domenica 8 luglio 2012

Ricordi e anteprime - 08 luglio 2012

Quattro libri italiani di tre autori per due tematiche, di molto estive: i ricordi e le anteprime. Ricordi che il caldo, lo staccar verso lidi quieti (almeno soggettivamente) favoriscono l’onda dei pensieri che tornano. Come in Abate e la sua Calabria. Come in Pascale e le sue donne. Come io che ripenso al fatto che ieri era un lontanissimo anniversario della mia partenza per le armi (noi del 7° 77). Anteprime di quello che potrebbe essere un racconto, un futuro, un momento che per ora anticipiamo nella testa. Come nei romanzi collegati di Baricco. Come nelle idee che mi hanno suscitato.
Carmine Abate “La festa del ritorno” Mondadori euro 9
[A: 17/05/2011 – I: 11/04/2012 – T: 12/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161; anno: 2004]
Mi fa sempre piacere ritornare a qualche scritto di questo scrittore calabrese. Soprattutto per quel suo essere calabrese di minoranza, cioè, come si dice, arbëreshe. Vale a dire appartenente a quella minoranza linguistica italo-albanese arroccata, per l’appunto, intorno a Piana degli Albanesi. Anche se Carmine è di Carfizzi. Ma sempre scrive di questa piccola enclave, e dei suoi problemi. Di minoranza. Di emigrazione. Di rapporti in fin dei conti, proprio per quel loro essere, come direbbe Enzo Bianchi, stranieri alle genti. Forse non è il suo miglior romanzo, che per me rimane “Tra due mari”, ma è piacevole da leggere, e nella sua scorrevolezza, in ogni caso, qualche zeppa di memoria la pone. E non è poco. Seppur la storia, come in pratica tutte le sue, è storia di crescita, di presa di coscienza, qui si gioca molto, in un sottofondo pieno di rumore, anche sul tema dell’emigrazione. Perché la Calabria è terra dura, già per gli italiani. Di più per questo piccolo popolo che a mala pena parla l’italiano. E dove c’è emigrazione, il momento più bello, più festoso, che può segnare nel profondo, è quello del ritorno. E su questo ritornello, Abate costruisce la storia parallela di Tullio e di suo figlio Marco. La vediamo con gli occhi del bimbo che seguiamo dagli otto ai dodici anni. Ma il racconto di Marco è intercalato dai racconti del padre Tullio e delle sue storie da emigrato in Francia. Ricostruiamo così, a ritroso, la vicenda a tutto tondo, di Tullio che cerca fortuna in Francia, dove trova il grande amore, la bella Morena, da cui ha la figlia Elisa. Ma poi Morena muore, e Tullio torna a casa per affidare la piccola alla nonna. E trova conforto con Francesca, con cui prova a mettere su un focolare. Ci riuscirà per qualche anno, ma alla nascita di Marco, i soldi non bastano e lui torna in Francia, dove vive 10 mesi l’anno, per poi tornare per il Natale in famiglia. E sono questi Natali che Marco aspetta con ansia. Prima con l’ansia incosciente del bimbetto, che aspetta il padre per i giocattoli nuovi. Poi con la febbre del bimbo che cresce, che sente la mancanza quotidiana della figura paterna. Che quando torna si va per boschi, si caccia, si gioca con la cagna Spertina (bel nome di setter). Perché intanto Marco cresce, va anche a scuola, ma non capisce perché si parla italiano. Fortuna lo aiuta la sorellastra grande. Quella che studia a Cosenza, quella che comincia ad avere amorazzi, e poi storie serie. Marco entra ed esce anche da queste storie, sempre con il fare da piccolo decenne, che vede ma non comprende tutto. Certo vede che Elisa si potrebbe cacciare nei guai. Certo vede di ammalarsi ed aspettare il ritorno salvifico del padre che questa volta non c’è. Si arriva quasi non dico al dramma, ma al momento che molti si interrogano. Elisa, dopo molte sbandate, sembra riprendere strade aduse. Marco rischia di esserne travolto, ma ne esce bene. E tra il prologo e l’epilogo assistiamo alla grande festa di Natale, con le fascine accese a scaldare il bambinello nella culla. Con la