Una bella infornata di scrittura
femminile, molto isolana anche se non isolata. La sarda Agus e la pacatezza dei
suoi rapporti isolani. La sicula Torregrossa che passa dalle minne dell’esordio
alla manna (si proprio lei, quella del frassino). In mezzo Chiara Gamberale,
con il suo libro d’esordio, che non conoscevo e che avrei voluto leggere al tempo
dell’uscita. Ma quando c’è tempo e modo di rimediare va sempre bene.
Milena Agus “Sottosopra” Nottetempo s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 14/02/2012 – I: 15/02/2012 – T: 16/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 168;
anno: 2012]
Solare. Milena Agus mi piace
perché la trovo solare, allegra, sempre pronta (come uno dei suoi personaggi) a
vedere il lato buono delle cose. Certo, ce ne sono anche di brutte, cattive,
dolorose. Ed il libro ne è pieno. Ma mi rimanda in ogni caso più voglia di
vivere che desiderio di morire. L’autrice un po’ ironizza su quel titolo (forse
già ben sfruttato), ma qui assume tutte le valenze del caso. Anzi della casa.
Perché c’è un sotto della casa dove vivono Anna con la figlia Natascia. Ed un
sopra della casa, dove vive Mr. Johnson, un violinista americano che rinunciò
alla carriera perché non aveva interesse ai soldi ma alla musica. Alienandosi
Mrs. Johnson, che in realtà è sarda (ed è per questo che vivono a Cagliari) e
si chiama di cognome Ugru. In mezzo c’è lei, la narratrice, il Pasticcio, come
la definisce un personaggio, perché non riesce a fare mai quasi nulla di buono,
facendo regolarmente cadere la bustina del tè nell’acqua con tutta la carta. E
c’è Anna appunto, solare e ben disposta, che da sotto si prende cura del sopra
rimasto solo, che Mr. Johnson non è capace di nulla, perché ha la testa
altrove. E tra loro, vicini ai settanta anni, nasce un amore ritroso ma pieno
di ripagamenti. Anche qui, con la Agus che rovescia, sottosopra, il detto che
il primo amore non si scorda mai, ribadendo che meglio è l’ultimo, che porti
per sempre con te. C’è Natascia gelosa del suo fidanzato, e che desidera una
vita normale, non con quella madre che ogni volta parte per imprese disperate,
innamorandosi a destra e sinistra, e rimanendo sempre scottata. C’è, ad un
certo punto, Johnson junior, tranquillo e pacato professore gay, con figlio di
provetta (Giovannino) ed amore palestinese (Omar). Belle sono le pagine con
Alice che va in spiaggia con il bimbo, che alla fine risulta il più maturo di
tutti, quello che ha sempre una parola pacata, che a scuola soggioga tutti con
mitezza e ragionamenti (beh, altro sottosopra, i bambini più saggi degli
anziani). E ad un certo punto c’è anche il ritorno di Mrs. Johnson, che
scombina il nascente amore tra Anna e il violinista, ma che è l’unica a non
essere sottosopra, l’unica che aspira a sentimenti e situazioni normali. Che
proprio per questo, forse, potrebbe essere l’unica che non raggiunge i suoi
scopi. Anche se si ricordano gli incontri con Alice, che parteggia per Anna, ma
che non sa trattenersi dall’avere un rapporto umano con tutti. Alice che
scopriamo essere anche quella che porta il maggior carico di cose brutte e
cattive, come si diceva all’inizio. Un padre che prende una sbandata per una
giovane, e non riuscendolo a gestire non trova di meglio che impiccarsi ed una
madre che di conseguenza perde il filo logico dei pensieri. Ci sarebbe da
diventar tristi, se questi sentimenti rimanessero sopra, invece vanno sotto. Ed
esce, a poco a poco, il vero alter-ego dell’autrice. Mr. Johnson appunto, che è
svagato, vegetariano, incapace di cucinare e di mettersi a posto casa e armadi.
