Vi avevo promesso saggi, e saggi
continuano, anche in questa giornata dal riposo obbligato. E saggi in tema, sia
chiaro, che servono a fluidificare il pensiero. E magari a scambiarsi altre
idee. Avevo cominciato con Carlo Maria Martini, una figura complessa che mi ha
sempre incuriosito approfondire. Ma poi è scoppiata la bellezza delle parole di
padre Arturo Paoli, cui rimando per brevità e chiarezza (e soprattutto a chi ha
pratica di deserti). Chiudono questo Natale due libri combattivi: un buon De
Luca su alcune figure femminili ed un libro che non mi è piaciuto di Paolo Flores.
Carlo Maria Martini “Il Discorso della Montagna” Mondadori euro 9,50
[A: 01/09/2012 – I: 10/09/2012 – T: 12/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 143;
anno: 2006]
Incuriosito
dalla figura del Cardinale Martini, ho trovato quest’occasione per
approfondirne un aspetto, che tocca anche altre curiosità ed interessi. Pur
conoscendone figura ed atteggiamenti, la cosa che più mi aveva colpito è stato
quel ritirarsi a Gerusalemme, dopo aver (nei fatti o forse solo nel mio
immaginario) rifiutato la possibile investitura papale. A motivo, credo,
dell’incipiente malattia. E nelle pieghe del pensiero, mi venivano immagini
della grande città, dei suoi grandi contrasti, e delle grandi sensazioni che
sempre ne ho avuto in questi venti anni passati dalla prima visita, e scanditi
da successivi e graditi ritorni. Ora che, come disse Giovanni Paolo II, “è
tornato tra le braccia del Padre”, mi sono incuriosito nel saperne di più.
Stimolato anche dall’interessante articolo di Vito Mancuso su “La Repubblica”
(e su alcune risposte nella rubrica di Augias) dove si stigmatizzava il
tentativo, precoce e solerte, di imbavagliare il pensiero del Cardinale in
questa o quella trama del mare tranquillo. Così come si fece, ma con più tempo
a disposizione, con Don Mazzolari, Don Milani, o il grande amico di mio padre,
Padre Turoldo. Ma non mi interessa (e sicuramente non sono in grado di) entrare
in queste querelle. Anche approfondendo il pensiero e gli scritti citati, non
sarei in grado di parlarne con bricioli d’interesse maggiori degli articoli stessi.
Mi sono invece imbattuto, casualmente certo, ma il caso è sempre frutto di una
qualche volontà, in uno scritto esegetico di un passo evangelico. Riportante
l’analisi che durante un ciclo di preghiere tenutosi poco tempo prima della morte,
il Cardinale essendo già tornato in Italia, svolgeva sul tema del “Discorso
della Montagna”. Il libricino è agile, ed anche ben congegnato. Inizia riproducendo
il testo del discorso, così come viene dal Vangelo di Marco. Poi le analisi che
ne fa il Cardinale. Chiudendo con alcune omelie successive al corso, ma ad esso
coeve. Per ovvi motivi di capacità, non sono comunque in grado di entrare nel
dettaglio delle cose dette, per confutarle, per approvarle, anche solo per
darne riporto critico e analitico. Posso dire solo le sensazioni che hanno suscitato,
andando a guardare, un poco defilato, la figura di un uomo, per altri versi
celebrato. Si parla delle tesi politiche del Cardinale, di prese di posizione,
caute ma ferme. Non so. Qui vorrei sottolineare una sensazione di calma e di
pace che esce dalle sue parole scritte, e che ne rallegra la lettura. Pur
affrontando un testo che viene considerato tra i più politici di tutti e
quattro i Vangeli, ne fa una disamina talmente lucida e calzante, che ce lo
presenta come testo vivo. Ne costruisce la genesi, notando come solo Marco ne
riporti l’integrale aspetto, ove in altri si rimandano solo cenni. Ci fa vedere
con poche e felici parole, l’uomo assiso sulle rive del Giordano, contornato dagli
Apostoli, la folla a digradare la collina. Uomo che non sta dettando Leggi, che
nella tradizione ebraica del tempo necessitano enfasi oratoria e portamento in
piedi. Sta sottolineando, per i suoi, per quelli che hanno varcato la soglia e
sono i suoi collaboratori nella costruzione del Regno, quali siano regole e
doveri. Chi bisogna guardare. Da cosa farsi scudo. Cosa temere. L’analisi
risulta forte e ben motivata. Sono i confratelli vicini che devono vigilare
affinché siano privilegiati i poveri, gli affamati, coloro che hanno sete di
giustizia. Una costruzione del discorso retoricamente stupenda, che Marco
costruisce anch’essa come una salita ed una discesa, ponendo al culmine del monte,
la preghiera cardine, il Padre Nostro. Il Cardinale Martini con poche parole e
ben lucide, ogni volta riesce a descrivere ciò che vuole dire, ed a farlo
capire. Sicuramente c’è ben altro, al di là della mia percezione e
comprensione. Tuttavia è questo che mi ha colpito, e mi ha fatto riflettere.
