Natsuo
Kirino “Le quattro casalinghe di Tokyo” Corriere Giappone 5 euro 8,90
[A: 12/11/2022 – I: 29/06/2024 – T: 02/07/2024]
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[tit. or.: アウト, Out; ling. or.: giapponese; pagine: 620; anno 1997]
Non
è il primo libro di Natsuo Kirino che leggo, e continuo a ritenere che, in
realtà, la sua sia una scrittura ibrida. Cioè, viene sempre etichettata nel
noir, ed in questo, realmente, affonda le sue radici. Ma c’è sempre
qualcos’altro, anzi c’è sempre di più. Come in questo, che è tra l’altro il
libro che l’ha fatta conoscere anche fuori il Giappone.
Metto
il femminile che, nonostante il nome possa, nipponicamente, anche essere
maschile, è in realtà, come spesso negli scrittori del Sol Levante, lo
pseudonimo di una donna, Mariko Hashioka, che lei deriva da vicende letterarie
giapponesi: Kirino è un samurai di una saga dello scrittore Ryotaro Shiba,
mentre Natsuo è la protagonista del libro “Urashimasō” di Ōba Minako.
E
forse proprio Natsuo le rimane impresso come motore di questo libro, che nel
libro di Ōba ci sono tre donne al centro del romanzo con le loro reazioni,
diverse, alla tragedia di Hiroshima.
Veniamo
allora a questo noir che è anche altro. Ma prima soffermiamoci sul titolo, che,
giustamente, in originale è “Out”, perché tutti, protagonisti e non, vogliono
essere fuori, andare fuori dal sentiero, dallo schema solito della vita,
liberarsi, prendere l’uscita. Nelle maggiori traduzioni internazionali è stato
sempre lasciato il titolo “Out”, mentre in italiano si è deciso di puntare sul
minimalismo delle casalinghe. Dove, tuttavia, a ben vedere le quattro
principali interpreti non sono proprio delle casalinghe. Certo, hanno una
famiglia (anche se non tutte), ma quello che le accomuna è il lavoro in uno
stabilimento che confeziona i tipici pasti pronti alla giapponese, i bento.
Abbiamo
così le quattro operaie, ognuna con una vita problematica, e quando la
scrittrice comincia a presentarcele vengono fuori diversi spaccati della realtà
giapponese che riguarda le donne. Dove appunto nasce una grande parte del
romanzo, che esplora la condizione femminile locale, che di certo non è
semplice.
Allora,
c’è Yayoi, bella, trentaquattro anni, due figli piccoli, ed un marito ubriacone
e fedifrago. Lei deve lavorare che il marito sperpera tutti i soldi al gioco, e
quindi accetta il lavoro notturno nella fabbrica che, oltre ad essere meglio
pagato, le permette, di giorno, di accudire i figli.
C’è
Yoshie, vedova, anziana, con una figlia che chiede continuamente soldi per
essere all’altezza delle sue amiche nonché una suocera che, colpita da un
ictus, deve essere continuamente accudita. È quella che da più tempo lavora in
fabbrica, sempre di notte per combinare i due impegni.
C’è
Kuniko, giovane, bruttina, ma estremamente vanitosa; ama circondarsi di auto
moderne, di vestiti alla moda ed altre frivolezze, dove, tuttavia, non avendo
soldi, oltre a lavorare di notte, chiede continuamente prestiti, ognuno per
pagare il precedente, finendo ben presto nelle mani di usurai con pochi
scrupoli.
E
c’è Masako, quella che prenderà le redini del gioco, una volta contabile in una
finanziaria, dove, essendo continuamente messa in secondo piano da uomini meno
capaci di lei, pur con un piccolo capitale, si licenzia e decide di lavorare in
fabbrica, anche per allontanarsi dalla famiglia, dal marito inetto e dal figlio
irricettivo ed irrispettoso.
La
loro routine viene sconvolta (qui si entra nel noir) quando Yayoi, esasperata
dalle ultime nefandezze del marito, lo uccide strangolandolo. Per poi chiedere
alle altre tre di aiutarla a sbarazzarsi del corpo. Qui entra in gioco la
leadership di Masako che prende in mano la situazione, con l’aiuto delle altre
smembra il corpo del marito e lo distribuisce in varie discariche in giro per
la città.
Ovvio
che qualcosa va storto. Kuniko sbaglia lo smaltimento del corpo, e la polizia
comincia ad indagare. Non solo, l’usuraio che la tartassa, capisce qualcosa e
la ricatta. Inoltre, il marito di Yayoi aveva litigato con tal Satake, un
ruffiano che venti anni prima aveva ucciso una donna e si era fatto una decina
di anni di carcere. Ed è su Satake che la polizia punta, ma senza prove riesce
solo a mandarlo in rovina.
La
seconda parte del romanzo passa dalla sociologia alla psicologia. L’usuraio,
legato alla yakuza, a fior di milioni di yen convince le quattro a continuare
il lavoro di smaltimento dei corpi. Sarebbe potuto nascere un intrigo ironico,
ma entra prepotentemente in scena Satake che, ormai rovinato, decide di
scoprire la verità e di vendicarsi.
