Come la bravissima casa editrice
romana, anche se non parliamo di nessun suo libro. Ma anche come indice di
contrasti (ed anche N/S allora!). Due libri occidentali, allora, l’uno sulla vecchiaia,
la morte e contro la guerra, molto crepuscolare, l’altro dolentemente solare,
in arrivo dalla sempre fertile Svezia, ombrato di giallo, ma più di crescita
che di declino. E due libri del sempre per me interessante Oz, che mi fanno
capire, una volta di più, come si sviluppano le contorte vicende nella dolente
terra palestinese.
Paul Auster “Uomo nel buio” Einaudi s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 05/08/2012 – T: 07/08/2012]
[titolo: Man in the Dark; lingua: inglese; pagine: 152;
anno: 2008]
Libro strano ma pieno di echi e
rimandi. Tipico libro di Auster, almeno di quello che ho imparato a conoscere
ed amare negli anni. Con qualche tocco di fantastico, che poteva guastare il
filo del romanzo, ma che la sua maestria tiene a freno e lo rende funzionale ad
un discorso unico e coerente. Un discorso su molti binari: in primo piano
l’umana follia della guerra, nello sfondo la vicenda umana di una persona al
crepuscolo della vita che fa i conti con se stesso ed il proprio vissuto.
Auster ha “solo” 65 anni (ma è un acquario, non ce ne dimentichiamo), e si
traspone, invecchiandosi di qualche anno, in una figura di letterato (più
critico che scrittore), costretto in una sedia a rotelle per un incidente.
Dipende dagli altri, soprattutto dalla figlia e dalla nipote, sente la sua vena
ormai andata, e medita un modo di finire la sua vita. Lì, nel buio delle notti,
la sua fantasia si sbriglia, e si inventa storie per arrivare al mattino. Qui
si svolge la vicenda parallela, quella fantastica, ambientata in un mondo di
universi paralleli, dove seguiamo le vicende di Owen, costretto a diventare
soldato suo malgrado, invischiato in trame complicate, in un’America sconvolta
dalla guerra civile, quando, a seguito delle frodi elettorali della famiglia
Bush, gli Stati Uniti si dividono in due rami “l’un contro l’altro armati”.
Nell’onirica visione del vecchio August, ritornano le figure della sua vita.
Che abbiamo l’agente segreto impersonato da una sua fiamma giovanile, la
critica per la guerra e l’umana follia (che per ora accettiamo così e poi
comprenderemo meglio, collegata alla dolente dedica allo scrittore David
Grossman). Gli universi della guerra di Owen nascono dalla mente di uno
scrittore che, immaginandoseli, li rende reali. E l’unico modo di fermare il
tutto, sarebbe per Owen di uccidere lo scrittore. E lo scrittore, guarda caso,
è lo stesso August, che nel buio cerca quindi i motivi per “suicidarsi” elegantemente.
Arrivato comunque ad un bivio, decide che invece questa storia non può che finire
(e non vi dico come). Conseguentemente, nel buio della notte, lo raggiunge la
nipote Katya, il cui ragazzo è stato giustiziato in Iraq da un comando talebano.
E nel tentativo di consolare la nipote, questa lo spinge a ripercorrere la sua,
di vita. Di capirne i momenti alti, e soprattutto di affrontare i momenti
bassi. La storia di August con la moglie Sonia, sposata ventenne, e dopo venti
anni di matrimonio, lasciata per una ragazza di 15 anni più giovane. Con la
quale vive un decennio di passione, per poi ritrovarsi solo. E dopo un lungo percorso
di riconciliazione con il mondo, tornare con Sonia. E vivere felice con lei
altri venti anni. Sino a quando, pochi mesi prima dell’inizio del racconto,
Sonia muore di cancro. August ne esce moralmente a terra, buttandosi nel bere,
e sfracellandosi una gamba guidando ubriaco. Torna allora nella casa avita,
accudito dalla figlia (anche lei sposatasi giovanissima, anche lei lasciata dal
marito, anche lei con una figlia a carico). Figlia che sta scrivendo un libro
sulla strana figura della figlia di Nathaniel Hawthorne.
