Anche se la lettura ha ripreso i suoi ritmi, tornando agli alti e bassi di ogni nostro andar per parole, voglio ancora fermarmi un poco su una trilogia letta nel mese di Gennaio, che mi ha fatto riflettere durante la lettura, ed ancora adesso mi si è riproposta in molte sfaccettature. Sarò un po’ più lungo del solito, ma qui la sintesi mi ha difettato. Avevo affrontato due grandi K il mese scorso: un testo di Kant e due di Kierkegaard, che girano, riflettono, suggeriscono modi diversi di essere “etici”. E di guardare la vita. Due modi per non fare “male” (questa è la mia eticità, certo incompiuta e fragile). Tra tanti momenti alti, come dirò in seguito, il fatto che il protagonista dell’apologo danese sia un Giovanni mi ha intrigato/divertito/spaventato.
Ma cominciamo dal tedesco
Immanuel Kant “La fine di tutte le cose” Bollati Boringhieri euro 7
Mi sorprende la freschezza della scrittura del grande. È asciutta, va dritta al sodo. Sa cosa vuole dire. E lo dice. Come si fa ad immaginare la fine? Ed il nulla? Forse ci si potrà arrivare, ma sarà necessario uno sforzo cerebrale pari all’invenzione dello zero (anche se tra lo zero e il nulla c’è un abisso). Forse si potrà capire. Ma comprendere? Comprendere significa non tanto sapere che ci sarà una fine (tutti lo sanno) ma vivere sapendolo. Come ha scritto Jacob Taubes “nelle pagine de "La fine di tutte le cose" - l'opera forse più ingiustamente trascurata dell'ultima fase della vita del grande maestro di Konigsberg - Kant conduce l'ambizioso progetto filosofico di tradurre le dichiarazioni metafisiche dell'escatologia cristiana in una sorta di escatologia trascendentale". L'escatologia trascendentale ruota attorno a un duplice interrogativo: perché, in generale, gli uomini si aspettano una fine del mondo? E se questa viene anche loro concessa, perché proprio una fine che, per la maggior parte del genere umano, fa paura? Per Kant l'antica profezia apocalittica di San Giovanni prefigura, in simboli e immagini, il limite estremo della stessa attività del pensare, delineando la struttura paradossale di un "concetto con cui l'intelletto ci abbandona". Mi piace pensare che tutta la riflessione, come suggerisce il bel saggio di Andrea Tagliapietra, nasca dalla meditazione sull’incisione “La fine”, l’ultima opera di William Hogarth. Nell’incisione il tempo è rappresentato come un gigante barbuto, dal corpo michelangiolescamente muscoloso, con un ciuffo in fronte, l’attimo che si deve afferrare prima che scappi via per sempre. Ma rispetto alla solita iconografia, qui siamo alla “fine”, e il Tempo appare spossato da un’immensa stanchezza, giace riverso con le ali e la schiena poggiate sul rudere di una colonna mozza. Ha la solita falce, ma è spezzata, e tutto intorno sono i simboli della caducità portati all’estremo: la lapide di una tomba, una clessidra svuotata, un arco spezzato, un calcio di fucile senza canna, una candela che si spegne, una campana crepata, un foglio con la scritta “The Times” che brucia. Una tavolozza spezzata ricorda che anche l’arte, alla fine, si estingue. E dalla mano gli scivola una pergamena, il testamento con cui il Tempo riconsegna tutto al Chaos. Il paesaggio è desolato: a sinistra le rovine di una torre con una meridiana senza chiodo, a destra un albero spettrale con a fianco una casa di legno che cade a pezzi. Ma sembra più una locanda dove nell’insegna “The World’s End” compare un globo terrestre divorato dalle fiamme. Si sovrappone con una immagine di uguale insegna in lontananza dove penzola un impiccato. Al centro, nel cielo, appare il carro del Sole, con i cavalli e l’auriga già morti. E dalla bocca del tempo si innalza un fumetto con le ultime parole del Tempo: “finis”. E dentro la lettura del testo ho inserito anche una visione che, letta in questi mesi di lutti, mi ha colpito. Sulla differenza tra una visione monista della vita e della morte, di tipo induista, dove, bene o male, alla fine si arriva alla pace (anche attraverso infiniti cicli di vite negative), ma che per questo induce in una indolenza che spegne la vitalità. Ed una visione dualista, come nelle religioni rivelate, dove essendoci un premio ed una punizione ci si interroga su cosa fare per avere il primo ed evitare il secondo. E proprio questo interrogativo porta quindi a fare. Ad essere. Ad esistere, anche qui, ed ora.