Cosa
che farà con tutti e tutte, sino ad arrivare al culmine finale, in cui dovrà
confrontarsi con Masako. Qualcuno ne uscirà, in qualche maniera, ma tutta
questa parte è lenta e prende meno della costruzione piena di inventiva della
prima parte e della vita quotidiana delle donne nel Giappone di fine millennio.
Tra l’altro c’è un'altra freccia che lancia Natsuo, laddove nelle fabbriche
alienanti delle notti giapponesi, oltre alle donne con poca fortuna, sono
impiegati immigrati. Vediamo così anche la vita di Kazuo, un giapponese figlio
di brasiliani che, pur non parlando la lingua, era tornato nella patria degli
avi sperando in colpi di fortuna, e trovandosi invece, solo, con difficoltà di
comunicazione e con la voglia di tornare in Brasile. Uno spaccato sull’immigrazione
coatta molto ben congeniato.
Insomma,
un romanzo forte, ma non nella parte noir, quanto e molto nella descrizione
della società giapponese, laddove le scrittrici devono solo occuparsi di
romanzi rosa, e non di donne che lavorano e, soprattutto, che uccidono un uomo,
anche se cattivo. Talmente scandalosa l’idea di Kirino che, in una trasmissione
radiofonica per parlare del suo libro, il conduttore si rifiuta di
intervistarla e la allontana dallo studio.
Kirino,
più che alla trama noir che diventa un pretesto, non fa che rigirare intorno al
ruolo della donna in una società maschilista, dove la donna deve, e sottolineo
deve, essere sottomessa, è costretta a lavorare per risanare il bilancio
familiare, anche quando non può disporre dei soldi che guadagna, presi e
consumati dal marito padrone. Tant’è che, così come le quattro donne descritte
non fanno una figura positiva, anche gli uomini del romanzo sono negativi: il
marito dilapidatore, l’usuraio, il sadico Satake, ma nemmeno il poliziotto.
L’unico, a metà, è il nippo-brasiliano con la frase che riporto in fondo e che
ne suggella la vita intera.
Vorrei
finire, una volta tanto, con delle parole non mie, ma riportando una
dichiarazione della scrittrice stessa rispetto al ruolo della donna: “Uno dei
punti di partenza dei miei romanzi è la consapevolezza che nascere e vivere da
donna nella società giapponese è una cosa estremamente difficile, perché la
donna in Giappone non è mai se stessa, ma sempre qualcosa d’altro, il riflesso
di quello che vogliono, desiderano o sognano gli uomini. Benché siano educate a
scuola a credere di potersi comportare da pari in piena libertà e avanzare
nella società e nei posti di lavoro come gli uomini, le donne, appena si
sposano, si rendono conto che tutto questo non è vero. E allora scattano
meccanismi che possono portarle a commettere atti estremi, fuori dalle norme e
consuetudini”.
Alla
fine, un testo non sempre riuscito ed un po’ lungo, ma di interessante lettura.
“Quindi
essere soli vuol dire essere liberi?” (588)
Yokomizo
Seishi “Fragranze di morte” Sellerio euro 14 (in realtà, euro 13,30)
[A: 02/03/2022
– I: 25/07/2024 – T: 26/07/2024] - &&&
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[tit.
or.: 殺人鬼, Satsujin-sha; ling. or.: giapponese; pagine: 177;
anno 1948-1958-2006]
I due romanzi, invece, sono molto
precedenti. Il primo 黒い蘭 cioè “Kuroanhime” che
si traduce, come indicato, con “Orchidea nera” esce a puntate in rivista nel
1948. Il secondo 香水心中
cioè
“Kōsui shinjū” potrebbe tradursi con “suicido profumato” o “suicidio al
profumo”, mentre i traduttori italiani preferiscono traslarlo, cercando di mantenere
l’odore, con “fragranze di morte”. Un giorno, forse, ne capitò i perché.
Comunque, questo secondo esce nel 1958.
Detto
inoltre che è sempre interessante questa operazione di Sellerio di riproporre
testi interessanti seppur dimenticati, ci si domanda sempre perché non vengano
aggiunte note editoriali esplicative e magari leggermente più esaustive.
Intanto,
continuano le brevi riproposizioni delle avventure del detective Kosuke
Kindaichi (che poi qualcuno mi spiegherà perché a volte è indicato anche come
Kousuke), l’eroe di Seishi che gli dedicò non meno di 77 tra romanzi e racconti
lunghi. Qui, se qualcuno avesse chiesto meglio spiegazioni e delucidazioni,
abbiamo due esempi contrapposti del detective.
Nel
primo, c’è tutta una parte introduttiva, poi oltre la metà, arriva Kosuke, che
capisce tutto e risolve. Nel secondo, invece, Kosuke compare fin dalle prime
righe, accompagna il lettore fino alla risoluzione del caso, che però viene
proposto al lettore in maniera indiretta. Insomma, qualche equilibrismo
stilistico per due prove che sono non eccelse ma interessanti, sia della
scrittura specifica di Yokomizo, sia dei modi narrativi del noir giapponese.
