domenica 1 luglio 2012

Un’estate … - 01 luglio 2012

… per ora al caldo. Sotto un sole, forte e giallo. Come forti e gialli sono i libri di cui parliamo oggi. Almeno nelle loro intenzioni che non sempre rispecchiano i sentimenti di chi li legge, cioè in particolare i miei. Perché stiamo trattando i massimi esponenti del settore. O almeno quelli che lo sono ritenuti. La Cornwell, con la sua pluriennale saga sull’anatomo-patologa italo-americana Kay Scarpetta. Il maestro dello spionaggio, e spia lui stesso, John le Carrè. Il grande esperto di avvenimenti complessi (e l’unico che ci ha già lasciato) Michael Crichton. La baronessa del giallo P.D. James. La quale forse, è l’unica che ci da un prodotto estivamente godibile. Gli altri mi sono piaciuti da poco a nulla.
Patricia Cornwell “Il fattore Scarpetta” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato 11,05 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 31/03/2012 – T: 04/04/2012]
[titolo: The Scarpetta Factor; lingua: inglese; pagine: 416; anno: 2008]
Siamo tornati molto ma molto in basso! Nelle ultime prove, sembrava che fosse tornata un po’ di verve alla nostra beneamata scrittrice. Così che anche i suoi personaggi e le storie (con una ventina di titoli alle spalle) della famosa anatomo–patologa Kay Scarpetta avevano ripreso quota. Si tornava a parlare di procedure di analisi, di elementi di indagine, ed altre amenità che ci hanno fatto voler bene a questi libri seriali. Ma ora ci dev’essere stato un intoppo. Che so, qualche scadenza da rispettare, qualche migliaia di righe da scrivere anche senza ispirazione. Ed allora che fa la nostra Patricia? Si concentra da un lato sui rapporti interpersonali tra i suoi personaggi storici: Kay ed il marito Benton; Lucy e la sua fiamma Jaime; e poi Benton vs. Marino, e Kay vs. Lucy. Dall’altra non trova di meglio che tirar fuori dal cilindro l’unico nemico storico rimasto ai nostri eroi. Quel famoso Jean-Baptise Chardonne che alcuni libri fa inopinatamente fugge dal braccio della morte di un carcere e fa perdere le sue tracce. Il tutto condito da un mistero piccolo piccolo: la morte di una giovane ragazza e la scomparsa di una donna analista finanziaria di un grande patrimonio. L’unico elemento “patologo” è la discussione tra il procuratore Jaime che mostra un video con la ragazza viva e le convinzioni di Kay, che attraverso l’autopsia aveva collocato la morte 24 ore prima del video. E poi basta. Solo gran parlare, sviscerare i vecchi misteri. Perché Benton scomparve per 6 anni? E quali sono i rapporti tra Benton e l’FBI? Perché una sessantenne maniaca dice di essere la zia di un attore? E perché il detto attore frequenta ospedali e camere mortuarie? Chi invia pacchi-bomba a Kay? Che c’entra una giornalista televisiva in rovina alla ricerca di uno scoop che non riesce a trovare? Come mai l’analista finanziaria scomparsa a fatto perdere milioni di dollari a Lucy? E perché Lucy non l’ha detto a Jaime? E via cianciando del passato, per pagine e pagine. Lanciando solo qualche messaggio che le nuove tecnologie avanzano. Così si da spazio a Lucy, la nostra espertissima, che parla di reti neurali, BlackBerry con GPS, ed altre amenità tecnologiche. Dando anche spazio a Benton e all’FBI di fare lunghe riunioni sui “profiler”, professione avanzante nel panorama del crimine statunitense. Con qualche chicca laterale (viene citata la figura di Benton come ispiratrice di un profiler del libro “Il silenzio degli innocenti” come se il libro fosse cronaca e non fantasia). Ma noi seguiamo pagina dopo pagina, sperando che ci sia qualche cosa da scoprire, qualche risvolto strano, un disvelamento. Arrivando poi alle ultime 10 pagine, dove dovrebbe esserci la catarsi, lo scioglimento dei nodi, lo svelarsi dei (non tanti) misteri. Ebbene come se la cava la nostra Patricia? In poche righe, liquida il colpevole, gli fa fare questo e quello, mette tutte le caselline al posto giusto. Ma senza due righe di partecipazione. Senza elementi di coinvolgimento. In altri momenti ed altri libri, avrebbe tirato (e con piacere) per almeno cinquanta pagine. Facendo partecipare un po’ tutti, e dando a Kay poi il ruolo di narratore degli esatti svolgimenti di morti