Una persona con una visione chiara e netta della sua vita e della sua missione.
Mi aspetto che anche altri suoi scritti, magari “più politici” abbiano la
stessa lucidità. Non ho interesse ora in questa direzione. Credo che le mie
domande abbiano avuto una loro risposta. Ed una loro collocazione. Ritengo
infine, che sia una lettura che distenda l’animo, permettendogli di affrontare
altre e più dure prove.
“Non c’è pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza perdono. E
aggiungo: non c’è perdono senza un po’ di amore del nemico.” (100)
“L’amore si dimostra … quando occorre superare un ostacolo.” (134)
Arturo Paoli “La pazienza del nulla” Chiarelettere euro 8
[A: 16/09/2012 – I: 18/09/2012 – T: 20/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 111;
anno: 2012]
Un
libro entrato in sordina nella mia biblioteca, guidato da due parole: il nulla
presente nel titolo, unito alla prima riga della quarta di copertina “Il
deserto è la cornice del nulla”. Attirano come una calamita, tant’è che l'ho
letto quasi subito. E subito si è imposto per altre qualità. Intanto quella
dell’autore, don Arturo Paoli, che non conoscevo, e cui rendo già omaggio nella
sua imminente festa: il 30 novembre di quest’anno compirà 100 anni. Una figura
strana di prelato, nato in quel di Lucca, laureatosi in lettere e, pare,
avviato alla carriera universitaria. Poi qualche accadimento privato (che non
so e che non ci interessa), unito alla frequentazione di quel retto uomo che fu
Giorgio La Pira, lo spingono verso il sacerdozio. Difficile, soprattutto nei
primi anni, poi nella guerra, dove a lungo si prodiga per salvare ebrei dalla
deportazione (tant’è che è stato insignito dell’onorificenza dei “Giusti di
Israele”). Poi Roma, l’Azione Cattolica, gli scontri con Gedda, e quindi
l’esilio verso missioni sudamericane. E sulla nave, l’incontro di svolta con
uno dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Già altrove parlai di questo
strano francese, prima tenente della guardia in missione marocchina, poi
convertito e dedicatosi alla meditazione, al ritiro in un eremo vicino a
Tamanrasset, e indi alla frequentazione ed all’aiuto verso gli algerini, e
soprattutto i nomadi del deserto. Don Paoli decide di entrare nei Piccoli
Fratelli. Vive la seconda metà degli anni Cinquanta in Algeria. Poi comincia a
fondare piccole comunità di Fratelli e Sorelle di de Foucauld, tornando in Sud
America. Argentina, Brasile ed infine Venezuela. Sempre dalla parte degli
umili, sempre perseguitato dalle dittature sudamericane. Infine novantenne,
ritornato nella lucchesia natia. Ho voluto parlare a lungo della sua figura,
che queste pagine ne sono intrise e non sarebbero comprese senza questo volto
che ci guarda dalle sue esperienze. Pagine di riflessioni, a volte lontane dal
mio sentire. A volte molto e molto vicine. Intanto per quell’affetto innato che
ho provato per i Piccoli Fratelli, quando andai a vedere l’ultimo eremo di de
Foucauld in Algeria. Lì, su quel picco a
2000 metri sopra il deserto. Quell’immagine, unite alle parole di don Paoli
hanno riportato alla mente (ed anche sulla pelle) quelle sensazioni che solo il
deserto dà, e solo chi ha vissuto il deserto può capire. Quel nulla pieno di
tutto, cui abbandonare la testa perché possa andare di pensiero in pensiero,
per ricollegarsi a sé, per tirar fuori motivazioni e voglie. Arturo Paoli
estende questo nulla, ad altri nulla ed altri pensieri (soprattutto argentini)
inizialmente un po’ fuorvianti per me. Ma la potente descrizione della figura
della sua amica Nelly, non credente piena di curiosità, di empatia, poi
“desaparacida”, rimane vibrante come grido di angoscia e di dolore verso tutta
un’epoca che ancora non ha finito di scavare il suo dolore. Infine quell’altra
immagine, quella delle carovane del deserto. Come non immedesimarsi nel
guardare i cammelli partire, e noi con loro. E quel cammello, sciolto dai
basti, che se ne va per le sabbie, solitario. Il beduino che lo lascia andare.
