domenica 4 maggio 2025

Faraway Black - 04 maggio 2025

Mi scuso del titolo inglese, ma tornando ad incontrarci dopo tre settimane ed un viaggio lontano, visto che parliamo di “noir”, il titolo ci sta. Anche se noi si è andati ad Ovest, mentre oggi incontriamo neri verso Est. E per la precisione, un incontro con il Giappone che ultimamente è assai presente nelle mie letture. Abbiamo tre trame ben sufficienti, con le ormai classiche casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, il detective Kindaichi di Yokomizo Seishi ed il classico di Isaka Kotaro. Meno riuscito il nero di Tokyo di Kenzo Kitakata ed assolutamente poco convincente (e poco giallo) libro di Riku Onda. Comunque, con tutte queste presenze, sto quasi diventando un esperto nipponico…

Natsuo Kirino “Le quattro casalinghe di Tokyo” Corriere Giappone 5 euro 8,90

[A: 12/11/2022 – I: 29/06/2024 – T: 02/07/2024] - &&&       

[tit. or.: アウト, Out; ling. or.: giapponese; pagine: 620; anno 1997]

Non è il primo libro di Natsuo Kirino che leggo, e continuo a ritenere che, in realtà, la sua sia una scrittura ibrida. Cioè, viene sempre etichettata nel noir, ed in questo, realmente, affonda le sue radici. Ma c’è sempre qualcos’altro, anzi c’è sempre di più. Come in questo, che è tra l’altro il libro che l’ha fatta conoscere anche fuori il Giappone.

Metto il femminile che, nonostante il nome possa, nipponicamente, anche essere maschile, è in realtà, come spesso negli scrittori del Sol Levante, lo pseudonimo di una donna, Mariko Hashioka, che lei deriva da vicende letterarie giapponesi: Kirino è un samurai di una saga dello scrittore Ryotaro Shiba, mentre Natsuo è la protagonista del libro “Urashimasō” di Ōba Minako.

E forse proprio Natsuo le rimane impresso come motore di questo libro, che nel libro di Ōba ci sono tre donne al centro del romanzo con le loro reazioni, diverse, alla tragedia di Hiroshima.

Veniamo allora a questo noir che è anche altro. Ma prima soffermiamoci sul titolo, che, giustamente, in originale è “Out”, perché tutti, protagonisti e non, vogliono essere fuori, andare fuori dal sentiero, dallo schema solito della vita, liberarsi, prendere l’uscita. Nelle maggiori traduzioni internazionali è stato sempre lasciato il titolo “Out”, mentre in italiano si è deciso di puntare sul minimalismo delle casalinghe. Dove, tuttavia, a ben vedere le quattro principali interpreti non sono proprio delle casalinghe. Certo, hanno una famiglia (anche se non tutte), ma quello che le accomuna è il lavoro in uno stabilimento che confeziona i tipici pasti pronti alla giapponese, i bento.

Abbiamo così le quattro operaie, ognuna con una vita problematica, e quando la scrittrice comincia a presentarcele vengono fuori diversi spaccati della realtà giapponese che riguarda le donne. Dove appunto nasce una grande parte del romanzo, che esplora la condizione femminile locale, che di certo non è semplice.

Allora, c’è Yayoi, bella, trentaquattro anni, due figli piccoli, ed un marito ubriacone e fedifrago. Lei deve lavorare che il marito sperpera tutti i soldi al gioco, e quindi accetta il lavoro notturno nella fabbrica che, oltre ad essere meglio pagato, le permette, di giorno, di accudire i figli.

C’è Yoshie, vedova, anziana, con una figlia che chiede continuamente soldi per essere all’altezza delle sue amiche nonché una suocera che, colpita da un ictus, deve essere continuamente accudita. È quella che da più tempo lavora in fabbrica, sempre di notte per combinare i due impegni.

C’è Kuniko, giovane, bruttina, ma estremamente vanitosa; ama circondarsi di auto moderne, di vestiti alla moda ed altre frivolezze, dove, tuttavia, non avendo soldi, oltre a lavorare di notte, chiede continuamente prestiti, ognuno per pagare il precedente, finendo ben presto nelle mani di usurai con pochi scrupoli.

E c’è Masako, quella che prenderà le redini del gioco, una volta contabile in una finanziaria, dove, essendo continuamente messa in secondo piano da uomini meno capaci di lei, pur con un piccolo capitale, si licenzia e decide di lavorare in fabbrica, anche per allontanarsi dalla famiglia, dal marito inetto e dal figlio irricettivo ed irrispettoso.

La loro routine viene sconvolta (qui si entra nel noir) quando Yayoi, esasperata dalle ultime nefandezze del marito, lo uccide strangolandolo. Per poi chiedere alle altre tre di aiutarla a sbarazzarsi del corpo. Qui entra in gioco la leadership di Masako che prende in mano la situazione, con l’aiuto delle altre smembra il corpo del marito e lo distribuisce in varie discariche in giro per la città.

