Leggeteli: non è un consiglio, è
un ordine. Ecco quindi, una prima raffica di saggi e buone letture, che mettono
in moto le nostre rotelle. Con un elevatissimo mio indice di gradimento (raggiungono
i 16/20 e non è poco). Su tutti, eletto anche mio miglior libro dell’anno, il
saggio di Hillman sul carattere (da non perdere). E di livello superiore sia
l’analisi delle migrazioni dovuta all’ottima penna di Barbero che l’etica di vita
che ci suggerisce Bauman. Ultimo, ma solo perché in un consesso molto alto, il
libro sulla ricerca della propria identità del sempre a me caro franco-libanese
Maalouf. Per me sono state tutte riflessioni sul modo di essere, sul (mio) modo
di vivere. Riflessioni che spero condividerete con me (e non a caso piene di
citazioni e rimandi).
Alessandro Barbero “Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero
romano” Laterza 10,50 (in realtà, scontato 7,87 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 11/08/2012 – T: 24/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 290;
anno: 2006]
Veramente, ed ancora (ma non mi
aspettavo di meno) un bel libro del nostro storico di riferimento (per la
storia antica, naturalmente, che per il resto il professor Luciano è sempre in
prima linea). Anche se difficile, e particolarmente puntato sulla disamina di
alcuni meccanismi di nascita del fenomeno “barbari” cui bisogna entrare
mentalmente, per non esserne buttati fuori alla prima curva. Tutto, nella mia
testa, nasce comunque da quel momento epocale, come dice Barbero, del 9 agosto
378, e la famosa battaglia di Adrianopoli. E tutti i meccanismi, di livello
macro, che portarono a quella battaglia, ed alla sconfitta dell’Imperatore
Valente, ed alle sue conseguenze, sono già presenti e descritti nel libro ad
Adrianopoli dedicato. Qui ci si focalizza su di un aspetto, che sicuramente è
quello di base a tutta la vicenda presente e futura. E che soprattutto ci
consente di fare quei paragoni con il presente, che in maniera molto chiara
illuminano sia su quelle vicende che sulle nostre. La vicenda è legata allo
spostamento dei barbari (cioè delle persone prive della cittadinanza romana) da
un luogo all’altro, dentro e fuori l’Impero. Per sconfitte, per decisioni, per
immigrazioni selvagge. Come dice il sottotitolo: immigrati, profughi e
deportati. Mentre il primo era un bel pamphlet, anche un po’ ad effetto, qui si
scava in profondità. Qui si comincia a vedere come si comporta Roma (cioè
diremo oggi il “primo mondo”) fin dai tempi di Marco Aurelio, e poi via
scorrendo negli anni, con quella turba di gente che preme ai confini, e con
tutti quelli che vengono vinti e per questo “ricollocati” altrove. Barbero sapientemente, e con dovizia di particolari e di
commenti, ripercorre l’andamento di questi spostamenti epocali di persone.
Certo non può solo usare le categorie dello spettacolo (come fece in quella
memorabile lectio brevis che tenne al Castello di Sarzana), va in profondo, si
“addottora”. Ma alla fine il discorso è lineare, terribilmente lineare: guerre
e mancanza di cibo, portano a spostare (volontariamente o meno) gente non romana
(“barbari”), anche all’interno dell’Impero. Questo crea una situazione
potenzialmente (e poi realmente) esplosiva. Verso i barbari non si riesce ad
imbastire una politica d’integrazione prima e/o di contenimento dopo. Si cerca
di utilizzare categorie vecchie (tipo l’inquadramento negli eserciti). Ma con
l’andar del tempo questi mezzi non hanno la velocità di un tempo. Creano nuovi
problemi. E porteranno alla deflagrazione. Prima nella famosa battaglia di cui
sopra. Poi nelle conseguenze temporali di tutto ciò. Che porteranno, in poco
tempo, alla dissoluzione dell’Impero d’Occidente. Il bello (e tragico) dello
scritto, è che quest’analisi si può riportare ai giorni nostri (ed è questa la
capacità interessante di Barbero). Per cui il terzo (e quarto) mondo si spinge
sui territori della civilizzazione (uso con ironia il termine, ovviamente). E
non avendo la capacità di proporre modelli di convivenza, qualcosa si logora e
prima o poi scoppia. In un primo tempo, si utilizzano i barbari per quelle
attività che i cittadini non hanno più interesse a praticare (agricoltura,
esercito, e simili lavori di fatica). Poi questo non basta, che verso i barbari
manca sempre il rispetto, pur nella possibile tolleranza. E non diciamo che
vichianamente si ripercorrono cicli. Certo le prospettive sembrano terribili.