Cammello che a sera torna, si riavvicina, con il cammelliere che non lo sgrida ma
gli parla con voce calma. Bisogno di comunità. Che il giorno dopo, quel
cammello sarà il primo a cercare il carico. E un altro si allontana. Girando
nel cerchio della vita. Don Paoli mette tanto altro in questi suoi brevi
commentari, altro che un po’ riporto a guisa di commento esso stesso, un po’
lascio lì, non avendo, non sapendo, non potendo interpretarlo più a fondo. Alla
fine son ben contento di averlo letto, ed ora, a poca distanza dal commento sul
“Discorso della Montagna” fatto dal cardinale Martini. Libri di riflessioni.
Non al vertice massimo, che qua e là mi manca qualcosa, qualche sensazione. Ma
sicuramente un suggerimento di lettura e pensamento.
“Solo lì [nel deserto], lontanissimi dalla
mandria, si può rinascere come esseri coraggiosamente e personalmente
pensanti.” (VIII)
“Tutte le persone che hanno voluto
incontrare Dio veramente avevano sentito la necessità del deserto.” (5)
“Il deserto è il luogo dove non si è forzati
a scegliere, non c’è nulla da scegliere, perché lì solo il tempo avviene.” (21)
“L’uguaglianza è già tradita quando è dono
che viene dall’alto. … Gesù non ha predicato l’uguaglianza, si è fatto uguale.”
(43)
“Nelly … era capace di vivere la relazione
affettivamente senza possedere, cioè senza cercare di trattenere oltre il suo
limite, la gioia che ogni forma d’amore genera, e senza rifiutare la tristezza
che nasce quando l’amore ha superato il limite della gioia.” (47)
“Quando cade a pezzi il personaggio, non c’è
bisogno di cercare l’umiltà, basta essere veri.” (72)
“Posso fare a meno dell’amico, ma non posso fare
a meno dell’amicizia.” (74)
“Marx annotava nei suoi scritti giovanili
che non è affatto facile lasciarsi amare.” (75)
“In ogni amore – quando è vero e non è una
burla – deve potersi dire: ‘Se non ti avessi incontrato sarei vissuto lo
stesso, ma ora non posso più vivere senza di te.’” (93)
Erri De Luca “Le sante dello scandalo” Giuntina euro 8,50
[A: 18/10/2012 – I: 23/10/2012 – T: 23/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 60;
anno: 2011]
Questo sì un libro veloce, che si
legge in un giorno da metropolitana. Ed un libro che merita un giudizio
multiplo: per l’argomento, per lo svolgimento, per la scrittura. E non li ho
messi a caso, ma in ordine di giudizio e piacere decrescente. L’argomento
scelto è interessante e stimolante: presentare/narrare 5 figure femminili della
Bibbia, laddove il Libro non è che poi sia tanto pieno di rimarchevoli figure
del gentil sesso. E su di loro torneremo. Lo svolgimento, invece, comincia a
non essere altrettanto né dirompente, né accattivante. Una volta scelto il
tema, infatti, lo si svolge un po’ approssimativamente. Dei capitoletti
dedicati ad ognuna delle cinque donne, qualche passaggio dotto. Un elzeviro in
punta di penna nell’idea di dialogo tra Sant’Anna e Miriam, quasi un retaggio
dell’altro libro, quello tutto dedicato alla Madre. Forse se ne potevano trarre
spunti più articolati. Anche se piace la chiusa, che parla e si dedica ad
altro, e ve la lascio tutta da scoprire. Infine, la scrittura risente alquanto
del “deluchismo”. Quella tentazione di far sapere quanto si sa, con citazioni
linguisticamente corrette, ma altamente illeggibili. Certo, Erri è un fine
filologo, conoscitore (a quanto ne so) di ebraico et similia. E questa sua
conoscenza è giustamente posta a spiegare fatti e situazioni che acquistano
sensi altri, o più profondi o più intriganti, se ne seguiamo il percorso
evolutivo. Ma lo fa con quel distacco che lo rende ai miei occhi troppo narciso
per farmelo piacere. Qui dove avrebbe potuto essere scorrevole, si incarta
sulle parole. E per fortuna il libro è veramente breve, tanto da poter sopportare
questi passaggi narrativamente poco felici. Ma chi sono queste protagoniste?