Ed anche non brevemente, passo alla vita del filosofo, che passò tutta la sua vita nella città natale di Königsberg (odierna Kaliningrad ed allora capitale della Prussia Orientale) dove nacque il 22 aprile del 1724 (un toro?), quarto di nove figli, dei quali solo cinque raggiunsero l’età adulta. Il padre, Johann Georg Kant (1682-1746), era un artigiano tedesco originario di Memel, al tempo la città prussiana più settentrionale (oggi Klaipėda, in Lituania); la madre, Anna Regina Porter (1697-1737), di 15 anni più giovane e molto religiosa, era figlia di un sellaio di origini scozzesi. L'educazione religiosa impartitagli dalla madre continuò anche nel Collegium Fridericianum, il più importante punto di riferimento d'attinenza specifica sullo studio del pensiero di quel periodo. Al collegio Kant studiò molto il latino, poco il greco (limitato al Nuovo Testamento) e quasi per nulla le materie scientifiche. Nel 1740, Kant uscì dal collegio per intraprendere studi filosofici, di teologia e di matematica all'Università di Königsberg, dove fu allievo di Martin Knutzen, docente di matematica e fisica newtoniana. Il suo interesse per Newton, ma anche per le scienze in generale, si manifestò in questo periodo nello scritto "Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive", nel quale Kant si soffermò sul problema del calcolo dell'energia cinetica dei corpi. È questa un'opera dalla forte e chiara impronta illuministica. Dal 1747 al 1754 ebbe delle esperienze come precettore privato; sono questi gli anni più difficili della sua vita, durante i quali è costretto ad una grande fatica per guadagnarsi da vivere, ma sono anche ricchi di stimoli per i suoi studi in ambito scientifico. Nel 1755 ottenne la licenza di magister, mansione che esercitò per quindici anni. Non ha però ancora uno stipendio fisso (viene pagato direttamente dagli studenti), e ciò lo obbliga a lavorare molto; prepara meticolosamente le sue lezioni, dimostrandosi un buon insegnante. Nel 1770 lavorò come vice-bibliotecario presso la Reale Biblioteca, nello stesso anno in cui pubblicò la Dissertazione, testo grazie al quale riuscì ad ottenere la cattedra di metafisica e logica all'Università di Königsberg, dove svolse la professione sino alla morte avvenuta nel 1804, adempiendo con scrupolosità ai suoi doveri accademici anche quando per debolezza senile gli divennero estremamente gravosi. È in questi anni che prepara e poi scrive le sue tre più grandi opere: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. La vita di Kant fu priva di avvenimenti sconvolgenti, dedicata interamente alle attività intellettive, a cui fece cornice uno stile di vita regolare ed abitudinario. La sua giornata cominciava alle cinque, subito dedicata al lavoro, e continuava con la colazione, poi una passeggiata, il riposo alle dieci. Non lasciò mai la sua città natale, neanche dopo la chiamata dell'università di Halle che gli offriva uno stipendio più alto, un maggior numero di studenti e di conseguenza anche maggior prestigio. Era convinto che Königsberg fosse il posto ideale per i suoi studi. L'unico fatto che uscì davvero fuori dai canoni di una vita completamente dedicata allo studio, fu lo screzio che ebbe con il governo prussiano a seguito di Religione nei limiti della semplice ragione del 1794, ma con l'incoronazione di Federico Guglielmo III la libertà di stampa venne ripristinata e Kant rivendicò la libertà di pensiero nel "Conflitto delle facoltà", del 1798. Morì il 12 febbraio del 1804, colpito dal morbo di Alzheimer, mormorando «Es ist gut» (sta bene). Sulla sua lapide vi è una frase che sintetizza il senso profondo della sua filosofia: "Due cose in vita mi furono sommamente care: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.”
