domenica 23 dicembre 2012

Perché non si può non pensare - 23 dicembre 2012


Leggeteli: non è un consiglio, è un ordine. Ecco quindi, una prima raffica di saggi e buone letture, che mettono in moto le nostre rotelle. Con un elevatissimo mio indice di gradimento (raggiungono i 16/20 e non è poco). Su tutti, eletto anche mio miglior libro dell’anno, il saggio di Hillman sul carattere (da non perdere). E di livello superiore sia l’analisi delle migrazioni dovuta all’ottima penna di Barbero che l’etica di vita che ci suggerisce Bauman. Ultimo, ma solo perché in un consesso molto alto, il libro sulla ricerca della propria identità del sempre a me caro franco-libanese Maalouf. Per me sono state tutte riflessioni sul modo di essere, sul (mio) modo di vivere. Riflessioni che spero condividerete con me (e non a caso piene di citazioni e rimandi).
Alessandro Barbero “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano” Laterza 10,50 (in realtà, scontato 7,87 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 11/08/2012 – T: 24/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 290; anno: 2006]
Veramente, ed ancora (ma non mi aspettavo di meno) un bel libro del nostro storico di riferimento (per la storia antica, naturalmente, che per il resto il professor Luciano è sempre in prima linea). Anche se difficile, e particolarmente puntato sulla disamina di alcuni meccanismi di nascita del fenomeno “barbari” cui bisogna entrare mentalmente, per non esserne buttati fuori alla prima curva. Tutto, nella mia testa, nasce comunque da quel momento epocale, come dice Barbero, del 9 agosto 378, e la famosa battaglia di Adrianopoli. E tutti i meccanismi, di livello macro, che portarono a quella battaglia, ed alla sconfitta dell’Imperatore Valente, ed alle sue conseguenze, sono già presenti e descritti nel libro ad Adrianopoli dedicato. Qui ci si focalizza su di un aspetto, che sicuramente è quello di base a tutta la vicenda presente e futura. E che soprattutto ci consente di fare quei paragoni con il presente, che in maniera molto chiara illuminano sia su quelle vicende che sulle nostre. La vicenda è legata allo spostamento dei barbari (cioè delle persone prive della cittadinanza romana) da un luogo all’altro, dentro e fuori l’Impero. Per sconfitte, per decisioni, per immigrazioni selvagge. Come dice il sottotitolo: immigrati, profughi e deportati. Mentre il primo era un bel pamphlet, anche un po’ ad effetto, qui si scava in profondità. Qui si comincia a vedere come si comporta Roma (cioè diremo oggi il “primo mondo”) fin dai tempi di Marco Aurelio, e poi via scorrendo negli anni, con quella turba di gente che preme ai confini, e con tutti quelli che vengono vinti e per questo “ricollocati” altrove. Barbero sapientemente, e con dovizia di particolari e di commenti, ripercorre l’andamento di questi spostamenti epocali di persone. Certo non può solo usare le categorie dello spettacolo (come fece in quella memorabile lectio brevis che tenne al Castello di Sarzana), va in profondo, si “addottora”. Ma alla fine il discorso è lineare, terribilmente lineare: guerre e mancanza di cibo, portano a spostare (volontariamente o meno) gente non romana (“barbari”), anche all’interno dell’Impero. Questo crea una situazione potenzialmente (e poi realmente) esplosiva. Verso i barbari non si riesce ad imbastire una politica d’integrazione prima e/o di contenimento dopo. Si cerca di utilizzare categorie vecchie (tipo l’inquadramento negli eserciti). Ma con l’andar del tempo questi mezzi non hanno la velocità di un tempo. Creano nuovi problemi. E porteranno alla deflagrazione. Prima nella famosa battaglia di cui sopra. Poi nelle conseguenze temporali di tutto ciò. Che porteranno, in poco tempo, alla dissoluzione dell’Impero d’Occidente. Il bello (e tragico) dello scritto, è che quest’analisi si può riportare ai giorni nostri (ed è questa la capacità interessante di Barbero). Per cui il terzo (e quarto) mondo si spinge sui territori della civilizzazione (uso con ironia il termine, ovviamente). E non avendo la capacità di proporre modelli di convivenza, qualcosa si logora e prima o poi scoppia. In un primo tempo, si utilizzano i barbari per quelle attività che i