Ma che affronta la vita con il disarmante sorriso di chi ha una cosa dentro di
sé (la musica, appunto) e su quella punta tutto. Consolazione e voglia di
essere. E non importa se suoni sulle navi da crociera o faccia un concerto jazz
a Parigi, lui è sempre contento. Così come sarà contento (anche se costretto)
della scelta che dovrà fare: Mrs. Johnson o Anna? Questo non ve lo dico, anzi
vi dico, andatelo a leggere. Che alla fine, pur se poteva essere più
concludente, la sua inconcludenza sottosopra rallegra e riscalda. E fa quasi
venire voglia di fare un salto a Cagliari, magari fuori stagione.
“Il sesso senza amore non esiste. Basta che uno dei due sia innamorato
e già l’amore esiste.” (132)
“Un po’ di realtà e un po’ di invenzione. Del resto, non è questa la
vita?” (134)
“Mia moglie … ha amato un violinista, mentre io ero uno che suonava il
violino.” (140)
“L’età migliore per innamorarsi è proprio la vecchiaia … perché non
avranno il tempo di stufarsi l’uno dell’altro. Finiranno loro, prima
[dell’amore].” (160)
Milena Agus “Ali di babbo” BEAT euro 7,50 (in realtà, scontato 6,37
euro)
[A: 02/11/2011 – I: 18/02/2012 – T: 19/02/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 118;
anno: 2008]
Ed anche in questa sua prova
precedente (temporalmente), tra l’altro foriera di premi, la nostra amica cagliaritana
mi mette in una bella considerazione di spirito. Non è un romanzo travolgente,
non è che succedano tante cose. Ma ci sono personaggi sinceri e robusti, che
dallo scritto ci vengono incontro come cari amici. E rimangono lì a narrare le
proprie storie. Come la ragazza, quattordicenne, io narrante delle vicende
della propria famiglia, allargata ad amici e vicini. E il nonno. E madame. Questi,
per me, i tre poli della vicenda. Che è si tutta percorsa da questo sentimento
dell’abbandono paterno. Ma è un sentimento latente. Doloroso, ma latente. Il
babbo che prima dell’inizio scompare, lui che non ha fatto altro che giocare
con tutto, anche con la vita. E quando i debiti superano di molto i crediti,
scompare. Muore? Si suicida? Che importa. Quello che resta nella protagonista è
un po’ il senso dell’abbandono. E un po’ quello della protezione. E allora
rivolge la sua attenzione a madame, la straniera (non in quanto non sia sarda,
ma perché un giorno se ne andrà in Francia), che ha messo su un albergo in un
punto magico, che soprattutto non vuole vendere ai lottizzatori cattivi. E che
vive continuamente delle travagliate vicende d’amore. Come molti, si innamora
sempre delle persone sbagliate, riversandoci tutto l’affetto che ha. E
prendendo sonori schiaffoni finali. Ma anche lei ha questo fondo di ottimismo,
per cui si rialza da ogni caduta e tira avanti, fino alla prossima. E c’è il
nonno, nume tutelare della terra, di cui madame si potrebbe innamorare, se non
fosse troppa la differenza di età. Che riprende tutti con i suoi consigli (e
rimbrotti). Che ha sempre slanci umanitari (ed è lui l’anima dei non venditori,
di quelli che, benché non abbiano nulla, si oppongono a chi vuole usare la loro
terra solo per miserrime speculazioni). Slanci che nel pericolo porteranno a
fargli salvare la famiglia e madame, ma non sé stesso. E dal pericolo, dal
dramma, si sa, se ne può uscire frastornati. O con nuove speranze. Milena non
ci sorprende che ovviamente sceglie la seconda via. Con il buon dottore, fino
ad allora nel’ombra, che assurge a polo buono della vicenda. Per la mamma della
protagonista, che finalmente riceve cure adeguate. E per madame, che, pur spaventata,
trova finalmente un amore positivo. Ed spaventata non dall’amore, ma dalla
possibilità che finisca. Ahi Milena, quante volte, quante persone hanno negato
a sé momenti di felicità per questi cupi presagi. Non noi, che dopo anni ed
anni, capiamo di volere quello che c’è fin che c’è. Poi il romanzo finisce, con
quella sensazione che non sia un romanzo, ma un breve spezzone della vita di
qualche persona che, durante la lettura, ci è diventata cara. Come molti dei
personaggi della Agus. E che ci immaginiamo seguire dopo l’ultima riga, in altre
storie, in altri momenti, in altre scorribande nel sole di Sardegna, correndo
tra le rocce, verso un bellissimo mare. Ha ovviamente alti e bassi, momenti a
volte lenti. Ma letto nella calma leccese mi ha dato un gusto in più di
assaporare colori e sapori del Sud. E di cullarmi al sogno delle sue infinite
magie.