prima birra di Marco. E con il grande colloquio, quello che saltabeccando tra i capitoli, ci regala il rapporto tra padre e figlio. Non vi narro i perché ed i come. Leggeteli che sono di sana lettura. Vi rimando le sensazioni. Quella della festa del titolo, che Carmine uomo e non più scrittore organizza anche lui ogni anno a Carfizzi, che anche lui emigrò (in Germania e non in Francia) ed anche lui vive lontano, insegnando tedesco in Trentino. E quella del rapporto tra padre e figlio, narrato senza smancerie, ma tratteggiando, con tutta l’umanità possibile, due diversi caratteri. Che tuttavia, e qui sta il bello che mi commuove, parlano. Ahi quant'è bello pensare che ci siano, ci possono essere momenti di scambio. Ognuno, ed è ovvio, con la propria natura. Che non sarà mai uno scambio paritario tra due generazioni diverse. Ma come togliere colore alla bellezza di queste piccole confidenze! Ripeto, al solito chiudendo, non certo un grande libro, ma senza dubbio una nuova ed onesta lettura di uno scrittore italiano. Ringraziando anche per quelle frasi in arbëreshe, che non si capiscono, ma tratteggiano l’esistenza di tanti mondi a noi vicini e di cui, a volte, neanche ci accorgiamo.
“Volevo vivere in Francia per sempre. Mi piaceva la Francia. … Mi piaceva soprattutto Parigi.” (63)
Antonio Pascale “La manutenzione degli affetti” Einaudi euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 16/04/2012 – T: 20/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 179; anno: 2003-2006]
Questa è la seconda edizione del primo libro di racconti di Antonio Pascale, che avevo ben apprezzato in quel romanzo-autoreferente sulla città distratta. Seconda edizione che include tre racconti in più rispetto alla prima. Premesso che la forma racconto mi tiene sempre sulle spine, qui Pascale (soprattutto attraverso le tre aggiunte) utilizza una forma di racconto-rimando dove, a volte, i personaggi di un racconto si ripresentano in un altro, magari (o forse di proposito) accendendo dei lumi su alcuni passaggi del precedente. Un’operazione che mi rimanda un duplice sentimento. Da un lato, mi fa piacere ritrovare protagonisti di una storia, dove ogni volta, quando lascio un testo, dispiace che scompaiono dalla carta (anche se rimangono nella mente). Tuttavia, dall’altro dispiace (o limita il piacere) perché nuove parole tolgono il velo d’ombra ad alcuni comportamenti. Certo li spiegano dal punto di vista dell’autore, che a volte non è l’ottica che avevo io nel leggerli. Come ad esempio il testo di base, dolente monologo di Alessandro che non capisce il comportamento di Rosaria, ma che continua nella sua ottica di vita, si riflette nel primo dei nuovi, che invece vede la stessa storia dall’ottica di Rosaria. Con quel titolo “Stai serena”, che al solo sentirlo mi vengono i pruriti di nervosismo. Rosaria che poi ritroviamo nell’ultimo, con un passaggio che getta ancora nuove luci sugli altri due. Il tutto a ricomporre un mosaico, nella testa di Pascale, quasi che si arrivasse alla scrittura di un romanzo, composto da varie sfaccettature. Peccato. Che ogni racconto, in sé (almeno questi tre appena citati) ha una sua dignità e si fa leggere e ti fa partecipe. Ma se li riunisci come facce della stessa storia, ne perde (per me) di consistenza. Non m’interessava sapere perché Rosaria aveva malessere, ma mi intrigava vederla fare un percorso e poi tornare da Alessandro. E quando Rosaria si avvia per altre esperienze, è utile seguirla per se, non perché sappiamo del marito e dei figli. È un percorso difficile di ricerca di se stessa. Ricerca che alla fine trova, con tutti i dolori che si possono immaginare, quando, comunque, bisogna fare delle scelte. E queste scelte non lasceranno indenni nessuno. Né Rosaria, né la sua famiglia, né il comprensivo (ma fino ad un certo punto) amante. Ed infine, sapere se Rosaria si