Fa troppo caldo per pensare, ed
allora come dice il mio amico architetto, qualche libro non dico da ombrellone,
ma senza meno per staccare e godersi qualche (più o meno) bella avventura. Sempre
gradevole trasferirsi in Egitto al seguito di Amelia Peabody e delle
mediorientali avventure. Abbastanza rilassante tornare nella Bologna del
Trecento con Mondino de’ Liuzzi. Immancabili poi le avventure scaturite dalla
penna di Cussler e dei suoi sodali, qui rappresentati dalla serie del capitan
Cabrillo e dal filone parallelo degli archivi del NUMA, seguendo le storie di
Kurt Austin.
Elizabeth Peters “Il caso del sarcofago scomparso” TEA euro 9 (in
realtà, scontato 7,30 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 23/02/2012 – T: 13/03/2012]
[titolo: The Mummy Case; lingua: inglese; pagine: 339;
anno: 1985]
Siamo così al terzo volume della
serie dedicata all’egittologa Amelia Peabody. L’autrice, che con il suo vero
nome di Barbara Mertz è realmente un’egittologa laureatasi a Chicago, negli
anni settanta inizia a scrivere questa saga, che unisce un senso del mistero
blandamente alla Miss Marple, con una forte connotazione archeologica. È stato
questo lato, a me che son cari deserti ed egizie località, che mi indusse alla
lettura, oltre ad un piccolo errore grafologico. Avevo per anni, e con diletto,
seguito le avventure gialle di un sacerdote del 1300 inglese, Fratello Cadfael
scritto dall’ottima Ellis Peters. Ovvia quindi la confusione iniziale. Dopo un
po’ di mugugno, tuttavia, anche se le storie non sono “super-avvincenti”, me ne
sono affezionati. All’aria scanzonata della buona Amelia, al rapporto
appassionato che ha con il marito, l’egittologo Emerson (sposato nel primo
libro), all’amore, pur se contenuto, con il figlio Walter jr. soprannominato
Ramses (per la somiglianza con il grande faraone) e nato nel secondo libro. In
questo terzo è la prima volta che tutti e tre si recano in Egitto, e si
apprezza presto il carattere antagonista del piccolo Ramses, genietto e molto
attento alle parole, che però riesce a raggirare per fare quello che vuole.
Ora, secondo la cronologia, Amelia è sulla quarantina e Ramses dovrebbe avere
nove anni. Dato che gli scavi venivano sospesi durante l’estate egiziana (e ti
credo), l’azione si svolge generalmente a cavallo d’anno. Qui siamo nel periodo
1894-1895. È ancora un periodo oscuro per gli archeologici. Ancora lontano
Carter e Tutankhamon. Ma pieno di avventurieri l’Egitto. Gente che trafuga
reperti depauperando un territorio che ben altro meritava. Emerson cerca di
ottenere il diritto di scavo di siti piramidali, ma viene estromesso dai
corrotti francesi. Si trova così con moglie e figlio a scavare in siti
marginali. Facciamo però la conoscenza di un’altra fetta egizia importante. La
cultura copta. Ed anche di altri masnadieri che si aggiravano nel mondo del XIX
secolo, i missionari di sette astruse, come in questo caso la non altrimenti
nota “Figli di Gerusalemme”. Abbiamo però l’agio di seguire Amelia aggirarsi
per Khan el Khalili, e scendere in centro attraverso l’affollatissima Muskli,
una strada che ricordo come una delle più difficili da percorrere, tanto è
piena di gente e bancarelle. E si imbatte in misteri. Un manoscritto copto che
scompare. Un sarcofago che appare e poi si nasconde. La morte di un mercante.
Ed altre avventure che vanno di pari passo con alcune scoperte archeologiche e
con la difficile convivenza tra mussulmani, copti e missionari. La nostra
autrice ha così agio di mandare ottimi strali all’indirizzo sia dei predoni
locali che spogliano le tombe per rivendere i reperti a collezionisti senza
scrupoli. Sia anche agli archeologici d’accatto che “non saprebbero riconoscere
una piramide neanche se si presentasse da sola”. Tra una fuga nel deserto, un
perdersi nella Piramide per essere salvati dal figlio, ed altre avventure,
Amelia ed il marito riescono a risolvere il caso, che anzi si rivela un po’ più
complicato dell’iniziale scomparsa del sarcofago di cui sopra. Per inciso bella
l’idea di un sarcofago che si nasconde (o è nascosto) tra altri sarcofaghi.
Rilassante lettura per riprendere a macinare altro e più impegnativo, fa sempre
piacere per il suo lato sempre esatto nel trattare le materie archeologiche.
Tra un po’ si affronterà anche il quarto volume.