Ovvio che qualcosa va storto. Kuniko sbaglia lo smaltimento del corpo, e la polizia comincia ad indagare. Non solo, l’usuraio che la tartassa, capisce qualcosa e la ricatta. Inoltre, il marito di Yayoi aveva litigato con tal Satake, un ruffiano che venti anni prima aveva ucciso una donna e si era fatto una decina di anni di carcere. Ed è su Satake che la polizia punta, ma senza prove riesce solo a mandarlo in rovina.

La seconda parte del romanzo passa dalla sociologia alla psicologia. L’usuraio, legato alla yakuza, a fior di milioni di yen convince le quattro a continuare il lavoro di smaltimento dei corpi. Sarebbe potuto nascere un intrigo ironico, ma entra prepotentemente in scena Satake che, ormai rovinato, decide di scoprire la verità e di vendicarsi.

Cosa che farà con tutti e tutte, sino ad arrivare al culmine finale, in cui dovrà confrontarsi con Masako. Qualcuno ne uscirà, in qualche maniera, ma tutta questa parte è lenta e prende meno della costruzione piena di inventiva della prima parte e della vita quotidiana delle donne nel Giappone di fine millennio. Tra l’altro c’è un'altra freccia che lancia Natsuo, laddove nelle fabbriche alienanti delle notti giapponesi, oltre alle donne con poca fortuna, sono impiegati immigrati. Vediamo così anche la vita di Kazuo, un giapponese figlio di brasiliani che, pur non parlando la lingua, era tornato nella patria degli avi sperando in colpi di fortuna, e trovandosi invece, solo, con difficoltà di comunicazione e con la voglia di tornare in Brasile. Uno spaccato sull’immigrazione coatta molto ben congeniato.

Insomma, un romanzo forte, ma non nella parte noir, quanto e molto nella descrizione della società giapponese, laddove le scrittrici devono solo occuparsi di romanzi rosa, e non di donne che lavorano e, soprattutto, che uccidono un uomo, anche se cattivo. Talmente scandalosa l’idea di Kirino che, in una trasmissione radiofonica per parlare del suo libro, il conduttore si rifiuta di intervistarla e la allontana dallo studio.

Kirino, più che alla trama noir che diventa un pretesto, non fa che rigirare intorno al ruolo della donna in una società maschilista, dove la donna deve, e sottolineo deve, essere sottomessa, è costretta a lavorare per risanare il bilancio familiare, anche quando non può disporre dei soldi che guadagna, presi e consumati dal marito padrone. Tant’è che, così come le quattro donne descritte non fanno una figura positiva, anche gli uomini del romanzo sono negativi: il marito dilapidatore, l’usuraio, il sadico Satake, ma nemmeno il poliziotto. L’unico, a metà, è il nippo-brasiliano con la frase che riporto in fondo e che ne suggella la vita intera.

Vorrei finire, una volta tanto, con delle parole non mie, ma riportando una dichiarazione della scrittrice stessa rispetto al ruolo della donna: “Uno dei punti di partenza dei miei romanzi è la consapevolezza che nascere e vivere da donna nella società giapponese è una cosa estremamente difficile, perché la donna in Giappone non è mai se stessa, ma sempre qualcosa d’altro, il riflesso di quello che vogliono, desiderano o sognano gli uomini. Benché siano educate a scuola a credere di potersi comportare da pari in piena libertà e avanzare nella società e nei posti di lavoro come gli uomini, le donne, appena si sposano, si rendono conto che tutto questo non è vero. E allora scattano meccanismi che possono portarle a commettere atti estremi, fuori dalle norme e consuetudini”.

Alla fine, un testo non sempre riuscito ed un po’ lungo, ma di interessante lettura.

“Quindi essere soli vuol dire essere liberi?” (588)

Yokomizo Seishi “Fragranze di morte” Sellerio euro 14 (in realtà, euro 13,30)

[A: 02/03/2022 – I: 25/07/2024 – T: 26/07/2024] - &&& ---      

[tit. or.: 殺人鬼, Satsujin-sha; ling. or.: giapponese; pagine: 177; anno 1948-1958-2006]

Di Yokomizo Seishi ho già parlato in occasione delle mie prime letture, e ci torneremo più avanti. Intanto parliamo di questo piccolo libro della meritoria Sellerio. Questo testo include due romanzi brevi che hanno per protagonista il detective eponimo di Seishi, cioè Kousuke Kindaichi. I titoli dei racconti li riporto più avanti, quello sopra indicato è invece il titolo della raccolta, che includeva altri testi, ed il cui titolo complessivo è “Satsujin-sha”, cioè “assassino”, e viene pubblicato quando, trovate le carte di scritti vari dell’autore, negli anni 2000 ne viene riscoperta la bravura. Quindi l’antologia appunto esce nell’ultima data indicata.

I due romanzi, invece, sono molto precedenti. Il primo 黒い蘭 cioè “Kuroanhime” che si traduce, come indicato, con “Orchidea nera” esce a puntate in rivista nel 1948. Il secondo 香水心中

cioè “Kōsui shinjū” potrebbe tradursi con “suicido profumato” o “suicidio al profumo”, mentre i traduttori italiani preferiscono traslarlo, cercando di mantenere l’odore, con “fragranze di morte”. Un giorno, forse, ne capitò i perché. Comunque, questo secondo esce nel 1958.