Passiamo ora, e non velocemente al danese. Prima ho letto
Soren Kierkegaard “Sulla mia attività di scrittore” Edizioni ETS euro 7
Venti pagine di testo, ma di una densità che con note e chiose si arriva a quattro volte tanto. C'è tutto un mondo da dire sullo scritto (perché si scrive, cosa scrive, cosa si vuole comunicare scrivendo, mantenere una propria etica cristiana nell’essere scrittore) che penso ci si dovrà tornare. Per ora mi resta l'immagine forte dell'uso di pseudonimi nella scrittura del maestro danese che (con ovvia diversità) mi rimanda al complesso delle opere di Pessoa. Kierkegaard usa pseudonimi quando infarcisce di filosofia la scrittura, ma dove la scrittura a volte ha vita autonoma. Ed usa il suo nome quando scrivendo, chiosa i propri scritti. "Sulla mia attività di scrittore" uscì a Copenaghen nel 1851, dopo che per almeno un lustro il suo autore, Soren Kierkegaard, si era sforzato di redigere una sorta di 'guida alla lettura' della sua complessa produzione letteraria. Questo libricino - denso compendio del più ampio "Il punto di vista per la mia attività di scrittore", pubblicato postumo nel 1859 - contiene dunque le informazioni essenziali che Kierkegaard desiderava fornire ai suoi contemporanei sull'articolazione interna del complesso dei suoi scritti e sul suo ruolo di scrittore cristiano.
E poi mi sono dedicato a
Soren Kierkegaard “Diario del seduttore” BUR euro 4,99
Qui la scrittura si fa difficile, non per il testo, quanto per il contesto. E qui l’opera viene pubblicata sotto uno dei tanti pseudonimi. Il Diario è estrapolato dal più ampio e articolato “Enten/Eller” e non sono sicuro della correttezza di questa estrapolazione. Certo, un po’ di straniamento mi hanno fatto quelle lettere del seduttore firmate Giovanni. Il percorso sembra semplice, il seduttore seduce e vince, la fanciulla è presa nella rete e soffre. Ma…
"Il diario del seduttore", pubblicato da Kierkegaard nel 1843, mette infatti in scena l'astuto ed elegante gioco estetico del seduttore che conquista la sua preda incantandola con le armi dello spirito. Si tratta di una figura demoniaca, che arriva a possedere la donna, rapita dalla musica ammaliante della sua arte, per poi abbandonarla in una logorante disperazione. Tre sono i possibili modi fondamentali di vivere e di concepire la vita, secondo Kierkegaard: quello estetico, simboleggiato da don Giovanni, che il filosofo presenta come protagonista del Diario di un seduttore, quello etico, simboleggiato dal «marito fedele», e quello religioso, simboleggiato da Abramo, il personaggio biblico. Questi tre «modelli» sono in irriducibile alternativa tra di loro; si escludono vicendevolmente; sicché il terzo non costituisce un superamento dei due precedenti. Il passaggio, possibile ma non necessario, dall'uno all'altro implica, per Kierkegaard, sempre una radicale rottura, un salto, un capovolgimento di mentalità. Nello stadio estetico l'uomo conforma la sua esistenza secondo il principio di godersi la vita; il che comporta un vivere permanentemente nel presente, nell'attimo. Ma, secondo Kierkegaard, vivendo momento per momento l'uomo non trova mai in sé una sua propria identità, sicché s'insinua il sentimento dell'inadeguatezza del suo modo di vivere; ossia, s'insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della sua disperazione (infatti il suo legarsi all'attimo, il suo incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l'insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa, anzi di segno opposto, e dell'effettivo salto nello stadio etico.