ed altre nefandezze. Invece, niente. Ci sono morti che si intuiscono, ma non vengono spiegate. Personaggi che dovrebbero avere un ruolo, ma vengono ignorati. Insomma, un modo scialbo e piatto di chiudere una vicenda già di per sé poco esaltante. Torniamo sempre alla domanda che ci facemmo qualche libro fa (e che ogni tanto torna anche per altri autori, anche per il nostro altrettanto benamato Camilleri). Se non c’è ispirazione, se non c’è motivazione, perché scrivere? Per rispettare contratti? Ma i lettori? Non si sentono, come me, presi un po’ in giro? Comunque, nell’ottimismo che mi contraddistingue, spero che vengano presto altre e migliori prove.
“- Ho fatto un sacco di cose a cui non posso rimediare…. – Non si può cambiare il passato… Non possiamo tornare indietro, possiamo solo assumerci la responsabilità dei pasticci che abbiamo combinato, chiedere scusa e cercare di andare avanti.” (326)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 09/04/2012 – T: 10/04/2012]
[titolo: The spy who came in from the cold; lingua: inglese; pagine: 237; anno: 1963]
Dopo anni (forse decenni) di resistenza, finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti anni dalla sua caduta e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré ha avuto il merito di fare una fotografia talmente efficace del mondo della guerra fredda, che il suo libro diventa quasi un libro di storia più che un libro di finzione. Ed i suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo eponimo, diventano dei simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo la resistenza di cui sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex - Germania Est. Rivivendo quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia or son quasi quaranta anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e magistralmente orchestrata dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti spionistiche, dell’Intelligence di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare reti di informatori nel cuore degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza quindi di Leamas, e della sua sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a Berlino Est viene debellata e (quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o merito) del controspionaggio tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito Fiedler. Tornato in patria, Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare una complicata trama per far fuori Mundt. Comincia così una finta deriva dell’ex-spia. Che si finge sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi abbordare dalle spie dell’Est. Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione ed una fuga, il nostro si ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra parte del muro. Intanto il suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci per far cadere i tedescacci nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre l’un contro l’altro armati Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e riconoscimenti, si arriva alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il doppio gioco? Era Mundt realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per far cadere lo stesso Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il finale, benché sia ormai arci-noto. Né vi dirò della storia d’amore di Leamas con la bella Liz, quella che rimane nella testa per chi, non avendo letto il libro, si ricorda però del bel film con Richard Burton e Claire Bloom (ma perché nel film, Liz viene rinominata Nancy?). La parte meno sostenibile del libro risiede in tutta una serie di affermazioni e sparate sulle spie, sulle motivazioni, e su altri ragionamenti similari, molto, troppo legati allo spirito del tempo. Per questo, benché piacevolmente letto, il mio rimane un giudizio mediano sulla bellezza e consistenza del libro stesso. Una trama esemplare sorretta da una scrittura decente, che sottolinea la quotidianità di certi comportamenti spionistici (per fare da contraltare alle rutilanti missioni alla Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a leggere altro del nostro. Come un buon bicchiere di gin olandese, molto profumato, ma alla fine ne basta un bicchiere. E non ci si torna su.