Detto inoltre che è sempre interessante questa operazione di Sellerio di riproporre testi interessanti seppur dimenticati, ci si domanda sempre perché non vengano aggiunte note editoriali esplicative e magari leggermente più esaustive.

Intanto, continuano le brevi riproposizioni delle avventure del detective Kosuke Kindaichi (che poi qualcuno mi spiegherà perché a volte è indicato anche come Kousuke), l’eroe di Seishi che gli dedicò non meno di 77 tra romanzi e racconti lunghi. Qui, se qualcuno avesse chiesto meglio spiegazioni e delucidazioni, abbiamo due esempi contrapposti del detective.

Nel primo, c’è tutta una parte introduttiva, poi oltre la metà, arriva Kosuke, che capisce tutto e risolve. Nel secondo, invece, Kosuke compare fin dalle prime righe, accompagna il lettore fino alla risoluzione del caso, che però viene proposto al lettore in maniera indiretta. Insomma, qualche equilibrismo stilistico per due prove che sono non eccelse ma interessanti, sia della scrittura specifica di Yokomizo, sia dei modi narrativi del noir giapponese. Altra particolarità, in entrambi, a far da spalla a Kindaichi, c’è l’ispettore di polizia Todoroki, dove i due agiscono quasi come Holmes e Watson.

Ricordo brevemente, come citato sopra, che Yokomizo in realtà si chiama Masashi e, come tutti gli scrittori del sol levante, usa uno pseudonimo. E che, malato di tubercolosi e sfollato per la guerra, lontano dalle grandi città inizia la scrittura dei romanzi di Kindaichi, che dal ’46 in poi gli daranno fama ed onori, mettendolo nell’olimpo del giallo giapponese insieme al suo maestro ed amico Edgoawa Ranpo con Akechi Kogoro ed a Takagi Akimitsu con Kozu Kyosuke.

Il primo testo verte intorno all’identità ed alle azioni di una persona indicata per la maggior parte del testo con il suo soprannome, Orchidea Nera. Lei si presenta velata ad un grande magazzino di Ginza e lì, un po’ maldestramente, ruba di nascosto articoli vari. Un comportamento ben noto al personale che è avvertito di non intervenire, di fare note di credito dei furti e di portarle al direttore Rokusuke Kasuya. Il quale poi si reca a casa della ladra, che non è altro che la figlia cleptomane del proprietario del magazzino e da lui si fa rimborsare.

Peccato che tra il furto e quanto si ritrova ultimamente ci sia differenza (si ruba di più). Peccato che ci sia una nuova commessa, peccato che ci sia un nuovo responsabile di piano. Peccato che i due vogliano fermare la dama velata, che prende un coltello ed uccide il responsabile.

Dopo tutto questa intro, finalmente Kasuya decide di chiedere a Kindaichi di intervenire per scagionare la vera Orchidea Nera dalle accuse. Cosa che il nostro fa abbastanza in breve dopo aver passato in rassegna: il personale presente nel magazzino, le attività svolte al bar, dove viene trovato un secondo cadavere, gli interrogatori delle persone di cui sopra.

È tutto un romanzo d’atmosfera, come spesso in Yokomizo, che per l’appunto fu soprannominato il John Dickson Carr giapponese: si presentano le azioni, gli attori, e con un solido ragionamento deduttivo si arriva alla conclusione.

Un ragionamento che sta alla base anche del secondo testo, anche se è meno brillante del primo (ed in particolare mi domando come mai il volume viene titolato con questo invece che con l’altro). Poco brillante che si incarta in una serie di involuzioni degli atteggiamenti personali, spesso debitori del modo di vivere e di essere giapponese. Tra l’altro, il nostro autore, inserisce tutta una serie di elementi che dipendono dal tempo, dall’orario dei treni, dalle automobili che percorrono strade impervie, elementi che alla fine non rendono agevole la trama.

Come detto, Kindaichi e l’ispettore Todoroki compaiono sin dalle prime righe, chiamate dall’anziana Matsuyo per affrontare una qualche sua personale situazione. Il posto si trova a Karuizawa, su di una delle linee veloci che collegano Shibuya a Kanazawa (fatta più volte, paesaggi stupendi). Dopo qualche intoppo, si scopre in una villetta isolata (il posto è un luogo di vacanza per i tokyoti) un possibile doppio suicidio o omicidio-suicido.

Qui Yokomizo si imbarca in una confusa (per me) disamina delle persone coinvolte e dei loro legami. Magari per un giapponese è facile, ma tra Matsuyo, la grande patrona, i suoi tre nipoti Matsuki, Matsuhiko, Matsuko ed altri parenti, Shozo e Miyoko, la confusione è massima. Comunque, l’impiccato è Matsuki e sul letto c’è una donna strangolata Yuriko. Sulla scena compaiono tutti gli attori di cui sopra, compreso Taichi, marito inutile di Yuriko, e Miyoko, forse incinta di Matsuki.

