domenica 16 dicembre 2012

Est/Ovest - 16 dicembre 2012


Come la bravissima casa editrice romana, anche se non parliamo di nessun suo libro. Ma anche come indice di contrasti (ed anche N/S allora!). Due libri occidentali, allora, l’uno sulla vecchiaia, la morte e contro la guerra, molto crepuscolare, l’altro dolentemente solare, in arrivo dalla sempre fertile Svezia, ombrato di giallo, ma più di crescita che di declino. E due libri del sempre per me interessante Oz, che mi fanno capire, una volta di più, come si sviluppano le contorte vicende nella dolente terra palestinese.
Paul Auster “Uomo nel buio” Einaudi s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 05/08/2012 – T: 07/08/2012]
[titolo: Man in the Dark; lingua: inglese; pagine: 152; anno: 2008]
Libro strano ma pieno di echi e rimandi. Tipico libro di Auster, almeno di quello che ho imparato a conoscere ed amare negli anni. Con qualche tocco di fantastico, che poteva guastare il filo del romanzo, ma che la sua maestria tiene a freno e lo rende funzionale ad un discorso unico e coerente. Un discorso su molti binari: in primo piano l’umana follia della guerra, nello sfondo la vicenda umana di una persona al crepuscolo della vita che fa i conti con se stesso ed il proprio vissuto. Auster ha “solo” 65 anni (ma è un acquario, non ce ne dimentichiamo), e si traspone, invecchiandosi di qualche anno, in una figura di letterato (più critico che scrittore), costretto in una sedia a rotelle per un incidente. Dipende dagli altri, soprattutto dalla figlia e dalla nipote, sente la sua vena ormai andata, e medita un modo di finire la sua vita. Lì, nel buio delle notti, la sua fantasia si sbriglia, e si inventa storie per arrivare al mattino. Qui si svolge la vicenda parallela, quella fantastica, ambientata in un mondo di universi paralleli, dove seguiamo le vicende di Owen, costretto a diventare soldato suo malgrado, invischiato in trame complicate, in un’America sconvolta dalla guerra civile, quando, a seguito delle frodi elettorali della famiglia Bush, gli Stati Uniti si dividono in due rami “l’un contro l’altro armati”. Nell’onirica visione del vecchio August, ritornano le figure della sua vita. Che abbiamo l’agente segreto impersonato da una sua fiamma giovanile, la critica per la guerra e l’umana follia (che per ora accettiamo così e poi comprenderemo meglio, collegata alla dolente dedica allo scrittore David Grossman). Gli universi della guerra di Owen nascono dalla mente di uno scrittore che, immaginandoseli, li rende reali. E l’unico modo di fermare il tutto, sarebbe per Owen di uccidere lo scrittore. E lo scrittore, guarda caso, è lo stesso August, che nel buio cerca quindi i motivi per “suicidarsi” elegantemente. Arrivato comunque ad un bivio, decide che invece questa storia non può che finire (e non vi dico come). Conseguentemente, nel buio della notte, lo raggiunge la nipote Katya, il cui ragazzo è stato giustiziato in Iraq da un comando talebano. E nel tentativo di consolare la nipote, questa lo spinge a ripercorrere la sua, di vita. Di capirne i momenti alti, e soprattutto di affrontare i momenti bassi. La storia di August con la moglie Sonia, sposata ventenne, e dopo venti anni di matrimonio, lasciata per una ragazza di 15 anni più giovane. Con la quale vive un decennio di passione, per poi ritrovarsi solo. E dopo un lungo percorso di riconciliazione con il mondo, tornare con Sonia. E vivere felice con lei altri venti anni. Sino a quando, pochi mesi prima dell’inizio del racconto, Sonia muore di cancro. August ne esce moralmente a terra, buttandosi nel bere, e sfracellandosi una gamba guidando ubriaco. Torna allora nella casa avita, accudito dalla figlia (anche lei sposatasi giovanissima, anche lei lasciata dal marito, anche lei con una figlia a carico). Figlia che sta scrivendo un libro sulla strana figura della figlia di Nathaniel Hawthorne. Dove si riporta un brano di un’interessante poesia, con quel verso ricorrente che dà un senso a tutta la storia. Quanti collegamenti ci sarebbero tra tutte queste storie, incastonate in scatole cinesi. Pronte ad aprirsi. E quanto lascio ai margini (le bellissime sedute guardando film, dove August e Katya tirano fuori delle immagini che mi hanno colpito, tra l’altro con una mini-analisi di “Ladri di bicicletta” molto calzante). Pur essendo un libro agile, che si legge in un bel pomeriggio sorseggiando tè freddo, l’ho trovato di livello superiore alle ultime letture fatte. Buona lettura (e sempre grazie a Luana).