Lì un mondo finì, e poi, ma con fatiche plurisecolari, altro ne nacque. chissà
come sarà (potrà essere) qui, con i nostri barbari attuali (ed anche qui, uso
la parola con molto rispetto). L'altro aspetto che sempre mi affascina delle
parole di Barbero, e questo presentare sul proscenio nomi che suonano richiami
di sirene: da un lato, i protagonisti politici (tutti quegli augusti imperatori
d’Oriente e d’Occidente, Massimino, Valente, Valentiniano, Diocleziano,
Teodosio, e via discorrendo tra Cesari, Augusti e Flavi), e dall'altro quei
popoli avanzanti (Vandali, Eruli, Unni, Visigoti, Ostrogoti, Goti, Alemanni,
Sarmati, ed altre complicanze). Ogni volta che ne leggo, voltando pagina, mi
ritrovo a guardare la selva dove cavalcano i Burgundi, e i Vandali che salgono
dalla Libia, ecc. ecc... In più, questa volta, il libro ha anche dovuto subire
l’onta dell’onda atlantica, che l’ha sommerso lì tra le spiagge portoghesi
dell’Algarve. Ma ne è uscito con rinnovato vigore, e lo si è letto e terminato
con piacere (pur se sapete la mia idiosincrasia per i libri “rovinati”). Bravo
Barbero, e bravi i barbari.
James Hillman “La forza del carattere” Adelphi euro 12 (in realtà,
scontato 10,20 euro)
[A: 21/01/2012 – I:
10/09/2012 – T: 21/09/2012]
[titolo: The Force of Character and the Lasting Life; lingua: inglese; pagine: 275; anno: 1999]
Bellissimo. Imperdibile.
Soprattutto dopo i cinquanta anni. Non avevo ancora letto nulla dello psicanalista
americano, ma Luciana me ne aveva parlato. Ho trovato questo, invece di quello
suggerito, perché ho letto la prima riga della quarta e non sono potuto andare
più indietro (“Invecchiare non è un mero processo fisiologico, è una forma
d’arte”). Ed ora, a quasi un anno dalla scomparsa dell’autore, ne leggo, ne
medito, e cerco di condividere. Impresa non facile, che la lettura ha innescato
tutta una serie di pensieri, forse troppo estesi per una breve trama. In
estrema sintesi (e come tutte le sintesi, quindi, molto rozzamente), Hillman
sostiene ed argomenta un dato fondamentale: l’invecchiamento non è altro che un
consolidamento del proprio carattere. Riconoscere questo è un ribaltare lo
schema che vede il decadimento del fisico nell’ultima parte della vita come
l’unica fotografia possibile. E se invece debolezze, dimenticanze ed altro non
siano niente altro che un rilascio di scorie per tornare all’essenziale, a
quello che abbiamo sin dalla nascita, che non potrà certo cambiare (Lowen
docet), ma che mascheriamo ed armiamo di corazze protettive durante tutto il corso
della vita. Intorno a tre concetti di base, Hillman sviluppa il suo
ragionamento: durare, lasciare e restare. Nella prima parte (durare)
esplora/descrive la longevità. Ma non dal punto di vista di chi vuole allungare
la vita “artificiosamente”, direi quasi con accanimento terapeutico. Invece
constatando che, per tutta una serie di motivazioni, la vita dura di più. In
condizioni di normalità, è ben facile che si raggiunga e si superi l’età dei
propri genitori, ed altro. Tuttavia questo durare non deve essere visto dal
punto di vista biologico, ma da quello etico. Perché duriamo più a lungo? Cosa
(ci) serve? Si gettano le basi del ragionamento: serve a finire il carattere abbozzato
a partire dalla nascita. Si arriva quindi alla seconda tappa del ragionamento.