cittadini non hanno più interesse a praticare (agricoltura, esercito, e simili lavori di fatica). Poi questo non basta, che verso i barbari manca sempre il rispetto, pur nella possibile tolleranza. E non diciamo che vichianamente si ripercorrono cicli. Certo le prospettive sembrano terribili. Lì un mondo finì, e poi, ma con fatiche plurisecolari, altro ne nacque. chissà come sarà (potrà essere) qui, con i nostri barbari attuali (ed anche qui, uso la parola con molto rispetto). L'altro aspetto che sempre mi affascina delle parole di Barbero, e questo presentare sul proscenio nomi che suonano richiami di sirene: da un lato, i protagonisti politici (tutti quegli augusti imperatori d’Oriente e d’Occidente, Massimino, Valente, Valentiniano, Diocleziano, Teodosio, e via discorrendo tra Cesari, Augusti e Flavi), e dall'altro quei popoli avanzanti (Vandali, Eruli, Unni, Visigoti, Ostrogoti, Goti, Alemanni, Sarmati, ed altre complicanze). Ogni volta che ne leggo, voltando pagina, mi ritrovo a guardare la selva dove cavalcano i Burgundi, e i Vandali che salgono dalla Libia, ecc. ecc... In più, questa volta, il libro ha anche dovuto subire l’onta dell’onda atlantica, che l’ha sommerso lì tra le spiagge portoghesi dell’Algarve. Ma ne è uscito con rinnovato vigore, e lo si è letto e terminato con piacere (pur se sapete la mia idiosincrasia per i libri “rovinati”). Bravo Barbero, e bravi i barbari.
James Hillman “La forza del carattere” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato 10,20 euro)
[A: 21/01/2012 – I: 10/09/2012 – T: 21/09/2012]
[titolo: The Force of Character and the Lasting Life; lingua: inglese; pagine: 275; anno: 1999]
Bellissimo. Imperdibile. Soprattutto dopo i cinquanta anni. Non avevo ancora letto nulla dello psicanalista americano, ma Luciana me ne aveva parlato. Ho trovato questo, invece di quello suggerito, perché ho letto la prima riga della quarta e non sono potuto andare più indietro (“Invecchiare non è un mero processo fisiologico, è una forma d’arte”). Ed ora, a quasi un anno dalla scomparsa dell’autore, ne leggo, ne medito, e cerco di condividere. Impresa non facile, che la lettura ha innescato tutta una serie di pensieri, forse troppo estesi per una breve trama. In estrema sintesi (e come tutte le sintesi, quindi, molto rozzamente), Hillman sostiene ed argomenta un dato fondamentale: l’invecchiamento non è altro che un consolidamento del proprio carattere. Riconoscere questo è un ribaltare lo schema che vede il decadimento del fisico nell’ultima parte della vita come l’unica fotografia possibile. E se invece debolezze, dimenticanze ed altro non siano niente altro che un rilascio di scorie per tornare all’essenziale, a quello che abbiamo sin dalla nascita, che non potrà certo cambiare (Lowen docet), ma che mascheriamo ed armiamo di corazze protettive durante tutto il corso della vita. Intorno a tre concetti di base, Hillman sviluppa il suo ragionamento: durare, lasciare e restare. Nella prima parte (durare) esplora/descrive la longevità. Ma non dal punto di vista di chi vuole allungare la vita “artificiosamente”, direi quasi con accanimento terapeutico. Invece constatando che, per tutta una serie di motivazioni, la vita dura di più. In condizioni di normalità, è ben facile che si raggiunga e si superi l’età dei propri genitori, ed altro. Tuttavia questo durare non deve essere visto dal punto di vista biologico, ma da quello etico. Perché duriamo più a lungo? Cosa (ci) serve? Si gettano le basi del ragionamento: serve a finire il carattere abbozzato a partire dalla nascita. Si arriva quindi alla seconda tappa del ragionamento. Che la nostra fisiologia, e sarebbe bene assecondarla, ci impone/convince a lasciare scorie che appesantiscono il nostro cammino. Per concentrarci sull’essenziale, sulla definizione di quel nostro carattere che si va completando. Lasciamo quindi ricordi in sovrappiù, lasciamo la pacatezza, lasciamo (anche) parti del nostro corpo. E dobbiamo comprendere che quello che non lasciamo è quello che ci serve per essere. Mi verrebbe da dire per essere felici. Per essere coscienti dei propri limiti, quindi delle nostre intrinseche virtù. Che dobbiamo avere il coraggio (la forza) di lasciare