Sono cinque, come detto. Riprendiamo allora le parole dello scrittore. La prima
si vestì da prostituta per offrirsi all’uomo desiderato. La seconda era
prostituta di mestiere e tradì il suo popolo. La terza si infilò di notte sotto
le coperte di un vedovo e si fece sposare. La quarta fu adultera, tradì il
marito che venne fatto uccidere dal suo amante. L’ultima restò incinta prima
delle nozze e il figlio non era dello sposo. Tutto nasce dall’elenco delle
generazioni che da Abramo portano a Ieshu/Gesù. Quarantadue, come le tappe che
portano gli ebrei dall’Egitto alla Terra Promessa. Ed in questo elenco,
declinato al maschile, queste sono le sole cinque donne che compaiono. Tamar la
Cananea, Rahav di Gerico, Rut la Moabita, Bat Sheva/Betsabea sposa prima di
Uria l’ittita e poi del re David, infine Miriam la madre di Ieshu/Gesù. E sono
interessanti le storie delle nostre cinque donne. Già sappiamo che, come linea
generale, la donna non è che fosse in cima ai pensieri ed alle azioni
dell’umanità in quei tempi. Serviva per lo più come riproduzione. Se poi avesse
cervello, non si sa, né sembra fosse importante. La prima novità della Bibbia è
stata anche quella di consentire ad alcune di queste donne di comparire
all’aperto (certo 5 su 42 non è una percentuale esaltante). Si vede inoltre
(purtroppo a volte si intuisce solo) che queste donne fanno delle scelte. Tamar
e Rut perseguono il loro fine di conquistare il posto che spetta loro, anche
travestendosi da donne perdute (unica alternativa per comparire come persona).
Rahav (o meglio Raab come siamo abituati a conoscerla) prostituta lo è già, ma
scegliendo la “vera religione”, fa un passo, decisivo, verso l’esterno del buco
nero cui si inghiottivano le donne (lo stesso che farà Miriam di Magdàla circa
1500 anni dopo). Betsabea è forse quella meno consapevole (sembra) che soggiace
alla passione del re David, e dopo peripezie ed inganni ed uccisioni, con lui
genererà Salomone/Shlomò (che in arabo si dice Solimano, omonimo califfo
dell’età tarda, autore di alcune delle più belle mosche turche). Non entro nel
merito delle parti dedicate da De Luca a Miriam la madre di Ieshu, cui il
nostro più di una pagina qui e altrove ha dedicato. Ripeto e chiudo: l’idea era
(è) buona, anche se forse andava meglio specificata sul perché della scelta di
tali “donne”. E non su altre (seppur poche)
che prima di Abramo, abbiamo Miriam la sorella di Mosè, ad esempio, ed
altre che più dotti di me sanno. Rimane l’ambivalenza di De Luca tra buone idee
e la sua forte personalità, che solo se tenuta a bada produce opere significative.