Che la nostra fisiologia, e sarebbe bene assecondarla, ci impone/convince a
lasciare scorie che appesantiscono il nostro cammino. Per concentrarci
sull’essenziale, sulla definizione di quel nostro carattere che si va
completando. Lasciamo quindi ricordi in sovrappiù, lasciamo la pacatezza,
lasciamo (anche) parti del nostro corpo. E dobbiamo comprendere che quello che
non lasciamo è quello che ci serve per essere. Mi verrebbe da dire per essere
felici. Per essere coscienti dei propri limiti, quindi delle nostre intrinseche
virtù. Che dobbiamo avere il coraggio (la forza) di lasciare agli altri. Mi
ricordo sempre le immagini del mio primo gruppo di viaggio, cui io, già carico
d’anni e d’avventure, raccontavo fatti ed avvenimenti dei miei viaggi. Li lasciavo
a loro, senza la pretesa di insegnare niente a nessuno. Ma con la
soddisfazione, ora, a distanza di anni, che qualcosa è germogliato da quel
lascito. E ne sono contento, anche se non ne partecipo. Io, infatti, sono
restato altrove. In un certo senso, per quei ragazzi, per quel gruppo, sono
“morto”. Qui parte la terza e conclusiva tappa di Hillman. Pagine dolci e
tremende su lasciare e restare, dall’intraducibile inglese “to left and to leave”.
Con l’immagine della madre che, pur morta, resta nella nostra immagine con la
forza del suo carattere. Durante tutta la nostra vita abbiamo preso (dagli
altri, dal pianeta, da…), quando ci volgiamo verso la partenza, dobbiamo, con
forza, restituirlo. Noi passiamo, il nostro carattere resta, negli altri e per
gli altri. E non sto ad elencare qui i miei morti, e quello che mi hanno
lasciato. Ma ognuno di noi può fare questo esame. Ed è questo il momento di
farlo. Che, come dice Hillman, solo nel momento del completamento del carattere
possiamo comprendere, e quindi analizzare, la nostra vita. Tutta. Nel mezzo di
questo bellissimo discorso, c’è anche un altrettanto bel capitolo sulla faccia
e le sue rughe, che lascio a voi scoprire. Perché non potete fare a meno di
leggerlo. E di domandarvi, insieme a me, se c’è qualcuno che colloca “me
stesso” nelle sue fantasie, come io colloco “altri” nelle mie. Questa
l’immagine che mi lascia Hillman, e che vi (tra)mando.
“Gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il
carattere.” (12)
“Mai, in nessuna cosa che scriviamo, ci possiamo liberare del nostro
carattere.” (25)
“La capacità di intrattenere idee provandone piacere è sempre stata una
delle giustificazioni del fatto di scrivere e di leggere libri e di tenerceli
cari.” (29)
“Perché viviamo a lungo? … Anche ammettendo che biochimica e scienze
affini eliminino il deterioramento e prolunghino la durata della vita, spiegare
il ‘come’ non esaurisce il ‘perché?’” (44)
“[Scrive] Cicerone nel ‘De senectute’: i vecchi sono bisbetici, pieni
di preoccupazioni, irascibili, difficili. Se andiamo a cercare, anche avari;
questi però sono difetti del carattere, non della vecchiezza” (55)
“Di fronte all’ignoranza dei giovani che passa per innocenza … divento
un vecchio bisbetico, crudele, meschino.” (91)
“La ripetizione fa andare d’accordo l’individuo molto vecchio e
l’individuo molto giovane.” (109)
“Quando il corpo incomincia a diventare cascante, vuol dire che
abbandona la mistificazione e l’ipocrisia. … Il corpo non mente.” (118)
“Il mio libro della vita ha perduto i numeri di pagina.” (127)
“La rassegna della [propria] vita è … la scrittura della nostra vita
sotto forma di storie. E senza storie non c’è trama, non c’è comprensione, non
c’è arte, non c’è carattere.” (143)
“Accettare la propria faccia = diventare più individualizzati =
accettare la propria ascendenza.” (209)
”Quel che resta di noi dopo che ce ne siamo andati è il carattere.”
