Patricia Cornwell “Il fattore Scarpetta” Mondadori euro 13 (in realtà,
scontato 11,05 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 31/03/2012 – T: 04/04/2012]
[titolo: The Scarpetta Factor; lingua: inglese; pagine: 416;
anno: 2008]
Siamo tornati molto ma molto in
basso! Nelle ultime prove, sembrava che fosse tornata un po’ di verve alla
nostra beneamata scrittrice. Così che anche i suoi personaggi e le storie (con
una ventina di titoli alle spalle) della famosa anatomo–patologa Kay Scarpetta
avevano ripreso quota. Si tornava a parlare di procedure di analisi, di
elementi di indagine, ed altre amenità che ci hanno fatto voler bene a questi
libri seriali. Ma ora ci dev’essere stato un intoppo. Che so, qualche scadenza
da rispettare, qualche migliaia di righe da scrivere anche senza ispirazione.
Ed allora che fa la nostra Patricia? Si concentra da un lato sui rapporti
interpersonali tra i suoi personaggi storici: Kay ed il marito Benton; Lucy e
la sua fiamma Jaime; e poi Benton vs. Marino, e Kay vs. Lucy. Dall’altra non
trova di meglio che tirar fuori dal cilindro l’unico nemico storico rimasto ai nostri
eroi. Quel famoso Jean-Baptise Chardonne che alcuni libri fa inopinatamente
fugge dal braccio della morte di un carcere e fa perdere le sue tracce. Il
tutto condito da un mistero piccolo piccolo: la morte di una giovane ragazza e
la scomparsa di una donna analista finanziaria di un grande patrimonio. L’unico
elemento “patologo” è la discussione tra il procuratore Jaime che mostra un video
con la ragazza viva e le convinzioni di Kay, che attraverso l’autopsia aveva
collocato la morte 24 ore prima del video. E poi basta. Solo gran parlare,
sviscerare i vecchi misteri. Perché Benton scomparve per 6 anni? E quali sono i
rapporti tra Benton e l’FBI? Perché una sessantenne maniaca dice di essere la
zia di un attore? E perché il detto attore frequenta ospedali e camere
mortuarie? Chi invia pacchi-bomba a Kay? Che c’entra una giornalista televisiva
in rovina alla ricerca di uno scoop che non riesce a trovare? Come mai
l’analista finanziaria scomparsa a fatto perdere milioni di dollari a Lucy? E
perché Lucy non l’ha detto a Jaime? E via cianciando del passato, per pagine e
pagine. Lanciando solo qualche messaggio che le nuove tecnologie avanzano. Così
si da spazio a Lucy, la nostra espertissima, che parla di reti neurali,
BlackBerry con GPS, ed altre amenità tecnologiche. Dando anche spazio a Benton
e all’FBI di fare lunghe riunioni sui “profiler”, professione avanzante nel
panorama del crimine statunitense. Con qualche chicca laterale (viene citata la
figura di Benton come ispiratrice di un profiler del libro “Il silenzio degli
innocenti” come se il libro fosse cronaca e non fantasia). Ma noi seguiamo
pagina dopo pagina, sperando che ci sia qualche cosa da scoprire, qualche
risvolto strano, un disvelamento. Arrivando poi alle ultime 10 pagine, dove
dovrebbe esserci la catarsi, lo scioglimento dei nodi, lo svelarsi dei (non
tanti) misteri. Ebbene come se la cava la nostra Patricia? In poche righe,
liquida il colpevole, gli fa fare questo e quello, mette tutte le caselline al
posto giusto. Ma senza due righe di partecipazione. Senza elementi di
coinvolgimento. In altri momenti ed altri libri, avrebbe tirato (e con piacere)
per almeno cinquanta pagine. Facendo partecipare un po’ tutti, e dando a Kay
poi il ruolo di narratore degli esatti svolgimenti di morti ed altre nefandezze.
Invece, niente. Ci sono morti che si intuiscono, ma non vengono spiegate.
Personaggi che dovrebbero avere un ruolo, ma vengono ignorati. Insomma, un modo
scialbo e piatto di chiudere una vicenda già di per sé poco esaltante. Torniamo
sempre alla domanda che ci facemmo qualche libro fa (e che ogni tanto torna
anche per altri autori, anche per il nostro altrettanto benamato Camilleri). Se
non c’è ispirazione, se non c’è motivazione, perché scrivere? Per rispettare
contratti? Ma i lettori? Non si sentono, come me, presi un po’ in giro? Comunque,
nell’ottimismo che mi contraddistingue, spero che vengano presto altre e
migliori prove.