Michael Crichton “La grande rapina al treno” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 26/04/2012 – T: 28/04/2012]
[titolo: The Great Train Robbery; lingua: inglese; pagine: 288; anno: 1975]
C’è stato un periodo delle mie letture che ero affascinato di Michel Crichton. Trovavo affascinante quel suo modo di entrare ed uscire dalla trama per raccontare contorni, motivi, spiegare, informare. Erano i tempi di “Andromeda”, di “Congo” e di “Jurassic Park”. Nonché di quei racconti che poi furono alla base di una delle più belle serie televisive (“In caso di necessità” che fece nascere i telefilm di “E.R.”). Poi è calato nella scrittura, si è dato ad esternazioni improbabili, e l’ho messo da parte. Infine 4 anni fa, a soli 66 anni muore. Ora riprendo in mano uno dei suoi primi libri, che all’epoca avevo saltato. E lo ritrovo come l’avevo lasciato. Solo che gli anni sono passati, e quella scrittura che 40 anni fa era interessante e innovativa, si è fatta sterile. Non che questa grande rapina non sia ben fatta e ben resa. Ma quegli intarsi che mi piacevano tanto, ora sembrano frutto di uno sfoggio di erudizione, di un tentativo di dire: ‘guardate che per capire quello che vi sto narrando di una storia che si svolge nel 1855, dovete sapere fatti e circostanze di vita, e dato che non le sapete, ve le illustro io”. Ecco, or mi sovviene, è quest’aria da sapientone che mi da fastidio. Perché la miglior sapienza è quella che esce fuori dalle righe del testo senza averne l’aria. Quella che dice e descrive e coinvolge e porta a vivere il tempo della scrittura come fosse sempre coevo del tempo della lettura. Peccato, tuttavia. Che la storia, in realtà merita. È la narrazione, oltremodo fedele, di una grande rapina al treno, dove sparisce l’oro destinato alle paghe dei soldati inglesi che combattevano in Crimea. Una storia che seguiamo passo dopo passo. Seguendo le orme dell’artefice, Edward Pierce. Dall’idea alle modalità di attuazione. Ai modi per trovare la possibilità di aprire la cassaforte che viaggiava sul treno, procurandosi le chiavi d’apertura. Al modo di salire sul treno. Al modo di fuggire dal treno. Al modo di sostituire l’oro con qualcosa dal peso equivalente per non far scoprire subito il furto. E poi, velocemente, alla ricerca dei colpevoli da parte della appena nata Scotland Yard. All’arresto. Ed al processo, sulla base del quale, poi, si ricostruisce tutto il pregresso. Non vi narro solo la fine, che non è inventata da Crichton, ma, come tutta la storia, è ben documentata. E devo dire anche decentemente narrata. Ora, ci sono due commenti da fare al testo. Le parti narrate sono in puro stile Crichton, cioè con la sua capacità di farti entrare immediatamente in sintonia con la persona che seguiamo al momento. Quella capacità che poi ben sfruttò in ER, dove in effetti (a parte i personaggi di lunga durata) anche i comprimari, in poche battute, erano ben delineati (parlo ovviamente del tempo di Clooney e della Margulies). E sono piacevoli. L’altra parte è l’utilizzare questa rapina come un simbolo. Un simbolo del mondo che cambia, dell’apice e dell’inizio del tramonto dell’epoca vittoriana, dove se ne narrano fasti e nefasti, per spiegare azioni e situazioni. Le turbe di poveri che vivono con meno di una sterlina settimana, i ladri, le prostitute, ma anche l’inizio dell’industrializzazione, il lavoro minorile, l’emarginazione femminile, la tracotanza aristocratica, tra lotte di cani contro topi, e partecipazione a proibiti incontri di boxe. Ma soprattutto rapina simbolica in quanto non attuata da poveri ladri e truffatori, ma organizzata da una persona che ha tutta l’aria di essere se non agiata almeno di una tranquilla classe media. Ed è appunto questo che preme sottolineare a Crichton: alla metà dell’Ottocento, si comincia a percepire che i malviventi non sono lombrosianamente tarati, ma nascono in ogni dove e per tante necessità. Questo passaggio non fu compreso, e l’Inghilterra andò avanti sulla sua strada, e da nazione faro e guida del mondo, cominciò ad imboccare la strada della normalità. Ma non la comprese, e alla fine ne fu spiazzata, lì quando crollò, pezzo dopo pezzo, tutto l’Impero Britannico. Ma stiamo andando molto fuori. Tornando a Crichton, se avesse insistito di più sulla storia, senza dovercene troppo spiegare i contorni (bastava molto meno), avrebbe potuto rendere la rapina, pur se simbolica, una specie di “Ocean Eleven” dell’Ottocento. Peccato.