“È già difficile da adulti sopravvivere a un divorzio, ma da ragazzi è ancora peggio. Sono del tutto impotenti, e portano il peso del più grande dolore.” (40) 
“Non prendi niente sul serio, eh? Io prendo tutto sul serio, tesoro. Solo fingo di no.” (111)
“La verità è che i figli non imparano nulla dagli sbagli dei genitori.” (134)
Håkan Nesser “Il ragazzo che sognava Kim Novak” Guanda euro 11
[A: 13/05/2012 – I: 27/09/2012 – T: 29/09/2012]
[titolo: Kim Novak badade aldrig i Genesarets sjö; lingua: svedese; pagine: 249; anno: 1998]
Sebbene scriva sempre qualcosa di poliziesco o nelle vicinanze, questa prova intermedia dello svedese Håkan io la colloco più sul versante narrativo che su quello giallo. Anche una specie di spartiacque, tra i primi libri, tutti incentrati sulla figura del commissario Van Vetereen, e le ultime uscite, dove si sposta a narrare del commissario italo-svedese Gunnar Barbarotti. Bene o male c’è anche qui un morto, quello che lo scrivente di prima persona epigrafa come “Il Fattaccio”. Ed è importante, certo, ma forse e ben più importante è il contorno, le vicende, i personaggi. Seguiamo la soggettiva del giovane Erik, quattordicenne nel 1962 (epoca centrale dei fatti) che si avvia a passare un’estate veramente difficile (come dice il padre). La madre è in clinica, con un cancro terminale. E lui viene spedito con il fratello (più grande di otto anni) ed un coetaneo, tal Edmund, nella casa in riva al lago. Lago che si chiama Genesarets (Galilea in svedese). E che dà il vero titolo al libro. Che in svedese recita “Kim Novak non ha fatto il bagno nel lago Galilea”. Kim Novak è il soprannome che lui ed Edmund hanno dato ad una supplente che per pochi giorni hanno avuto a scuola. Giovane e coetanea del fratello. Fidanzata con un campione quasi nazionale di pallamano. Fidanzato comunque violento e possessivo. Henry, il fratello grande, si ritira sul lago a scrivere un libro. I ragazzi passano le giornate bighellonando. E per la festa di mezza estate, il lago si riempie di tante persone, tra cui Ewa-Kim e Barre il bullo. Nasce una storiella tra Henry e Kim. I ragazzi sono sempre più cotti della giovane ex-supplente. La madre si aggrava. Ogni tanto passa il padre, solo e sbandato. E poi il fattaccio: viene ucciso Balle con un colpo di mazzuolo in testa, vicino alla loro casa sul lago, una sera che Ewa stava con il suo nuovo amante. I sospetti, nostri e della polizia, ben presto si concentrano sui tre: Henry, Erik ed Edmund. Chi sarà stato? Ovvio l’incolpare Henry (l’unico con motivi concreti, visto che Barre aveva preso a pugni Ewa, una volta scoperta la relazione). Ma non ci sono prove. E dopo girare e rigirare, non si può fare a meno che rilasciare tutti. E la vita continua. Håkan continua tutta l’ultima parte del libro, come una specie di saggio - compendio sui destini umani e sulla socialdemocrazia svedese, quella che ti assiste, ti aiuta, ma ti lascia anche solo. Henry pubblica, con discreto successo, il libro che stava scrivendo. Poi si trasferisce da Stoccolma a Goteborg, ha delle storie, ed al fine emigra verso l’Uruguay. La madre muore. E dopo qualche anno anche il padre. Erik si trasferisce ad Uppsala, si laurea, insegna storia, sposa la bella Ellinor, hanno un paio di figli. Nel ventennale dell‘omicidio, per circostanze casuali, ritrova anche Edmund, che nel frattempo si è fatto prete nelle regioni del nord della Svezia. Rinvangano il