Dove si riporta un brano di un’interessante poesia, con quel verso ricorrente
che dà un senso a tutta la storia. Quanti collegamenti ci sarebbero tra tutte
queste storie, incastonate in scatole cinesi. Pronte ad aprirsi. E quanto
lascio ai margini (le bellissime sedute guardando film, dove August e Katya
tirano fuori delle immagini che mi hanno colpito, tra l’altro con una
mini-analisi di “Ladri di bicicletta” molto calzante). Pur essendo un libro agile,
che si legge in un bel pomeriggio sorseggiando tè freddo, l’ho trovato di
livello superiore alle ultime letture fatte. Buona lettura (e sempre grazie a
Luana).
“È già difficile da adulti sopravvivere a un divorzio, ma da ragazzi è
ancora peggio. Sono del tutto impotenti, e portano il peso del più grande
dolore.” (40)
“Non prendi niente sul serio, eh? Io prendo tutto sul serio, tesoro.
Solo fingo di no.” (111)
“La verità è che i figli non imparano nulla dagli sbagli dei genitori.”
(134)
Håkan Nesser “Il ragazzo che sognava Kim Novak” Guanda euro 11
[A: 13/05/2012 – I: 27/09/2012 – T: 29/09/2012]
[titolo: Kim Novak badade
aldrig i Genesarets sjö; lingua: svedese; pagine: 249; anno:
1998]
Sebbene scriva sempre qualcosa di
poliziesco o nelle vicinanze, questa prova intermedia dello svedese Håkan io la
colloco più sul versante narrativo che su quello giallo. Anche una specie di
spartiacque, tra i primi libri, tutti incentrati sulla figura del commissario
Van Vetereen, e le ultime uscite, dove si sposta a narrare del commissario
italo-svedese Gunnar Barbarotti. Bene o male c’è anche qui un morto, quello che
lo scrivente di prima persona epigrafa come “Il Fattaccio”. Ed è importante,
certo, ma forse e ben più importante è il contorno, le vicende, i personaggi.
Seguiamo la soggettiva del giovane Erik, quattordicenne nel 1962 (epoca
centrale dei fatti) che si avvia a passare un’estate veramente difficile (come
dice il padre). La madre è in clinica, con un cancro terminale. E lui viene
spedito con il fratello (più grande di otto anni) ed un coetaneo, tal Edmund,
nella casa in riva al lago. Lago che si chiama Genesarets (Galilea in svedese).
E che dà il vero titolo al libro. Che in svedese recita “Kim Novak non ha fatto
il bagno nel lago Galilea”. Kim Novak è il soprannome che lui ed Edmund hanno
dato ad una supplente che per pochi giorni hanno avuto a scuola. Giovane e
coetanea del fratello. Fidanzata con un campione quasi nazionale di pallamano.
Fidanzato comunque violento e possessivo. Henry, il fratello grande, si ritira
sul lago a scrivere un libro. I ragazzi passano le giornate bighellonando. E
per la festa di mezza estate, il lago si riempie di tante persone, tra cui Ewa-Kim
e Barre il bullo. Nasce una storiella tra Henry e Kim. I ragazzi sono sempre più
cotti della giovane ex-supplente. La madre si aggrava. Ogni tanto passa il
padre, solo e sbandato. E poi il fattaccio: viene ucciso Balle con un colpo di
mazzuolo in testa, vicino alla loro casa sul lago, una sera che Ewa stava con
il suo nuovo amante. I sospetti, nostri e della polizia, ben presto si
concentrano sui tre: Henry, Erik ed Edmund. Chi sarà stato? Ovvio l’incolpare
Henry (l’unico con motivi concreti, visto che Barre aveva preso a pugni Ewa,
una volta scoperta la relazione). Ma non ci sono prove. E dopo girare e
rigirare, non si può fare a meno che rilasciare tutti. E la vita continua.