Sappiamo poi che Shozo è innamorato di Miyoko, che Matsuki non è proprio un santarellino, e le sue marachelle le fa ricadere su Matsuhiko. Insomma, una confusione massima, dove Kindaichi prima ci fa capire che ha capito, poi, nel capitolo finale, individuato l’artefice di quello che poi è un duplice omicidio, viene a sapere che Kindaichi sa e dice, ma che il fio della colpa non verrà pagato da nessuno.

È anche questo un buon racconto, anche se, dal punto di vista del noir, l’autore non aiuta il lettore. Certo, presenta una serie di fatti, ma per la soluzione, che Kindaichi come detto sa, il povero lettore viene fornito del piatto cucinato senza poter intervenire nella cottura.

Alla fine, che dire, Yokomizo ha di certo una mano felice nel gestire le situazioni e gli intrecci, inoltre la figura di Kindaichi è ben delineata. Un personaggio che non suscita simpatia a prima vista: non è molto pulito, né particolarmente alto (vien detto altrove esattamente 1,63 cm). Ma è minuziosamente attento ai particolari, alla storia dei personaggi, ed alle loro connessioni. Riuscendo con questi elementi ad avere l’idea della soluzione. Dopo, sarà in altro modo che qualcuno arriverà a rendere palesi i suoi ragionamenti. Al massimo, lo farà lui stesso interrogando il colpevole.

Insomma, alla fine, una ulteriore prova decente del classico poliziesco giapponese.

Kenzo Kitakata “Tokyo noir” Corriere Noir 18 euro 8,90

[A: 02/12/2022 – I: 12/08/2024 – T: 14/08/2024] - && e ½

[tit. or.: , Ori; ling. or.: giapponese; pagine: 326; anno 1983]

Fino ad ora abbiamo esplorato diversi esempi classici di gialli giapponesi, di impronta per lo più deduttiva, ma anche descrittiva di certe modalità di vita locale. Negli anni ’80 però, sotto l’influenza americana, prende piede anche un filone “alla Chandler”, con spiccate caratteristiche hard-boiled. Di questo filone, uno degli esponenti di punta è Kenzo Kitakata che intorno ai suoi 35 anni comincia a pubblicare libri su libri dedicati a questa espressione letteraria.

“Tokyo noir” è uno dei migliori esempi di questa scrittura, interessante di certo, anche se a me piace fino ad un certo punto. Kitakata descrive con crudezza e fermezza il mondo di confine, la vita ai margini, ricorrendo spesso ad utilizzare la mafia giapponese, la Yakuza, come esempio eponimo di queste realtà. Purtroppo, misteriose ragioni editoriali, fanno sì che la sua opera sia scarsamente tradotta all’estero e quasi inesistente in italiano.

Tant’è che questo libro, con più di quarant’anni sulle spalle, viene proposto da una traduzione inglese (e credo che non esistano traduzioni dirette dal giapponese). Non solo, ma peggiorando la situazione, anche il titolo, che almeno in inglese era rimasto inalterato (“Ori” significa “Gabbia”, ed in inglese era titolato “The Cage”), in italiano viene stravolto per attirare i lettori con l’accento posto sul lato oscuro della capitale.

Dicevamo della Yakuza, ed è proprio da un ramo di questa che prende origine da lontano la vicenda. Un mitico criminale, Yuzo Sakurai, mette in piedi una gang, che ha discreti successi territoriali, anche per la dirittura morale e oserei dire militare del capo. Ma come tutte le piccole gang, scontrandosi con le forze centrali della mafia, viene distrutta. Si salvano i due più stretti collaboratori di Sakurai, Takayatsu e Takino. Il primo rimane a mezza strada, con contatti anche se non forti con le bande, e mette in piedi un locale, anzi un club come dicono loro, dove ci sono le solite donnine che ti invitano a bere, e dove gira, non tanta, un po’ di droga.

Kazuya Takino, invece, ne esce completamente e dopo diversi lavori, sposa la bella Yukie, e si trova a gestire un supermercato nella periferia di Tokyo. La sua vita scorre abbastanza normale, anche se la morte della figlia in un incidente stradale gli dà un primo colpo. Il secondo è quando viene invischiato in una piccola lotta di potere, dove alcune bande locali cercano di rilevare sia le diverse attività del centro commerciale, sia il supermercato di Takino. E non con le buone.

L’indole di Takino, la sua anima di ex-killer della banda, comincia a venir fuori. Con l’aiuto di un altro ex-criminale, Hirakawa, riciclatosi investigatore, sgomina i tentativi, usando anche, dove serve, la violenza imparata in gioventù. Questo ribollire, gli fa riprendere anche un’altra strada privata. Per evadere la routine, aveva a volte tradito Yukie. Ora si lega all’ultima sua conquista, la giovane Akemi, divenendone l’amante e tirandola fuori dai bassifondi in cui lei viveva.

Per completare quest’opera, si rivolge a Takayatsu, rinverdendo un legame che, forse, non si era mai sopito. Ma questo è l’inizio di una nuova spirale che non prevede fermate. Takayatsu gli chiede di aiutarlo a far scappare dal Giappone Sugimura, il numero due di un clan mafioso, insieme alla di lui amante Reiko Oweda, tra l’altro figlia del capoclan. Takino riesce a far fuggire i due verso Taipei, dove però vengono ritrovati da Oweda e uccisi.