agli altri. Mi ricordo sempre le immagini del mio primo gruppo di viaggio, cui io, già carico d’anni e d’avventure, raccontavo fatti ed avvenimenti dei miei viaggi. Li lasciavo a loro, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. Ma con la soddisfazione, ora, a distanza di anni, che qualcosa è germogliato da quel lascito. E ne sono contento, anche se non ne partecipo. Io, infatti, sono restato altrove. In un certo senso, per quei ragazzi, per quel gruppo, sono “morto”. Qui parte la terza e conclusiva tappa di Hillman. Pagine dolci e tremende su lasciare e restare, dall’intraducibile inglese “to left and to leave”. Con l’immagine della madre che, pur morta, resta nella nostra immagine con la forza del suo carattere. Durante tutta la nostra vita abbiamo preso (dagli altri, dal pianeta, da…), quando ci volgiamo verso la partenza, dobbiamo, con forza, restituirlo. Noi passiamo, il nostro carattere resta, negli altri e per gli altri. E non sto ad elencare qui i miei morti, e quello che mi hanno lasciato. Ma ognuno di noi può fare questo esame. Ed è questo il momento di farlo. Che, come dice Hillman, solo nel momento del completamento del carattere possiamo comprendere, e quindi analizzare, la nostra vita. Tutta. Nel mezzo di questo bellissimo discorso, c’è anche un altrettanto bel capitolo sulla faccia e le sue rughe, che lascio a voi scoprire. Perché non potete fare a meno di leggerlo. E di domandarvi, insieme a me, se c’è qualcuno che colloca “me stesso” nelle sue fantasie, come io colloco “altri” nelle mie. Questa l’immagine che mi lascia Hillman, e che vi (tra)mando.
“Gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il carattere.” (12)
“Mai, in nessuna cosa che scriviamo, ci possiamo liberare del nostro carattere.” (25)
“La capacità di intrattenere idee provandone piacere è sempre stata una delle giustificazioni del fatto di scrivere e di leggere libri e di tenerceli cari.” (29)
“Perché viviamo a lungo? … Anche ammettendo che biochimica e scienze affini eliminino il deterioramento e prolunghino la durata della vita, spiegare il ‘come’ non esaurisce il ‘perché?’” (44)
“[Scrive] Cicerone nel ‘De senectute’: i vecchi sono bisbetici, pieni di preoccupazioni, irascibili, difficili. Se andiamo a cercare, anche avari; questi però sono difetti del carattere, non della vecchiezza” (55)
“Di fronte all’ignoranza dei giovani che passa per innocenza … divento un vecchio bisbetico, crudele, meschino.” (91)
“La ripetizione fa andare d’accordo l’individuo molto vecchio e l’individuo molto giovane.” (109)
“Quando il corpo incomincia a diventare cascante, vuol dire che abbandona la mistificazione e l’ipocrisia. … Il corpo non mente.” (118)
“Il mio libro della vita ha perduto i numeri di pagina.” (127)
“La rassegna della [propria] vita è … la scrittura della nostra vita sotto forma di storie. E senza storie non c’è trama, non c’è comprensione, non c’è arte, non c’è carattere.” (143)
“Accettare la propria faccia = diventare più individualizzati = accettare la propria ascendenza.” (209)
”Quel che resta di noi dopo che ce ne siamo andati è il carattere.” (222)
“Le buone abitudini non possono impedire le brutte cadute.” (248)
“Il carattere sta agli anni della vecchiaia come la vocazione individuale sta agli anni giovanili; dà senso e scopo ai cambiamenti introdotti dall’invecchiamento. Il carattere è un’idea terapeutica.” (271)
“[Scrive] Yeats nella Preghiera per la vecchiaia: prego … di poter sembrare, anche se morirò vecchio, / Uno sciocco appassionato.” (274)
Zygmunt Bauman “L’arte della vita” Laterza euro 9 (in realtà, scontato 6,75 euro)
[A: 16/09/2012 – I: 27/09/2012 – T: 06/10/2012]
[titolo: The Art of Life; lingua: inglese; pagine: 169; anno: 2008]