(222)
“Le buone abitudini non possono impedire le brutte cadute.” (248)
“Il carattere sta agli anni della vecchiaia come la vocazione individuale
sta agli anni giovanili; dà senso e scopo ai cambiamenti introdotti
dall’invecchiamento. Il carattere è un’idea terapeutica.” (271)
“[Scrive] Yeats nella Preghiera per la vecchiaia: prego … di poter
sembrare, anche se morirò vecchio, / Uno sciocco appassionato.” (274)
Zygmunt Bauman “L’arte della vita” Laterza euro 9 (in realtà, scontato
6,75 euro)
[A: 16/09/2012 – I: 27/09/2012 – T: 06/10/2012]
[titolo: The Art of Life; lingua: inglese; pagine: 169; anno: 2008]
Ottimo questo lavoro di Bauman,
tra i suoi più recenti. Anche perché, pur non fornendo (come suo stile)
soluzioni univoche, o comunque soluzioni, si cimenta con una materia alla fine
della quale l’analisi che il nostro fa ci consente, in maniera non facile, ma
ci consente, di arrivare a qualche conclusione nostra. Non siamo dalle parti
ostiche dell’etica “tout court” dove Bauman analizza con cognizione e
partecipazione, lo stato attuale del mondo, lasciandoci poi un po’ spaesati con
la domanda sulla punta della lingua: e mo’ che si fa? Certo, anche qui
l’analisi della tematica affrontata si colloca comunque all’interno della sua
generale visione del mondo. Di quel mondo da lui definito “liquido”, dove, in
contrapposizione alle visioni passate, “solide”, mancano punti di riferimento e
ci si deve adattare, caso per caso, alle mutevoli condizioni esterne. E ci
ripropone comunque quella visione che crudelmente ben si attaglia all’evolversi
(al mutare) delle condizioni di vita: il passaggio dell’uomo dal primo
collocarsi come guardiacaccia (evitiamo che altri invadano il nostro territorio),
al guardiano (coltiviamo il nostro giardino), fino all’attuale cacciatore
(andiamo alla conquista dell’altro, senza curarci se per farlo distruggiamo
tutto quello che c’è). Ma qui l’accento è spostato sul modo di vita personale,
su come noi interpretiamo il nostro cammino di vita, sulle scelte che facciamo.
Sono quindi anche contento di averlo letto a poca distanza dal libro di Hillman
sul carattere, cui secondo me, va apparentato nella lettura e nella
riflessione. La tesi di fondo, è che tutti siamo “artisti” della nostra vita.
Non ci sono schemi dati, preconcetti, cammini segnati. Certo, condizionamenti e
quadri socio-temporali diversi ne fanno e danno immagini diverse. Ma ognuno fa
delle scelte, pur minime, pur marginali. Queste scelte sono comunque ed in ogni
caso personali. E permettono a noi stessi di diventare artefici del nostro
cammino. Artisti, ci chiama il filosofo polacco. Perché vivere una vita (e dico
ora, guardarla in prospettiva con la coscienza della maturità che ci viene
dall’analisi del carattere di Hillman) è un lavoro artistico (da qui il citare
e riferirsi al titolo del libro). Per percorrere questo concetto, molto
semplicisticamente, a me rimane una direzione di interpretazione dello scritto
di Bauman che mi si poggia su un punto di partenza ed una biforcazione
d’arrivo, che cerco, con le mie personali capacità (non so se limitate o meno,
ma comunque mie) di condividere. Il punto di partenza è la felicità: tutti
vanno/debbono andare alla ricerca della, verso la. Felicità è una specie di
balsamo cui curare tutte le malattie del fatale andare. Peccato che, nel nostro
mondo liquido, questa ricerca, questa tensione ideale, sia andata sempre più
stravolgendosi, tanto da porre tutta una serie di falsi obiettivi. Che promettono
felicità, ma che non possono essere raggiunti, pena il crollo dell’impalcatura
globale del mondo. Ci dicono: felicità è moda, cibo, viaggio, casa, ed altro ed
altro. Ci dicono: ci vogliono soldi e soldi per conquistarla. Ma ad ogni conquista,
la mira si sposta un gradino più avanti. Sempre più velocemente. In modo che la
nostra vita è sempre tesa verso, ma non raggiungerà mai quella che ci viene
dipinta come “felice”. Su questo quadro di fondo, cosa può fare l’artista della
vita per fare quelle scelte di cui poco sopra? Qui arriviamo alla biforcazione
finale. Abbiamo, infatti, davanti due scelte, estreme, l’una centripeta,
l’altra centrifuga, che negli ultimi cento anni ci sono state offerte come
fondanti e risolventi. Estremizzando, da un lato la spinta centripeta di una
scelta verso il sé, idealizzata nel “Superuomo” di Nietzsche. Solo IO sono
importante, solo IO so quale è la verità e la morale. E per il mio benessere,
l’importante è che stia bene IO, e a fondo tutto il resto. Dall’altra, la
spinta centrifuga, idealizzata dal dedicarsi agli altri e ben descritta dal
pensiero del filosofo Lévinas. Solo gli altri sono importanti. Solo dedicando
me stesso all’esterno verso di loro, potrò essere me stesso, potrò realizzare
le mie scelte morali. Bauman si ferma qui. Io, nella mia morale, propongo il
passo successivo: non una convergenza delle due forze, ma un tentativo di riconciliazione.