Ma Oweda non si ferma, e per trovare i responsabili della fuga, risale a Takayatsu, che uccide dopo averlo torturato. Takino allora non ha più freni. Con l’abilità dei suoi trascorsi anni, riesce ad uccidere Oweda. Ma a questo punto non può che fuggire anche lui. Capisce che la vita con Yukie è senza sbocchi, è una delle pareti della gabbia che lo costringe in cattività. Lascia tutto, negozio, moglie e città, e si ingegna, con l’aiuto di Hirakawa, a fuggire anche lui, insieme ad Akemi, verso nuovi lidi fuori dal Giappone.

Ma ho tralasciato, volutamente, tutto un altro filone del romanzo, che confluisce verso il finale che tutti aspettiamo. Che dalla fuga di Sugimura, interviene sulla scena un poliziotto d’altri tempi, il cinquantenne Takagi, detto “Cane Bianco” sia perché ormai canuto, ma anche perché, nei momenti di tensione, canticchia un motivetto americano “Old Dog Tray”. Inciso: la canzone è del 1853, e descrive l’unico amico fedele del cantante, un cane, e dove Takagi ripete il ritornello: “Non troverò mai / Un amico migliore del mio vecchio cane”.

Takagi è uno dai mille successi investigativi, anche se a volte i suoi metodi non sono ortodossi. Ma l’intento di Kitakata è soprattutto quello di contrapporre la vita dei due. Mentre, appunto, Takino è insoddisfatto, sotterraneamente ribelle, Takagi ha una vita familiare regolare, una moglie cui è fedele, una casa dove spesso cena insieme al suo aiutante. In questa dualità risalta al meglio la differenza tra il bianco ed il nero. Comunque, come nel giallo classico che conosciamo, Takagi interviene quasi a metà romanzo, per poi diventare l’alter protagonista della seconda e risolutiva parte del libro.

Takagi conosce lo stesso mondo di Takino, ma lo usa per debellare il crimine. Tuttavia, nel cuore del lettore, si fa presto a parteggiare per Takino, a cercare di aiutarlo quando si trova in difficoltà, a sperare che circostanze ed aiuti vari riescano a depistare Takagi. Ma è ovvio che alla fine uno solo dei due uscirà vincitore, e ve ne lascio la scoperta.

Prima di chiudere, altri piccoli appunti sulla realizzazione italiana, e sul controllo ortografico. A pagina 193 compare un anodino “acuistare”, mentre a pagina 263 compare un impreciso “soddisfava”.

Kitakata, comunque, riesce a darci un affresco di una Tokyo acida, volente e fumosa, ben distante sia dal caos del centro che dalla pace dei giardini zen. Ma come dire, anche questa è Tokyo. Ed è comunque un noir che si legge bene, anche se, ma forse sono io che non amo le scene di violenza, e che non sempre riesco ad immedesimarmi in questi personaggi. Un bel libro con una sufficienza piena di lettura e di confezione (quella originale, ovvio).

Riku Onda “Il mistero della stanza blu” Repubblica Profondo Noir 24 euro 8,90

[A: 11/12/2023 – I: 15/11/2024 – T: 17/11/2024] - & e ½

[tit. or.: ユージニア, Yujinia; ling. or.: giapponese; pagine: 324; anno 2005]

Continuiamo nell’attenta lettura dei gialli che arrivano dal Sol Levante, che in genere portano novità sull’approccio al genere e sulla scrittura. Qui abbiamo una scrittrice Nanae Kumagai che per la scrittura, come usano i giapponesi, adotta lo pseudonimo di Riku Onda. Questo perché il termine Riku indica “portatore di saggezza”, mentre Onda viene da una serie televisiva giapponese avente per protagoniste tre sorelle, le sorelle Onda, di cui Nane era appassionata.

Il secondo mistero, questa volta del titolo, deriva da una parte dall’insensata traduzione italiana che, per privilegiare il lato misterioso, fa riferimento ad un elemento della trama, una stanza blu che per 320 pagine rimane un mistero. Ma l’autrice fa riferimento invece nel titolo originale a “Eugenia” che da un lato è la persona cui misteriosamente viene inviata una poesia, ma dall’altro ha un ben specificato riferimento nella dedica. La quale è rivolta al grande pianista jazz francese Michel Petrucciani “che non è vissuto abbastanza per poter vedere il Ventunesimo secolo” (essendo morto nel 1999), autore di un pezzo intitolato appunto “Eugenia” e dedicato ad una donna che Michel conquistò con il suo fascino (pur essendo affetto dalla sindrome delle ossa di cristallo), ma che lasciò improvvisamente il giorno prima di sposarla. Come ricorda Michel in un suo scritto: “Eugenia pianse a più non posso, quando le dissi che la lasciavo, ma che potevo farci, uno non può voler bene quando non vuole bene”. Non so fino a che punto questa elucubrazione concordi con il testo di Riku, ma di certo, se c’è quella dedica, qualcosa deve pur significare.