passato, ma non si arrischiano più a formulare tesi sugli avvenimenti della loro estate di formazione. Manca una ciliegina alla torta, che ben presto mette il nostro scrittore. Erik ritrova casualmente Ewa. Il suo amore giovanile risboccia. Ed è, anche dopo venti e più anni, ricambiato. Divorzia, va a vivere con Ewa e la di lei figlia. Muore anche Edmund d’infarto. Mentre i due continuano e proseguono anche oltre la fine del libro la loro storia d’amore. Ecco, la morte è stata importante, foriera di catalizzazioni di avvenimenti, locali, e negli anni a venire. Ma non è un romanzo etichettabile come poliziesco. È d’atmosfera. Di formazione per i giovani svedesi, che vediamo emergere agli inizi degli anni sessanta, e poi passare indenni il ’68. Infatti, Erik è nato nel ’48. Ed avere 20 anni nel ’68, in altra Europa avrebbe portato altri scritti. Se poi vogliamo sapere chi è stato, lo scrittore lo dice, ma io non ve lo narro. Anche perché, qui si con vezzo giallista, Håkan semina un indizio verso la metà del libro, citando un libro di Agatha Christie. L’indizio non viene più ripreso. Ma io l’ho tenuto, coltivato e verificato nel momento dello svelamento. Un libro, complessivamente gradevole, anche perché fin dall’inizio facevo il tifo per Erik e Ewa.
“Starei senz’altro meglio al mondo se la gente fosse un po’ più seria.” (75)
“[Chissà] se sia meglio essere amati e poi non esserlo più, oppure evitare del tutto il coinvolgimento” (189)
“Mi resi conto di quanto potesse essere facile colmare il tempo, con certe persone.” (227)
Amos Oz “Il monte del cattivo consiglio” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 03/11/2012 – T: 07/11/2012]
[titolo: The Hill of Evil Counsel (scrivo il titolo inglese essendo l’ebraico di impossibile scrittura in Word occidentale); lingua: ebraico; pagine: 231; anno: 1976]
Uno dei primi scritti dello scrittore israeliano, in cui si intrecciano temi e modi della sua scrittura in modo quasi programmatico. Sono tre racconti. Ma come spesso nelle sue raccolte hanno una struttura ad intreccio. Cioè, pur essendo distinti, vi tornano in maniera seppur diversa, gli stessi personaggi. Come se Oz facesse una sorta di “Rashomon” situazionale. Ci presenta un luogo, una situazione, e poi ne narra da diversi punti di vista. In tal modo, alla fine, ci viene un messaggio plurimo: quello del singolo racconto e quello della situazione complessiva. In questo caso, inoltre, la situazione è particolarmente “avvincente” sul lato emozionale. Stiamo nella seconda metà del 1947. La guerra mondiale è terminata e nel contesto internazionale si va discutendo sulla futura definizione degli assetti territoriali nel Mandato Inglese in Palestina. Molto si consoliderà il successivo 14 maggio 1948, con la nascita dello Stato d’Israele. Qui ci troviamo in un quartiere periferico della Città Santa, e vediamo (dal di dentro) le sensazioni, i problemi, i timori e le speranze di differenti famiglie ebree. Nel primo c’è la famiglia del veterinario dottor Kipnis, con la bella moglie ed il figlio Hillel. In un certo senso, è il più straziante. Lo seguiamo dagli occhi del bimbo, con le spiegazioni che a lui danno i genitori, che rivelano poi la loro storia. Una storia che vela (anche se non rivela) quella della famiglia dello scrittore. Una storia di difficili rapporti (anche se mascherati). Di illusioni del bimbo. Di voglia di libertà della madre. E coagulantesi nel ballo