“- Ho fatto un sacco di cose a cui non posso rimediare…. – Non si può
cambiare il passato… Non possiamo tornare indietro, possiamo solo assumerci la
responsabilità dei pasticci che abbiamo combinato, chiedere scusa e cercare di
andare avanti.” (326)
John le Carré “La spia che venne dal freddo” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 09/04/2012 – T: 10/04/2012]
[titolo: The spy who came in
from the cold; lingua: inglese; pagine: 237; anno:
1963]
Dopo anni (forse decenni) di
resistenza, finalmente mi decido a leggere qualcosa di David John Moore
Cornwell. Mi ero sempre bloccato per un senso di repulsione (parola forse un
po’ forte) che mi ispiravano le storie di spie ed affini. Certo, vi domanderete
come mai un appassionato di intrecci, di gialli ed altro, abbia questa
sensazione di non vicinanza. Ma la risposta, in un certo senso, è banale. Un
giallo, prendiamo a caso un libro di Maigret, è ben più di un intreccio. È una
piccola lampada accesa sul passaggio di qualche persona in questa che chiamiamo
vita. Una sensazione che le storie di spie non mi hanno mai dato. E continuano
a non darmi anche dopo questa, che, per altro, è una degna lettura ed un libro
meritevole di essere letto. Si sentono i sessanta anni trascorsi, ma più per le
atmosfere generali che per la scrittura (come invece succede ad altri libri
coevi e tardi). Quanta acqua è passata sotto i ponti della storia. Lì eravamo a
pochi momenti dalla nascita del Muro di Berlino. Or son passati più di venti
anni dalla sua caduta e tutto il panorama mondiale è mutato. Ma John le Carré
ha avuto il merito di fare una fotografia talmente efficace del mondo della
guerra fredda, che il suo libro diventa quasi un libro di storia più che un
libro di finzione. Ed i suoi personaggi assurgono paradossalmente un ruolo
eponimo, diventano dei simboli di posizioni e ragionamenti. Comunque, vincendo
la resistenza di cui sopra, mi sono immerso nelle atmosfere brumose dell’ex -
Germania Est. Rivivendo quasi in sogno momenti passati tra Lipsia e la Polonia
or son quasi quaranta anni. La vicenda è lineare nella sua complessità, e
magistralmente orchestrata dall’autore. Si è nel tempo delle grandi reti
spionistiche, dell’Intelligence di Bondiana memoria. E dei tentativi di creare
reti di informatori nel cuore degli apparati “nemici”. Prendiamo conoscenza
quindi di Leamas, e della sua sconfitta quando l’intera rete che ha messo su a
Berlino Est viene debellata e (quasi) tutti gli esponenti uccisi. Per colpa (o
merito) del controspionaggio tedesco guidato dal truce Mundt e dal suo accolito
Fiedler. Tornato in patria, Leamas viene convinto dal suo capo ad organizzare
una complicata trama per far fuori Mundt. Comincia così una finta deriva
dell’ex-spia. Che si finge sbandato, ubriacone, deluso, tanto per farsi
abbordare dalle spie dell’Est. Cosa che ben presto avviene, e tra un’ammissione
ed una fuga, il nostro si ritrova ben presto di nuovo a Berlino, ma dall’altra
parte del muro. Intanto il suo capo ha messo in piedi il resto degli intrecci
per far cadere i tedescacci nel trappolone. Che riesce talmente bene da porre
l’un contro l’altro armati Mundt e Fiedler. In un lungo momento di svelamenti e
riconoscimenti, si arriva alla catarsi finale. Chi era la spia che faceva il
doppio gioco? Era Mundt realmente come sostiene Fiedler o era una trappola per
far cadere lo stesso Mundt cui Fiedler casca in pieno? Non vi svelerò il
finale, benché sia ormai arci-noto. Né vi dirò della storia d’amore di Leamas
con la bella Liz, quella che rimane nella testa per chi, non avendo letto il
libro, si ricorda però del bel film con Richard Burton e Claire Bloom (ma
perché nel film, Liz viene rinominata Nancy?). La parte meno sostenibile del libro
risiede in tutta una serie di affermazioni e sparate sulle spie, sulle
motivazioni, e su altri ragionamenti similari, molto, troppo legati allo spirito
del tempo. Per questo, benché piacevolmente letto, il mio rimane un giudizio
mediano sulla bellezza e consistenza del libro stesso. Una trama esemplare
sorretta da una scrittura decente, che sottolinea la quotidianità di certi
comportamenti spionistici (per fare da contraltare alle rutilanti missioni alla
Bond), ma che non mi invoglia particolarmente a leggere altro del nostro. Come
un buon bicchiere di gin olandese, molto profumato, ma alla fine ne basta un
bicchiere. E non ci si torna su.
