sabato 8 dicembre 2012

Historyfiction - 09 dicembre 2012


Uso il termine inglese, che in italiano viene tradotto con l’altisonante “storiografia metanarrativa”, che uno lo legge e si impressiona. Elaborato teoricamente dalla canadese Linda Hutcehon, è la commistione tra storia e fatti forse inventati, ma altrettanto forse verosimili. Così spaziamo tra il passaggio dell’Angola dalla servitù bieca a tentativi di libertà (intorno al 1650), per poi saltare in India agli albori dei primi sentimenti libertari (duecento anni dopo, intorno al 1840), quindi un salto all’indietro prima in Spagna intorno al 1210 e poi a Venezia per tornare quasi al tempo iniziale (risaliamo infatti verso il 1590). Una bella scorrazzata nel tempo e nello spazio, anche se i risultati non sono tutti all’altezza (tipo il deludente Simoni).
Isabel Valadão “Loanda. Escravas, donas e senhoras” 11-17 euro 8
[A: 15/08/2012 – I: 22/08/2012 – T: 06/09/2012]
[tit. or.: originale; ling. or.: portoghese; pagine: 367; anno 2011]
Un buon libro, che ha prolungato nella mente e negli occhi il riposo portoghese di Agosto. Con alcuni indubbi meriti, ed anche con dei limiti, naturalmente. Intanto, scritto in modo molto piano, senza troppi fronzoli linguistici, anche ad un non conoscitore come me, ha consentito di leggere un libro in lingua. Da svariati anni non mi mettevo alla prova, ma l’approfondimento dello spagnolo, ed il fatto che il portoghese scritto non è complicato dalla difficile pronuncia, permette di leggere abbastanza agevolmente il libro. Certo non si comprendono tutte le parole, ma il senso scorre. Un po’ come leggere un libro di Camilleri in siciliano. Secondo punto a favore, avermi costretto all’immersione in una tematica che non conoscevo: la politica coloniale portoghese del XVI secolo, i conflitti con l’Olanda, e le interazioni luso-africane nella vita quotidiana della colonia. Che la storia si svolge essenzialmente in Angola, concentrata nei trenta anni centrali del secolo, dal 1630 al 1660. Il terzo, è l’uso di quello strumento letterario definito “storiografia metanarrativa”, su cui tornerò. I punti deboli, sono la leggerezza dei caratteri, non sempre ben delineati. L’attenzione di sfuggita agli attriti tra nativi e conquistadores. La decisione di convergere verso un finale un po’ troppo buonista, dove quasi tutto si raccorda. Il libro in sé, è ben diviso in due parti, anche se con qualche sovrapposizione temporale nel centro. Nella prima si seguono le vicende di Maria Ortega, una ex-schiava, affrancatasi, ma poi esiliata dall’Inquisizione in quanto “vicina all’eresia”, e rispedita nella natia Angola. Dove seguiamo il suo riscattarsi, passo dopo passo. La sua volontà di non cedere alle facili scorciatoie (tipicamente femminili, del tipo di usare il suo pur bel corpo) per ritrovare il suo stato di donna libera. La sbandata per il bel tenente Antonio. Ed infine, l’arrendersi all’amore del buon Sebastiano. E decidere di preferire la pace ad un’inutile e forse non vincente battaglia. Nella seconda invece, stiamo sulle orme di Dona Anna di São Miguel, all’inizio una giovane e dissoluta farfallona dedita a far strage di uomini (per quello che si può, essendo comunque una Dona del Seicento in Africa). Ne seguiamo i tristi matrimoni, dove i suoi sposi muoiono presto uno dopo l’altro, riuscendo solo ad arricchirne le fortune. Poi la sua storia si intreccia casualmente con quella di Maria, e si prosegue in tandem. Nella parte migliore, il rapporto d’amicizia profonda che nasce tra le due pur così distanti (l’una che nasce schiava, l’altra Dona). Ma (e qui esce il messaggio di Isabel come donna e conoscitrice dell’africa) l’essere “signore” le porterà al salvamento. Faranno fronte comune. Maria farà conoscere il bell’Antonio di cui sopra, che sarà il grande amore di Anna. Ma anche Antonio muore, ed Anna comincia una sua strenua lotta contro lo schiavismo. Trovandosi a fianco Maria. E Sebastiano. E Jaime che sempre l’amerà. E la figlia Anna Maria. Il finale è un po’ troppo consolatorio ed unificante di tutti i destini narrati. Ma ci può stare. Ci sarebbe invece da tornare su quel terzo punto, definito dalla sua teorica, la canadese Linda Hutcehon come appartenenti a quei romanzi “auto-riflessivi ma anche paradossalmente legati ad eventi e personaggi storici”. Non parliamo perciò di ucronie, utopie ed altre “invenzioni SUL reale”. Ma di connessione che sono nella trama degli eventi, che non vediamo, e che possono spiegare situazioni, in assenza di documenti certi. Come uno degli epigoni di questo filone, il Michael Ondatje de “Il paziente inglese”. Non parliamo, infatti, di romanzi basati sulla storia, del tipo di Adriano della Yourcenar o di Giuliano di Vidal. Siamo più dai lati, paradossalmente, di Marquez, di Borges, di Eco perfino. Ornando con i piedi per terra, diremo comunque che la Valadão è senz’altro leggibile, anche se qualche gradino più in basso. Ma mi rimane nel cuore, per quegli elementi di “saudade” citati all’inizio.