metterà o meno a dipingere, è un elemento che non aggiunge nulla né a queste due storie, né alla terza cui fa capolino. Analogamente, per la storia del ragazzo che, colpito dall’irreversibile crisi dei genitori, non trova di meglio che affliggere il suo corpo ed ingrassare. Ma se nel testo base, questo ha una sua logica, nel converso di altri accenni, la dolenza viene spiegata, ma proprio per questo mitigata. Farà pace il ciccione con il padre che tanto l’ha fatto soffrire? Altro rimane nella forma-racconto originale, ed ha un suo perché. Sia laddove non mi è piaciuto (vedi “Bei giorni domani” o “Mi vidi di schiena”) sia dove mi ha fatto partecipe nell’infinita tristezza di quel percorso da impiegato di una Pubblica Amministrazione, percorso in certi versi simile al mio personale (pur se privato) e di tante persone da me conosciute nel corso della vita lavorativa (“Spettabile Ministero”). Rimangono poi delle immagini impagabili, come quel tornare sul quadro di Schiele che ognuno dei due protagonisti vive alla sua maniera, ma che comunque può far da tramite ad un rapporto. Insomma, una raccolta altalenante, che tuttavia ribadisce alcuni punti fermi di Pascale, che apprezzo e sottolineo: la capacità di scrivere, e di farsi leggere in maniera scorrevole e partecipata, e l’impegno, sociale direi, che si evince da alcune frasi dell’ultimo racconto (e che ritrovo in maniera trasversale nella recensione fatta da Baricco al libro proprio di Pascale con Rastello “Democrazia: cosa può fare uno scrittore?”).
“Quando ero giovane ho letto ‘Avere o essere?’, una di quelle stupidaggini che si fanno solo da giovani.” (7)
“Sapere come funziona un oggetto significa non chiedersi perché farlo funzionare.” (41)
“Sto sempre a pensare alla mia vita, e facendo un bilancio serio devo dire che non ho mai saputo rispondere la cosa giusta al momento giusto. Mai, nemmeno una volta. Le cose buone mi venivano fuori dopo, magari quando stavo a casa, e così la mia vita è un accumulo di risposte esatte date al momento sbagliato.” (76)
“Quando ci innamoriamo chiediamo al nostro amato di portarci indietro nel tempo, per farci riprovare i momenti in cui siamo stati felici da bambini.” (147)
 “Siamo il paese che preferisce il bello al vero.” (165)
Alessandro Baricco “Mr. Gwyn” Feltrinelli euro 14
[A: 14/04/2012 – I: 20/04/2012 – T: 21/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 158; anno: 2012]
Saranno certe mie passioni perverse, ma trovo sempre gradevole leggere scritti di autori torinesi, a partire da Pavese per finire con il nostro sagace autore di una certa idea del mondo (citazione trasversale delle recensioni settimanali che Baricco fa su Repubblica, che leggo e conservo, magari un giorno deciderò anche di sfidarlo a singolar tenzone, ohè ohè corbezzoli [secondo inciso, questa è un’altra citazione, e vediamo chi la trova]). Chiuse tutte le parentesi, torniamo al nostro, ed al suo modo di scrivere, nei saggi, nei racconti, nei romanzi. Sempre fedele ad un suo cliché, quasi un marchio di fabbrica, che ce lo fa immediatamente riconoscere. Quell’ammiccare fuori dalle righe, quel leggero anticipare (ma non tanto per non rovinare sorprese) quanto potrà accadere più in là. O quanto si dirà della famosa battaglia tra Atene e Sparta. O quanto NON si dirà della stessa. Nei libri, inoltre, c’è questa voluta trasposizione, per cui si viaggia sempre su terre altre. Qui siamo in quel di Londra, ed il nostro principale (ma non unico) protagonista è tale Jasper Gwyn, facile ma non immediata trasposizione dello stesso Baricco, cui l’autore gratifica di pulsioni a lui proprie. Jasper era accordatore di musica (citazione degli inizi baricchiani sulle Vacche di Hegel e la musica di Mozart?), poi scrittore di successo, anche se un po’ scontroso e distante (idem), che decide di smettere di scrivere per una serie di lodevoli