Dicevo delle particolarità della scrittura giapponese. Qui, per l’appunto, abbiamo due convergenze: una scrittura che nel linguaggio locale si chiama “honkuku”, cioè giallo classico che fornisce al lettore gli elementi per risolvere il mistero, ed uno sviluppo che, sempre alla lontana, ricalca lo schema classico di “Rashomon”, una serie di voci che raccontano l’episodio, o brani dello stesso, lasciando al lettore il compito di tirare le somme.

Ma detto tutto ciò, e prima di accennare alla trama, devo dire che il libro non mantiene le promesse. Non è facile seguire la trama, dove ogni capitolo cambia prospettiva, senza però darne una visione d’insieme. Tanto che spesso, i capitoli più che elementi che servono a dedurre il o i colpevoli sembrano messi lì per descrivere il mondo provinciale giapponese, con tutte le sue contraddizioni e tutte le sue pecche (difficoltà di comunicazione, orgoglio, rispetto e richiamo della natura). Ma soprattutto, checché ne dicano i critici, specialmente americani, non viene fuori chiaramente una soluzione univoca, come dal grande catalogo proposto a suo tempo da S.S. Van Dine. Ci sono approssimazioni, intuizioni, ed in particolare viene fatta balenare un’idea che, se fosse quella giusta, renderebbe di una debolezza unica tutto il libro. Cioè verrebbe da dire, tutta questa costruzione, tutti questi morti, per così poco?

Intanto, va detto che Riku si impegna molto a creare il castello del libro. Laddove usa tre trame temporali che si intrecciano per delineare gli avvenimenti, su tre linee temporali diverse, ma che vengono presentate tutte la presente, così che il lettore deve impegnarsi a capire quale linea sta seguendo. Ci sono la descrizione degli eventi come si verificano il giorno della tragedia, le interviste, gli appunti e lo scritto derivati dal romanzo-saggio di Makiko che descrive i fatti un decennio dopo l’accaduto ed infine le interviste registrate quasi alla Murakami in “Underground” ed effettuato trent’anni dopo i fatti.

I fatti avvengono il giorno di una grande festa a casa della famiglia Aosawa, una famiglia di spicco nella città di Kanazawa (non viene detto esplicitamente, ma si desume dal contesto). Alla festa partecipa tutta la famiglia, compresa la giovane Hisako, ultimo membro della stirpe, colpita da cecità traumatica, che presenzia a tutto quanto senza poter fare nulla, viste le sue condizioni. Un fattorino ignoto porta una cassa di bevande per i festeggiamenti, bevande che tutti bevono, e che, essendo avvelenate, provocano 17 morti, di cui 6 bambini. Non muore Hisako che non beve, e la governante, che bagna solo le labbra. Non muoiono i fratelli Saiga, amici di Hisako, che arrivano alla festa in ritardo visto che la stessa Hisako aveva pregato loro di non venire. Alcuni mesi dopo, trovano il fattorino impiccato con una lettera di confessione anche se è una confessione che appare subito monca.

Dieci anni dopo Makiko Saiga, per la sua tesi di laurea, e per scrollarsi il peso di quella vicenda, intervista gli abitanti del posto, e scrive un libro, “La festa dimenticata”, che, in modo un po’ romanzato, descrive gli avvenimenti di quel giorno. Scopriremo poi che li modifica sottilmente, magari deviando un po’ dal puro e semplice riporto dei fatti. Perché la sua intenzione è mandare un messaggio all’unica persona che, conoscendo i fatti, capisca il messaggio.

Infine, le interviste dell’oggi cercano di rimettere alcuni punti al loro posto, ma noi registriamo solo due elementi forti: molte persone implicate nella vicenda muoiono, alcune di morte naturale, alcune suicidatesi, altre di nuovo inopinatamente uccise. L’altro punto è il ritorno nella casa avita di Hisako, dopo aver vissuto a lungo in America ed aver riacquistato la vista dopo una operazione d’avanguardia.

Ma tutto il castello delle parole di Riku non ci porta a vedere la trama con la giusta serenità per apprezzarne i contenuti. Si parla d’altro, accennando a volte a quel giorno fatale. Inoltre, e mi ripeto, la soluzione adombrata nel finale la trovo molto superficiale.

Si dice che Riku abbia preso spunto per la sua trama da quella che, localmente, viene chiamato l’incidente di Teigin, dove, il 26 gennaio 1948, Sadamichi Hirasawa entra in una banca, convince i presenti a bere un prodotto utile ad immunizzare i presenti da un’epidemia di dissenteria presente nella zona. Il prodotto è avvelenato, e muoiono dodici persone. Io ritengo che Riku sia stata anche influenzata dall’attentato avvenuto il 20 marzo 1995, dove, usando un gas nervino, il sarin, una setta fanatica uccide tredici persone innocenti all’interno della metropolitana di Tokyo.

Ripeto e chiudo, una bella scrittura che sa maneggiare un evento complesso, ma non un libro giallo né un libro interamente compiuto.