Håkan continua tutta l’ultima parte del libro, come una specie di saggio - compendio
sui destini umani e sulla socialdemocrazia svedese, quella che ti assiste, ti
aiuta, ma ti lascia anche solo. Henry pubblica, con discreto successo, il libro
che stava scrivendo. Poi si trasferisce da Stoccolma a Goteborg, ha delle
storie, ed al fine emigra verso l’Uruguay. La madre muore. E dopo qualche anno
anche il padre. Erik si trasferisce ad Uppsala, si laurea, insegna storia,
sposa la bella Ellinor, hanno un paio di figli. Nel ventennale dell‘omicidio,
per circostanze casuali, ritrova anche Edmund, che nel frattempo si è fatto
prete nelle regioni del nord della Svezia. Rinvangano il passato, ma non si
arrischiano più a formulare tesi sugli avvenimenti della loro estate di
formazione. Manca una ciliegina alla torta, che ben presto mette il nostro
scrittore. Erik ritrova casualmente Ewa. Il suo amore giovanile risboccia. Ed
è, anche dopo venti e più anni, ricambiato. Divorzia, va a vivere con Ewa e la
di lei figlia. Muore anche Edmund d’infarto. Mentre i due continuano e
proseguono anche oltre la fine del libro la loro storia d’amore. Ecco, la morte
è stata importante, foriera di catalizzazioni di avvenimenti, locali, e negli
anni a venire. Ma non è un romanzo etichettabile come poliziesco. È
d’atmosfera. Di formazione per i giovani svedesi, che vediamo emergere agli
inizi degli anni sessanta, e poi passare indenni il ’68. Infatti, Erik è nato
nel ’48. Ed avere 20 anni nel ’68, in altra Europa avrebbe portato altri
scritti. Se poi vogliamo sapere chi è stato, lo scrittore lo dice, ma io non ve
lo narro. Anche perché, qui si con vezzo giallista, Håkan semina un indizio
verso la metà del libro, citando un libro di Agatha Christie. L’indizio non
viene più ripreso. Ma io l’ho tenuto, coltivato e verificato nel momento dello
svelamento. Un libro, complessivamente gradevole, anche perché fin dall’inizio
facevo il tifo per Erik e Ewa.
“Starei senz’altro meglio al mondo se la gente fosse un po’ più seria.”
(75)
“[Chissà] se sia meglio essere amati e poi non esserlo più, oppure
evitare del tutto il coinvolgimento” (189)
“Mi resi conto di quanto potesse essere facile colmare il tempo, con certe
persone.” (227)
Amos Oz “Il monte del cattivo consiglio” Feltrinelli euro 9 (in realtà,
scontato 7,65 euro)
[A: 29/06/2012 – I: 03/11/2012 – T: 07/11/2012]
[titolo: The Hill of Evil
Counsel (scrivo il titolo inglese essendo l’ebraico di impossibile scrittura in
Word occidentale); lingua: ebraico; pagine: 231; anno:
1976]
Uno dei primi scritti dello
scrittore israeliano, in cui si intrecciano temi e modi della sua scrittura in
modo quasi programmatico. Sono tre racconti. Ma come spesso nelle sue raccolte
hanno una struttura ad intreccio. Cioè, pur essendo distinti, vi tornano in
maniera seppur diversa, gli stessi personaggi. Come se Oz facesse una sorta di
“Rashomon” situazionale. Ci presenta un luogo, una situazione, e poi ne narra
da diversi punti di vista. In tal modo, alla fine, ci viene un messaggio
plurimo: quello del singolo racconto e quello della situazione complessiva. In
questo caso, inoltre, la situazione è particolarmente “avvincente” sul lato
emozionale. Stiamo nella seconda metà del 1947. La guerra mondiale è terminata
e nel contesto internazionale si va discutendo sulla futura definizione degli
assetti territoriali nel Mandato Inglese in Palestina. Molto si consoliderà il
successivo 14 maggio 1948, con la nascita dello Stato d’Israele. Qui ci troviamo
in un quartiere periferico della Città Santa, e vediamo (dal di dentro) le
sensazioni, i problemi, i timori e le speranze di differenti famiglie ebree.