 Amitav Ghosh “Mare di papaveri” Beat euro 9 (in realtà, scontato 7,65 euro)
[A: 02/11/2011 – I: 18/09/2012 – T: 22/09/2012]
[titolo: Sea of Poppies; lingua: inglese; pagine: 507; anno: 2008]
Un bel volumone, a volte con qualche ripetizione, ma di gradevole (anche se non facile) lettura. E con qualche freccia al proprio arco, che mi fanno aumentare la già notevole ammirazione per lo scrittore indiano. Qui soprattutto per due fatti, incidenti sullo stesso tasto, ma di notevole interesse. Il primo è l’idea alla base del testo. Anzi dei testi, che questo dovrebbe essere il primo volume di una trilogia dedicata all’India (almeno così ho capito, e visto che sicuramente un secondo volume, intitolato “Fiume di oppio” dovrebbe essere uscito). Ed in un certo senso alla nascita di sentimenti ed avvenimenti (civili) che hanno alla fine portato all’India moderna. Questo primo volume si situa nel 1838, cioè 110 anni prima dell’indipendenza che, se non ricordo male, è dell’agosto 1948. Deve quindi tener conto: della dominazione inglese, dell’intrigo tra razza e religioni presenti, della presenza di altri stranieri (olandesi e cinesi in testa, ma anche francesi), del commercio alla base della nascita dell’economia indiana (e del motivo per cui era appetita dagli europei). Soprattutto quest’ultimo ha il suo interesse, ripreso dal titolo: papavero. È la coltivazione intensiva del papavero che fa appetire l’isola dallo straniero. E sopratutto per l’esportazione dei suoi derivati oppiacei verso il mercato cinese. Già quest’idea è bella e stimolante. Ghosh inoltre la rende facendo interagire i vari personaggi cercando di ricreare il miscuglio di lingue presente. Il bhojpuri (dialetto parlato in alcune zone indiane, nei dintorni di Delhi e nelle isole Mauritius), l’indostano (o hindu), la lingua dei lascari (i pirati-marinai del mare indiano), l’inglese degli inglesi e quello degli stranieri (e tutte le altre varianti di pidgin english esistenti). E qui bisogna innalzare un momento sia a Ghosh che ai suoi traduttori. Perché se ottima è la padronanza dello schekeraggio linguistico, altrettanto interessante è la felice traduzione di Nadotti & Gobetti, nonché (come rivelato in coda) le direttive di Ghosh ai traduttori del testo, affinché cerchino di riprodurre il senso di queste lingue, il rumore di fondo che questo brusio interraziale creava in India (ed anche nella testa degli indiani), senza cadere in facili virgolettature di parole astruse. Ed in effetti, l’operazione riesce, soprattutto nella parlata dei lascari (questi strani marinai dell’oriente), misto di scurrilità, cameratismo e padronanza dei termini navali. Mi ricorda un po’ i miei amici libici, che parlano solo arabo, ma conoscono tutti i nomi e i pezzi di ricambio delle jeep in italiano! Ma torniamo ai papaveri indiani. Il 1838, dove Ghosh situa l’azione, è anche un anno cruciale nella cronologia asiatica. I mandarini cinesi decidono di dare una sterzata al malaffare, e bandiscono per la prima volta il commercio dell’oppio, creando enormi difficoltà alle compagnie inglesi che, per sopravvivere, devono barcamenarsi anche con altri traffici. In particolare il trasporto di coolie verso destinazioni oltre oceaniche, in genere le isole Mauritius. In questo momento di crisi, si intrecciano e convergono sulla nave inglese Ibis i destini di varie persone che seguiamo lungo le appassionate pagine del nostro scrittore. C’è