Isaka Kotaro “La vendetta del professor Suzuki” Repubblica Profondo Noir 9 euro 8,90

[A: 28/08/2023 – I: 11/04/2025 – T: 12/04/2025] - &&&

[tit. or.: グラスホッパー, Gurasuhoppā; ling. or.: giapponese; pagine: 316; anno 2004]

Isaka Kotaro è un poco più che cinquantenne scrittore giapponese, specializzato nel genere mystery o giallo o noir (una definizione univoca non è semplice). Cioè in scritti che prevedono morti, misteri ed altre amenità. Con la particolarità di avere una sottile dose di ironia che sottace tutte le vicende. Avendo tutti e tre i suoi libri editi in Italia, ho fortunatamente deciso di cominciare non dal più famoso (“I sette killer dello Shinkansen”), ma dal più antico, questo, scritto più di venti anni fa.

Leggendo poi i commenti che nel tempo hanno accompagnato i suoi scritti, sono contento della scelta fatta, che credo, nel mondo di Isaka ci sia una specie di esistenza globale di personaggi  galleggianti sul limitar tra la vita normale e la malavita.

Intanto, già da questo, come per tutte le sue opere tradotte sia in italiano che in altre lingue, assistiamo al travisamento del titolo originale, con i soliti intenti di spingere i lettori ad acquistarne, mentre in genere la gente dovrebbe essere attratta non dal titolo ma dalla trama. Vediamo così parlare inopinatamente di vendetta e del professor Suzuki, che ci sono nella trama, con il loro peso importante, mentre il buon Isaka ci parlava di “cavallette” (usando tra l’altro la traslitterazione giapponese del termine inglese “Grasshopper”)

Comunque, a prescindere dalle pretese editoriali extra-giapponesi, il libro è gradevole, curioso, spiazzante. Con l’unica pecca, forse, che il finale è un po’ frettoloso e lascia (volutamente?) qualche punto di domanda che rimane sospeso. Ma la scrittura dell’allora trentenne Isaka è fresca, riuscendo a mescolare, in salsa wasabi, momenti alla Tarantino con puntate riflessive quasi alla Agatha Christie.

Come pare sia anche nei suoi libri successivi, e ne riparleremo alla loro lettura, Isaka adotta spesso una prospettiva multipla per descrivere la vicenda. In questo caso, abbiamo tre personaggi che si contendono i capitoli, narrando la loro parte di vicenda che, ad un certo punto, si sovrappone e si completa con la vicenda delle altre persone.

Quello che per la maggior parte del tempo occupa le scene, motore primo della vicenda, è il professor Suzuki. È il classico “borghese piccolo piccolo” di Cerami, con un tocco di Stan Laurel in più. Tempo prima un SUV guidato spericolatamente dal figlio di un grande boss della malavita, il signor Terahara, travolge e uccide la moglie di Suzuki. Che da quel momento pensa solo ad architettare la vendetta. Si licenzia dalla scuola, si fa assumere dall’organizzazione di Terahara, che, con la scusa di vendere cosmetici, in realtà imbottisce gli stessi di droghe che rendono dipendenti le malcapitate che ne fanno uso.

Il gruppo di Terahara, oltre a diversi tipi loschi, comprende il figlio, Hyoko, una signorina che organizza le attività, ed un gruppo di figuranti, chiamato la Compagnia Teatrale, che si incarica di creare diversi e scenari vari per permettere ai cattivi di portare avanti le loro malefatte. Suzuki, pur essendo nel gruppo da tempo, è sempre visto con sospetto, ma sta per avere un colpo di fortuna: Hyoko rapisce due giovani e, per verificare la fedeltà di Suzuki, gli dà una pistola per ucciderli. In quel mentre arriva Terahara jr, così che Suzuki potrebbe sparargli, ma non fa in tempo che qualcuno spinge il giovane in strada e questi viene travolto e ucciso da un SUV.

Ora si scatena la sarabanda ideata da Isaka, piena di gente con dei soprannomi significativi.

C’è lo Spingitore, che appunto è specializzato nello spingere la gente sotto auto o treni. C’è il Balena, un essere mastodontico, che con la psicologia riesce a convincere al suicidio le vittime che gli commissionano. C’è il Cicala, fastidioso come l’insetto, specializzato nello sterminare famiglie a sangue freddo, con il dubbio che lo assale per tutto il tempo se sia lui a condurre il gioco o se lui sia solo una marionetta.

Suzuki vede lo Spingitore togliergli la vendetta, e lo insegue, scovandone il nascondiglio, ed instaurando con lui e la sua famiglia (moglie e due figli) momenti comico-ironici di buona fattura. Balena, mentre fa suicidare il segretario di un politico, vede la scena dall’alto. Cicala, dopo un nuovo massacro, si domanda quanto sia appunto eteroguidato. Poiché il politico però non è tranquillo commissiona a Cicala l’uccisione di Balena. Ma Balena intuisce l’inganno e fa suicidare anche il politico. Cicala, trovatosi senza l’oggetto del suo lavoro, decide di mettersi in piazza e scovare ed uccidere lo Spingitore.