Paolo Flores D’Arcais “Gesù” Add editore euro 5 (in realtà, scontato
3,75 euro)
[A: 18/10/2012 – I: 24/10/2012 – T: 25/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127;
anno: 2011]
Pensavo decisamente meglio, anche
se le mie riserve preventive sull’autore già mi avevano frenato al momento dell’acquisto.
Perché ben conosco il buon Paolo, ed ho sempre pensato che fosse tropo
intellettuale per i miei gusti. Non che ci sia a priori niente di riprovevole,
ma, a volte, è il modo di esserlo che porta su strade a me veramente poco
consone. Sempre grandi destino dei fratelli, che invece ricordo ancora i modi e
gli scherzi con il di lui fratello Alberto. Ma torniamo, che si divaga.
Insomma, già dalla confezione e dal titolo mi ero storto. Perché notavo anche
nel sottotitolo (l’invenzione del Dio cristiano) un tentativo di colpire
qualcosa, di fare un libro di rottura, di demolire, ed altre intellettuali
costruzioni. Mi aspettavo invece un libro che fosse più rigorosamente
filologico. Certo, non mi aspettavo un conoscitore delle costruzioni
linguistiche alla De Luca, ma neanche un mero compilatore di tesi storiche,
tese ad accumularsi per sostenere la propria tesi. Mi aspettavo, ripeto, una
disamina del periodo storico, delle figure storiche, o comunque delle ipotesi
sulla storicità degli avvenimenti, anche se non pensavo potesse e/o riuscisse
ad entrare nel merito. Invece il nostro Flores parte in quarta sulla sua idea
(che a priori non è neanche peregrina) della figura di questo predicatore
ebreo, motore di vicende di una forza gigantesca, ma la cui forza si sarebbe
poi mostrata grazie ai suoi “discepoli”. Anche se, e qui si apre un bel
dibattito cui forse non sono ancora preparato, Flores indica con una buona
dovizia di particolari la scissione che si ebbe nella seconda metà del primo
secolo (scissione poi altamente mascherata) tra pietrini e paolini, tra coloro
che preferivano/perseguivano la diffusione della fede all’interno della
comunità ebraica (seguaci di Giacomo e Pietro), e coloro che spingevano per
espandersi maggiormente al di fuori in vece di tale comunità (seguaci di
Paolo). Ed elenca fonti e citazioni sul personaggio ebreo predicatore
itinerante, messo a morte dai Romani in un momento incerto poco dopo quello che
viene identificato con l’anno 30 d.C.. Ma la maggior parte degli sforzi
dell’autore è dedicata, nella prima parte, ad una diatriba alla lontana con il
Gesù del libro di Ratzinger, diatriba astiosa e di scarso costrutto. Che si
spiega leggendo le note in prefazione, dove appunto la prima parte apparve come
articolo proprio in quanto recensione del libro di Benedetto XVI. Poi continua
per altrettante pagine sempre con quell’aria da saputello: Gesù era ebreo e non
cristiano; Gesù non ha mai detto di essere il Messia; Gesù predicava la fine di
un mondo (quello fariseo dell’ebraismo allora imperante) e la venuta di qualche
altra cosa. Ma dette queste sentenze non le esplora, non entra nei dettagli. Si
tiene lontano dai discorsi sulla fede (ed è ovvio nonché corretto). Continuando
a rimestare tra le diatribe interne ai seguaci di Gesù. Insomma, alla fine, mi
trovo a parlarne poco, che poco dice, e poco convince. Non amo i proclami, da
qualsiasi parte vengano. E se mi dici qualcosa, mi devi anche convincere. Non
riesco a crederti solo per il tuo (supposto) carisma. Meglio tornare a
rileggere le ultime notizie di Ieshu scritte dal combattuto De Luca.
“La ricerca della verità storica può essere più forte dell’obbedienza
dogmatica.” (8)
Ed ancora c’è chi già parte, e
chi è partito, chi tra poco ritorna e chi è sempre presente anche quando non
c’è. Ed infine, sentendo vere e mie le parole di don Paoli sull’amicizia, non
posso che festeggiare gli amici che ci sono e quelli che ci saranno con un
augurio di buone feste, un abbraccio
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