Michael Crichton “La grande rapina al treno” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 26/04/2012 – T: 28/04/2012]
[titolo: The Great Train
Robbery; lingua: inglese; pagine: 288; anno:
1975]
C’è stato un periodo delle mie
letture che ero affascinato di Michel Crichton. Trovavo affascinante quel suo
modo di entrare ed uscire dalla trama per raccontare contorni, motivi, spiegare,
informare. Erano i tempi di “Andromeda”, di “Congo” e di “Jurassic Park”.
Nonché di quei racconti che poi furono alla base di una delle più belle serie
televisive (“In caso di necessità” che fece nascere i telefilm di “E.R.”). Poi
è calato nella scrittura, si è dato ad esternazioni improbabili, e l’ho messo
da parte. Infine 4 anni fa, a soli 66 anni muore. Ora riprendo in mano uno dei
suoi primi libri, che all’epoca avevo saltato. E lo ritrovo come l’avevo
lasciato. Solo che gli anni sono passati, e quella scrittura che 40 anni fa era
interessante e innovativa, si è fatta sterile. Non che questa grande rapina non
sia ben fatta e ben resa. Ma quegli intarsi che mi piacevano tanto, ora
sembrano frutto di uno sfoggio di erudizione, di un tentativo di dire: ‘guardate
che per capire quello che vi sto narrando di una storia che si svolge nel 1855,
dovete sapere fatti e circostanze di vita, e dato che non le sapete, ve le
illustro io”. Ecco, or mi sovviene, è quest’aria da sapientone che mi da fastidio.
Perché la miglior sapienza è quella che esce fuori dalle righe del testo senza
averne l’aria. Quella che dice e descrive e coinvolge e porta a vivere il tempo
della scrittura come fosse sempre coevo del tempo della lettura. Peccato,
tuttavia. Che la storia, in realtà merita. È la narrazione, oltremodo fedele,
di una grande rapina al treno, dove sparisce l’oro destinato alle paghe dei soldati
inglesi che combattevano in Crimea. Una storia che seguiamo passo dopo passo. Seguendo
le orme dell’artefice, Edward Pierce. Dall’idea alle modalità di attuazione. Ai
modi per trovare la possibilità di aprire la cassaforte che viaggiava sul
treno, procurandosi le chiavi d’apertura. Al modo di salire sul treno. Al modo
di fuggire dal treno. Al modo di sostituire l’oro con qualcosa dal peso equivalente
per non far scoprire subito il furto. E poi, velocemente, alla ricerca dei colpevoli
da parte della appena nata Scotland Yard. All’arresto. Ed al processo, sulla
base del quale, poi, si ricostruisce tutto il pregresso. Non vi narro solo la
fine, che non è inventata da Crichton, ma, come tutta la storia, è ben documentata.
E devo dire anche decentemente narrata. Ora, ci sono due commenti da fare al
testo. Le parti narrate sono in puro stile Crichton, cioè con la sua capacità
di farti entrare immediatamente in sintonia con la persona che seguiamo al
momento. Quella capacità che poi ben sfruttò in ER, dove in effetti (a parte i
personaggi di lunga durata) anche i comprimari, in poche battute, erano ben
delineati (parlo ovviamente del tempo di Clooney e della Margulies). E sono
piacevoli. L’altra parte è l’utilizzare questa rapina come un simbolo. Un
simbolo del mondo che cambia, dell’apice e dell’inizio del tramonto dell’epoca
vittoriana, dove se ne narrano fasti e nefasti, per spiegare azioni e
situazioni. Le turbe di poveri che vivono con meno di una sterlina settimana, i
ladri, le prostitute, ma anche l’inizio dell’industrializzazione, il lavoro
minorile, l’emarginazione femminile, la tracotanza aristocratica, tra lotte di
cani contro topi, e partecipazione a proibiti incontri di boxe. Ma soprattutto
rapina simbolica in quanto non attuata da poveri ladri e truffatori, ma
organizzata da una persona che ha tutta l’aria di essere se non agiata almeno
di una tranquilla classe media. Ed è appunto questo che preme sottolineare a
Crichton: alla metà dell’Ottocento, si comincia a percepire che i malviventi
non sono lombrosianamente tarati, ma nascono in ogni dove e per tante
necessità. Questo passaggio non fu compreso, e l’Inghilterra andò avanti sulla
sua strada, e da nazione faro e guida del mondo, cominciò ad imboccare la strada
della normalità. Ma non la comprese, e alla fine ne fu spiazzata, lì quando
crollò, pezzo dopo pezzo, tutto l’Impero Britannico. Ma stiamo andando molto
fuori. Tornando a Crichton, se avesse insistito di più sulla storia, senza
dovercene troppo spiegare i contorni (bastava molto meno), avrebbe potuto
rendere la rapina, pur se simbolica, una specie di “Ocean Eleven”
dell’Ottocento. Peccato.