Zachary, partito mozzo e meticcio con la Ibis da Baltimora, che, per tutta una serie di fortune si ritrova ufficiale (anche se in seconda), meticcio tra i meticci, amico del capo dei lascari, l’ambiguo ladrone Singer Alì. Ed a Calcutta trova modo anche di invaghirsi di Paulette, orfana francese del botanico di corte, affiliata dalla famiglia inglese padrona della nave (e di molto oppio). C’è appunto Paulette, detta Putli, cresciuta dal padre e da una balia indiana insieme al fratello di latte Jodu, che si vede costretta a fuggire da Calcutta a fronte di avance poco convenienti del padrone inglese. C’è Jodu che sogna di diventare lascaro. C’è Neel Rahputi, rajà locale, che viene rovinato dall’indolenza e dalla cattiveria sempre dello stesso inglese (un po’ il cattivone universale), viene arrestato e condannato all’esilio, costretto alla vita priva di libertà, lui che mangiava da solo per non farsi contaminare il cibo. E soprattutto c’è lei, Deeti, vedova di un oppiomane, destinata al sacrificio rituale, salvata dal senza casta Kalua, con il quale comincia a vivere una vita felice ed errabonda. Ma gli strali della famiglia la raggiungono ovunque. Ed è costretta anche lei a fuggire dal suolo natio. Tutti (eccetto il padrone inglese) si ritrovano sulla goletta in rotta verso le Mauritius. E si intrecceranno le loro storie, con altre. Con vittorie, sconfitte, illusioni e disillusioni. Purtroppo li lasciamo prima che la saga finisca, che questa prima parte tratta del papavero, della sua coltivazione, dei derelitti, dell’emigrazione. Toccando tanti tasti senza la volontà di chiudere. Ed in effetti, le ultime pagine scorrono come un arrivederci al prossimo libro. Che bisognerà leggere per fare il tifo per i miei beniamini. Alla fine un libro non sempre bilanciato, per cui di un gradimento onesto (fatti salvi i punti sottolineati all’inizio). Ancora plausi a Ghosh, che mi è sempre piaciuto (da “Cromosoma Calcutta” a reportage sulla Cambogia post-khmer).
Marcello Simoni “Il mercante di libri maledetti” Newton Compton euro 9,90 (in realtà, scontato 8,85 euro)
[A: 31/01/2012 – I: 22/09/2012 – T: 24/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2011]
Una grossa delusione. D’altra parte continuo a fidarmi poco della mia avversione verso la Newton Compton, veicolante un’ennesima operazione editoriale a me poco congeniale. E stranamente, che da notizie e battage vari, sembrava il libro dell’onesto Marcello Simoni avere qualità nascoste. Campione di vendita grazie ai passaparola. Questo si diceva del libro. Tanto che sale ai primi posti delle vendite nella fine del 2011. E conseguentemente vince anche il Premio Bancarella 2012. Detto così, ci si dovrebbe trovare di fronte un prodotto agile ed avvincente. Ma ecco che la Newton decide di intervenire, con i suoi fucili spuntati. E via allora, paragoni con la rosa di Umberto Eco, i thriller medioevali, sette di filo-browniana memoria, ed altre nefandezze di marketing. Fosse rimasto nel solco del passaparola, forse lo avrei letto con meno attese. Apprezandone la facile lettura, ed anche il lavoro di ricerca sottostante. Che un po’ di storia si deve aver letto per mettere insieme un’ennesima “storiografia metanarrativa”. Sulla quale non torno, dopo averne parlato nel libro della Valadão. Ma quando si carica di aspettative qualcosa, forse si sta più attenti. E viene alle ossa la povertà del libro stesso. Trama