Altra particolarità, in entrambi, a far da spalla a Kindaichi, c’è l’ispettore
di polizia Todoroki, dove i due agiscono quasi come Holmes e Watson.
Ricordo
brevemente, come citato sopra, che Yokomizo in realtà si chiama Masashi e, come
tutti gli scrittori del sol levante, usa uno pseudonimo. E che, malato di
tubercolosi e sfollato per la guerra, lontano dalle grandi città inizia la
scrittura dei romanzi di Kindaichi, che dal ’46 in poi gli daranno fama ed
onori, mettendolo nell’olimpo del giallo giapponese insieme al suo maestro ed
amico Edgoawa Ranpo con Akechi Kogoro ed a Takagi Akimitsu con Kozu Kyosuke.
Il
primo testo verte intorno all’identità ed alle azioni di una persona indicata
per la maggior parte del testo con il suo soprannome, Orchidea Nera. Lei si presenta
velata ad un grande magazzino di Ginza e lì, un po’ maldestramente, ruba di
nascosto articoli vari. Un comportamento ben noto al personale che è avvertito
di non intervenire, di fare note di credito dei furti e di portarle al
direttore Rokusuke Kasuya. Il quale poi si reca a casa della ladra, che non è
altro che la figlia cleptomane del proprietario del magazzino e da lui si fa
rimborsare.
Peccato
che tra il furto e quanto si ritrova ultimamente ci sia differenza (si ruba di
più). Peccato che ci sia una nuova commessa, peccato che ci sia un nuovo
responsabile di piano. Peccato che i due vogliano fermare la dama velata, che
prende un coltello ed uccide il responsabile.
Dopo
tutto questa intro, finalmente Kasuya decide di chiedere a Kindaichi di
intervenire per scagionare la vera Orchidea Nera dalle accuse. Cosa che il
nostro fa abbastanza in breve dopo aver passato in rassegna: il personale
presente nel magazzino, le attività svolte al bar, dove viene trovato un
secondo cadavere, gli interrogatori delle persone di cui sopra.
È
tutto un romanzo d’atmosfera, come spesso in Yokomizo, che per l’appunto fu
soprannominato il John Dickson Carr giapponese: si presentano le azioni, gli
attori, e con un solido ragionamento deduttivo si arriva alla conclusione.
Un
ragionamento che sta alla base anche del secondo testo, anche se è meno
brillante del primo (ed in particolare mi domando come mai il volume viene
titolato con questo invece che con l’altro). Poco brillante che si incarta in
una serie di involuzioni degli atteggiamenti personali, spesso debitori del
modo di vivere e di essere giapponese. Tra l’altro, il nostro autore, inserisce
tutta una serie di elementi che dipendono dal tempo, dall’orario dei treni,
dalle automobili che percorrono strade impervie, elementi che alla fine non
rendono agevole la trama.
Come
detto, Kindaichi e l’ispettore Todoroki compaiono sin dalle prime righe,
chiamate dall’anziana Matsuyo per affrontare una qualche sua personale
situazione. Il posto si trova a Karuizawa, su di una delle linee veloci che
collegano Shibuya a Kanazawa (fatta più volte, paesaggi stupendi). Dopo qualche
intoppo, si scopre in una villetta isolata (il posto è un luogo di vacanza per
i tokyoti) un possibile doppio suicidio o omicidio-suicido.
Qui
Yokomizo si imbarca in una confusa (per me) disamina delle persone coinvolte e
dei loro legami. Magari per un giapponese è facile, ma tra Matsuyo, la grande
patrona, i suoi tre nipoti Matsuki, Matsuhiko, Matsuko ed altri parenti, Shozo
e Miyoko, la confusione è massima. Comunque, l’impiccato è Matsuki e sul letto
c’è una donna strangolata Yuriko. Sulla scena compaiono tutti gli attori di cui
sopra, compreso Taichi, marito inutile di Yuriko, e Miyoko, forse incinta di
Matsuki.
Sappiamo
poi che Shozo è innamorato di Miyoko, che Matsuki non è proprio un
santarellino, e le sue marachelle le fa ricadere su Matsuhiko. Insomma, una
confusione massima, dove Kindaichi prima ci fa capire che ha capito, poi, nel
capitolo finale, individuato l’artefice di quello che poi è un duplice
omicidio, viene a sapere che Kindaichi sa e dice, ma che il fio della colpa non
verrà pagato da nessuno.
È
anche questo un buon racconto, anche se, dal punto di vista del noir, l’autore
non aiuta il lettore. Certo, presenta una serie di fatti, ma per la soluzione,
che Kindaichi come detto sa, il povero lettore viene fornito del piatto
cucinato senza poter intervenire nella cottura.