Nel primo c’è la famiglia del veterinario dottor Kipnis, con la bella moglie ed
il figlio Hillel. In un certo senso, è il più straziante. Lo seguiamo dagli
occhi del bimbo, con le spiegazioni che a lui danno i genitori, che rivelano
poi la loro storia. Una storia che vela (anche se non rivela) quella della
famiglia dello scrittore. Una storia di difficili rapporti (anche se
mascherati). Di illusioni del bimbo. Di voglia di libertà della madre. E
coagulantesi nel ballo organizzato dall’alto Commissario inglese. Che rivela
anche i rapporti tra i benestanti ebrei e “gli occupanti”. E che da modo alla signora
Kipnis di fuggire con un militare. Trasfigurazione della mente di Amos bambino
(che scopriremo, infatti, solo nell’autobiografico libro che cito in fondo, che
la madre, in realtà, si toglie la vita). Nel secondo sono i vicini dei Kipnis
che vediamo, un agglomerato composito sempre visto dal bimbo Uriel detto Uri.
Con il padre tipografo, la madre pianista, il vicino vecchio poeta con figlio
radiotelegrafista e forse facente parte di gruppi indipendentisti. Una famiglia
che sostiene, ognuno con le proprie capacità, la lotta di indipendenza (così
viene chiamata dagli ebrei). Assistiamo alla quotidianità delle loro vite. Con
Uri affascinato dal giovane Efraim, insieme al quale progetta di inventare un
raggio della morte per liberare Israele dal giogo britannico. Vediamo la
fantasia di Uri che immagina grandi lotte, grandi sentimenti. E vediamo
l’arrivo, nottetempo, di un alto esponente della lotta di indipendenza, che
viene ospitato per qualche giorno in casa (beh, nascosto più che ospitato). Qui
c’è il contraltare che Oz ci propone, perché il signor Levi è scontroso,
freddo, comanda e si aspetta ubbidienza senza concedere nessun sentimento
amicale a chi sta mettendo in pericolo la propria vita per lui e per la causa.
È questa crasi che Oz tiene a sottolineare. Lì dove le persone e gli ideali
mostrano di non convergere (e quanti esempi possiamo fare nel tempo e nello
spazio!). Il terzo, infine, è composto da una serie di lettere scritte da un
immigrato ebreo austriaco alla donna con cui ha avuto una grande storia
d’amore, ma che lo ha lasciato ed ora è in America (almeno così pensa). Il
nostro scrive, raccontando di quei primi giorni del settembre del ’47. Non sa
se Hermina riceverà le lettere. Ma sfoga la sua nostalgia (così il titolo del
racconto), sulla carta. Narrando dei vicini (e ritroviamo tutti i personaggi
precedenti, compreso Uri che compare fortemente anche qui, ma che qui vediamo
con l’occhio dell’adulto, mentre prima era con l’occhio soggettivo che ne
seguivamo le gesta). Nussbaum fa in modo, inoltre, di tratteggiare la sua
storia d’amore. E soprattutto, ci coinvolge nella sua malattia (ha un tumore in
stato avanzato). E sa che il suo futuro non potrà essere nell’Israele che
verrà. Anzi non sa se arriverà a vederlo. Un racconto dolente, pieno di momenti
fortemente intimi. Ma anche qui, lo scrittore poi ci fa le foto del quartiere,
dei soldati inglesi, dei vicini che abbiamo incontrato nei primi due racconti.
Del suo scrivere in balcone alla fioca luce di una lampada. Alla sua vita che
si sta spegnendo come la stessa lampada. Tutto il trittico è poi radunato sotto
il titolo che si riferisce al Monte che vide Giuda accordarsi con Caifa per
tradire Gesù. Il Monte, appunto, del Cattivo Consiglio. Non tutta la scrittura
è allo stesso alto livello, anche se ci sono buone punte. E mancano
completamente (ed interverranno solo in scritti successivi) gli arabi, come se
non ne fosse ancora contemplata la presenza sulla Terra d’Israele. Ma nel
complesso, una lettura che rispecchia l’alta considerazione mia personale
sull’insieme della produzione dello scrittore. (PS1 leggete “Una storia di
amore e di tenebra” se non lo avete letto). (PS2 a pag.209 il traduttore
utilizza la parola “esempla” per “esemplifica”; sarà corretto?)