Ottimo questo lavoro di Bauman, tra i suoi più recenti. Anche perché, pur non fornendo (come suo stile) soluzioni univoche, o comunque soluzioni, si cimenta con una materia alla fine della quale l’analisi che il nostro fa ci consente, in maniera non facile, ma ci consente, di arrivare a qualche conclusione nostra. Non siamo dalle parti ostiche dell’etica “tout court” dove Bauman analizza con cognizione e partecipazione, lo stato attuale del mondo, lasciandoci poi un po’ spaesati con la domanda sulla punta della lingua: e mo’ che si fa? Certo, anche qui l’analisi della tematica affrontata si colloca comunque all’interno della sua generale visione del mondo. Di quel mondo da lui definito “liquido”, dove, in contrapposizione alle visioni passate, “solide”, mancano punti di riferimento e ci si deve adattare, caso per caso, alle mutevoli condizioni esterne. E ci ripropone comunque quella visione che crudelmente ben si attaglia all’evolversi (al mutare) delle condizioni di vita: il passaggio dell’uomo dal primo collocarsi come guardiacaccia (evitiamo che altri invadano il nostro territorio), al guardiano (coltiviamo il nostro giardino), fino all’attuale cacciatore (andiamo alla conquista dell’altro, senza curarci se per farlo distruggiamo tutto quello che c’è). Ma qui l’accento è spostato sul modo di vita personale, su come noi interpretiamo il nostro cammino di vita, sulle scelte che facciamo. Sono quindi anche contento di averlo letto a poca distanza dal libro di Hillman sul carattere, cui secondo me, va apparentato nella lettura e nella riflessione. La tesi di fondo, è che tutti siamo “artisti” della nostra vita. Non ci sono schemi dati, preconcetti, cammini segnati. Certo, condizionamenti e quadri socio-temporali diversi ne fanno e danno immagini diverse. Ma ognuno fa delle scelte, pur minime, pur marginali. Queste scelte sono comunque ed in ogni caso personali. E permettono a noi stessi di diventare artefici del nostro cammino. Artisti, ci chiama il filosofo polacco. Perché vivere una vita (e dico ora, guardarla in prospettiva con la coscienza della maturità che ci viene dall’analisi del carattere di Hillman) è un lavoro artistico (da qui il citare e riferirsi al titolo del libro). Per percorrere questo concetto, molto semplicisticamente, a me rimane una direzione di interpretazione dello scritto di Bauman che mi si poggia su un punto di partenza ed una biforcazione d’arrivo, che cerco, con le mie personali capacità (non so se limitate o meno, ma comunque mie) di condividere. Il punto di partenza è la felicità: tutti vanno/debbono andare alla ricerca della, verso la. Felicità è una specie di balsamo cui curare tutte le malattie del fatale andare. Peccato che, nel nostro mondo liquido, questa ricerca, questa tensione ideale, sia andata sempre più stravolgendosi, tanto da porre tutta una serie di falsi obiettivi. Che promettono felicità, ma che non possono essere raggiunti, pena il crollo dell’impalcatura globale del mondo. Ci dicono: felicità è moda, cibo, viaggio, casa, ed altro ed altro. Ci dicono: ci vogliono soldi e soldi per conquistarla. Ma ad ogni conquista, la mira si sposta un gradino più avanti. Sempre più velocemente. In modo che la nostra vita è sempre tesa verso, ma non raggiungerà mai quella che ci viene dipinta come “felice”. Su questo quadro di fondo, cosa può fare l’artista della vita per fare quelle scelte di cui poco sopra? Qui arriviamo alla biforcazione finale. Abbiamo, infatti, davanti due scelte, estreme, l’una centripeta, l’altra centrifuga, che negli ultimi cento anni ci sono state offerte come fondanti e risolventi. Estremizzando, da un lato la spinta centripeta di una scelta verso il sé, idealizzata nel “Superuomo” di Nietzsche. Solo IO sono importante, solo IO so quale è la verità e la morale. E per il mio benessere, l’importante è che stia bene IO, e a fondo tutto il resto. Dall’altra, la spinta centrifuga, idealizzata dal dedicarsi agli altri e ben descritta dal pensiero del filosofo Lévinas. Solo gli altri sono importanti. Solo dedicando me stesso all’esterno verso di loro, potrò essere me stesso, potrò realizzare le mie scelte morali. Bauman si ferma qui. Io, nella mia morale, propongo il passo successivo: non una convergenza delle due forze, ma un tentativo di riconciliazione. Pensiamo a cosa ci fa stare bene (il nostro personale cammino alla felicità) e cerchiamo di attuarlo INSIEME all’altro, al nostro fratello. Pensando a me ed all’altro come ad un NOI, che sia perseguibile (non penso né mi illudo più dell’esistenza di una possibile morale comunarda del raggiungimento della felicità se tutti siamo felici). Beh, mi sembra abbastanza stimolante, per poterci riflettere un po’.
