Ultima tornata di lettura della
Biblioteca del Novecento della mamma. Due italiani e due sudamericani. Di peso,
ma non di gusto (almeno mio). Soprattutto deluso da Gadda da cui mi aspettavo di
più. Non mi aspettavo tanto dalla Morante, e tanto è stato. Speravo che Soriano
mi facesse sorridere, ma non è stato. Rimane Gabo, sperando che la malattia di
cui sui giornali non ci porti via le sue favole colorate.
Osvaldo Soriano “Triste, solitario y final” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 11/02/2012 – T: 13/02/2012]
[titolo: Triste, solitario y
final; lingua: spagnolo; pagine: 189; anno:
1974]
Ricorrendo il trentennale della
prima lettura del libro dell’argentino Soriano, ho voluto rileggerlo per vedere
cosa cambiava, che nuove e diverse impressioni mi lasciava. Anche perché ne
avevo una traccia labile nella memoria. Qualcosa di interessante, ma poi i
ricordi finivano. Basiamoci allora su questa lettura. E devo dire che gli anni
sono passati per tutti. Il testo è datato, la scrittura l’ho trovata stanca e
poco coinvolgente. Una sarabanda nel mito americano, con l’idea di metterlo in
crisi, di minarlo. Forse era così, ma ora non mi coinvolge affatto. La storia
prende l’avvio con uno stanco Stan Laurel, che ormai vecchio e solo (essendo
nel frattempo morto il suo sodale Oliver Hardy) si rivolge ad un detective per
sapere come mai nessuno lo vuole più nei film. Ovviamente il detective è Philip
Marlowe, di cui gustiamo il tratteggio che ne fa Soriano, saltabeccando tra i
libri di Chandler. Già qui poteva esserci dell’interesse, dell’ironia. Ma
lasciamo ben presto Stanlio, e ritroviamo Marlowe quindici anni dopo, che visitando
la tomba del mingherlino, si imbatte in un giornalista argentino, tal Osvaldo
Soriano, venuto in America per scrivere una storia sui due comici. Philip e
Osvaldo si industriano per trovare notizie, e si imbattono nel mondo della
celluloide americana. Si scontrano con una banda di gaglioffi capitanata da
John Wayne. Hanno una brutta storia cercando di risolvere un problema di
adulterio. Si intrufolano nella cerimonia degli Oscar, dove rapiscono Charlie
Chaplin. Dove Soriano bacia una stralunata Jane Fonda. Dove si susseguono
sparatorie ed inseguimenti. E bevute. E tristi serate giocando a scacchi e
consolandosi con il gatto di Marlowe. Ma tutto senza un vero perché. Sembra una
brutta copia di un hard boiled americano, dove incontriamo tanti personaggi
noti. Dove Soriano l’autore prende in giro (o cerca di farlo) sia i tic dello
star system americano, sia la mania argentina di guardare al Nord America come
fonte di soluzione di tutti i problemi. Ma se vediamo le date, ci accorgiamo
che da poco c’è stato il golpe in Cile. Ed in poco tempo, anche l’Argentina
sarà travagliata da colpi di stato militari ed altre nefandezze (basta
rileggersi qualche pagina delle Irregolari di Carlotto per ricordarsene). Tanto
che Soriano stesso sarà costretto a fuggire e riparare per almeno quindici anni
in Europa. Tornato, finalmente vede premiati i suoi sforzi di scrittore. Premi,
riconoscimenti. Magistrali scritti di calcio, la sua grande passione. Per poi
morire a soli 54 anni di cancro ai polmoni. Certo, questo scritto triste e
solitario è anch’esso un paradigma di Soriano, della sua visione del mondo (e
del suo amore per i gatti). Ma non ha più la freschezza di trent’anni fa. Ne
esce una storia stanca, piena di allusioni (e forse illusioni), che si legge e
si apprezza legata imprescindibilmente con la vita di Soriano stesso. Non è un
caso che vi si ponga dentro la storia. Ed in una parte di azione in prima
persona, mentre il libro veniva scritto nei sei mesi di mobbing che il suo
giornale gli imponeva. Gli veniva pagato lo stipendio, ma non veniva pubblicata
una riga dei suoi articoli in quanto era considerato troppo di sinistra.
