ad una scrivania di fronte allo studio del
professore. C’è Ernestine Dumont, governante del professore, ma anche madre di
Rosette. Poi ci sono gli amici di Grimaud: Anthony Pettis, scrittore ed anche
lui esperto di spiritismo, Jerome Burnaby, pittore ed autore di un quadro su
cui torneremo, e Hubert Drayman, insegnante in pensione e sodale di lunga data
di Grimaud. Mentre dalla parte di Fley, è presente il suo amico acrobata John
L. Sullivan O'Rourke.
Gideon Fell interroga a più riprese
tutti quanti, ed è interessante seguire quanto ognuno dice. Fell, inoltre, in
base ad alcuni indizi, ricostruisce la storia a monte degli avvenimenti. Il
professore in realtà si chiamava Karoly Grimaud Horvath, un ungherese che
insieme ai suoi due fratelli, Pierre Fley Horvath e Nicholas Revei Horvath,
rapinò una banca. Ma vennero presi e condannati a venti anni di lavori forzati.
Fingendosi morti di peste, vengono seppelliti. Karoly riesce ad uscire dalla
tomba ed aiutato da Drayman fugge all’estero lasciando (si pensa) morire i
fratelli. Una scena che, descritta tra amici, il pittore Burnaby dipinge in un
quadro che sarà presente nello studio dove muore Grimaud.
Tutto sembra quindi convergere sulla
figura di questo terzo fratello. Esiste? È uno dei personaggi camuffatosi?
Oppure, è morto?
Altri elementi si accumulano durante
gli interrogatori: Ernestine dice che un uomo si presenta alle nove e trequarti
chiedendo del professore, ed irrompe nello studio dicendo di chiamarsi Pettis.
Una scena confermata dal segretario. Dopo di che, alle dieci e dieci, si sente
lo sparo nello studio, e tutti (Ernestine, Stuart, Rosette e Boyd) si
precipitano verso la porta chiusa. Inoltre, il poliziotto che constata la morte
di Pierre la indica alle dieci e venti, basandosi su di una pendola presente in
un negozio nella strada del secondo sparo. E nella stessa strada si ritrova una
stanza presa in affitto dal pittore, che però sostiene di aver preso parte ad
una partita a carte per tutta la serata.
Ma allora chi è che mente? Tante sono
le possibilità. Ernestine che apre la porta dello studio allo sconosciuto.
Stuart che dice di averlo visto entrare. Boyd che aveva sentito lo sconosciuto
fare il nome di Pettis. Rosette che sostiene che Drayman (supposto dormiente)
non era in casa. Burnaby che giocava a carte. L’acrobata che era in teatro. Il
poliziotto che ha segnato l’ora. Tuttavia Fell, dopo i vari interrogatori, alla
fine sostiene che tutti hanno detto la verità, meno una persona, che però non è
il (o la) colpevole dei misfatti.
Ed in base a piccoli dettagli (che
anche noi avevamo potuto vedere durante le prime trecento pagine, senza
tuttavia riuscire ad isolarne il reale contenuto), Fell nel lungo finale
ricostruisce tutte le azioni della serata, individuando la persona colpevole
dei delitti. Una ricostruzione bella ed ingegnosa che invito tutti a leggere,
un colpo di genio per la soluzione di quegli enigmi della camera chiusa, di cui
Fell aveva fatto oggetto di concione pochi capitoli prima.
Ed è quel capitolo (ovviamente
insieme a tutto il romanzo) che costituisce il punto di forza del romanzo.
Anche perché, nell’introdurre il discorso, l’autore fa uso di un interessante stratagemma
linguistico: si rivolge direttamente al lettore, usando una tecnica teorizzata
pochi anni prima da Bertolt Brecht e nota come “la rottura della quarta parete”,
quando l’attore si rivolge al pubblico facendogli capire che sta vivendo
(leggendo) una finzione. Un modo esaltato anche da Pirandello in “Sei
personaggi in cerca d’autore”. Ed una tecnica che negli stessi anni, la
studiosa e scrittrice Dorothy Sayers in una sua conferenza su “Aristotele on
Detective Fiction” sintetizza con il termine “paralogismo”, che è la ricetta regina
del racconto poliziesco: l’arte di raccontare il falso.
Non è forse questo il luogo per
addentrarci oltre nella disamina delle idee dell’autore sugli enigmi della
camera chiusa, anche se prima o poi ci si tornerà. Qui ci basta dire che questo
romanzo costituisce una delle pietre miliari del genere, per come è costruito,
per quello che c’è intorno, per le idee dello scrittore e per come le porta
avanti, senza mai stancarci, per più di trecento pagine.
Forse alla soluzione, senza l’aiuto
di Fell, non saremmo arrivati, laddove lo stesso Fell a volte sembra volare
troppo alto per i nostri neuroni troppo legati alla pagina. Fors’anche il
delitto si avvolge troppo su sé stesso. Ma la trama alla fine affascina e
l’autore coinvolge. Una soluzione così lascia dentro un piacevole stupore, per
coronare un romanzo che mi ha conquistato.
Visto che abbiamo parlato di gialli,
ci manteniamo su questo versante con uno dei grandi maestri del giallo
scandinavo, il compianto Henning
Mankell con alcune frasi tratte da “Il cinese”:
“La
memoria è come un vetro. Quello che è sparito è ancora visibile, ma non
possiamo più raggiungerlo.” (99)
“In
me il pensiero di un mondo in cui la solidarietà abbia un significato è ancora
vivo … Non eravamo soltanto studenti scatenati che credevano di essere al
centro di un mondo in cui niente era impossibile. La solidarietà era reale.”
(308)
“Mi
capita di avere l’impressione che cerchiamo di dimenticare più che di ricordare
… Alla fine l’unica cosa che ci rimane sono gli amici.” (313)
“In
quei terribili mesi della primavera del 1968, vivevo in un’illusione. Poi mi
sono rifugiata nella storia…” (349)
“Il
nostro passato è l’unico che abbiamo.” (356) [ed anche il nostro futuro!]
“Vorremmo
che tutto potesse ripetersi, potesse tornare a essere precisamente come era …
Ma invecchiare significa anche imparare a difendersi dal sentimentalismo.
L’amicizia deve essere messa alla prova e rinnovarsi. Forse i vecchi amori non
cambiano mai. Ma l’amicizia sì.” (513)
Con ciò, abbiamo da oggi l’ora legale che ci introduce ai mesi sempre più solatii e sempre più, si spera, dedicati ai viaggi ed alle amicizie. Per ora poco altro, se non un augurio di mantenervi tutti in buona salute, accomunati da un mio abbraccio.
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