organizzato dall’alto Commissario inglese. Che rivela anche i rapporti tra i benestanti ebrei e “gli occupanti”. E che da modo alla signora Kipnis di fuggire con un militare. Trasfigurazione della mente di Amos bambino (che scopriremo, infatti, solo nell’autobiografico libro che cito in fondo, che la madre, in realtà, si toglie la vita). Nel secondo sono i vicini dei Kipnis che vediamo, un agglomerato composito sempre visto dal bimbo Uriel detto Uri. Con il padre tipografo, la madre pianista, il vicino vecchio poeta con figlio radiotelegrafista e forse facente parte di gruppi indipendentisti. Una famiglia che sostiene, ognuno con le proprie capacità, la lotta di indipendenza (così viene chiamata dagli ebrei). Assistiamo alla quotidianità delle loro vite. Con Uri affascinato dal giovane Efraim, insieme al quale progetta di inventare un raggio della morte per liberare Israele dal giogo britannico. Vediamo la fantasia di Uri che immagina grandi lotte, grandi sentimenti. E vediamo l’arrivo, nottetempo, di un alto esponente della lotta di indipendenza, che viene ospitato per qualche giorno in casa (beh, nascosto più che ospitato). Qui c’è il contraltare che Oz ci propone, perché il signor Levi è scontroso, freddo, comanda e si aspetta ubbidienza senza concedere nessun sentimento amicale a chi sta mettendo in pericolo la propria vita per lui e per la causa. È questa crasi che Oz tiene a sottolineare. Lì dove le persone e gli ideali mostrano di non convergere (e quanti esempi possiamo fare nel tempo e nello spazio!). Il terzo, infine, è composto da una serie di lettere scritte da un immigrato ebreo austriaco alla donna con cui ha avuto una grande storia d’amore, ma che lo ha lasciato ed ora è in America (almeno così pensa). Il nostro scrive, raccontando di quei primi giorni del settembre del ’47. Non sa se Hermina riceverà le lettere. Ma sfoga la sua nostalgia (così il titolo del racconto), sulla carta. Narrando dei vicini (e ritroviamo tutti i personaggi precedenti, compreso Uri che compare fortemente anche qui, ma che qui vediamo con l’occhio dell’adulto, mentre prima era con l’occhio soggettivo che ne seguivamo le gesta). Nussbaum fa in modo, inoltre, di tratteggiare la sua storia d’amore. E soprattutto, ci coinvolge nella sua malattia (ha un tumore in stato avanzato). E sa che il suo futuro non potrà essere nell’Israele che verrà. Anzi non sa se arriverà a vederlo. Un racconto dolente, pieno di momenti fortemente intimi. Ma anche qui, lo scrittore poi ci fa le foto del quartiere, dei soldati inglesi, dei vicini che abbiamo incontrato nei primi due racconti. Del suo scrivere in balcone alla fioca luce di una lampada. Alla sua vita che si sta spegnendo come la stessa lampada. Tutto il trittico è poi radunato sotto il titolo che si riferisce al Monte che vide Giuda accordarsi con Caifa per tradire Gesù. Il Monte, appunto, del Cattivo Consiglio. Non tutta la scrittura è allo stesso alto livello, anche se ci sono buone punte. E mancano completamente (ed interverranno solo in scritti successivi) gli arabi, come se non ne fosse ancora contemplata la presenza sulla Terra d’Israele. Ma nel complesso, una lettura che rispecchia l’alta considerazione mia personale sull’insieme della produzione dello scrittore. (PS1 leggete “Una storia di amore e di tenebra” se non lo avete letto). (PS2 a pag.209 il traduttore utilizza la parola “esempla” per “esemplifica”; sarà corretto?)