Alla
fine, che dire, Yokomizo ha di certo una mano felice nel gestire le situazioni
e gli intrecci, inoltre la figura di Kindaichi è ben delineata. Un personaggio
che non suscita simpatia a prima vista: non è molto pulito, né particolarmente
alto (vien detto altrove esattamente 1,63 cm). Ma è minuziosamente attento ai
particolari, alla storia dei personaggi, ed alle loro connessioni. Riuscendo
con questi elementi ad avere l’idea della soluzione. Dopo, sarà in altro modo
che qualcuno arriverà a rendere palesi i suoi ragionamenti. Al massimo, lo farà
lui stesso interrogando il colpevole.
Insomma,
alla fine, una ulteriore prova decente del classico poliziesco giapponese.
Kenzo
Kitakata “Tokyo noir” Corriere Noir 18 euro 8,90
[A: 02/12/2022
– I: 12/08/2024 – T: 14/08/2024] - &&
e ½
[tit.
or.: 檻, Ori; ling. or.: giapponese; pagine: 326; anno 1983]
Fino
ad ora abbiamo esplorato diversi esempi classici di gialli giapponesi, di
impronta per lo più deduttiva, ma anche descrittiva di certe modalità di vita
locale. Negli anni ’80 però, sotto l’influenza americana, prende piede anche un
filone “alla Chandler”, con spiccate caratteristiche hard-boiled. Di questo
filone, uno degli esponenti di punta è Kenzo Kitakata che intorno ai suoi 35
anni comincia a pubblicare libri su libri dedicati a questa espressione
letteraria.
“Tokyo
noir” è uno dei migliori esempi di questa scrittura, interessante di certo,
anche se a me piace fino ad un certo punto. Kitakata descrive con crudezza e
fermezza il mondo di confine, la vita ai margini, ricorrendo spesso ad
utilizzare la mafia giapponese, la Yakuza, come esempio eponimo di queste
realtà. Purtroppo, misteriose ragioni editoriali, fanno sì che la sua opera sia
scarsamente tradotta all’estero e quasi inesistente in italiano.
Tant’è
che questo libro, con più di quarant’anni sulle spalle, viene proposto da una
traduzione inglese (e credo che non esistano traduzioni dirette dal
giapponese). Non solo, ma peggiorando la situazione, anche il titolo, che
almeno in inglese era rimasto inalterato (“Ori” significa “Gabbia”, ed in
inglese era titolato “The Cage”), in italiano viene stravolto per attirare i
lettori con l’accento posto sul lato oscuro della capitale.
Dicevamo
della Yakuza, ed è proprio da un ramo di questa che prende origine da lontano
la vicenda. Un mitico criminale, Yuzo Sakurai, mette in piedi una gang, che ha
discreti successi territoriali, anche per la dirittura morale e oserei dire
militare del capo. Ma come tutte le piccole gang, scontrandosi con le forze
centrali della mafia, viene distrutta. Si salvano i due più stretti collaboratori
di Sakurai, Takayatsu e Takino. Il primo rimane a mezza strada, con contatti
anche se non forti con le bande, e mette in piedi un locale, anzi un club come
dicono loro, dove ci sono le solite donnine che ti invitano a bere, e dove
gira, non tanta, un po’ di droga.
Kazuya
Takino, invece, ne esce completamente e dopo diversi lavori, sposa la bella
Yukie, e si trova a gestire un supermercato nella periferia di Tokyo. La sua
vita scorre abbastanza normale, anche se la morte della figlia in un incidente
stradale gli dà un primo colpo. Il secondo è quando viene invischiato in una
piccola lotta di potere, dove alcune bande locali cercano di rilevare sia le
diverse attività del centro commerciale, sia il supermercato di Takino. E non
con le buone.
L’indole
di Takino, la sua anima di ex-killer della banda, comincia a venir fuori. Con
l’aiuto di un altro ex-criminale, Hirakawa, riciclatosi investigatore, sgomina
i tentativi, usando anche, dove serve, la violenza imparata in gioventù. Questo
ribollire, gli fa riprendere anche un’altra strada privata. Per evadere la
routine, aveva a volte tradito Yukie. Ora si lega all’ultima sua conquista, la
giovane Akemi, divenendone l’amante e tirandola fuori dai bassifondi in cui lei
viveva.
Per
completare quest’opera, si rivolge a Takayatsu, rinverdendo un legame che,
forse, non si era mai sopito. Ma questo è l’inizio di una nuova spirale che non
prevede fermate. Takayatsu gli chiede di aiutarlo a far scappare dal Giappone Sugimura,
il numero due di un clan mafioso, insieme alla di lui amante Reiko Oweda, tra
l’altro figlia del capoclan. Takino riesce a far fuggire i due verso Taipei,
dove però vengono ritrovati da Oweda e uccisi.
Ma
Oweda non si ferma, e per trovare i responsabili della fuga, risale a Takayatsu,
che uccide dopo averlo torturato. Takino allora non ha più freni. Con l’abilità
dei suoi trascorsi anni, riesce ad uccidere Oweda. Ma a questo punto non può
che fuggire anche lui. Capisce che la vita con Yukie è senza sbocchi, è una
delle pareti della gabbia che lo costringe in cattività. Lascia tutto, negozio,
moglie e città, e si ingegna, con l’aiuto di Hirakawa, a fuggire anche lui,
insieme ad Akemi, verso nuovi lidi fuori dal Giappone.