“Nessuna parola è brutta di per sé. È brutta la volgarità che sta
dietro o in mezzo alle parole.” (26)
“Parliamo così solo per disperazione. Ma tutti siamo armati delle
migliori intenzioni.” (118)
“Qualcosa bisogna pur fare, e farlo con il cuore e l’anima.” (207)
“È finito l’inventario del tempo e dello spazio.” (231)
Amos Oz “Una pace perfetta” Feltrinelli euro 9
[A: 13/05/2012 – I: 11/11/2012 – T: 23/11/2012]
[titolo: A Perfect Peace; lingua: ebraico; pagine: 350;
anno: 1982]
Parafrasando il titolo, mi
verrebbe da commentare: “Un libro perfetto”. Un’iperbole, certo, ma che si
avvicina abbastanza alla verità. Un libro con tutti gli elementi al posto
giusto. I personaggi e la loro caratterizzazione. Il luogo ed il tempo della
storia. Il succedersi (o il non succedere) degli avvenimenti, che, infatti,
sono quasi inesistenti (seppur ci sono), dato che la maggior parte del tempo la
passiamo, con interesse e partecipazione, nella testa dei protagonisti. E mi
chiedo, ma come si fa a dare premi Nobel a Le Clézio o ad Herta Muller, e
lasciare sempre in ombra questo gigante della letteratura. Misteri insondabili
del mondo e della politica. Certo, è israeliano, e dare un premio potrebbe
essere visto “politically scorrect” dato ciò che succede in quelle terre. Mi
domando quando riusciremo a fare delle riflessioni che vadano al di là delle
apparenze! Torniamo allora a questi pochi mesi narrati dalla densa storia,
questo passaggio da un inverno ad una primavera, in un biennio paradigmatico
delle vicende israeliane, visto che la storia terminerà pochi giorni dopo la
fine della “Guerra dei 6 giorni” con l’Egitto. E torniamo a questo sperduto
kibbutz, che collocherei tra Gerico e Masada, sull’orlo del Negev con vista
verso Petra. Ci sarebbe da aprire una parentesi sull’esperienza kibbutzim in
Israele, sul modo come siano nati, come piccole comuni verso l’autosufficienza.
Un esperimento di comunanza di beni e di interessi. Dove tutti danno una mano
per il bene comune. Dove ognuno fa quello cui riesce meglio, condividendo
tutto. Una grande stanza per il mangiare in comune. Insomma una grande speranza
di vita (ed Oz stesso, fuggì dai suoi per andar a viver in un kibbutz, che credeva
fermamente in questo modo di condividere: tutti insieme, ognuno portando il suo
granello per gli altri). Ed un’esperienza che poi mostra la sua corda. Non
evolvendosi, ma rinchiudendosi in sé, passa dall’essere una molecola per la
costruzione di un nuovo modo di essere, ad una monade auto-contenentesi. E chi
vi è “costretto” a vivere e non lo fa per scelta, ne erode le fondamenta.
Ancora ci sono, anche ora a distanza di decenni. Ma già ai tempi del romanzo di
Oz se ne vedeva il limite. Ed il nostro lo usa come uno degli elementi pilastro
della storia, per narrare la vicenda di Yoni, costretto a vivere nel kibbutz in
quanto figlio del segretario. Che sposa Rimona, da cui avrà una figlia morta. E
Yoni si sente stretto in questo mondo senza prospettive. Vede decadere Rimona.
Vede ammalarsi il padre Yolek. Vede inacidirsi la madre Hava. E si domanda cosa
c’è di là. Cosa c’è in questi posti che si leggono sui libri e sui giornali.