esile, con qualche tentativo di thrilleraggio e di camuffamento. Ma talmente palese, che dopo i primi tre capitoli ed il prologo, già vi potevo delineare la storia, i protagonisti, le insidie, nonché lo scioglimento finale. Tutto ruota intorno alla figura di avventuriero di tal Ignazio da Toledo della casa Alvarez (primo tentativo metastorico fallito, che gli Alvarez de Toledo nascono come casata circa 250 anni dopo i fatti). In quegli inizi del secolo 1200 (l’azione si estende tra il 1203 e il 1218) non solo come al solito fiorivano alchimisti e negromanti. Ma anche la ricerca di (false) reliquie religiose (stupenda la vendita del mignolo di non so quale santo al mercato di Burgos). Ignazio è uno degli elementi di punta di questi traffici. Sodale con tal Viviano di Narbona, insieme tentano di vendere un libro dotato di poteri magici ad un arcivescovo di Colonia, il quale però si rivela capo di una setta di giustizieri teutonici (che però nacque dopo la morte di Federico II di Svevia intorno al 1250, quando l’azione del libro è già ben terminata). Da qui si dipartono le mille tracce che pervadono il pamphlettone. Viviano si ritira in convento, viene comunque scovato, pare muoia, per poi riapparire oltre 10 anni dopo cercando l’aiuto di Ignazio per capire i misteri del libro di cui sopra. Inventandosi tutta una trama di intrighi che sa d’operetta (e forse era meglio che rimaneva nelle pagine di Martin Mystere, un fumetto che trattò argomenti similari in un suo numero). Anche Ignazio fugge, trova le tracce di Viviano che lo reclama. Parte, insieme ad un francese, cataro, da lui salvato dai templari e ad un giovane di 15 anni (ah, le date) da lui preso in un convento nel Ravennate. Le tracce dall’Italia li portano sin a Santiago de Compostela, per poi tornare e sciogliersi definitivamente nella suggestiva Basilica di San Marco a Venezia. Oltre la parte cruenta, come tutte le opere para-impegnate, c’è anche il tentativo di creare crittogrammi ed altre diavolerie per poter arrivare al mistero del famoso libro. Ma sono tentativi enigmistici talmente astrusi, che fortunatamente Simoni li disvela nel giro di poche righe. Ignazio e il giovane Uberto arriveranno alla fine delle peripezie con la soluzione in tasca (quella prevista da pagina 38). Con i cattivi puniti. Ed altre amenità da fiction televisiva di secondo ordine. Ancora un po’ di degno lavoro su qualche colore locale. Mettiamoci dentro anche la morte (reale) di Simone IV di Monfort durante l’assedio di Tolosa nel 1218 (tanto per far vedere che si sa di storia, anche se si sottace che era un tentativo di riconquista, che i tolosani lo avevano cacciato poco prima). Insomma, un grande ed insoddisfacente zibaldone. Con altre perle interne, come il saluto da “vecchi conoscenti” tra Ignazio e l’abate Rainiero (a pagina 11). Per poi scoprire che il suddetto abate venne spostato nell’abbazia di cui sopra solo nel 2010, quando Ignazio vi era transitato nel 1203 (pagina 92). Scivoloni che si possono ammettere in un giovane di nuove pretese. Non in un libro acclamato e conclamato a chiare lettere con “Enigmatico come Il nome della rosa ed avvincente come I pilastri della terra”. Ma non diciamo stupidaggini. Se avessi potuto, gli darei un voto negativo. Tanto per ribadire che non sempre i passaparola passano informazioni buone per tutte. A volte si rischiano rumori di fondo. O castronerie da social network.