“Domande così sceme fanno sparire tutta la magia. E senza la magia la
vita è soltanto un grande spavento.” (21)
“Signore, tienimi quaggiù finché tu ritieni che serva a qualcosa” (41)
“Con quel ragazzo non poteva continuare, perché per lui un albero era
soltanto un albero, mentre io stavo sempre lì a pensare a tutte le parole che
si dovevano usare per dargli un senso.” (53)
“[Lui] le legge tutte le notti ad alta voce il capitolo di un romanzo e
questo a lei piace tantissimo.” (57)
“Giovanni, con tutte le donne che ha avuto, ha deciso che sposerà
proprio madame. Non se lo sa spiegare, è un mistero la ragione per cui qualcuno
ci prende il cuore e a questo qualcuno ci affezioniamo, ci leghiamo.” (106)
“Essere felici non è facile … Dice che l’unico modo perché questa sua
felicità non finisca è finire prima della felicità.” (114)
“Giovanni ha viaggiato in tutto il mondo, Cina, Giappone, Terra del
Fuoco, Galapagos, Filippine, Islanda, Tibet, Siberia, Mongolia, Perù, Bolivia,
ed altri posti ancora.” (114)
Chiara Gamberale “Una vita sottile” Marsilio euro 7 (in realtà,
scontato 4,55 euro con Feltrinelli +)
[A: 19/01/2012 – I: 28/05/2012 – T: 30/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 136;
anno: 1999]
Difficile parlare male di questo
libro, ma anche difficile parlarne bene. Cioè, alla fine, mi è difficile
parlarne tout court. Un libro dove angoscia e piacere vanno stretti
abbracciati. Ma che sono contento di aver letto. E consiglio di leggerlo, potrà
piacere o meno, non credo lasci indifferenti. Con l’unico consiglio: leggete
prima il libro, poi l’introduzione. Sarà la mia mania, ma alle cose mi piace
arrivarci da solo, e poi confrontarmi. Cosa che succede poco se si legge il
libro in ordine. Un libro, giovane, acerbo, il primo scritto dell’allora poco
più che ventenne Chiara. Che non racconta una storia compiuta, dall’a alla
zeta, ma sfrutta un’interessante tecnica narrativa ad episodio. L’autrice –
soggetto racconta e si racconta, attraverso piccoli bozzetti. Andando su e giù,
nel mio immaginario, tra i quindici ed i venti anni. E parlando delle sue cose
intorno. Gli amici, la scuola, il cane, i genitori. Tassello dopo tassello si
costruisce la sua storia. E la storia della sua malattia. Che ad un certo
punto, baratro e crivello, comincia ad avere problemi con il cibo. Cadendo in
uno dei gorghi più spaventosi della gioventù. Un’anoressia feroce e tenace. Qui
passiamo dai piaceri alle angosce. Una malattia che spaventa, che non si sa
come prendere, che non si capisce da dove nasce (oltre che dalla propria testa,
ma è forse troppo semplice). Se ne può uscire, se ne deve uscire. Con le
proprie gambe, che solo maturando dentro di sé l’uscita si troveranno le forze per.