“In quei tempi la linea divisoria tra un’attrice e una prostituta era estremamente sottile. E gli attori erano, a motivo della loro professione, dei nomadi vaganti che avevano in genere rapporti con i criminali o appartenevano direttamente alla malavita.” (91)
P.D. James “La stanza dei delitti” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 01/05/2012 – T: 06/05/2012]
[titolo: The Murder Room; lingua: inglese; pagine: 477; anno: 2003]
Al solito di Phyllis Dorothy James, Baronessa James di Holland Park, decana delle lettere inglesi, è un libro ben scritto, articolato, anche se forse un po’ lunghetto. Ma, al solito, gradevole, con una trama a vari livelli (e questo la porta ad allungare il numero di pagine) che vengono tutti svolti e portati ad un loro punto finale. Non una fine, che stiamo pur sempre parlando di uno dei 14 libri dedicati dall’autrice all’ispettore Adam Dalglish. Ispettore atipico, sempre empatico con i personaggi coinvolti nella vicenda, forse a causa del suo essere, prima che Ispettore, poeta. Non di successo mondiale, ma comunque poeta. E l’attuale Lady James ne narra le storie, seguendone vita pubblica e privata, da ben cinquanta anni. Che il primo romanzo fu un best seller a sorpresa nel lontano 1962 (“Copritele il volto” questo il titolo). Firmato P.D. per mascherare il fatto di essere una scrittrice, in un mondo che solo Agatha Christie riuscì a scardinare (ed a cui P.D. dedica un piccolo omaggio trasversale, chiamando Ackroyd uno dei personaggi minori del libro). E ben ha fatto poi a non inflazionarlo, facendo uscire appunto solo 14 romanzi in 50 anni. Qui siamo al 12°, e, benché curiosi delle vicende umane pregresse di Dalglish, la baronessa delle lettere (così nominata a settanta anni dalla Regina Elisabetta) porta avanti la sua trama che possiamo leggere senza essere presi dall’angoscia seriale di non conoscere tutto del nostro poeta-poliziotto (a proposito, forse il cinese Qiu Xialong ne ha tratto ispirazione?). Lasciata ben presto sullo sfondo la vicenda privata, laddove il buon Adam si innamora della bella Emma (con una vicenda trasversale, una di quelle che allunga le pagine, ma di cui non vi dirò la conclusione, rimandandola ad eventuali nuove avventure), ci si concentra sul problema delle morti. Che ruotano intorno ad uno strano museo dedicato al periodo tra le due guerre, con una bella stanza dedicata ai grandi delitti e processi coevi. Son tre fratelli i gestori. Ma il più giovane, rampante psichiatra, vuole chiuderlo. Fatto sta che muore bruciato nella sua Jaguar nel garage del museo (così come uno dei morti della stanza dei delitti). E nella stessa stanza viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna, entro un baule, anche lui reduce da turpi storie degli Anni Trenta. Intorno a queste morti, ruotano i due fratelli superstiti (ognuno con qualche luce e molte ombre, soprattutto la sorella), la contabile tuttofare del Museo (protetta non si sa per quale oscura ragione dalla suddetta sorella), il curatore della mostra (che sappiamo sta morendo di cancro), la calligrafa del Museo (forse una volta spia dei Servizi Segreti), la custode donna delle pulizie ed il suo aiutante gay. Dall’altro lato c’è la squadra di Dalglish, con Kate, la simpatica agente, ombra gentile dell’Ispettore, che ricorda in controluce il rapporto tra l’Ispettore Lynley e la sua aiutante Barbara della serie scritta da Elizabeth George. Con Piers che sta per lasciare la squadra e l’anglo-indiano Benton Smith che ci sta per entrare. Con mano felice, P.D. tratteggia i vari personaggi, ce li fa apprezzare mentre girano, indagano e a volte scappano per le strade di una Londra senza tempo. Spende pagine distensive per ripercorrere storie, risalire e poi scendere nel corso del tempo. Facendoci sentire l’urgenza di trovare una soluzione al mistero, che l’ambiente dei delitti è altolocato, quindi si deve risolvere in fretta. E la difficile soluzione interferisce con la vita privata di Dalglish cui si accennava sopra. La soluzione, seppur scontata, è ben costruita. E, con buona pace dei pennivendoli moderni, non lascia adito ad ombre alcune. Tutto si spiega e si incastra. Forse non al  meglio, ma risulta un libro di buona fattura e gradevole lettura. Ed ogni tanto ci vuole.