motivi, soprattutto legati a quell’ambiente della letteratura che, ovunque, sembra permeato di tromboni e grancasse, piuttosto che violini e flauti. Sembra appunto che lo stesso Baricco ci dica: non riesco a trovare stimoli sufficienti per scrivere ancora. Ma Jasper si accorge che la scrittura ben presto gli manca. Allora, per non venire meno ai suoi propositi, Baricco decide di trovare altri modi per manifestarsi. Evitato, ma non completamente, il trasversale (invece di scrivere e pubblicare libri a proprio nome poteva utilizzare uno pseudonimo: troppo facile!), Baricco trova una bellissima metafora. Lo scrittore come copista della realtà. Quindi copiatore di corpi. E si inventa il mestiere di eseguire ritratti delle persone con la scrittura. Non banali descrizioni (occhi 2 grigio-verdi, capelli pochi ma resistenti, e via ritraendo), ma trasposizioni della persona in parole, micro - racconti che riescano a riportare l’altro su carta come reduce da un viaggio lontano. In questo, viene osteggiato dal suo agente letterario (che poi capirà) ed aiutato dalla grassa Rebecca, che rimarrà affascinata dal loft di Marylebone e dalle sue atmosfere, dalla non-musica dell’amico David, dalle lampadine che durano qualcosa intorno a trenta giorni poi si spengono. Insomma dal mondo magico che Jasper costruisce intorno ai suoi ritratti. Tuttavia, ed è ovvio, questo idillio si scontra poi con la realtà, ci saranno castelli che verranno (dovranno essere) distrutti. La vita reale entrerà a sconvolgere ancora le carte di Jasper. E con il solito tocco da maestro della penna, l’ultima parte del libro Baricco capovolge l’ottica. Non è più lo scrittore insoddisfatto, ma diventa la grassa Rebecca, che accettando la sua persona (vai Baricco, che ce la puoi fare ad accettarti), trasforma e migliora la sua vita, andando però nell’ultima parte anche sulle tracce dello scomparso Jasper. Non ci interessa (né vi dico se lo farà) sapere se Jasper verrà trovato; ci piace il percorso di Rebecca, gli indizi che trova, quasi in una trama thriller che ribalta l’odio del torinese per questa forma di narrativa, e la ricostruzione del pensiero fondante del non-scrittore. Anzi, di ‘Jasper Gwyn, copista’. Alla fine un libro di un buon divertimento intellettuale, utilizzato per far riflettere sulla scrittura e sulla sua espressione. E non è poco, far riflettere. Si può convenire o meno con Baricco, amare o no il suo modo di presentare le cose, ma trova sempre la maniera di provocare in modo positivo. Accettiamo la provocazione, e chiediamoci per che cosa valga la pena scrivere…
“- Lei non è vecchia. Lei è morta. … - Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.” (56)
“Ed era tornato alla sua scrivania, a leggere una biografia di Magellano.” [nota mia: citazione di Baricco alla sua recensione del libro su Magellano di Stefan Zweig] (139)
“Diceva che tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto e che invece cerchiamo negli scaffali della nostra mente.” (155)
Alessandro Baricco “Tre volte all’alba” Feltrinelli s.p. (regalo di A)
[A: 08/04/2012 – I: 25/04/2012 – T: 26/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 94; anno: 2012]
Potrebbe essere letto ‘autonomamente’, ma, come spiega l’autore, ha in realtà un forte legame con il precedente, che cercheremo di descrivere più avanti. Intanto, la scrittura di Baricco mi rimane sempre piacevole, anche (ma forse non è un caso) quando come in questo romanzo, cambia registro e cerca di “camuffare” il suo stile con uno stile altro. Ci sono tre pezzi di vita, tre racconti, ognuno potendo stare in piedi da solo, ma significativamente collegati. Alla fine, possiamo ricostruire UNA storia: Malcom è un venditore oberato di debiti nei confronti di uno strozzino, e, per liberarsene, non trova meglio che ucciderlo. La polizia mette sulle sue tracce una donna poliziotto che riesce