Quattro libri italiani di tre
autori per due tematiche, di molto estive: i ricordi e le anteprime. Ricordi
che il caldo, lo staccar verso lidi quieti (almeno soggettivamente) favoriscono
l’onda dei pensieri che tornano. Come in Abate e la sua Calabria. Come in
Pascale e le sue donne. Come io che ripenso al fatto che ieri era un
lontanissimo anniversario della mia partenza per le armi (noi del 7° 77).
Anteprime di quello che potrebbe essere un racconto, un futuro, un momento che
per ora anticipiamo nella testa. Come nei romanzi collegati di Baricco. Come
nelle idee che mi hanno suscitato.
Carmine Abate “La festa del ritorno” Mondadori euro 9
[A: 17/05/2011 – I: 11/04/2012 – T: 12/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161;
anno: 2004]
Mi fa sempre piacere ritornare a
qualche scritto di questo scrittore calabrese. Soprattutto per quel suo essere
calabrese di minoranza, cioè, come si dice, arbëreshe. Vale a dire appartenente
a quella minoranza linguistica italo-albanese arroccata, per l’appunto, intorno
a Piana degli Albanesi. Anche se Carmine è di Carfizzi. Ma sempre scrive di questa
piccola enclave, e dei suoi problemi. Di minoranza. Di emigrazione. Di rapporti
in fin dei conti, proprio per quel loro essere, come direbbe Enzo Bianchi,
stranieri alle genti. Forse non è il suo miglior romanzo, che per me rimane
“Tra due mari”, ma è piacevole da leggere, e nella sua scorrevolezza, in ogni
caso, qualche zeppa di memoria la pone. E non è poco. Seppur la storia, come in
pratica tutte le sue, è storia di crescita, di presa di coscienza, qui si gioca
molto, in un sottofondo pieno di rumore, anche sul tema dell’emigrazione.
Perché la Calabria è terra dura, già per gli italiani. Di più per questo
piccolo popolo che a mala pena parla l’italiano. E dove c’è emigrazione, il
momento più bello, più festoso, che può segnare nel profondo, è quello del
ritorno. E su questo ritornello, Abate costruisce la storia parallela di Tullio
e di suo figlio Marco. La vediamo con gli occhi del bimbo che seguiamo dagli
otto ai dodici anni. Ma il racconto di Marco è intercalato dai racconti del
padre Tullio e delle sue storie da emigrato in Francia. Ricostruiamo così, a
ritroso, la vicenda a tutto tondo, di Tullio che cerca fortuna in Francia, dove
trova il grande amore, la bella Morena, da cui ha la figlia Elisa. Ma poi
Morena muore, e Tullio torna a casa per affidare la piccola alla nonna. E trova
conforto con Francesca, con cui prova a mettere su un focolare. Ci riuscirà per
qualche anno, ma alla nascita di Marco, i soldi non bastano e lui torna in
Francia, dove vive 10 mesi l’anno, per poi tornare per il Natale in famiglia. E
sono questi Natali che Marco aspetta con ansia. Prima con l’ansia incosciente
del bimbetto, che aspetta il padre per i giocattoli nuovi. Poi con la febbre
del bimbo che cresce, che sente la mancanza quotidiana della figura paterna.
Che quando torna si va per boschi, si caccia, si gioca con la cagna Spertina
(bel nome di setter). Perché intanto Marco cresce, va anche a scuola, ma non
capisce perché si parla italiano. Fortuna lo aiuta la sorellastra grande.
Quella che studia a Cosenza, quella che comincia ad avere amorazzi, e poi
storie serie. Marco entra ed esce anche da queste storie, sempre con il fare da
piccolo decenne, che vede ma non comprende tutto. Certo vede che Elisa si
potrebbe cacciare nei guai. Certo vede di ammalarsi ed aspettare il ritorno
salvifico del padre che questa volta non c’è. Si arriva quasi non dico al
dramma, ma al momento che molti si interrogano. Elisa, dopo molte sbandate,
sembra riprendere strade aduse. Marco rischia di esserne travolto, ma ne esce
bene. E tra il prologo e l’epilogo assistiamo alla grande festa di Natale, con
le fascine accese a scaldare il bambinello nella culla. Con la prima birra di
Marco. E con il grande colloquio, quello che saltabeccando tra i capitoli, ci
regala il rapporto tra padre e figlio. Non vi narro i perché ed i come.