Leggendo il romanzo in controluce con Soriano stesso e le sue illusioni, se ne
rivalutano aspetti e risvolti. Capacità stilistiche di parodiare gli americani.
Tristezza per essere lasciato lì, solitario anche lui. E senza una spalla su
cui innescare le sarabande comiche di Stanlio e Ollio. E quindi, pur con tutta
la benevolenza di testa che gli tributo, mi lascia un po’ deluso. Mi consola
solo aver scoperto che nel mondo spagnolo la coppia comica era chiamata “El
Gordo y el Flaco”. Muy hermoso!
Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”
Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 15/04/2012 – T: 19/04/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 256;
anno: 1957]
E continuiamo a parlar male dei “capolavori”
della letteratura. Dire che questo pur bello e sofferto libro non mi è piaciuto
è usare perifrasi per mitigare la verità. L’ho trovato non brutto, ma
illeggibile e inconcludente. Uno sfoggio di cultura, intellettuale, che gira
tanto nel cervello senza neanche aver la forza di arrivare alle orecchie.
Conclamato epitome del romanzo giallo, da leggere per le sue invenzioni
letterarie e linguistiche, nonché per un’ironia sottile e palese critica del
ventennio, mi ha lasciato freddo e deluso. Dicevo illeggibile (e vedetene poi
l’esempio che riporto, scelto aprendo una pagina a caso), e mentre lo leggevo
mi torna in mente l’attuale illeggibilità di Camilleri. Anche lì, piene sono le
pagine di parole astruse, ma hanno un loro andare, e si sciolgono nel cervello,
facendoci solleticare ricordi e riaffiorare sensazioni. E certo l’uso del
“romanesco” aiuta a far sprofondare il libro nei meandri della sguaiatezza di
una lingua incolta, di poco nobilitata dal Belli o dal Trilussa, ma che
allungandosi fuori del sonetto, lascia soltanto una scia di inascoltabile
durezza. Che viepiù risalta sulla pagina, che forse ad ascoltarla, anche se (e
lo dico da romano) non mi piace, ha comunque un suono. Purtroppo non un segno.
Secondo poi, se si voleva un giallo metafisico, che fa vedere ed in maniera
forte insensatezza e solitudine della vita, consiglio di dedicare tempo e
spazio a Dürrenmatt. Ma si dice, devi andare dentro la psicologia dell’autore,
alla sua visione del mondo. E poiché per Gadda il mondo è un guazzabuglio senza
senso, così ne risultano i suoi scritti. Tuttavia, se ne scrivo della mia
visione, io terrei conto anche della direzione della comunicazione tra me ed il
lettore. Gadda no. Se ne frega, se tu lo leggi o meno. Scrive per se, per le
sue frasi tornite, e per il suo trancio di vita che va a rappresentare. Perché
è uno stralcio, una storia che si svolge in pochi giorni, ma che (e qui non sto
svelando misteri) non si chiude. Seguiamo il protagonista, il colto commissario
Ciccio Ingravallo che sa di parole e di filosofia, da bravo molisano sceso a
Roma (mi sembra quasi un Di Pietro!), colpito dalla barbara morte della
conoscente Liliana. E ne seguiamo le indagini, sue e dei suoi accoliti
poliziotti e carabinieri. Si fanno belle foto della vita romana del ’27, tra
via Merulana e Piazza Vittorio, tra le Frattocchie e Marino, tra il rione Monti
e Santo Stefano del Cacco. Vediamo i signori, il questore, il maresciallo, le
puttane, le ricamatrici, il mariolo, il fratellino furbo, la Tina, l’Ines e la
Zamira. Ne seguiamo le gesta per poco. Le adombriamo, le inquadriamo. Così come
seguiamo il cavaliere impoverito, la coppia sussiegosa della scala B, quella
dei ministeriali, non quella “ricca” della scala A, dov’era la signora Balducci,
e la contessa. Entriamo per un po’ a compatire il bisogno di prole della morta,
il cercar caldo altrove del marito, il signor curato ed i suoi testamenti
olografi, Iginio che forse ha fatto il furto, le liti di Camilla e della
cugina, e via narrando, quasi a raccontar brani di mini-racconti, quasi a
fermarsi “ad ogni stormir di fronde”, per seguire un’idea, un gesto, per
capirlo e riportarlo sulla carta. Il buon Ciccio ha verso la fine, direttamente
o indirettamente, tutti gli elementi del quadro. E ci si aspetta che ne tiri
una conclusione, che annodi dei fili. Invece Gadda lascia tutto così, slabbrato
e decostruito. Forse io lettore ho capito, ma lui, lo scrittore non se ne
interessa. Che anche trovare un colpevole, o descrivere una storia compiuta
sarebbe dare un senso ad un mondo che non ne ha. E tutto ciò mi ha fatto,
pagina dopo pagina, montare una rabbia verso di lui, verso la sua scrittura,
verso tutta questa montagna che non riesce a partorire neanche un topolino.