Pensiamo a cosa ci fa stare bene (il nostro personale cammino alla felicità) e
cerchiamo di attuarlo INSIEME all’altro, al nostro fratello. Pensando a me ed
all’altro come ad un NOI, che sia perseguibile (non penso né mi illudo più
dell’esistenza di una possibile morale comunarda del raggiungimento della
felicità se tutti siamo felici). Beh, mi sembra abbastanza stimolante, per
poterci riflettere un po’.
“Nessuna società può privare gli uomini della facoltà di scegliere.”
(35)
“Blaise Pascal: tutta l’infelicità degli uomini… deriva … dal non
sapere starsene in pace, in una camera.” (47)
“Non dobbiamo radicarci o sradicarci, … ma gettare e issare le ancore.
… Le radici, quando vengono divelte dalla terra in cui sono cresciute,
generalmente si seccano, uccidendo la pianta che nutrivano, il cui rifiorire
avrebbe quindi un che di miracoloso; al contrario le ancore vengono issate solo
per essere gettate di nuovo, e altrettanto facilmente, in molti porti diversi.
Inoltre, le radici progettano e predeterminano la forma che dovrà assumere la
pianta che si svilupperà da esse, ed escludono la possibilità di ogni altra
forma. Le ancore sono invece soltanto attrezzature che servono a fissarsi a un
luogo in modo dichiaratamente temporaneo o a staccarsene, e non definiscono in
alcun modo le caratteristiche e le qualità della nave. Il lasso di tempo che
separa l’atto di gettare un’ancora da quello di issarla nuovamente non è che
una fase nell’itinerario della nave. La scelta del prossimo porto in cui
gettare l’ancora dipenderà molto probabilmente dal tipo di carico che in quel
momento è sulla nave; un porto adatto a un tipo di carico potrebbe essere
totalmente inadatto ad un altro.” (106)
“Il fato e le sue unità di guerriglia – gli incidenti – determinano il
quadro delle scelte che si pongono agli artisti della vita. Ma è il carattere a
decidere le scelte di questi ultimi.” (132)
“L’incertezza è il terreno proprio della persona morale, l’unico suolo
in cui la moralità può germogliare e fiorire.” (136)
“[L’amore] richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono
imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né
ostacolarne la felicità.” (168)
“John Stuart Mill: chiediti se sei felice e cesserai di esserlo.” (169)
Amin Maalouf « Les Identités
meurtrières » Livre de Poche euro 5,05
[A: 02/02/2012 – I:
07/10/2012 – T: 12/10/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 189;
anno 1998]
Sebbene
in lingua, per il tema trattato, penso lo accosterò ad altri libri che si
incentrano su problematiche sociali. Inoltre, al di là del contenuto, ha anche
una valenza di contesto, che è un libro scritto 15 anni fa circa. Prima dell’11
settembre. E ci sono parti che fanno riflettere su come, poi, ci si sia
arrivati a fratture che andavano sanate e/o affrontate prima. Intanto, facciamo
comunque qualche inno di gioia verso l’autore ed il suo contesto. Cui sono affezionato,
in quanto libanese arabo-francofono. Ne parlai a valle della lettura di un
altro suo saggio, quell’autobiografia sulle sue origini, sulle sue radici, e
non ci torno. Anche se la specificità libanese qui è citata, delineata, ed
usata come paradigma di una soluzione possibile che poi è miseramente fallita
nei fatti. Amin ci parla di identità, ci invita a riflettere quale sia il
sentimento identitario che ognuno di noi si porta appresso e dentro. Sentimento
che lo definisce e ci definisce anche nei confronti dell’altro. Ed è una
definizione che, se mal usata, o travisata, non può che portar danno. Non può
che rivelarsi, come ci suggerisce il titolo, un’identità letale. Il percorso
del suo ragionamento è discretamente lineare. Si parte dalle cose che,
comunemente, concordemente, oserei dire universalmente definiscono la nostra
identità: razza, lingua, religione, e così via. In generale, appartenenza. E
qui la lista si allunga ed allarga (nazione, regione, partito, …). Il problema
è che quando una di queste definizioni è messa in pericolo (à attaccata
da qualcosa), c’è una chiusura da entrambe le parti: di chi attacca e di chi è
attaccato. Questo è l’inizio di un percorso inarrestabile della costruzione di
queste identità “letali” di cui sopra. Un percorso inarrestabile, che passo
dopo passo non può che portarci alla rovina reciproca. Come fermarci prima?
Come accettare la reciproca diversità in un ambito di rispetto reciproco?