New York? Bangkok? Cosa potrei fare se fossi libero? Di contraltare c’è la
vicenda di Zaro, giovane pieno di problemi, che invece sceglie di entrare nel
kibbutz, che crede nel kibbutz. È solo molto irruento, vorrebbe spostare mari e
monti. E lo fa con l’uso della parola. Mirabili sono le rese che fa Oz del modo
di parlare e di ragionare di Zaro. Che dice anche cose giuste. Ma che poi ne ha
paura, si trincera dietro altre parole. Le dice e le nega. In un modo che, se
mi fosse davanti, verrebbe quasi di prenderlo a schiaffi. Ma è comunque in
fondo buono Zaro. E si trova a lavorare con Yoni, ed i due entrano in empatia.
Zaro con la sua estroversione verbale, Yoni con la sua introversione. Entrambi
attenti alle piccole cose. Tanto che il loro diventa sodalizio forte. E vanno a
vivere insieme, Yoni, Zaro e Rimona. Scandalo? Forse per i benpensanti, non per
i giovani del kibbutz. Tanto che, Yoni vedendo l’affidabilità (tolta la patina
verbale) di Zaro, decide di seguire il suo sogno. E nottetempo, si invola dal
kibbutz. Senza una parola. Senza un messaggio. Attraversa il Negev, ed ipotizza
(in una mirabile pagina) prima di andare per l’universo mondo, di visitare,
poco oltre il confine, la stupenda città dei Nabatei. Petra cui tornerei
domani, che tanto ho visitato, che tanto rivedrei con piacere. Non vi dirò se
ci andrà, né se tornerà al kibbutz natio. Mentre scorrono i mesi che avvicinano
Israele a quella ferita ancora insanata che sarà la guerra del ’67, il kibbutz
prosegue la sua strada. Vediamo il padre Yolek aggravarsi e lasciare il suo
ruolo al mite Shrulik. Vediamo nascere una nuova figlia a Rimona, ed addolcirsi
l’astio di Hava. Vediamo passare anche la storia, che si affaccia il primo
ministro Levi Eskhol, amico di Yolek (e storicamente fondatore del primo
kibbutz israeliano a Degania Beit, dove nacque Moshé Dayan). Continuiamo a
seguire le vicende private dei nostri abitanti del kibbutz, e dal privato
capiamo anche il politico. La solidarietà umana. La tensione verso il bene comune.
Ma anche la nascita dei rancori. Una capacità di unire micro e macro cosmo, che
rende alla fine leggere le dense pagine dello scritto. Che fa riflettere sulla
politica, e su come questa sia fatta dagli uomini, oltre che dagli ideali. Che
fa riflettere sulla vita propria e sul rapporto con gli altri. Su cosa sia
importante nella vita. Un vestito? Un disco? Una passeggiata nel deserto? Non
smetterei di scriverne, che tante corde solleva. Sono contento di averlo letto,
e, per una volta, sono in completo accordo con l’autore. Se fossi capace di
scriverne, avrei fatto le sue stesse scelte, per portare a compimento la
vicenda. Ed è un complimento che riservo a ben pochi autori. Grazie, Amos!
“Non potevi mica restare per
tutta la vita ad aspettare, senza sapere cosa e perché stavi aspettando.” (21)
“Non è forse una frana tutta la nostra vita, il tempo stesso è una
frana che non torna mai più, e allora?” (126)
“Non giudicare il tuo prossimo prima di metterti nei suoi panni.” (148)
“La cosa bella del sonno è che ci si ritrova finalmente soli, senza gli
altri. … [Nel sonno] … ognuno è solo con se stesso.” (204)
“Tutti hanno un compito nella vita e nessuno ha altra scelta a parte
quella di capire qual è il suo, di compito.” (255)
“Figli piccoli, guai piccoli. Figli grandi, guai grandi.” (263)
“Una città rossa come una rosa, vecchia come metà del tempo” (303)
Sempre più vicino il Natale, ed
anche l’ultimo giorno palindromo per anni a venire. Si vociferano profezie
infondate, tuttavia, nell’approssimarsi della data, almeno il mio corpo da
qualche segnale di stanchezza: periartrite alla spalla destra, lombosciatalgia
al fondo schiena, lussazione del medio della mano sinistra. Beh, mi sembra che
per ora l’unica cosa rossa del Natale sia la croce.
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