L’ho finito di corsa, sperando fino all’ultima pagina di trovare quel piccolo
lume che avrebbe riscattato la fatica di averlo seguito fin lì. Niente.
Assolutamente niente. Completamente, definitivamente niente. Da chiudere e
riporre molto nascosto nella libreria, sperando che nessuno lo trovi, ed abbia
quindi una piccola idea di leggerlo. Per favore, non fatelo.
“Pareva che la contessa si ricusasse alla diligenza e alla pertinacia
dell’inchiesta, non volendo far fatica a riflettere: tutta trepida, tutta
rorida di speranze in ritardo, nel sogno e nel carisma delle ahimè rasentate ma
non patite sevizzie. Una policromatica sventatezza vaporava dai suoi foulards
color lillà, dal suo baffo bleu, dal chimono tutto gorgheggiato di uccellini
(non erano petali, erano strani volatili, tra gli uccelli e le farfalle), dai
capelli giallastri con tendenza a un Tiziano scarruffato, dal nastro viola che
li raccoglieva quasi in un cespo di gloria: sopra i vagotonici abbandoni
dell’epigastro e del volto vizzo, e i sospiri della scampata ahimè brutalizzazione
ma non rubalizio degli ori.” (27) [riporto integralmente, ed è una delle
parti in italiano, pur con quelle scivolate sulla vagotonia e le ruberie; se
uscite indenni da queste righe, potete passare al romanzo; ricordo solo che
queste dieci righe servivano solo a spiegare che alla domanda del commissario
la contessa non rispose]
Elsa Morante “La storia” Repubblica Novecento euro 4,90
[A: 2004 – I: 07/05/2012 – T: 29/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 603;
anno: 1974]
Un libro denso, complicato (tanto
che sembra semplice, e questo è uno dei pregi della scrittura della Morante). E
pervaso, alla fine, di un assoluto pessimismo. I piccoli della terra saranno
sempre schiacciati: dai grandi, dai furbi, dai cattivi, ma soprattutto dalla
Storia, quella con la S maiuscola. Nelle seicento pagine del libro seguiamo la
storia di 6 anni della vita di Ida Ramundo, maestra calabrese trasferitasi a
Roma negli anni ’30. La capacità della Morante è quella di introdurre
personaggi, seguirli, farne digressioni, poi ritornare nel corso principale
delle cose. Poi gli stessi magari li ritroveremo più in là, in altre occasioni
e vicende. Ma avendoli ben dipinti, non abbiamo problemi a riconoscerli, ed a
non perderci nella folla delle cose che riempiono la vita di Ida e dei suoi
figli. Seguiamo così le vicende giovanili di Ida, la sua nascita da un’ebrea
veneta, il matrimonio con il marito, il trasferimento a Roma, la nascita del
figlio Nino, la giovinezza di Nino negli anni rombanti del fascismo. E poi la
morte del marito, il vivere sola con quel figlio che cresce nel quartiere di
San Lorenzo (ripercorrendo un po’ le strade della sua giovinezza romana), la
paura della solitudine, lo stupro subito da un soldato tedesco di passaggio
(che morirà in Africa poche pagine dopo), la nascita di Useppe. E poi la vita,
scandita anno per anno da bollettini di aggiornamento degli avvenimenti della
Storia, che servono da controcanto a quelli della storia che stiamo seguendo. E
quindi la partenza di Ninuzzo per il fronte interno, il bombardamento alleato
di San Lorenzo, con la morte del cane Blitz, la distruzione della casa di Ida,
il suo rifugiarsi in quel di Pietralata (allora quasi campagna). E passa l’8