Ma
ho tralasciato, volutamente, tutto un altro filone del romanzo, che confluisce
verso il finale che tutti aspettiamo. Che dalla fuga di Sugimura, interviene
sulla scena un poliziotto d’altri tempi, il cinquantenne Takagi, detto “Cane
Bianco” sia perché ormai canuto, ma anche perché, nei momenti di tensione,
canticchia un motivetto americano “Old Dog Tray”. Inciso: la canzone è del
1853, e descrive l’unico amico fedele del cantante, un cane, e dove Takagi
ripete il ritornello: “Non troverò mai / Un amico migliore del mio vecchio
cane”.
Takagi
è uno dai mille successi investigativi, anche se a volte i suoi metodi non sono
ortodossi. Ma l’intento di Kitakata è soprattutto quello di contrapporre la
vita dei due. Mentre, appunto, Takino è insoddisfatto, sotterraneamente
ribelle, Takagi ha una vita familiare regolare, una moglie cui è fedele, una
casa dove spesso cena insieme al suo aiutante. In questa dualità risalta al
meglio la differenza tra il bianco ed il nero. Comunque, come nel giallo
classico che conosciamo, Takagi interviene quasi a metà romanzo, per poi
diventare l’alter protagonista della seconda e risolutiva parte del libro.
Takagi
conosce lo stesso mondo di Takino, ma lo usa per debellare il crimine.
Tuttavia, nel cuore del lettore, si fa presto a parteggiare per Takino, a
cercare di aiutarlo quando si trova in difficoltà, a sperare che circostanze ed
aiuti vari riescano a depistare Takagi. Ma è ovvio che alla fine uno solo dei
due uscirà vincitore, e ve ne lascio la scoperta.
Prima
di chiudere, altri piccoli appunti sulla realizzazione italiana, e sul
controllo ortografico. A pagina 193 compare un anodino “acuistare”, mentre a
pagina 263 compare un impreciso “soddisfava”.
Kitakata,
comunque, riesce a darci un affresco di una Tokyo acida, volente e fumosa, ben
distante sia dal caos del centro che dalla pace dei giardini zen. Ma come dire,
anche questa è Tokyo. Ed è comunque un noir che si legge bene, anche se, ma
forse sono io che non amo le scene di violenza, e che non sempre riesco ad
immedesimarmi in questi personaggi. Un bel libro con una sufficienza piena di
lettura e di confezione (quella originale, ovvio).
Riku
Onda “Il mistero della stanza blu” Repubblica Profondo Noir 24 euro 8,90
[A: 11/12/2023
– I: 15/11/2024 – T: 17/11/2024] - & e ½
[tit.
or.: ユージニア, Yujinia; ling. or.: giapponese; pagine: 324;
anno 2005]
Continuiamo
nell’attenta lettura dei gialli che arrivano dal Sol Levante, che in genere
portano novità sull’approccio al genere e sulla scrittura. Qui abbiamo una
scrittrice Nanae Kumagai che per la scrittura, come usano i giapponesi, adotta
lo pseudonimo di Riku Onda. Questo perché il termine Riku indica “portatore di
saggezza”, mentre Onda viene da una serie televisiva giapponese avente per
protagoniste tre sorelle, le sorelle Onda, di cui Nane era appassionata.
Il
secondo mistero, questa volta del titolo, deriva da una parte dall’insensata
traduzione italiana che, per privilegiare il lato misterioso, fa riferimento ad
un elemento della trama, una stanza blu che per 320 pagine rimane un mistero.
Ma l’autrice fa riferimento invece nel titolo originale a “Eugenia” che da un
lato è la persona cui misteriosamente viene inviata una poesia, ma dall’altro
ha un ben specificato riferimento nella dedica. La quale è rivolta al grande
pianista jazz francese Michel Petrucciani “che non è vissuto abbastanza per
poter vedere il Ventunesimo secolo” (essendo morto nel 1999), autore di un
pezzo intitolato appunto “Eugenia” e dedicato ad una donna che Michel conquistò
con il suo fascino (pur essendo affetto dalla sindrome delle ossa di
cristallo), ma che lasciò improvvisamente il giorno prima di sposarla. Come
ricorda Michel in un suo scritto: “Eugenia pianse a più non posso, quando le
dissi che la lasciavo, ma che potevo farci, uno non può voler bene quando non
vuole bene”. Non so fino a che punto questa elucubrazione concordi con il testo
di Riku, ma di certo, se c’è quella dedica, qualcosa deve pur significare.
Dicevo
delle particolarità della scrittura giapponese. Qui, per l’appunto, abbiamo due
convergenze: una scrittura che nel linguaggio locale si chiama “honkuku”, cioè
giallo classico che fornisce al lettore gli elementi per risolvere il mistero,
ed uno sviluppo che, sempre alla lontana, ricalca lo schema classico di
“Rashomon”, una serie di voci che raccontano l’episodio, o brani dello stesso,
lasciando al lettore il compito di tirare le somme.