Alessandro Barbero “Gli occhi di Venezia” Mondadori s.p. (regalo di Rosa&Emilio)
[A: 13/05/2012 – I: 04/11/2012 – T: 08/11/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 425; anno: 2011]
Dopo aver letto le tre tipologie di scrittura dello storico Alessandro Barbero da Torino (anche se non ancora uscite nelle mie trame), riconosco che i racconti sono il suo modo espressivo minore. Saggi e romanzi hanno il respiro che si confà al suo modo di narrare. E non è un caso che questo romanzo si collochi in quell’ambito di “Historyfiction” di cui per primo lessi la genesi nel libro della portoghese Valadao. Qui c’è più fiction che storia, anche se la vicenda si svolge a Venezia durante il dogato di Pasquale Cicogna (presente in carne e corno ducale nella parte finale del libro). Così com’è presente il consigliere Morosini, non doge, ma fratello della futura “dogaressa” Morosina Morosini (fantasia di nomi ‘sti veneti!). O il buon Lorenzo Bernardo, realmente ambasciatore veneziano a Costantinopoli. Il  resto è finzione e ricostruzione. Che si svolge, come nucleo centrale, in Venezia e nelle sue colonie. E che quindi, come ci mostrano le due ottime cartine, possiamo seguire nel narrare e nel mappare. Quella delle carte è anche un’idea non male. Che una ci mostra Venezia ed i luoghi della vicenda in città. La casa di Zanetta. La casa di Donna Faustina. I Derelitti. Campo San Polo. Palazzo Bernardo. E l’altra ci mostra i viaggi per mare delle navi. La Loredana da Venezia a Creta passando per Corfù. L’Aquila Da Cipro alla Sicilia all’Albania fino a Cipro. La legazione veneta da Venezia a Costantinopoli lungo le coste dalmate e poi tagliando per la Grecia e Salonicco. Un aiuto a seguire appunto le vicende. Che ci ricordano inoltre che, tra un avvenimento e la sua conoscenza in altri luoghi, passavano mesi, in quegli anni intorno al 1585. Infatti, in quell’anno comincia la vicenda dei due sposi quasi novelli, Michele e Bianca. Poco più che diciassettenni (ci si sposava presto all’epoca). Lui carpentiere nell’impresa del padre. Lei lavandaia. Impresa del padre che viene fatta fallire dal nobile Lippomanno, per cui il padre si ribella, viene ucciso dalle guardie e Michele fugge senza avvertire nessuno sulla nave del nobile Loredan (che appunto dal nome del nobile, prende nome Loredana). Da qui seguiamo tutte le vicende della maturazione del giovane, legato ai remi delle navi. Le conoscenze con liberi e galeotti. Le angherie dei potenti. Le amicizie con i poveri e, soprattutto, con “gli altri” (ebrei, musulmani, e miscredenti vari). La scoperta di loschi traffici del Loredan, la fuga su di una barca corsara. Le peripezie fino alla fuga da Cipro ed all’avviarsi via terra verso Costantinopoli. Dall’altra vediamo in Venezia il decadere di Bianca nella miseria, il non voler cedere a far la vita vendendo il proprio corpo, all’andare a servizio in diverse case (con la pessima riuscita in quella di Donna Faustina), fino a ritrovarsi ai servigi dei nobili Bernardo. Ad aiutare il difficile parto di Donna Cecilia. Al benvolere della famiglia stessa, che la aiuta a togliere il bando al suo amato Michele. Che consente al nobile Bernardo di ottenere il posto di ambasciatore presso il Turco, al posto dell’attuale un po’ furfante. E che guarda caso è il Lippomanno di cui sopra. Le difficoltà di Michele a mostrare la sua innocenza, se non fosse per un colpo di fortuna (forse un po’ troppo veloce, ma già siamo sulle 400 pagine ed il lettore forse si sta stancando). Fatto che alla fine porta ordine in tutta la vicenda. Consente di sistemare i giusti al loro posto e condanna i malvagi a scontare le loro pene (e non vi dirà chi siano né quali siano). Lo scorrere della scrittura consente di arrivare con facilità alla fine del tomo pur voluminoso. E sopra ogni altra cosa, consente al nostro storico – scrittore di dilettarsi in alcuni quadri di vita vissuta, che tanto mi avevano coinvolto nelle sue fabulazioni vocali. La vita dei muratori. Le differenze nelle galere tra sudditi veneziani e sudditi genovesi. La vita al remo di galeotti e di liberti. E poi, salendo le scale sociali, quella dei patrizi a comando delle navi. Quella dei rettori delle sorti veneziane, sia il sommo capo, il Doge, sia la coorte di elementi che lo coadiuvano, ma che servono anche a mitigarne la troppa autorità, come il Consiglio dei Dieci. E poi la vita familiare dei patrizi in quel di Venezia. E ridiscendendo dal lato opposto, la vita dei servi di casa. Le cuoche, le sguattere, le lavandaie, e quant’altre mandano avanti la quotidiana della Repubblica. Insomma, ho gustato l’affresco, piacevolmente scorrendo la venezianità, nelle more di un novembre ancora solatio.
Capitando il dì di festa congiunto alla festività ero indeciso se tediarvi con una o due trame. Ha prevalso il buon senso, e ne mando una sola, alla metà della festa, piena anche di sorrisi, di buoni propositi, financo di speranze e perché no di auguri, personali e salutari che i tempi delle feste dovranno aspettare ancora un po’. Un forte abbraccio

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