settembre, facciamo la conoscenza dell’anarchico Carlo-Davide, il ritorno di
Nino passato con i partigiani. Tutti i personaggi del casone di Pietralata (con
la bella figura di Eppetondo, come Useppe chiama il vecchio Giuseppe secondo, e
la dura descrizione della sua morte per mano dei fascisti), i va e vieni di
Nino, le paure di Ida di essere riconosciuta come ebrea. Ma non lo sarà, e
riuscirà a tornare verso la città, finendo in quel di Testaccio (vero enclave
della giovinezza morantiana). Finisce la guerra, Nino dopo un po’ d’animo
ribelle, si dedica a traffici ai margini della legalità, insieme al suo nuovo
cane Bella. Cane che, quando Nino muore in un incidente d’auto, diventa il nume
tutelare di Useppe e di Ida. Ritroviamo Davide, che scopre le droghe e si
sucida lentamente (così come avrebbe voluto fare Elsa, senza riuscirci).
Troviamo le passeggiate romane di Useppe e Bella, fino a che Useppe non viene
colpito dal “grande male”, ed anche lui muore, con Ida che impazzirà dal dolore
e Bella che dovrà essere abbattuta perché non avrebbe più lasciato il
piccolino. Insomma, muoiono tutti! Ma seppur nella prima parte, nei primi
quattro anni di guerra, la descrizione e la parola si fanno forti e
coinvolgenti, tutte le ultime duecento pagine sono faticose. Piene di proclami
(velati o meno) contro il potere e le sue degenerazioni. Molto anarchiche così
come lo era Elsa (tra l’altro zia della Laura cinematografica). Si fa
soprattutto fatica a seguire lo sproloquio di cinquanta pagine che accompagna
gli ultimi gesti di Davide. Certo, bell’esercizio di stile, ma dal contenuto
veramente ingarbugliato. Di certo, in ogni caso, preferisco la sua scrittura a
quella di suo marito Moravia (di cui ho già parlato, e discretamente male).
Sarà lunga e lenta (tanto che ho faticato quasi tutto il mese di maggio per
arrivare alla fine), ma non ti abbandona, anche nei momenti più involuti. Ma
alla fine tutto questo pessimismo un po’ mi disturba, ed il giudizio mio
personale e finale volge più verso il basso. Sarà la vita, ma ogni tanto un
sorriso, ci vuole, no?
“Era nata … sotto il segno del Capricorno, che inclina all’industria,
alle arti e alla profezia, ma anche, in certi casi, alla follia e alla
stoltezza.” (25)
Gabriel Garcia Marquez “La mala ora” Mondadori euro 9 (in realtà gratis
con Feltrinelli +)
[A: 18/03/2012 – I: 01/07/2012 – T: 04/07/2012]
[tit. or.: La mala hora; ling. or.: spagnolo; pagine: 177;
anno 1962]
Continuo a leggere del grande
Gabo, l’unico sudamericano di cui assorbo le parole e le storie senza esserne a
volte respinto. Ci sono dei libri di Jorge Amado che adoro ed altri che non riesco
a leggere. Così come di Vargas Llosa. Ho sempre avuto difficoltà con Manuel
Scorza o Paolo Coelho. Nessuna, ovvio, con gli argentini, che in fondo non sono
sudamericani (e qui si potrebbe aprire una discussione infinita). Ma Garcia
Marquez no. Alcuni mi piacciono di più altri meno (com’è naturale, ed
ultimamente batto molto su questo tasto), ma nessuno mi respinge. Tutti mi
avvolgono nelle loro storie intrecciate, quasi brandelli trasposti di
un’infinita autobiografia (la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che
si ricorda e come la si ricorda per raccontarla, come ha detto in un suo
libro). Il romanzo in sé tuttavia non ha una sua struttura definita e compiuta.