Leggeteli che sono di sana lettura. Vi rimando le sensazioni. Quella della
festa del titolo, che Carmine uomo e non più scrittore organizza anche lui ogni
anno a Carfizzi, che anche lui emigrò (in Germania e non in Francia) ed anche
lui vive lontano, insegnando tedesco in Trentino. E quella del rapporto tra
padre e figlio, narrato senza smancerie, ma tratteggiando, con tutta l’umanità
possibile, due diversi caratteri. Che tuttavia, e qui sta il bello che mi
commuove, parlano. Ahi quant'è bello pensare che ci siano, ci possono essere
momenti di scambio. Ognuno, ed è ovvio, con la propria natura. Che non sarà mai
uno scambio paritario tra due generazioni diverse. Ma come togliere colore alla
bellezza di queste piccole confidenze! Ripeto, al solito chiudendo, non certo
un grande libro, ma senza dubbio una nuova ed onesta lettura di uno scrittore
italiano. Ringraziando anche per quelle frasi in arbëreshe, che non si
capiscono, ma tratteggiano l’esistenza di tanti mondi a noi vicini e di cui, a
volte, neanche ci accorgiamo.
“Volevo vivere in Francia per sempre. Mi piaceva la Francia. … Mi
piaceva soprattutto Parigi.” (63)
Antonio Pascale “La manutenzione degli affetti” Einaudi euro 10 (in
realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 16/04/2012 – T: 20/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 179;
anno: 2003-2006]
Questa è la seconda edizione del
primo libro di racconti di Antonio Pascale, che avevo ben apprezzato in quel
romanzo-autoreferente sulla città distratta. Seconda edizione che include tre
racconti in più rispetto alla prima. Premesso che la forma racconto mi tiene
sempre sulle spine, qui Pascale (soprattutto attraverso le tre aggiunte)
utilizza una forma di racconto-rimando dove, a volte, i personaggi di un
racconto si ripresentano in un altro, magari (o forse di proposito) accendendo
dei lumi su alcuni passaggi del precedente. Un’operazione che mi rimanda un
duplice sentimento. Da un lato, mi fa piacere ritrovare protagonisti di una
storia, dove ogni volta, quando lascio un testo, dispiace che scompaiono dalla
carta (anche se rimangono nella mente). Tuttavia, dall’altro dispiace (o limita
il piacere) perché nuove parole tolgono il velo d’ombra ad alcuni
comportamenti. Certo li spiegano dal punto di vista dell’autore, che a volte
non è l’ottica che avevo io nel leggerli. Come ad esempio il testo di base,
dolente monologo di Alessandro che non capisce il comportamento di Rosaria, ma
che continua nella sua ottica di vita, si riflette nel primo dei nuovi, che
invece vede la stessa storia dall’ottica di Rosaria. Con quel titolo “Stai
serena”, che al solo sentirlo mi vengono i pruriti di nervosismo. Rosaria che
poi ritroviamo nell’ultimo, con un passaggio che getta ancora nuove luci sugli
altri due. Il tutto a ricomporre un mosaico, nella testa di Pascale, quasi che
si arrivasse alla scrittura di un romanzo, composto da varie sfaccettature.
Peccato. Che ogni racconto, in sé (almeno questi tre appena citati) ha una sua
dignità e si fa leggere e ti fa partecipe. Ma se li riunisci come facce della
stessa storia, ne perde (per me) di consistenza. Non m’interessava sapere
perché Rosaria aveva malessere, ma mi intrigava vederla fare un percorso e poi
tornare da Alessandro. E quando Rosaria si avvia per altre esperienze, è utile
seguirla per se, non perché sappiamo del marito e dei figli. È un percorso
difficile di ricerca di se stessa. Ricerca che alla fine trova, con tutti i
dolori che si possono immaginare, quando, comunque, bisogna fare delle scelte.