Maalouf fa anche l’esempio libanese, certo eponimo di un ragionare “politically
correct”. Viste le divisioni tra maroniti, mussulmani, drusi e compagnia, i
posti pubblici, ad esempio, come quelli per il Parlamento, vengono divisi in
proporzione alla religione ed alle etnie. Ma a questo punto l’idea della
rappresentanza globale, rispettante le diversità del paese, viene stravolta dal
fatto che non ci si basa più sulle capacità delle persone, ma sulla loro
identità. Portando avanti a volte, poi sempre più spesso, persone che non sono
in grado di gestire il potere affidato loro. E questo non può che precipitarci
nei baratri dell’odio reciproco. Maalouf scrive 3 anni prima delle Torri
Gemelle, e leggere le sue analisi, i suoi avvertimenti, sembra di sentire, come
dicevano gli antichi “vox clamans in deserto”. Quante voci si levarono per avvertire
dei pericoli della radicalizzazione dei sentimenti identitari? E quante ne
furono ascoltate? Certo, il mondo e la morale cambiano. E il modo di vivere di
quasi tutti i cattolici oggi, ad esempio, sarebbe stato condannato come eresia
cinquecento anni fa. Ma dovremmo forse aspettare altri cinquecento anni per
poter vivere in pace tra tutti? Magari collaborando insieme per gli sfruttati,
per i poveri, per gli affamati? Accogliendo i migranti, come altri accolsero i
nostri. E magari, in fondo, trovando la possibilità di sviluppare i paesi
poveri, non sfruttando manodopera a basso costo, ma installando centri di
miglioramento lì dove c’è cosiddetta “arretratezza”. E la metto tra virgolette,
che arretratezza per alcuni, è uno stare in modo diverso per altri. Non è
arretrato chi è senza televisione. È arretrato chi opprime l’altro in nome di
una sua identità che deve imporre. Non ci sarà mai serenità senza accettazione.
E non parlo di tolleranza, termine che non mi torna mai piacevole. Finiamo con
una nota quasi profetica. Già dieci anni prima di Obama, Maalouf ipotizzava che
ci potesse essere un presidente di colore. Speriamo di continuare ad avere la
possibilità di confidare nelle persone per quello che fanno, non per le
identità che rappresentano.
« Plus
vous vous imprégnez de la culture du pays d’accueil, plus vous pourrez
l’imprégner de la votre … [mais aussi] … Plus un immigré sentira sa culture
d’origine respectée, plus il s’ouvrira à la culture du pays d’accueil. » [Più
assorbirete la cultura del paese ospitante, più potrete mescolarla con la
vostra … [ed anche] … Più un immigrato sentirà la sua cultura rispettata, più
si aprirà alla cultura del paese ospitante.] (51)
“Le
droit de critiquer l’autre se gagne, se mérite.” [Il diritto di
criticare l'altro va guadagnato, va meritato.] (53)
« La
tolérance ne me satisfait pas. Je n’ai pas envie d’être toléré, j’exige que
l’on me considère comme un citoyen à part entière quelles que soient mes
croyances. » [La tolleranza non mi soddisfa. Non voglio essere tollerato,
esigo di essere considerato un cittadino a tutto tondo, indipendentemente dalle
mie convinzioni.] (68)
« Je
ne suis pas de leur religion … mais je suis homme aussi, et l’on doit me
traiter humainement. » [Io non sono della loro religione ... ma
sono tuttavia un essere umano e devo essere trattato come tale.] (90)
« Je
voudrais que chaque tradition culinaire, qu’elle vienne du Sichuan, d’Alep, de
la Champagne, des Pouilles, de Hanovre ou de Milwaukee, puisse s’apprécier dans
le monde entier. » [Vorrei che ogni tradizione culinaria, che sia
originaria del Sichuan, di Aleppo, della Champagne, della Puglia, di Hannover o
di Milwaukee, possa essere apprezzata in tutto il mondo.] (126)
« Et
rien n’interdit de penser qu’un jour, un Noir serait élu président des
Etats-Unis. » [E non vi è alcuna ragione per cui un giorno, un uomo
di colore non possa essere eletto Presidente degli Stati Uniti.] (179)
Come solo i più informati sanno
(e sono veramente un numero ad ora esiguo) il 31 dicembre termina la mia
avventura lavorativa di questo anno, ben tuttavia pesante. Ed allora si
ricominciano altre avventure ed altre organizzazioni. Viaggi, ancora senza
meta, ma sicuramente in movimento. E presto…
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