Sono circa tre settimane della vita di una cittadina colombiana, scandite dal
vecchio prete, da San Francesco del 4 ottobre a Sant’Ilarione del 21 (e qui si
nota l’unico elemento datato del libro, che nel ’69 Ilarione di Gaza è stato
posto tra i santi pseudo-storici). Cittadina eponima che viene scossa
dall’affissione, sulle porte di alcune case, di fogli diffamatori (pasquinate
le chiama Gabo). Non sono importanti di per sé, tant’è che, pur motore della
vicenda, non verrà risolto il mistero dell’autore (o degli autori) delle
pasquinate. Quello che interessa l’autore è da un lato affrescare una
situazione, un momento di vita, dall’altro utilizzare la pasquinata come
elemento destabilizzante. Perché di pagina in pagina tratteggia vari personaggi,
quasi a farli assurgere a simboli (per poi collegarli, e riprenderli in o
prenderli da altri scritti come ci illustra la bella introduzione di Angelo
Morino). Il padre che in gioventù diceva messa a Macondo. L’anziana vedova che
si ritrova sola in una casa che già conoscevamo dai funerali della Mamà Grande.
Il barbiere sovversivo. Il dentista che toglie un dente all’alcalde senza anestesia.
E poi l’alcalde che attraversa tutto il romanzo con la sua prosopopea da signorotto
locale, grassatore, sfruttatore, dittatore. Sempre con il fucile in mano e
sempre dalla parte del più forte. Ed il giudice che da un anno non mette piede
in tribunale preferendo stare con la sua amante negra ed incinta. La bella
Trinidad insidiata dallo zio. La sfuggente Maya. L’onesto contabile
Caramichael, che proprio per la sua onestà finirà in prigione. Il focoso Pepe
involontariamente artefice dei fuochi finali. E tanti altri, piccoli o grandi
attori di questo palcoscenico che si chiama vita. Perché poi è questa che esce
fuori da queste pagine ancora pre-cento anni. Siamo nel lato realista, anche se
non sfugge qualche irrisolta irrealtà. Donne innamorate che prima non lo erano
e poi sono invecchiate di venti anni. Bambini che ritroviamo la pagina dopo
adolescenti. Tutto un mescolarsi, ma poco importane. Non è questo che dobbiamo
seguire. Dobbiamo seguire Gabo che cerca di dare messaggi sociali, sul degrado
dei costumi sud-americani (non quelli morali, ma quelli legali). È ancora
arrabbiato (così come in quel primo bellissimo “Racconto di un naufrago”). Ha
ancora speranza. Poi la speranza realistica svanirà, per dar corpo a momenti
altri di libertà. Bellissimi ed ineguagliabili (ricorderò sempre l’estate del
’70, verso fine luglio, quando nel pomeriggio inizia a leggere di Macondo, e
non mi staccai più fino alla colazione del giorno dopo). Ho già detto che,
nonostante non pienamente riuscito, mi è piaciuto? Si? Beh, lo ridico e vi
saluto, volando nella mente tra il caldo equatoriale e l’umido di questa Roma
estiva ed asfissiante.
“Il caldo è una questione mentale … Tutto consiste nel non farci caso.”
(103)
Uno dei miei affezionati tramati
mi chiede aiuto per libri mirati: libri da pensare, libri da coltivare, libri
per la sera e libri per la notte. Io che leggo sempre e ovunque ho difficoltà a
separarne generi, oltre la discriminante di fondo: libri da leggere – libri da
non leggere. Comunque anche qui, come sugli scrittori argentini, si aprano le
porte ai contributi.
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