E queste scelte non lasceranno indenni nessuno. Né Rosaria, né la sua famiglia,
né il comprensivo (ma fino ad un certo punto) amante. Ed infine, sapere se
Rosaria si metterà o meno a dipingere, è un elemento che non aggiunge nulla né
a queste due storie, né alla terza cui fa capolino. Analogamente, per la storia
del ragazzo che, colpito dall’irreversibile crisi dei genitori, non trova di meglio
che affliggere il suo corpo ed ingrassare. Ma se nel testo base, questo ha una
sua logica, nel converso di altri accenni, la dolenza viene spiegata, ma
proprio per questo mitigata. Farà pace il ciccione con il padre che tanto l’ha
fatto soffrire? Altro rimane nella forma-racconto originale, ed ha un suo
perché. Sia laddove non mi è piaciuto (vedi “Bei giorni domani” o “Mi vidi di
schiena”) sia dove mi ha fatto partecipe nell’infinita tristezza di quel
percorso da impiegato di una Pubblica Amministrazione, percorso in certi versi
simile al mio personale (pur se privato) e di tante persone da me conosciute
nel corso della vita lavorativa (“Spettabile Ministero”). Rimangono poi delle immagini
impagabili, come quel tornare sul quadro di Schiele che ognuno dei due
protagonisti vive alla sua maniera, ma che comunque può far da tramite ad un
rapporto. Insomma, una raccolta altalenante, che tuttavia ribadisce alcuni
punti fermi di Pascale, che apprezzo e sottolineo: la capacità di scrivere, e
di farsi leggere in maniera scorrevole e partecipata, e l’impegno, sociale
direi, che si evince da alcune frasi dell’ultimo racconto (e che ritrovo in
maniera trasversale nella recensione fatta da Baricco al libro proprio di
Pascale con Rastello “Democrazia: cosa può fare uno scrittore?”).
“Quando ero giovane ho letto ‘Avere o essere?’, una di quelle
stupidaggini che si fanno solo da giovani.” (7)
“Sapere come funziona un oggetto significa non chiedersi perché farlo
funzionare.” (41)
“Sto sempre a pensare alla mia vita, e facendo un bilancio serio devo
dire che non ho mai saputo rispondere la cosa giusta al momento giusto. Mai,
nemmeno una volta. Le cose buone mi venivano fuori dopo, magari quando stavo a
casa, e così la mia vita è un accumulo di risposte esatte date al momento
sbagliato.” (76)
“Quando ci innamoriamo chiediamo al nostro amato di portarci indietro
nel tempo, per farci riprovare i momenti in cui siamo stati felici da bambini.”
(147)
“Siamo il paese che preferisce
il bello al vero.” (165)
Alessandro Baricco “Mr. Gwyn” Feltrinelli euro 14
[A: 14/04/2012 – I: 20/04/2012 – T: 21/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 158;
anno: 2012]
Saranno certe mie passioni
perverse, ma trovo sempre gradevole leggere scritti di autori torinesi, a
partire da Pavese per finire con il nostro sagace autore di una certa idea del
mondo (citazione trasversale delle recensioni settimanali che Baricco fa su
Repubblica, che leggo e conservo, magari un giorno deciderò anche di sfidarlo a
singolar tenzone, ohè ohè corbezzoli [secondo inciso, questa è un’altra
citazione, e vediamo chi la trova]). Chiuse tutte le parentesi, torniamo al
nostro, ed al suo modo di scrivere, nei saggi, nei racconti, nei romanzi.
Sempre fedele ad un suo cliché, quasi un marchio di fabbrica, che ce lo fa
immediatamente riconoscere. Quell’ammiccare fuori dalle righe, quel leggero
anticipare (ma non tanto per non rovinare sorprese) quanto potrà accadere più
in là. O quanto si dirà della famosa battaglia tra Atene e Sparta. O quanto NON
si dirà della stessa. Nei libri, inoltre, c’è questa voluta trasposizione, per
cui si viaggia sempre su terre altre. Qui siamo in quel di Londra, ed il nostro
principale (ma non unico) protagonista è tale Jasper Gwyn, facile ma non
immediata trasposizione dello stesso Baricco, cui l’autore gratifica di
pulsioni a lui proprie. Jasper era accordatore di musica (citazione degli inizi
baricchiani sulle Vacche di Hegel e la musica di Mozart?), poi scrittore di
successo, anche se un po’ scontroso e distante (idem), che decide di smettere
di scrivere per una serie di lodevoli motivi, soprattutto legati a
quell’ambiente della letteratura che, ovunque, sembra permeato di tromboni e
grancasse, piuttosto che violini e flauti. Sembra appunto che lo stesso Baricco
ci dica: non riesco a trovare stimoli sufficienti per scrivere ancora. Ma
Jasper si accorge che la scrittura ben presto gli manca. Allora, per non venire
meno ai suoi propositi, Baricco decide di trovare altri modi per manifestarsi.