Alfredo Colitto “Il libro dell’angelo” Piemme euro 11
[A: 23/02/2012 – I: 23/03/2012 – T: 28/03/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 307;
anno: 2011]
Un onesto prodotto di uno
scrittore, di cui ho già parlato, che, se nel giallo moderno trova un po’ dei
limiti, dà il meglio di sé in questi thriller storici. Perché con questo siamo
al terzo romanzo che vede al centro Mondino de’ Liuzzi. Ambientato nel 1313 in
Italia, in genere a Bologna, dove il Mondino storico visse ed operò in qualità
di medico, scrivendo come dissi un’opera fondamentale per la storia della
medicina. In questo nuovo episodio, il centro della storia si sposta da Bologna
a Venezia, dove Mondino si reca su richiesta della sua amica araba Adia. Forse
un po’ stanco del lato “medico”, Colitto accentua molto il lato avventuroso,
riuscendo comunque ad imbastire una trama dignitosa. Sul lato medico, Mondino
ci riserva solo un decotto di corteccia di salice per combattere la malaria
(palliativo del chinino non molto diffuso) ed una sutura con ago e filo, che
allora si cauterizzavano e basta le ferite, sperando di evitare la cancrena.
Ritroviamo inoltre, insieme a Mondino, gli elementi di base degli altri due
romanzi: Adia, appunto, mussulmana convertita in odore di stregoneria, in
quanto donna, intelligente, e dedita alla medicina, e Gerardo, il templare in
minore. La capacità di Colitto è di imbastire un romanzo senza perdere di vista
cosa è successo prima, e soprattutto, rispettando il contesto storico in cui si
muove. C’è la sola licenza della descrizione del Palazzo Ducale di Venezia, che
è di mezzo secolo più tardo, ma l’autore confessa di averlo fatto di proposito.
Bravo Alfredo. Insomma, da un lato continuano le vicende dei templari, che
siamo al tempo della persecuzione di Filippo il Bello e di Clemente V. Gerardo
deve quindi portare in salvo il buon Pietro, templare che custodisce un segreto
(che non vi dico) e che deve rifugiarsi in Portogallo sotto la protezione di re
Dionigi. Ed è inseguito dai cattivi scherani francesi. Mondino invece, proprio
alla vigilia delle nozze con la bella Mina De’ Gandoni, viene chiamato da Adia
per salvare l’ebreo Eleazar, ingiustamente accusato di aver ucciso tre bambini.
E Mondino si precipita a Venezia, dove si scontra con il potere cittadino, e si
trova invischiato anche nelle lotte tra il Consiglio dei Dieci e la corte del
Doge. Anche perché Eleazar custodisce il segreto di un libro sacro agli Ebrei,
una tavola su cui, si dice, siano riportate le parole che un angelo ha dettato
a Noè. Tra negromanti, assalti di sgherri, prigioni, fustigazioni, lebbra, e attacchi
di malaria della bella Adia, si dipana la matassa, anche se si complica dato
che Gerardo e Pietro, per sfuggire ai francesi, fuggono da Bologna proprio a
Venezia. Dove tutti i destini dei nostri amici si scontrano con i cattivi. La
capacità di Colitto è anche di rappresentare il potere veneziano non in bianco
e nero, ma con molte tonalità di grigio, come tutti i poteri è corretto siano
dipinti. Ma tra bagni non voluti nei canali, mangiate di anguille in saor,
scioglimento di rebus cabalistici, nonché il precipitoso arrivo anche di Mina a
Venezia, che sente il suo Mondino in pericolo (doppio: della vita ma anche
della bellezza di Adia), la storia si dipana, si imbroglia e poi riceve un
dispiegamento finale, in un certo senso comunque convincente. Anche se le nozze
finali di Mondino lasciano un dubbio: sono il punto finale o apriranno le porte
ad altri episodi? Intanto ci siamo goduti una decente ambientazione storica,
con alcuni tocchi pittorici di calli e campielli, di gondole e vetrerie di
Murano, di passeggiate per la Riva degli Schiavoni e di visite alle belle
chiese di Venezia, che lasciano in ogni caso un senso di piacere, per chi, come
me, ama e da sempre questa città (anche se non potrei viverci, troppo umido!).