La gang di Terahara sta sul collo a Suzuki per trovare la tana dello Spingitore, inscenando un teatrino con la Compagnia Teatrale, dove Suzuki abbocca. Ma mentre sta per essere torturato, arriva Cicala che lo salva. Ma solo per cercare di trovare lo Spingitore, che Suzuki è il solo che conosce il luogo. Fortuna che lo Spingitore arriva, salva Suzuki, mentre Balena arriva sul luogo e per una serie di disguidi, decide di uccidere Cicala.

Lo Spingitore poi confessa che lui è stato ingaggiato da qualcuno per fare quello che ha fatto, che la moglie ed i figli sono anche loro parte della messa in scena, così come i due giovani che all’inizio Suzuki doveva uccidere. Per altri passaggi di una casualità strabiliante, Suzuki si ritrova nel luogo dove si aggira Balena, in preda ai fantasmi di tutti i suicidi perpetrati. Ed anche qui, con momenti forse troppo veloci, muore anche Balena, e tutti spariscono.

Si salva solo Suzuki che troviamo mesi dopo accettare una supplenza e … non vi dico altro, ma godetevi questa storia strampalata di killers sconclusionati, ossessionati, sfortunati. Dove, come diceva il grande commissario De Angelis, l’unica cosa che possiamo notare è l’intervento del caso che ci porta a risolvere i casi.

Prima di chiudere un piccolo inciso. Lo Spingitore, nella versione giapponese, è indicato con “oshiya”, che è il termine tecnico corretto di una particolare lavoro: quello di spingere la gente, per assicurarsi che ogni passeggero sia salito a bordo della metro e non rimanga impigliato nelle porte. Penso che, chi sa di Giappone, potrà cogliere altri piccoli inserti ironici.

Quindi, a parte il veloce finale, direi che Isaka è un autore che merita di essere seguito.

“L’infelicità del mondo è causata per lo più da qualcuno che è stato troppo ottimista.” (204)

Con questo ritorno di maggio, andiamo ad esaminare i libri di febbraio (sotto media per il viaggio peruviano). Dove spiccano su tutti tre “D”: Joan Didion (il migliore), Daša Drndić e John Dickson Carr. Mentre per motivi diversi un’altra “D” va verso il fondo: un libro complesso ma non nelle mie corde di Friederich Dürrenmatt.

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Friederich Dürrenmatt

La valle del caos

Einaudi

s.p.

1

2

Ian McEwan

Cortesie per gli ospiti

Einaudi

12

2

3

Andrea Novelli & Gianpaolo Zarini

Acque Torbide

Corriere Gazzetta

7,99

2,5

4

Antonino Genovese

Scirocco e Zagara

Corriere Gazzetta

7,99

2,5

5

Claudio Morandini

Le pietre

Repubblica Montagna

9,90

1

6

Joan Didion

L’anno del pensiero magico

Il Saggiatore

s.p.

4

7

Giancarlo De Cataldo

Colpo di ritorno

Einaudi

13

2,5

8

Georges Simenon

Il sospettato

Repubblica

9,90

3

9

Michael Connelly

La fiamma nel buio

Pickwick

10,90

3

10

Daša Drndić

Leica format

La nave di Teseo

22

4

11

Giancarlo De Cataldo

Il bacio del calabrone

Einaudi

s.p.

2

12

Valerio Evangelisti

Nicholas Eymerich, inquisitore

Mondadori

6,99

2

13

John Dickson Carr

Le tra bare

Polillo Editore

13,90

4

14

Nicoletta Verna

I giorni di Vetro

Einaudi

s.p.

3

15

Alice Basso

Scrivere è un mestiere pericoloso

Garzanti

6,90

2,5

Prima di passare ad alcune considerazioni generali, per contrappasso, vorrei citare alcuni passi di un bellissimo libro di Graham Greene. L’interessante “L'americano tranquillo”, che ci dà sicuramente da pensare. Sia sull’atteggiamento americano in giro per il mondo, sia sull’amore ed il passare del tempo.

“- Tu e i tuoi colleghi state cercando di fare una guerra con l’aiuto di gente che non ha interesse a farla. – Non vogliono il comunismo. – Vogliono riso a sufficienza … Vogliono poter diventare un giorno come chiunque altro. Non vogliono i nostri visi pallidi intorno a loro a insegnarli cosa devono volere.” (109)

“Immaginai di essere altrove … quando ero giovane e potevo stare alzato tutta la notte senza che mi venisse la malinconia, e quando i sogni prima del risveglio erano pieni di speranza e non di paura.” (116)

“Alla mia età il problema non è il sesso, è la vecchiaia e la morte. Quando mi sveglio penso a queste cose, non a un corpo di donna. Non voglio passare i miei ultimi dieci anni da solo, tutto qui.” (121)

“Essere innamorati significa vedere noi stessi come ci vede qualcun altro … In amore siamo incapaci di onore, qualunque atto di coraggio non è che la parte di una recita per un pubblico di due persone.” (130)

Eccoci allora di nuovo qui, dopo un bellissimo viaggio in Argentina, rattristato da due mancanze. Una pubblica, quella di Papa Francesco, ed una privata, essendo venuto a mancare per un fulminante tumore alla milza il nostro amato cane Argo. Nonostante ciò, e nonostante tutto, siamo qui. Ed io vi abbraccio.

 

 

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