Evitato, ma non completamente, il trasversale (invece di scrivere e pubblicare
libri a proprio nome poteva utilizzare uno pseudonimo: troppo facile!), Baricco
trova una bellissima metafora. Lo scrittore come copista della realtà. Quindi
copiatore di corpi. E si inventa il mestiere di eseguire ritratti delle persone
con la scrittura. Non banali descrizioni (occhi 2 grigio-verdi, capelli pochi
ma resistenti, e via ritraendo), ma trasposizioni della persona in parole,
micro - racconti che riescano a riportare l’altro su carta come reduce da un
viaggio lontano. In questo, viene osteggiato dal suo agente letterario (che poi
capirà) ed aiutato dalla grassa Rebecca, che rimarrà affascinata dal loft di
Marylebone e dalle sue atmosfere, dalla non-musica dell’amico David, dalle
lampadine che durano qualcosa intorno a trenta giorni poi si spengono. Insomma
dal mondo magico che Jasper costruisce intorno ai suoi ritratti. Tuttavia, ed è
ovvio, questo idillio si scontra poi con la realtà, ci saranno castelli che
verranno (dovranno essere) distrutti. La vita reale entrerà a sconvolgere
ancora le carte di Jasper. E con il solito tocco da maestro della penna,
l’ultima parte del libro Baricco capovolge l’ottica. Non è più lo scrittore
insoddisfatto, ma diventa la grassa Rebecca, che accettando la sua persona (vai
Baricco, che ce la puoi fare ad accettarti), trasforma e migliora la sua vita,
andando però nell’ultima parte anche sulle tracce dello scomparso Jasper. Non
ci interessa (né vi dico se lo farà) sapere se Jasper verrà trovato; ci piace
il percorso di Rebecca, gli indizi che trova, quasi in una trama thriller che
ribalta l’odio del torinese per questa forma di narrativa, e la ricostruzione
del pensiero fondante del non-scrittore. Anzi, di ‘Jasper Gwyn, copista’. Alla
fine un libro di un buon divertimento intellettuale, utilizzato per far riflettere
sulla scrittura e sulla sua espressione. E non è poco, far riflettere. Si può
convenire o meno con Baricco, amare o no il suo modo di presentare le cose, ma
trova sempre la maniera di provocare in modo positivo. Accettiamo la
provocazione, e chiediamoci per che cosa valga la pena scrivere…
“- Lei non è vecchia. Lei è morta. … - Morire è solo un modo
particolarmente esatto di invecchiare.” (56)
“Ed era tornato alla sua scrivania, a leggere una biografia di
Magellano.” [nota mia: citazione di Baricco alla sua recensione del libro su
Magellano di Stefan Zweig] (139)
“Diceva che tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che
nessuno ha mai scritto e che invece cerchiamo negli scaffali della nostra
mente.” (155)
Alessandro Baricco “Tre volte all’alba” Feltrinelli s.p. (regalo di A)
[A: 08/04/2012 – I: 25/04/2012 – T: 26/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 94;
anno: 2012]
Potrebbe essere letto
‘autonomamente’, ma, come spiega l’autore, ha in realtà un forte legame con il
precedente, che cercheremo di descrivere più avanti. Intanto, la scrittura di
Baricco mi rimane sempre piacevole, anche (ma forse non è un caso) quando come
in questo romanzo, cambia registro e cerca di “camuffare” il suo stile con uno
stile altro. Ci sono tre pezzi di vita, tre racconti, ognuno potendo stare in
piedi da solo, ma significativamente collegati. Alla fine, possiamo ricostruire
UNA storia: Malcom è un venditore oberato di debiti nei confronti di uno
strozzino, e, per liberarsene, non trova meglio che ucciderlo. La polizia mette
sulle sue tracce una donna poliziotto che riesce a trattenerlo fino a farlo
arrestare. Dopo una condanna, con molte attenuanti, l’uomo finisce a fare il
portiere di notte, in un albergo dove salva una ragazza dalle mire di un giovanotto
sconsiderato e manesco, che, infatti, lo riempie di botte. La donna poliziotto
la ritroviamo anche lei dopo anni, in una sua fine di carriera, empaticamente
portata a salvare un ragazzino che ha subito un forte trauma, aiutata da un
certo Jonathan, il suo amore che tuttavia non riesce mai a “vivere”. Forse sarà
la volta buona. Queste tre storie si svolgono sempre all’alba, e sempre con un
perno in alberghi, anzi nella hall degli alberghi. E nello specifico,
apprezziamo i due caratteri principali. Malcom, che per liberarsi del giogo,
commette un atto non corretto, ma ne paga le conseguenze, viene lasciato da
moglie e figlio, e tuttavia trova una sua pace, un suo modo di affrontare la
vita per quello che è. Dorothy sembra sempre sul punto di cambiare qualcosa
della sua vita, non riuscendo mai ad andare a fondo. Come non riesce ad andare
a fondo nel suo rapporto con il mite Jonathan. Ma l’incontro con Malcom deve
aver fatto scattare qualche meccanismo, che negli anni la matura dentro.