Ma
detto tutto ciò, e prima di accennare alla trama, devo dire che il libro non
mantiene le promesse. Non è facile seguire la trama, dove ogni capitolo cambia
prospettiva, senza però darne una visione d’insieme. Tanto che spesso, i
capitoli più che elementi che servono a dedurre il o i colpevoli sembrano messi
lì per descrivere il mondo provinciale giapponese, con tutte le sue
contraddizioni e tutte le sue pecche (difficoltà di comunicazione, orgoglio,
rispetto e richiamo della natura). Ma soprattutto, checché ne dicano i critici,
specialmente americani, non viene fuori chiaramente una soluzione univoca, come
dal grande catalogo proposto a suo tempo da S.S. Van Dine. Ci sono
approssimazioni, intuizioni, ed in particolare viene fatta balenare un’idea
che, se fosse quella giusta, renderebbe di una debolezza unica tutto il libro.
Cioè verrebbe da dire, tutta questa costruzione, tutti questi morti, per così
poco?
Intanto,
va detto che Riku si impegna molto a creare il castello del libro. Laddove usa
tre trame temporali che si intrecciano per delineare gli avvenimenti, su tre
linee temporali diverse, ma che vengono presentate tutte la presente, così che
il lettore deve impegnarsi a capire quale linea sta seguendo. Ci sono la
descrizione degli eventi come si verificano il giorno della tragedia, le
interviste, gli appunti e lo scritto derivati dal romanzo-saggio di Makiko che
descrive i fatti un decennio dopo l’accaduto ed infine le interviste registrate
quasi alla Murakami in “Underground” ed effettuato trent’anni dopo i fatti.
I
fatti avvengono il giorno di una grande festa a casa della famiglia Aosawa, una
famiglia di spicco nella città di Kanazawa (non viene detto esplicitamente, ma
si desume dal contesto). Alla festa partecipa tutta la famiglia, compresa la
giovane Hisako, ultimo membro della stirpe, colpita da cecità traumatica, che
presenzia a tutto quanto senza poter fare nulla, viste le sue condizioni. Un
fattorino ignoto porta una cassa di bevande per i festeggiamenti, bevande che
tutti bevono, e che, essendo avvelenate, provocano 17 morti, di cui 6 bambini.
Non muore Hisako che non beve, e la governante, che bagna solo le labbra. Non
muoiono i fratelli Saiga, amici di Hisako, che arrivano alla festa in ritardo
visto che la stessa Hisako aveva pregato loro di non venire. Alcuni mesi dopo,
trovano il fattorino impiccato con una lettera di confessione anche se è una
confessione che appare subito monca.
Dieci
anni dopo Makiko Saiga, per la sua tesi di laurea, e per scrollarsi il peso di
quella vicenda, intervista gli abitanti del posto, e scrive un libro, “La festa
dimenticata”, che, in modo un po’ romanzato, descrive gli avvenimenti di quel
giorno. Scopriremo poi che li modifica sottilmente, magari deviando un po’ dal
puro e semplice riporto dei fatti. Perché la sua intenzione è mandare un
messaggio all’unica persona che, conoscendo i fatti, capisca il messaggio.
Infine,
le interviste dell’oggi cercano di rimettere alcuni punti al loro posto, ma noi
registriamo solo due elementi forti: molte persone implicate nella vicenda
muoiono, alcune di morte naturale, alcune suicidatesi, altre di nuovo
inopinatamente uccise. L’altro punto è il ritorno nella casa avita di Hisako,
dopo aver vissuto a lungo in America ed aver riacquistato la vista dopo una
operazione d’avanguardia.
Ma
tutto il castello delle parole di Riku non ci porta a vedere la trama con la
giusta serenità per apprezzarne i contenuti. Si parla d’altro, accennando a
volte a quel giorno fatale. Inoltre, e mi ripeto, la soluzione adombrata nel
finale la trovo molto superficiale.
Si
dice che Riku abbia preso spunto per la sua trama da quella che, localmente,
viene chiamato l’incidente di Teigin, dove, il 26 gennaio 1948, Sadamichi
Hirasawa entra in una banca, convince i presenti a bere un prodotto utile ad
immunizzare i presenti da un’epidemia di dissenteria presente nella zona. Il
prodotto è avvelenato, e muoiono dodici persone. Io ritengo che Riku sia stata
anche influenzata dall’attentato avvenuto il 20 marzo 1995, dove, usando un gas
nervino, il sarin, una setta fanatica uccide tredici persone innocenti
all’interno della metropolitana di Tokyo.
Ripeto
e chiudo, una bella scrittura che sa maneggiare un evento complesso, ma non un
libro giallo né un libro interamente compiuto.
Isaka
Kotaro “La vendetta del professor Suzuki” Repubblica Profondo Noir 9 euro 8,90
[A: 28/08/2023
– I: 11/04/2025 – T: 12/04/2025] - &&&
[tit.
or.: グラスホッパー, Gurasuhoppā; ling. or.: giapponese; pagine: 316;
anno 2004]
Leggendo poi i commenti che nel tempo hanno
accompagnato i suoi scritti, sono contento della scelta fatta, che credo, nel
mondo di Isaka ci sia una specie di esistenza globale di personaggi galleggianti sul limitar tra la vita normale
e la malavita.