“Nessuna società può privare gli uomini della facoltà di scegliere.” (35)
“Blaise Pascal: tutta l’infelicità degli uomini… deriva … dal non sapere starsene in pace, in una camera.” (47)
“Non dobbiamo radicarci o sradicarci, … ma gettare e issare le ancore. … Le radici, quando vengono divelte dalla terra in cui sono cresciute, generalmente si seccano, uccidendo la pianta che nutrivano, il cui rifiorire avrebbe quindi un che di miracoloso; al contrario le ancore vengono issate solo per essere gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in molti porti diversi. Inoltre, le radici progettano e predeterminano la forma che dovrà assumere la pianta che si svilupperà da esse, ed escludono la possibilità di ogni altra forma. Le ancore sono invece soltanto attrezzature che servono a fissarsi a un luogo in modo dichiaratamente temporaneo o a staccarsene, e non definiscono in alcun modo le caratteristiche e le qualità della nave. Il lasso di tempo che separa l’atto di gettare un’ancora da quello di issarla nuovamente non è che una fase nell’itinerario della nave. La scelta del prossimo porto in cui gettare l’ancora dipenderà molto probabilmente dal tipo di carico che in quel momento è sulla nave; un porto adatto a un tipo di carico potrebbe essere totalmente inadatto ad un altro.” (106)
“Il fato e le sue unità di guerriglia – gli incidenti – determinano il quadro delle scelte che si pongono agli artisti della vita. Ma è il carattere a decidere le scelte di questi ultimi.” (132)
“L’incertezza è il terreno proprio della persona morale, l’unico suolo in cui la moralità può germogliare e fiorire.” (136)
“[L’amore] richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolarne la felicità.” (168)
“John Stuart Mill: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo.” (169)
Amin Maalouf « Les Identités meurtrières » Livre de Poche euro 5,05
[A: 02/02/2012 – I: 07/10/2012 – T: 12/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 189; anno 1998]
Sebbene in lingua, per il tema trattato, penso lo accosterò ad altri libri che si incentrano su problematiche sociali. Inoltre, al di là del contenuto, ha anche una valenza di contesto, che è un libro scritto 15 anni fa circa. Prima dell’11 settembre. E ci sono parti che fanno riflettere su come, poi, ci si sia arrivati a fratture che andavano sanate e/o affrontate prima. Intanto, facciamo comunque qualche inno di gioia verso l’autore ed il suo contesto. Cui sono affezionato, in quanto libanese arabo-francofono. Ne parlai a valle della lettura di un altro suo saggio, quell’autobiografia sulle sue origini, sulle sue radici, e non ci torno. Anche se la specificità libanese qui è citata, delineata, ed usata come paradigma di una soluzione possibile che poi è miseramente fallita nei fatti. Amin ci parla di identità, ci invita a riflettere quale sia il sentimento identitario che ognuno di noi si porta appresso e dentro. Sentimento che lo definisce e ci definisce anche nei confronti dell’altro. Ed è una definizione che, se mal usata, o travisata, non può che portar danno. Non può che rivelarsi, come ci suggerisce il titolo, un’identità letale. Il percorso del suo ragionamento è discretamente lineare. Si parte dalle cose che, comunemente, concordemente, oserei dire universalmente definiscono la nostra identità: razza, lingua, religione, e così via. In generale, appartenenza. E qui la lista si allunga ed allarga (nazione, regione, partito, …). Il problema è che quando una di queste definizioni è messa in pericolo (à attaccata da qualcosa), c’è una chiusura da entrambe le parti: di chi attacca e di chi è attaccato. Questo è l’inizio di un percorso inarrestabile della costruzione di queste identità “letali” di cui sopra. Un percorso inarrestabile, che passo dopo passo non può che portarci alla rovina reciproca. Come fermarci prima? Come accettare la reciproca diversità in un ambito di rispetto reciproco? Maalouf fa anche l’esempio libanese, certo eponimo di un ragionare “politically correct”. Viste le divisioni tra