“La verità, quando tra due persone c’è un amore profondo, è una forza,
non un pericolo.” (306)
Clive Cussler & Jack du Brul “Skeleton Coast” TEA euro 8,90 (in
realtà, scontato a 6,23 euro)
[A: 29/07/2011 – I: 24/05/2012 – T: 28/05/2012]
[titolo: Skeleton Coast; lingua: inglese; pagine: 478;
anno: 2006]
Nuovo, anche se non ultimo,
episodio del filone numero 3 degli scritti cussleriani. Quello che ormai viene
identificato come “Oregon files (OF)”. Sicuramente non all’altezza delle
avventure di Dirk, ma tutto sommato migliore delle ultime prove dedicate al
capitano Juan Cabrillo. Intanto, pur ricalcando l’impianto usuale degli OF,
dove c’è sempre all’inizio un’operazione del capitano protetta e/o finanziata
dalla CIA, questa non rimane isolata (nelle precedenti prove serviva solo ad
introdurre il manipolo dei mercenari dell’Oregon), ma si inserisce nel contesto
narrativo, diventando una ruota del meccanismo generale. Inoltre, riprendendo
uno stile delle avventure di Dirk, si premette un prologo, ambientato nel
passato, che diventa anch’esso uno degli elementi della narrazione globale. E
poi ci sono altri due elementi che me lo hanno fatto gustare: l’aiuto che i
protagonisti dei “NUMA files” (quelli scritti con Kemprecos) danno ad un certo
punto ai nostri ed il mantenimento del titolo. Non era facile rendere in
italiano il toponimo della lunga costiera namibiana piena di navi affondate (e
noi si è ben vista!) perché intitolarlo “Costa degli Scheletri” avrebbe associato
immagini diverse. Quindi lasciamo l’indicazione geografica corretta. Come corretta
è l’indicazione della corrente marina costiera del Banguela, di 8° più fredda
delle acque circostanti, per cui la zona è pervasa da nebbie per quasi tutto
l’anno (così che molte navi non vedono la costa e si arenano lungo i 400 km di
costa). Forse l’unico dato un po’ spurio (dal punto di vista geografica) è la
facilità con cui passano dal Congo a Cabinda (discretamente vicini, essendo la
città petrolifera nella costa nord dell’Angola) giù fino a Swakopmund (al
centro della costa namibiana) e su fino a Nouakchott, il porto mauritano che
sta di molto più a nord. Licenze poetiche (ah ah). E certo il fatto di aver
visitato quasi tutti questi posti mi ha reso la lettura più partecipata. Mi è
sembrato di tornare tra le sabbie desertiche pre-saharaiane al Nord e nel
deserto rosso namibiano a sud. Pur tuttavia, è ora di lasciare digressioni
geografiche, per entrare nel vivo della storia. Che non può che ruotare, come
uno dei poli della vicenda, sui diamanti. Siamo nella loro terra, e ben si è
visto come vengono protette le miniere. Ma la vicenda antica, parte da un furto
di diamanti perpetrato da turpi trafficanti a danno degli herero, popolo
para-boscimeni del deserto del Kalhari. La vicenda attuale ci porta invece un
nuovo personaggio, la simpatica Sloane, che cerca di recuperare quei diamanti.
Ed in parallelo, gli avventurieri di Cabrillo che barattano armi con diamanti,
ma solo per cercare di scovare qualche improvvido ribelle – tiranno. Mentre
Sloane si aggira alla ricerca della nave, si avventura in acque perigliose, da
dove Cabrillo & C. la salvano. Ma le acque sono pericolose solo perché
nascondono un segreto. Il tentativo di un guerrigliero ambientalista (una
toccatina un po’ forte, invero, anche se a volte…) che sfruttando i suoi soldi
e le sue scoperte, tenta di creare un uragano molto pericoloso, con un
epicentro stretto e soprattutto cercando di convogliarlo sopra dei pozzi di
petrolio, dove, accordandosi con i mercenari di cui sopra, sparge il petrolio
in mare, creando un disastro paragonabile a quello della Valdez in Alaska. E
per vendetta, rapisce il suo ex-socio che invece era rimasto tra gli
industriali (semi-)buoni a cercare di arginare guasti ambientali. Cabrillo si
incarica allora di liberare il rapito. E si imbatte in un altro prigioniero,
una specie di Mandela dello Zimbabwe. Per farla breve, si accorda con il buono,
usa i suoi guerriglieri per riprendersi i pozzi petroliferi, assale la nave del
cattivo, blocca la tempesta. Tanto per non farci mancare nulla, mi sa che
comincia ad avere del tenero verso la rossa Sloane. Il divertente miscuglio
cussleriano, visto che non ci sono tempi per risolvere tutto, come ho detto
all’inizio, coinvolge i cugini della NUMA, che, nel mentre lui risolve i
problemi del mondo, cercano e trovano la famosa nave ottocentesca con il suo
carico di mistero e diamanti. Insomma, un bel guazzabuglione, pieno di
soluzioni scientifico – avveniristiche (merito di Jack) con qualche tocco
ambientalista buono (del resto Clive lo è abbastanza). 500 pagine di relax
meritati, infine.