“In quei tempi la linea divisoria tra un’attrice e una prostituta era
estremamente sottile. E gli attori erano, a motivo della loro professione, dei
nomadi vaganti che avevano in genere rapporti con i criminali o appartenevano
direttamente alla malavita.” (91)
P.D. James “La stanza dei delitti” Repubblica Giallo euro 5,90
[A: 2004 – I: 01/05/2012 – T: 06/05/2012]
[titolo: The Murder Room; lingua: inglese; pagine: 477;
anno: 2003]
Al solito di Phyllis Dorothy
James, Baronessa James di Holland Park, decana delle lettere inglesi, è un
libro ben scritto, articolato, anche se forse un po’ lunghetto. Ma, al solito,
gradevole, con una trama a vari livelli (e questo la porta ad allungare il
numero di pagine) che vengono tutti svolti e portati ad un loro punto finale.
Non una fine, che stiamo pur sempre parlando di uno dei 14 libri dedicati
dall’autrice all’ispettore Adam Dalglish. Ispettore atipico, sempre empatico
con i personaggi coinvolti nella vicenda, forse a causa del suo essere, prima
che Ispettore, poeta. Non di successo mondiale, ma comunque poeta. E l’attuale
Lady James ne narra le storie, seguendone vita pubblica e privata, da ben
cinquanta anni. Che il primo romanzo fu un best seller a sorpresa nel lontano
1962 (“Copritele il volto” questo il titolo). Firmato P.D. per mascherare il
fatto di essere una scrittrice, in un mondo che solo Agatha Christie riuscì a
scardinare (ed a cui P.D. dedica un piccolo omaggio trasversale, chiamando
Ackroyd uno dei personaggi minori del libro). E ben ha fatto poi a non
inflazionarlo, facendo uscire appunto solo 14 romanzi in 50 anni. Qui siamo al
12°, e, benché curiosi delle vicende umane pregresse di Dalglish, la baronessa
delle lettere (così nominata a settanta anni dalla Regina Elisabetta) porta
avanti la sua trama che possiamo leggere senza essere presi dall’angoscia
seriale di non conoscere tutto del nostro poeta-poliziotto (a proposito, forse
il cinese Qiu Xialong ne ha tratto ispirazione?). Lasciata ben presto sullo
sfondo la vicenda privata, laddove il buon Adam si innamora della bella Emma
(con una vicenda trasversale, una di quelle che allunga le pagine, ma di cui
non vi dirò la conclusione, rimandandola ad eventuali nuove avventure), ci si
concentra sul problema delle morti. Che ruotano intorno ad uno strano museo
dedicato al periodo tra le due guerre, con una bella stanza dedicata ai grandi
delitti e processi coevi. Son tre fratelli i gestori. Ma il più giovane,
rampante psichiatra, vuole chiuderlo. Fatto sta che muore bruciato nella sua
Jaguar nel garage del museo (così come uno dei morti della stanza dei delitti).
E nella stessa stanza viene rinvenuto il cadavere di una giovane donna, entro
un baule, anche lui reduce da turpi storie degli Anni Trenta. Intorno a queste
morti, ruotano i due fratelli superstiti (ognuno con qualche luce e molte
ombre, soprattutto la sorella), la contabile tuttofare del Museo (protetta non
si sa per quale oscura ragione dalla suddetta sorella), il curatore della
mostra (che sappiamo sta morendo di cancro), la calligrafa del Museo (forse una
volta spia dei Servizi Segreti), la custode donna delle pulizie ed il suo
aiutante gay. Dall’altro lato c’è la squadra di Dalglish, con Kate, la
simpatica agente, ombra gentile dell’Ispettore, che ricorda in controluce il
rapporto tra l’Ispettore Lynley e la sua aiutante Barbara della serie scritta
da Elizabeth George. Con Piers che sta per lasciare la squadra e
l’anglo-indiano Benton Smith che ci sta per entrare. Con mano felice, P.D.