maroniti, mussulmani, drusi e compagnia, i posti pubblici, ad esempio, come quelli per il Parlamento, vengono divisi in proporzione alla religione ed alle etnie. Ma a questo punto l’idea della rappresentanza globale, rispettante le diversità del paese, viene stravolta dal fatto che non ci si basa più sulle capacità delle persone, ma sulla loro identità. Portando avanti a volte, poi sempre più spesso, persone che non sono in grado di gestire il potere affidato loro. E questo non può che precipitarci nei baratri dell’odio reciproco. Maalouf scrive 3 anni prima delle Torri Gemelle, e leggere le sue analisi, i suoi avvertimenti, sembra di sentire, come dicevano gli antichi “vox clamans in deserto”. Quante voci si levarono per avvertire dei pericoli della radicalizzazione dei sentimenti identitari? E quante ne furono ascoltate? Certo, il mondo e la morale cambiano. E il modo di vivere di quasi tutti i cattolici oggi, ad esempio, sarebbe stato condannato come eresia cinquecento anni fa. Ma dovremmo forse aspettare altri cinquecento anni per poter vivere in pace tra tutti? Magari collaborando insieme per gli sfruttati, per i poveri, per gli affamati? Accogliendo i migranti, come altri accolsero i nostri. E magari, in fondo, trovando la possibilità di sviluppare i paesi poveri, non sfruttando manodopera a basso costo, ma installando centri di miglioramento lì dove c’è cosiddetta “arretratezza”. E la metto tra virgolette, che arretratezza per alcuni, è uno stare in modo diverso per altri. Non è arretrato chi è senza televisione. È arretrato chi opprime l’altro in nome di una sua identità che deve imporre. Non ci sarà mai serenità senza accettazione. E non parlo di tolleranza, termine che non mi torna mai piacevole. Finiamo con una nota quasi profetica. Già dieci anni prima di Obama, Maalouf ipotizzava che ci potesse essere un presidente di colore. Speriamo di continuare ad avere la possibilità di confidare nelle persone per quello che fanno, non per le identità che rappresentano.
« Plus vous vous imprégnez de la culture du pays d’accueil, plus vous pourrez l’imprégner de la votre … [mais aussi] … Plus un immigré sentira sa culture d’origine respectée, plus il s’ouvrira à la culture du pays d’accueil. » [Più assorbirete la cultura del paese ospitante, più potrete mescolarla con la vostra … [ed anche] … Più un immigrato sentirà la sua cultura rispettata, più si aprirà alla cultura del paese ospitante.] (51)
“Le droit de critiquer l’autre se gagne, se mérite.” [Il diritto di criticare l'altro va guadagnato, va meritato.] (53)
« La tolérance ne me satisfait pas. Je n’ai pas envie d’être toléré, j’exige que l’on me considère comme un citoyen à part entière quelles que soient mes croyances. » [La tolleranza non mi soddisfa. Non voglio essere tollerato, esigo di essere considerato un cittadino a tutto tondo, indipendentemente dalle mie convinzioni.] (68)
« Je ne suis pas de leur religion … mais je suis homme aussi, et l’on doit me traiter humainement. » [Io non sono della loro religione ... ma sono tuttavia un essere umano e devo essere trattato come tale.] (90)
« Je voudrais que chaque tradition culinaire, qu’elle vienne du Sichuan, d’Alep, de la Champagne, des Pouilles, de Hanovre ou de Milwaukee, puisse s’apprécier dans le monde entier. » [Vorrei che ogni tradizione culinaria, che sia originaria del Sichuan, di Aleppo, della Champagne, della Puglia, di Hannover o di Milwaukee, possa essere apprezzata in tutto il mondo.] (126)
« Et rien n’interdit de penser qu’un jour, un Noir serait élu président des Etats-Unis. » [E non vi è alcuna ragione per cui un giorno, un uomo di colore non possa essere eletto Presidente degli Stati Uniti.] (179)
Come solo i più informati sanno (e sono veramente un numero ad ora esiguo) il 31 dicembre termina la mia avventura lavorativa di questo anno, ben tuttavia pesante. Ed allora si ricominciano altre avventure ed altre organizzazioni. Viaggi, ancora senza meta, ma sicuramente in movimento. E presto…

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