E cercando, ovunque, aiuti. Anche se non è semplice, che quando si chiede
aiuto, si è già verso una strada, non dico di guarigione, ma quanto meno di
affrontamento della malattia. Come mi dicono i miei amici psicologi, quando si
parlava dei mali della nostra adolescenza. Che più che anoressia, erano
depressione. Quella che non ti uccide, ma ti isola, che ti fa vedere tutto
difficile, molto ostile. E che quando la riconosci, sei sulla strada di
affrontarla. Come farà Chiara con l’anoressia. Ma quanta fatica e quanta strada
per riconoscerla. Quanto è difficile essere perfetti, e mantenere la propria
perfettibilità. E riconoscere di poter sbagliare è anch’esso un passo verso
l’uscita. La capacità di andare su e giù per tempi e spazi dello scritto
dell’autrice, ci consente di afferrare pezzi di verità sin dall’inizio. Ci
consente di farci un’idea del dopo anche durante. Che bellezza in una scrittura
ventenne (ricordo sempre quell’inizio di Paul Nizan e del suo “Aden, Arabia”,
dove chiede, più o meno, di non dirgli che i vent’anni sono l’età più bella
della vita). Ed io empatizzo subito con Chiara, quando confessa nelle prime
pagine il gusto di aver fallito una prova (un esame, o qualcosa del genere).
Capire di poter sbagliare, e sopravvivere all’errore è uno dei passi più belli
e difficili verso la consapevolezza (stavo per dire la maturità, ma non credo
che esista un tempo della vita con questo nome). Poi riparte la sua cavalcata.
Ed io mi appassiono alle sue amiche, Cinzia, Fabiana, Loredana, gli amici e gli
amori, Pablo, Emiliano, il cane Jonathan e le passeggiate con gli altri canari,
il padre (con quel ritratto folgorante, e quell’immagine di chi non butta
fazzoletti di carta, impagabile), Vera. Insomma, tutto quello che la stessa
Chiara definisce il suo piccolo Teatro dell’Assurdo. Che invece, proprio in
quanto assurdo, è il teatro della vita quotidiana. Unica difficoltà, quei
piccoli pezzi in corsivo, infondo ai capitoli, come a fare da contraltare alla
sua scrittura per bocca dei suoi personaggi. Non so, ma mi sono rimasti ostici.
Mi è dispiaciuto, a posteriori, averlo letto solo ora, ma dell’autrice ho
imparato a voler bene al suo modo di scrivere con un po’ di lentezza. Il solito
diesel…
“Non tutti amano leggere e inoltre non sempre ciò che a noi è gradito
lo è anche agli altri.” (45)
“Mi piace … perché … nei pochi casi in cui non ha risposte, si pone
però le domande giuste … crede nel Bene, nello sbagliare la strada per trovare
quella giusta, nel dare sempre del proprio meglio anche a chi non se lo merita.”
(53)
“Era quel non senso il senso del mio viaggio.” (69)
“Guarda che tu piaci malgrado, non per il tuo cervello, mi disse una
persona e io ci sto ancora pensando.” (70)
“È bello poter chiamare una persona per nome!” (73)
“Mi piace stare con … perché davanti a un quadro rimane zitto.” (97)
Giuseppina Torregrossa “Manna e miele, ferro e fuoco” Mondadori euro 10
[A: 30/05/2012 – I: 30/05/2012 – T: 01/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 382;
anno: 2011]
Un
libro cotto e mangiato. Nella pausa di pranzo del mio nuovo intenso lavoro
verso Porta Furba, decido di vedere com’è lo spazio Feltrinelli Appio, che non
avevo ancora visitato. Due fermate di
metro, e, prima di entrare, mi ritrovo una dimensione diversa. Certo non
ricordo tutto ma il caseggiato alto, con i mattoni a vista da cui sbuco è
proprio quello della mia infanzia. Mi ricordo solo il balconcino da cui, sui
sei - sette anni mi affaccio a vedere il mondo. Con l’infanzia in testa, entro
in questo ennesimo spazio libreria, al solito accogliente. Mi aggiro un po’, e
vedo l’economica del secondo libro della ginecologa siculo-romana (dove sempre
al fondo ritroviamo il suo tema principe, il rapporto tra genitori e figli).