a trattenerlo fino a farlo arrestare. Dopo una condanna, con molte attenuanti, l’uomo finisce a fare il portiere di notte, in un albergo dove salva una ragazza dalle mire di un giovanotto sconsiderato e manesco, che, infatti, lo riempie di botte. La donna poliziotto la ritroviamo anche lei dopo anni, in una sua fine di carriera, empaticamente portata a salvare un ragazzino che ha subito un forte trauma, aiutata da un certo Jonathan, il suo amore che tuttavia non riesce mai a “vivere”. Forse sarà la volta buona. Queste tre storie si svolgono sempre all’alba, e sempre con un perno in alberghi, anzi nella hall degli alberghi. E nello specifico, apprezziamo i due caratteri principali. Malcom, che per liberarsi del giogo, commette un atto non corretto, ma ne paga le conseguenze, viene lasciato da moglie e figlio, e tuttavia trova una sua pace, un suo modo di affrontare la vita per quello che è. Dorothy sembra sempre sul punto di cambiare qualcosa della sua vita, non riuscendo mai ad andare a fondo. Come non riesce ad andare a fondo nel suo rapporto con il mite Jonathan. Ma l’incontro con Malcom deve aver fatto scattare qualche meccanismo, che negli anni la matura dentro. Portandola a ribellarsi alla tristezza che avvolgerebbe il ragazzo travolto dalla tragedia familiare. E con lui riesce a tornare da Jonathan, per un’alba che, come le altre, sarà unica,  prima e ultima. Con questo gioco simmetrico dove i due protagonisti del primo spezzone congiunto, sono i “virtuosi” dei due pezzi seguenti. Manca la sinfonia finale, ma quella, baricchianamente, la dobbiamo costruire nelle nostre teste. Già questo farebbe un bel libricino degno di essere letto. Il collegamento con Gwyn lo carica di valenze ulteriori. Che nell’altro libro (sopra recensito) quando Rebecca è alla ricerca dello scomparso Gwyn, un suo amico lettore gli indica un possibile riscontro tra la scrittura di Gwyn ed un libro di un ignoto indiano morto a 92 anni, autore di un unico libro pubblicato postumo, dal titolo “Tre volte all’alba”. Questo è il libro che abbiamo in mano, e come dice Rebecca all’orologiaio di Camden Town (vero Diana?), dentro c’è un ritratto di Jasper Gwyn. Non in termini fisici, ma trasposto nella descrizione della hall del primo albergo che incontriamo. Gwyn sostiene, infatti, che noi siamo pagine di libri, eventualmente non scritti. Ma leggendo dell’albergo ci immaginiamo Gwyn, e la sua identità nel mondo. Il lasciar tracce che solo i destinatari delle stesse sanno e vedono. Con quel rimando finale, dove Jonathan scrive 12 volte il nome di Dorothy su di una barca che costruisce, senza dire dove al proprietario, così che il nome dell’amata veleggerà per i mari. Allo stesso modo, il ritratto di Gwyn andrà di lettore in lettore. È un po’ quello che provo con le frasi che ogni tanto tiro fuori dai libri (e che vi riporto). Sono brani che nella lettura hanno fatto risuonare delle campane. Magari altre rispetto alle intenzioni. Magari riferite al mio vissuto, che di certo l’autore non sa. Lui le ha solo scritte. Ma ora sono mie.
“Ho capito che non si cambia veramente mai, non c’è modo di cambiare, … non è per cambiare che si ricomincia da capo. E per che cosa, allora? … Per cambiare tavolo. … Cambiare le carte è impossibile, non resta che cambiare tavolo di gioco.” (28)
“Non è neanche detto che se ami davvero qualcuno, ma tanto, la cosa migliore che puoi fare sia viverci insieme.” (87)
Come avrà capito l’attento mio lettore, gioco era anche l’inizio con quel conto alla rovescia, per dare il via a questa estate atipica, senza grandi viaggi, con tanto lavoro, un po’ di mare (molto piacevole, invero). E tante scusa ai miei amici per la mia mancanza di organizzazione. Si riesce poco a vedersi, si riesce poco a fare. Vedremo se c’è altro da inventare. Per ora e ancora

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