“Nessuna parola è brutta di per sé. È brutta la volgarità che sta dietro o in mezzo alle parole.” (26)
“Parliamo così solo per disperazione. Ma tutti siamo armati delle migliori intenzioni.” (118)
“Qualcosa bisogna pur fare, e farlo con il cuore e l’anima.” (207)
“È finito l’inventario del tempo e dello spazio.” (231)
Amos Oz “Una pace perfetta” Feltrinelli euro 9
[A: 13/05/2012 – I: 11/11/2012 – T: 23/11/2012]
[titolo: A Perfect Peace; lingua: ebraico; pagine: 350; anno: 1982]
Parafrasando il titolo, mi verrebbe da commentare: “Un libro perfetto”. Un’iperbole, certo, ma che si avvicina abbastanza alla verità. Un libro con tutti gli elementi al posto giusto. I personaggi e la loro caratterizzazione. Il luogo ed il tempo della storia. Il succedersi (o il non succedere) degli avvenimenti, che, infatti, sono quasi inesistenti (seppur ci sono), dato che la maggior parte del tempo la passiamo, con interesse e partecipazione, nella testa dei protagonisti. E mi chiedo, ma come si fa a dare premi Nobel a Le Clézio o ad Herta Muller, e lasciare sempre in ombra questo gigante della letteratura. Misteri insondabili del mondo e della politica. Certo, è israeliano, e dare un premio potrebbe essere visto “politically scorrect” dato ciò che succede in quelle terre. Mi domando quando riusciremo a fare delle riflessioni che vadano al di là delle apparenze! Torniamo allora a questi pochi mesi narrati dalla densa storia, questo passaggio da un inverno ad una primavera, in un biennio paradigmatico delle vicende israeliane, visto che la storia terminerà pochi giorni dopo la fine della “Guerra dei 6 giorni” con l’Egitto. E torniamo a questo sperduto kibbutz, che collocherei tra Gerico e Masada, sull’orlo del Negev con vista verso Petra. Ci sarebbe da aprire una parentesi sull’esperienza kibbutzim in Israele, sul modo come siano nati, come piccole comuni verso l’autosufficienza. Un esperimento di comunanza di beni e di interessi. Dove tutti danno una mano per il bene comune. Dove ognuno fa quello cui riesce meglio, condividendo tutto. Una grande stanza per il mangiare in comune. Insomma una grande speranza di vita (ed Oz stesso, fuggì dai suoi per andar a viver in un kibbutz, che credeva fermamente in questo modo di condividere: tutti insieme, ognuno portando il suo granello per gli altri). Ed un’esperienza che poi mostra la sua corda. Non evolvendosi, ma rinchiudendosi in sé, passa dall’essere una molecola per la costruzione di un nuovo modo di essere, ad una monade auto-contenentesi. E chi vi è “costretto” a vivere e non lo fa per scelta, ne erode le fondamenta. Ancora ci sono, anche ora a distanza di decenni. Ma già ai tempi del romanzo di Oz se ne vedeva il limite. Ed il nostro lo usa come uno degli elementi pilastro della storia, per narrare la vicenda di Yoni, costretto a vivere nel kibbutz in quanto figlio del segretario. Che sposa Rimona, da cui avrà una figlia morta. E Yoni si sente stretto in questo mondo senza prospettive. Vede decadere Rimona. Vede ammalarsi il padre Yolek. Vede inacidirsi la madre Hava. E si domanda cosa c’è di là. Cosa c’è in questi posti che si leggono sui libri e sui giornali. New York? Bangkok? Cosa potrei fare se fossi libero? Di contraltare c’è la vicenda di Zaro, giovane pieno di problemi, che invece sceglie di entrare nel kibbutz, che crede nel kibbutz. È solo molto irruento, vorrebbe spostare mari e monti. E lo fa con l’uso della parola. Mirabili sono le rese che fa Oz del modo di parlare e di ragionare di Zaro. Che