E come non sentire la contrapposizione con Kant e l’altro modo di pensare l’essere qui ed ora.
Mi corre qua l’urgenza di qualche citazione:
“Soren: Io ho un solo amico: l'eco. E perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l'eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente: il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace.”
“Cornelia: egli esercita uno strano fascino su di me, ma certo non lo amo e forse non riuscirò mai ad amarlo; potrò tuttavia resistere a viverli insieme ed anche ad essere veramente felice”
“Giovanni: o la fanciulla inganna l’uomo, o l’uomo inganna la fanciulla”.
Anche il filosofo danese è mono cittadino, vissuto sempre a Copenhagen, dove nacque il 5 maggio 1813 (un altro toro?) e vi morì l’11 novembre 1855. Nasce dal ricco commercialista Michael Pedersen e dalla sua seconda moglie Ane Lund. La sua filosofia prese corpo da un doppio rifiuto, ossia il rifiuto della filosofia hegeliana e l'allontanamento dal vuoto formalismo della Chiesa danese. Fu l'ultimo di sette fratelli, cinque dei quali morirono quando lui era ancora ventenne. Dagli anziani genitori ricevette una rigida educazione religiosa, improntata al pessimismo ed al sentimento del peccato. La tragedia dei fratelli e l'educazione ricevuta fecero di Kierkegaard un uomo triste e votato all'introspezione, nonché ai facili e penosi sensi di colpa. Kierkegaard era assai cagionevole di salute, tant’è vero che egli chiamò, usando un’espressione usata anche da S. Paolo, "spina nella carne" un suo misterioso dolore fisico. Il padre gli inculcò un forte senso del peccato. Kierkegaard arrivò addirittura a pensarsi soggetto a una maledizione divina, per una imprecisata "grave colpa" commessa in passato da suo padre. Infatti, la morte prematura della moglie e di cinque dei suoi sette figli, avevano convinto il padre di Kierkegaard che egli aveva attirato su di sé l’ira divina. Forse, la colpa del padre era stata quella di aver maledetto Dio a 11 anni per la sua iniziale povertà di pastorello; o forse tale colpa fu l’aver sedotto la domestica pochi mesi dopo la morte della sua prima moglie. D’altra parte, egli aveva sposato la ragazza compromessa, che poi sarà la madre di Kierkegaard. Studiò teologia nell'università della sua città natale, con la prospettiva, poi non realizzata, di diventare pastore protestante. Nel 1840, si fidanzò con la diciottenne Regine Olsen, ma dopo un anno scarso, ruppe il fidanzamento. Forse Kierkegaard era attirato da una vocazione di consacrazione religiosa, o forse non voleva ingannare la ragazza, avendo il timore ossessivo che la maledizione divina potesse gravare anche sulla famiglia che egli avrebbe formato insieme a lei. Regina Olsen si disse pronta a tutto pur di sposarlo, ma Kierkegaard fece il possibile per apparirle disgustoso, in modo che cadesse su di lui la colpa della rottura del fidanzamento, che peraltro gli procurò rimpianto per tutta la vita. Kierkegaard condusse un’esistenza appartata, anche a causa del suo temperamento scontroso e poco socievole. Gli unici fatti rilevanti della sua vita furono gli attacchi che gli vennero mossi da un giornale satirico, e la polemica contro l’opportunismo e il conformismo religioso che egli condusse, nell’ultimo anno della sua vita, in una serie di articoli giornalistici. Il giornale satirico ritrasse Kierkegaard più volte ritratto in maligne caricature e fu aspramente preso in giro. Il filosofo ne rimase profondamente amareggiato (certo non era un ridanciano!). Quanto alla polemica che egli condusse contro il conformismo religioso, Kierkegaard accusava la Chiesa danese di essere mondana e di aver tradito gli insegnamenti originari di Cristo. E concedetemi di non addentrarmi nell’esistenzialismo, maneggiando ben poveramente il suo pensiero.
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