Preso. E tra una metro e l’altra, tra Porta Furba e Cipro, andando e riandando,
in due giorni è divorato. Un libro che mi è piaciuto nella prima parte, ma che
poi è un po’ scivolato sui calcagni, come un corridore che dopo uno scatto
iniziale non riesca a mantenere il passo, e rallenti molto. La storia è un
bell’affresco della Sicilia di metà Ottocento, con qualche punta sociale, con
qualche spunto garibaldino e borbonico. Ma soprattutto (e nella prima parte
esce fuori bene) la storia della famiglia Gelardi, divisa tra la raccolta della
manna, guidata dal padre, e quella del miele, guidata dalla madre. Intanto, per
chi fosse a corte di nozioni arboricole, prima che bibliche, la manna è un
essudato dolcissimo che cola da incisioni fatte alle piante di frassino. Molto
nota nell’antichità (e molto nutriente, come ci insegna la Bibbia), ora la sua
produzione è molto ristretta (un paio di coltivazioni sulle Madonie), dato che
ha preso piede la fruizione del mannitolo di sintesi (quasi equivalente e più
economico, ed usato in farmacologia). Del miele non dico nulla, solo che ne vado
pazzo. La famiglia Gelardi viene allietata dalla nascita della bimba Romilda,
che ha la capacità di farsi capire dalle api. Prima di lei, tre maschi che però
non riescono a prendere le redini della famiglia. Vuoi perché un po’ gay
(Nino), vuoi perché troppo irrequieto (Tano), vuoi perché un po’ malaticcio
(Mario). Sarà lei Romilda, dopo un lungo percorso esteriore ed interiore, a
ritornare al mestiere avito, di apicoltrice (e questo e facile) e di mannalora
(intraducibile termine, il cui equivalente italiano sarebbe “frassinicoltore”
ma è orrendo). Lungo percorso che si intreccia con quello del barone Francesco
di Ventimiglia, rampollo ed erede della suddetta famiglia, che però non si rifà
al toponimo ligure, ma alla famiglia siculo-normanna la cui nobiltà affonda le
radici nel Trecento, e che ad un certo punto aveva il dominio su buona parte
dell’isola (soprattutto nell’entroterra delle Madonie) con uno sbocco al mare
verso Cefalù. Qui la storia si fa “inventata”, ma con bell’ingegno. Che don
Francesco, in realtà, sarebbe un popolano, adottato in gioventù dal barone
senza prole. Che ben presto fa suo il comandamento del padre (“Cumannari è mejo
ca’ fottiri”) e pensa al suo feudo, senza lasciarsi lusingare dalle femmine, ma
anche dalle altre sirene (borboniche o garibaldine che siano). Solo più che
cinquantina, incontra la dodicenne Romilda, e decide di impalmarla. Romilda è
lusingata dal baronato, ma non si trova, costretta tra mura, lei abituata
all’aria aperta. Darà una discendenza ai Ventimiglia per non far morire il
nome. Ma appena sarà possibile, e cioè alla morte di Don Francesco, lascia i
figli gemelli dodicenni e ritorna nel suo paesino delle Madonie, per fare
quanto dissi sopra. Certo la storia è piena di tanti altri piccoli risvolti,
che lascio al buon lettore. E di piccoli elementi campestri che mi sono
piaciuti (nonostante la mia scarsa affinità con le piante). Ed altro che meno
mi ha convinto. Pur tuttavia, ritengo che un libro che ti tiene incollato alla
pagina (ovvio nei momenti che si può) ha un che di buono che, nonostante tutto,
vada tenuto presente e coltivato.
“Spesso i figli smentiscono le affermazioni
dei genitori, tradiscono le loro aspettative, deludono le loro speranze, e si
rivelano per quello che sono: persone normali come tutte le altre.” (74)
“Era fatta così … più amava e più trattava male.” (158)
“Le inquietudini sono dentro di noi, e sono
le circostanze a dare loro corpo.” (238)
“Spesso i figli sono il più grande mistero
nella vita dei genitori.” (354)
Siamo
alla fine di luglio, con un caldo che non da tregua, e che mi toglie tutte le
forze. Gli amici già partono (almeno i più fortunati) e chi non parte studia. O
studia essendo partito o studia di partire. Insomma sono stanco e vado presto a
dormire, avendo una settimana di consegne e pensamenti.
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