Intanto, già da questo, come per tutte le
sue opere tradotte sia in italiano che in altre lingue, assistiamo al
travisamento del titolo originale, con i soliti intenti di spingere i lettori
ad acquistarne, mentre in genere la gente dovrebbe essere attratta non dal
titolo ma dalla trama. Vediamo così parlare inopinatamente di vendetta e del
professor Suzuki, che ci sono nella trama, con il loro peso importante, mentre
il buon Isaka ci parlava di “cavallette” (usando tra l’altro la
traslitterazione giapponese del termine inglese “Grasshopper”)
Comunque, a prescindere dalle pretese
editoriali extra-giapponesi, il libro è gradevole, curioso, spiazzante. Con
l’unica pecca, forse, che il finale è un po’ frettoloso e lascia (volutamente?)
qualche punto di domanda che rimane sospeso. Ma la scrittura dell’allora
trentenne Isaka è fresca, riuscendo a mescolare, in salsa wasabi, momenti alla
Tarantino con puntate riflessive quasi alla Agatha Christie.
Come pare sia anche nei suoi libri
successivi, e ne riparleremo alla loro lettura, Isaka adotta spesso una
prospettiva multipla per descrivere la vicenda. In questo caso, abbiamo tre
personaggi che si contendono i capitoli, narrando la loro parte di vicenda che,
ad un certo punto, si sovrappone e si completa con la vicenda delle altre
persone.
Quello che per la maggior parte del tempo
occupa le scene, motore primo della vicenda, è il professor Suzuki. È il
classico “borghese piccolo piccolo” di Cerami, con un tocco di Stan Laurel in
più. Tempo prima un SUV guidato spericolatamente dal figlio di un grande boss
della malavita, il signor Terahara, travolge e uccide la moglie di Suzuki. Che
da quel momento pensa solo ad architettare la vendetta. Si licenzia dalla
scuola, si fa assumere dall’organizzazione di Terahara, che, con la scusa di
vendere cosmetici, in realtà imbottisce gli stessi di droghe che rendono
dipendenti le malcapitate che ne fanno uso.
Il gruppo di Terahara, oltre a diversi tipi
loschi, comprende il figlio, Hyoko, una signorina che organizza le attività, ed
un gruppo di figuranti, chiamato la Compagnia Teatrale, che si incarica di
creare diversi e scenari vari per permettere ai cattivi di portare avanti le
loro malefatte. Suzuki, pur essendo nel gruppo da tempo, è sempre visto con
sospetto, ma sta per avere un colpo di fortuna: Hyoko rapisce due giovani e,
per verificare la fedeltà di Suzuki, gli dà una pistola per ucciderli. In quel mentre
arriva Terahara jr, così che Suzuki potrebbe sparargli, ma non fa in tempo che
qualcuno spinge il giovane in strada e questi viene travolto e ucciso da un
SUV.
Ora si scatena la sarabanda ideata da Isaka,
piena di gente con dei soprannomi significativi.
C’è lo Spingitore, che appunto è
specializzato nello spingere la gente sotto auto o treni. C’è il Balena, un
essere mastodontico, che con la psicologia riesce a convincere al suicidio le
vittime che gli commissionano. C’è il Cicala, fastidioso come l’insetto,
specializzato nello sterminare famiglie a sangue freddo, con il dubbio che lo
assale per tutto il tempo se sia lui a condurre il gioco o se lui sia solo una
marionetta.
Suzuki vede lo Spingitore togliergli la
vendetta, e lo insegue, scovandone il nascondiglio, ed instaurando con lui e la
sua famiglia (moglie e due figli) momenti comico-ironici di buona fattura.
Balena, mentre fa suicidare il segretario di un politico, vede la scena
dall’alto. Cicala, dopo un nuovo massacro, si domanda quanto sia appunto
eteroguidato. Poiché il politico però non è tranquillo commissiona a Cicala
l’uccisione di Balena. Ma Balena intuisce l’inganno e fa suicidare anche il
politico. Cicala, trovatosi senza l’oggetto del suo lavoro, decide di mettersi
in piazza e scovare ed uccidere lo Spingitore.
La gang di Terahara sta sul collo a Suzuki
per trovare la tana dello Spingitore, inscenando un teatrino con la Compagnia
Teatrale, dove Suzuki abbocca. Ma mentre sta per essere torturato, arriva
Cicala che lo salva. Ma solo per cercare di trovare lo Spingitore, che Suzuki è
il solo che conosce il luogo. Fortuna che lo Spingitore arriva, salva Suzuki,
mentre Balena arriva sul luogo e per una serie di disguidi, decide di uccidere
Cicala.