tratteggia i vari personaggi, ce li fa apprezzare mentre girano, indagano e a
volte scappano per le strade di una Londra senza tempo. Spende pagine
distensive per ripercorrere storie, risalire e poi scendere nel corso del
tempo. Facendoci sentire l’urgenza di trovare una soluzione al mistero, che
l’ambiente dei delitti è altolocato, quindi si deve risolvere in fretta. E la
difficile soluzione interferisce con la vita privata di Dalglish cui si
accennava sopra. La soluzione, seppur scontata, è ben costruita. E, con buona
pace dei pennivendoli moderni, non lascia adito ad ombre alcune. Tutto si
spiega e si incastra. Forse non al
meglio, ma risulta un libro di buona fattura e gradevole lettura. Ed
ogni tanto ci vuole.
“Non si era mai chiesta se le piacesse … le persone erano utili o
inutili, gradevoli come compagnia oppure scocciatori da evitare. (51)
“Si ritrovò a tirare mentalmente le somme della propria esistenza e a
riflettere, con meraviglia e distacco, sul fatto che cinquantacinque anni, che
a lui erano sembrati così memorabili, avessero potuto lasciargli un’eredità
tanto magra … un pensionamento anticipato in seguito alla diagnosi di un tumore
maligno che inaspettatamente, e in modo sconcertante, era stato curato con
successo.” (72)
“Quando ami qualcuno, desideri in modo struggente capire e andare
incontro a ogni sua necessità, ma non puoi, vero? Nessuno può. Possiamo dare
soltanto quello che l’altra persona è disposta a prendere.” (230)
Ed essendo la prima trama del
mese diamo allora uno sguardo riassuntivo alle letture di aprile. Dove a parte
il sempre interessante padre Bianchi, ed una stuzzicante prova di Barricco,
stiamo nel limbo totale, con alcune prove a me dispiaciute come Bulgakov di cui
ho parlato, la Cornwell di cui parlo qui e Gadda di cui parlerò.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Patricia Cornwell
|
Il fattore
Scarpetta
|
Mondadori
|
13
|
1
|
2
|
Dacia Maraini
|
Menzogna felice
|
Repubblica Amore
|
3,90
|
2
|
3
|
Michail A.
Bulgakov
|
Il Maestro e Margherita
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
1
|
4
|
Francesco Guccini
& Loriano Macchiavelli
|
Malastagione
|
Mondadori
|
10
|
3
|
5
|
John
le Carré
|
La
spia che venne dal freddo
|
Repubblica Giallo
|
5,90
|
3
|
6
|
Enzo Bianchi
|
Per un’etica
condivisa
|
Einaudi
|
10
|
4
|
7
|
Carmine Abate
|
La festa del
ritorno
|
Mondadori
|
9
|
3
|
8
|
Sandrone Dazieri
|
Il Karma del
Gorilla
|
Mondadori
|
9
|
3
|
9
|
Tahar Ben Jelloun
|
Incontro crudele
|
Repubblica Amore
|
3,90
|
2
|
10
|
Jaime Mendoza
|
En las tierras de Potosì
|
Puerta del Sol
|
2
|
2
|
11
|
Carlo
Emilio Gadda
|
Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
1
|
12
|
Antonio Pascale
|
La manutenzione
degli affetti
|
Einaudi
|
10
|
3
|
13
|
Alessandro Baricco
|
Mr. Gwyn
|
Feltrinelli
|
14
|
4
|
14
|
William Faulkner
|
L'urlo e il furore
|
Repubblica Novecento
|
4,90
|
2
|
15
|
Alessandro Baricco
|
Tre volte all’alba
|
Feltrinelli
|
s.p.
|
3
|
16
|
Michael Crichton
|
La grande rapina
al treno
|
Repubblica Giallo
|
5,90
|
3
|
17
|
Giancarlo De
Cataldo & Mimmo Rafele
|
La forma della
paura
|
Repubblica – Noir
|
6,90
|
2
|
18
|
Valerio Varesi
|
Il fiume delle
nebbie
|
Sperling &
Kupfer
|
9,50
|
2
|
Ripenso al freddo che avevo un
anno fa esatto, aggirandomi sui 4000 metri del Tolar Argentino, e mi viene
ancora più caldo, in questo caldo luglio romano appena iniziato. Si dovrebbe
vivere solo di notte, ma forse non si può. Come si dovrebbe vivere nei parchi
(ai ben informati, consiglio Villa Mercede), mangiando frutta e verdura, e
bevendo molta acqua (birra non, che poi si suda di più). Vediamo di cominciare
bene questo mese e questo semestre.
Un bacio
Giovanni
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