Portandola a ribellarsi alla tristezza che avvolgerebbe il ragazzo travolto
dalla tragedia familiare. E con lui riesce a tornare da Jonathan, per un’alba
che, come le altre, sarà unica, prima e
ultima. Con questo gioco simmetrico dove i due protagonisti del primo spezzone
congiunto, sono i “virtuosi” dei due pezzi seguenti. Manca la sinfonia finale,
ma quella, baricchianamente, la dobbiamo costruire nelle nostre teste. Già
questo farebbe un bel libricino degno di essere letto. Il collegamento con Gwyn
lo carica di valenze ulteriori. Che nell’altro libro (sopra recensito) quando
Rebecca è alla ricerca dello scomparso Gwyn, un suo amico lettore gli indica un
possibile riscontro tra la scrittura di Gwyn ed un libro di un ignoto indiano
morto a 92 anni, autore di un unico libro pubblicato postumo, dal titolo “Tre
volte all’alba”. Questo è il libro che abbiamo in mano, e come dice Rebecca
all’orologiaio di Camden Town (vero Diana?), dentro c’è un ritratto di Jasper
Gwyn. Non in termini fisici, ma trasposto nella descrizione della hall del
primo albergo che incontriamo. Gwyn sostiene, infatti, che noi siamo pagine di
libri, eventualmente non scritti. Ma leggendo dell’albergo ci immaginiamo Gwyn,
e la sua identità nel mondo. Il lasciar tracce che solo i destinatari delle
stesse sanno e vedono. Con quel rimando finale, dove Jonathan scrive 12 volte
il nome di Dorothy su di una barca che costruisce, senza dire dove al
proprietario, così che il nome dell’amata veleggerà per i mari. Allo stesso
modo, il ritratto di Gwyn andrà di lettore in lettore. È un po’ quello che
provo con le frasi che ogni tanto tiro fuori dai libri (e che vi riporto). Sono
brani che nella lettura hanno fatto risuonare delle campane. Magari altre
rispetto alle intenzioni. Magari riferite al mio vissuto, che di certo l’autore
non sa. Lui le ha solo scritte. Ma ora sono mie.
“Ho capito che non si cambia veramente mai, non c’è modo di cambiare, …
non è per cambiare che si ricomincia da capo. E per che cosa, allora? … Per
cambiare tavolo. … Cambiare le carte è impossibile, non resta che cambiare
tavolo di gioco.” (28)
“Non è neanche detto che se ami davvero qualcuno, ma tanto, la cosa
migliore che puoi fare sia viverci insieme.” (87)
Come avrà capito l’attento mio
lettore, gioco era anche l’inizio con quel conto alla rovescia, per dare il via
a questa estate atipica, senza grandi viaggi, con tanto lavoro, un po’ di mare
(molto piacevole, invero). E tante scusa ai miei amici per la mia mancanza di
organizzazione. Si riesce poco a vedersi, si riesce poco a fare. Vedremo se c’è
altro da inventare. Per ora e ancora
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