Lo Spingitore poi confessa che lui è stato
ingaggiato da qualcuno per fare quello che ha fatto, che la moglie ed i figli
sono anche loro parte della messa in scena, così come i due giovani che
all’inizio Suzuki doveva uccidere. Per altri passaggi di una casualità
strabiliante, Suzuki si ritrova nel luogo dove si aggira Balena, in preda ai
fantasmi di tutti i suicidi perpetrati. Ed anche qui, con momenti forse troppo
veloci, muore anche Balena, e tutti spariscono.
Si salva solo Suzuki che troviamo mesi dopo
accettare una supplenza e … non vi dico altro, ma godetevi questa storia
strampalata di killers sconclusionati, ossessionati, sfortunati. Dove,
come diceva il grande commissario De Angelis, l’unica cosa che possiamo notare
è l’intervento del caso che ci porta a risolvere i casi.
Prima
di chiudere un piccolo inciso. Lo Spingitore, nella versione giapponese, è
indicato con “oshiya”, che è il termine tecnico corretto di una particolare
lavoro: quello di spingere la gente, per assicurarsi che ogni passeggero sia
salito a bordo della metro e non rimanga impigliato nelle porte. Penso che, chi
sa di Giappone, potrà cogliere altri piccoli inserti ironici.
Quindi,
a parte il veloce finale, direi che Isaka è un autore che merita di essere
seguito.
“L’infelicità
del mondo è causata per lo più da qualcuno che è stato troppo ottimista.” (204)
Con questo ritorno di maggio, andiamo ad esaminare i libri di febbraio (sotto media per il viaggio peruviano). Dove spiccano su tutti tre “D”: Joan Didion (il migliore), Daša Drndić e John Dickson Carr. Mentre per motivi diversi un’altra “D” va verso il fondo: un libro complesso ma non nelle mie corde di Friederich Dürrenmatt.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Friederich Dürrenmatt |
La valle del caos |
Einaudi |
s.p. |
1 |
2 |
Ian McEwan |
Cortesie per gli ospiti |
Einaudi |
12 |
2 |
3 |
Andrea Novelli & Gianpaolo
Zarini |
Acque Torbide |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2,5 |
4 |
Antonino Genovese |
Scirocco e Zagara |
Corriere Gazzetta |
7,99 |
2,5 |
5 |
Claudio
Morandini |
Le
pietre |
Repubblica Montagna |
9,90 |
1 |
6 |
Joan Didion |
L’anno del pensiero magico |
Il Saggiatore |
s.p.
|
4 |
7 |
Giancarlo De Cataldo |
Colpo di ritorno |
Einaudi |
13 |
2,5 |
8 |
Georges Simenon |
Il sospettato |
Repubblica |
9,90 |
3 |
9 |
Michael Connelly |
La fiamma nel buio |
Pickwick |
10,90 |
3 |
10 |
Leica format |
La nave di Teseo |
22
|
4 |
|
11 |
Giancarlo De Cataldo |
Il bacio del calabrone |
Einaudi |
s.p. |
2 |
12 |
Valerio Evangelisti |
Nicholas Eymerich, inquisitore |
Mondadori |
6,99 |
2 |
13 |
John Dickson Carr |
Le tra bare |
Polillo Editore |
13,90
|
4 |
14 |
Nicoletta Verna |
I giorni di Vetro |
Einaudi |
s.p.
|
3 |
15 |
Alice
Basso |
Scrivere
è un mestiere pericoloso |
Garzanti |
6,90 |
2,5 |
Prima di passare ad alcune considerazioni generali, per contrappasso, vorrei citare alcuni passi di un bellissimo libro di Graham Greene. L’interessante “L'americano tranquillo”, che ci dà sicuramente da pensare. Sia sull’atteggiamento americano in giro per il mondo, sia sull’amore ed il passare del tempo.
“- Tu e i tuoi colleghi state cercando di
fare una guerra con l’aiuto di gente che non ha interesse a farla. – Non
vogliono il comunismo. – Vogliono riso a sufficienza … Vogliono poter diventare
un giorno come chiunque altro. Non vogliono i nostri visi pallidi intorno a
loro a insegnarli cosa devono volere.” (109)
“Immaginai di essere altrove … quando ero
giovane e potevo stare alzato tutta la notte senza che mi venisse la
malinconia, e quando i sogni prima del risveglio erano pieni di speranza e non
di paura.” (116)
“Alla mia età il problema non è il sesso, è
la vecchiaia e la morte. Quando mi sveglio penso a queste cose, non a un corpo
di donna. Non voglio passare i miei ultimi dieci anni da solo, tutto qui.”
(121)
“Essere innamorati significa vedere noi
stessi come ci vede qualcun altro … In amore siamo incapaci di onore, qualunque
atto di coraggio non è che la parte di una recita per un pubblico di due
persone.” (130)
Eccoci allora di nuovo qui, dopo un bellissimo viaggio in Argentina, rattristato da due mancanze. Una pubblica, quella di Papa Francesco, ed una privata, essendo venuto a mancare per un fulminante tumore alla milza il nostro amato cane Argo. Nonostante ciò, e nonostante tutto, siamo qui. Ed io vi abbraccio.
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