“Non si era mai chiesta se le piacesse … le persone erano utili o inutili, gradevoli come compagnia oppure scocciatori da evitare. (51)
“Si ritrovò a tirare mentalmente le somme della propria esistenza e a riflettere, con meraviglia e distacco, sul fatto che cinquantacinque anni, che a lui erano sembrati così memorabili, avessero potuto lasciargli un’eredità tanto magra … un pensionamento anticipato in seguito alla diagnosi di un tumore maligno che inaspettatamente, e in modo sconcertante, era stato curato con successo.” (72)
“Quando ami qualcuno, desideri in modo struggente capire e andare incontro a ogni sua necessità, ma non puoi, vero? Nessuno può. Possiamo dare soltanto quello che l’altra persona è disposta a prendere.” (230)
Ed essendo la prima trama del mese diamo allora uno sguardo riassuntivo alle letture di aprile. Dove a parte il sempre interessante padre Bianchi, ed una stuzzicante prova di Barricco, stiamo nel limbo totale, con alcune prove a me dispiaciute come Bulgakov di cui ho parlato, la Cornwell di cui parlo qui e Gadda di cui parlerò.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Patricia Cornwell
Il fattore Scarpetta
Mondadori
13
1
2
Dacia Maraini
Menzogna felice
Repubblica Amore
3,90
2
3
Michail A. Bulgakov
Il Maestro e Margherita
Repubblica Novecento
4,90
1
4
Francesco Guccini & Loriano Macchiavelli
Malastagione
Mondadori
10
3
5
John le Carré
La spia che venne dal freddo
Repubblica Giallo
5,90
3
6
Enzo Bianchi
Per un’etica condivisa
Einaudi
10
4
7
Carmine Abate
La festa del ritorno
Mondadori
9
3
8
Sandrone Dazieri
Il Karma del Gorilla
Mondadori
9
3
9
Tahar Ben Jelloun
Incontro crudele
Repubblica Amore
3,90
2
10
Jaime Mendoza
En las tierras de Potosì
Puerta del Sol
2
2
11
Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Repubblica Novecento
4,90
1
12
Antonio Pascale
La manutenzione degli affetti
Einaudi
10
3
13
Alessandro Baricco
Mr. Gwyn
Feltrinelli
14
4
14
William Faulkner
L'urlo e il furore
Repubblica Novecento
4,90
2
15
Alessandro Baricco
Tre volte all’alba
Feltrinelli
s.p.
3
16
Michael Crichton
La grande rapina al treno
Repubblica Giallo
5,90
3
17
Giancarlo De Cataldo & Mimmo Rafele
La forma della paura
Repubblica – Noir
6,90
2
18
Valerio Varesi
Il fiume delle nebbie
Sperling & Kupfer
9,50
2

Ripenso al freddo che avevo un anno fa esatto, aggirandomi sui 4000 metri del Tolar Argentino, e mi viene ancora più caldo, in questo caldo luglio romano appena iniziato. Si dovrebbe vivere solo di notte, ma forse non si può. Come si dovrebbe vivere nei parchi (ai ben informati, consiglio Villa Mercede), mangiando frutta e verdura, e bevendo molta acqua (birra non, che poi si suda di più). Vediamo di cominciare bene questo mese e questo semestre.
Un bacio
Giovanni

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