dice anche cose giuste. Ma che poi ne ha paura, si trincera dietro altre parole. Le dice e le nega. In un modo che, se mi fosse davanti, verrebbe quasi di prenderlo a schiaffi. Ma è comunque in fondo buono Zaro. E si trova a lavorare con Yoni, ed i due entrano in empatia. Zaro con la sua estroversione verbale, Yoni con la sua introversione. Entrambi attenti alle piccole cose. Tanto che il loro diventa sodalizio forte. E vanno a vivere insieme, Yoni, Zaro e Rimona. Scandalo? Forse per i benpensanti, non per i giovani del kibbutz. Tanto che, Yoni vedendo l’affidabilità (tolta la patina verbale) di Zaro, decide di seguire il suo sogno. E nottetempo, si invola dal kibbutz. Senza una parola. Senza un messaggio. Attraversa il Negev, ed ipotizza (in una mirabile pagina) prima di andare per l’universo mondo, di visitare, poco oltre il confine, la stupenda città dei Nabatei. Petra cui tornerei domani, che tanto ho visitato, che tanto rivedrei con piacere. Non vi dirò se ci andrà, né se tornerà al kibbutz natio. Mentre scorrono i mesi che avvicinano Israele a quella ferita ancora insanata che sarà la guerra del ’67, il kibbutz prosegue la sua strada. Vediamo il padre Yolek aggravarsi e lasciare il suo ruolo al mite Shrulik. Vediamo nascere una nuova figlia a Rimona, ed addolcirsi l’astio di Hava. Vediamo passare anche la storia, che si affaccia il primo ministro Levi Eskhol, amico di Yolek (e storicamente fondatore del primo kibbutz israeliano a Degania Beit, dove nacque Moshé Dayan). Continuiamo a seguire le vicende private dei nostri abitanti del kibbutz, e dal privato capiamo anche il politico. La solidarietà umana. La tensione verso il bene comune. Ma anche la nascita dei rancori. Una capacità di unire micro e macro cosmo, che rende alla fine leggere le dense pagine dello scritto. Che fa riflettere sulla politica, e su come questa sia fatta dagli uomini, oltre che dagli ideali. Che fa riflettere sulla vita propria e sul rapporto con gli altri. Su cosa sia importante nella vita. Un vestito? Un disco? Una passeggiata nel deserto? Non smetterei di scriverne, che tante corde solleva. Sono contento di averlo letto, e, per una volta, sono in completo accordo con l’autore. Se fossi capace di scriverne, avrei fatto le sue stesse scelte, per portare a compimento la vicenda. Ed è un complimento che riservo a ben pochi autori. Grazie, Amos!
 “Non potevi mica restare per tutta la vita ad aspettare, senza sapere cosa e perché stavi aspettando.” (21)
“Non è forse una frana tutta la nostra vita, il tempo stesso è una frana che non torna mai più, e allora?” (126)
“Non giudicare il tuo prossimo prima di metterti nei suoi panni.” (148)
“La cosa bella del sonno è che ci si ritrova finalmente soli, senza gli altri. … [Nel sonno] … ognuno è solo con se stesso.” (204)
“Tutti hanno un compito nella vita e nessuno ha altra scelta a parte quella di capire qual è il suo, di compito.” (255)
“Figli piccoli, guai piccoli. Figli grandi, guai grandi.” (263)
“Una città rossa come una rosa, vecchia come metà del tempo” (303)
Sempre più vicino il Natale, ed anche l’ultimo giorno palindromo per anni a venire. Si vociferano profezie infondate, tuttavia, nell’approssimarsi della data, almeno il mio corpo da qualche segnale di stanchezza: periartrite alla spalla destra, lombosciatalgia al fondo schiena, lussazione del medio della mano sinistra. Beh, mi sembra che per ora l’unica cosa rossa del Natale sia la croce. 

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