Clive Cussler & Paul Kemprecos “La stirpe di Salomone” TEA euro 8,90
[titolo: The Navigator; lingua: inglese; pagine: 475;
anno: 2007]
Con questo libro torniamo alla
struttura classica delle avventure con il marchio Cussler. Siamo nel lato
“NUMA”, quello doc che ci ha insegnato a voler bene a quest’americano ormai
ottantenne ma con sempre tanta voglia di raccontare. Si riprendono anche i temi
classici della struttura dei romanzi targati NUMA. Inizio nel lontano passato
con qualche mistero che viene sepolto nelle macerie dei tempi. E svolgimento
nel presente con i cattivi che cercano di usare – sfruttare – trarre vantaggio
dalla conoscenza di quegli avvenimenti passati. Ed i buoni che cercano di
impedirlo. Questa volta la variante è costituita da un passaggio intermedio tra
passato e presente. Che il mistero dell’inizio è condiviso, almeno pare, da
qualcuno agli inizi dell’Ottocento. E quel qualcuno è niente meno che il
presidente Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti, ma anche politico
attento, utilizzatore di crittografie strane (e documentate) nonché altri
corollari che non vi svelo. Il mistero poi è una delle tante leggende (intesa
in senso non spregiativo) dell’andar per mare degli antichi. In particolare,
qui si ribadisce l’abilità navigatoria dei fenici, ipotizzando che avessero già
inventato la bussola, che avessero scoperto l’esistenza dell’America, e della
presenza colà di miniere d’oro. Tanto da farvi ambientare proprio sulle coste
americane l’esistenza delle miniere d’oro del re Salomone. Dal punto di vista
storico, un piccolo pot-pourri di leggende tra fenici, re Salomone, regina di
Saba, annessi e connessi (miscuglio che mi fa sempre ricordare quella bellissima
e toccante chiesetta di rito etiope posta accanto alla grande chiesa del Santo
Sepolcro a Gerusalemme). I cattivi sono rappresentati dagli eredi bastardi del
re, una stirpe stabilitasi prima a Cipro, poi in Spagna, cui l’ultimo epigono,
patito di tenzoni cavalleresche alla re Artù, ha il poco felice nome, per me,
di Baltazar. Che Baltazar è il genio buono che suggerisce le storie alla mia
amica Rosa, e non sarà mai il cattivo che cerca di fare sacrifici umani a Baal
(scordavo, questa è un’altra delle leggende che il marchio Cussler inzeppa
nella storia, mescolandovi anche i dieci comandamenti scritti però prima di
quelli di Mosè). Cattivi che hanno la lunga mano esecutiva di tal Adriano,
gigante cattivo e malsano. Dalla parte dei buoni, oltre al protagonista Kurt
Austin (ricordo che siamo nella parte NUMA files delle storie, quindi qui Dirk
è già salito di grado ed è il capo della NUMA, ed il braccio operativo è ormai
di Kurt, con il fido Joe, nonché la coppia di biologi marini dei signori
Trout), una bella operatrice delle ricerche di beni perduti dell’Unesco, che ha
il premonitore nome di Carina. È lei che da origine alla sequenza di
avvenimenti moderni, scoprendo tracce di una statua fenicia con tanto di
bussola (il navigatore del titolo inglese) nel museo di Bagdad, dopo la
riconquista americana dei siti. Tra un’agnizione e l’altra, complice uno
scrittore un po’ cussleriano che sta da anni alla ricerca della tomba della
regina di Saba, e la scoperta di codici crittografati di pugno jeffersioniano
all’interno di un libro di ricette sui carciofi (!!), seguiamo la scoperta di
un secondo navigatore nella costa americana, dei tentativi maldestri di Adriano
di rubarla, degli scontri tra le truppe di Baltazar e la NUMA, e tra Baltazar
stesso e Kurt. Il tutto condito da un po’ di sesso tra Kurt e Carina (molto
pudico, stile primo Cussler). Ovvio che i buoni vinceranno ed i cattivi
pagheranno il fio dei loro misfatti. Non vi dirò come. Ma mi lamenterò della
fretta con cui Clive & Paul si velocizzano nel finale. Ci mettiamo 400
pagine per arrivare al plot generale, e scoprire tutti i possibili risvolti.
Poi, in meno di 100 pagine tutto si risolve, tutto si svela. Molto in fretta,
quasi (e cercherò di documentarmi) che si avesse voglia di finire per problemi
di consegna degli scritti (quanto, ahi qual sospetto, non ci fossero dei tagli
dall’editor italiano). Fatto sta che la fine arriva senza aver tempo di
gustarla. Detto questo e detto appunto che l’impianto è più sul versante Dirk
Pitt, ma senza il buon Dirk, e, con tutto l’affetto per Kurt, non è la stessa
cosa, il giudizio finale è un po’ sotto la normale media degli scritti
d’avventura. Vedremo in seguito come si evolvono le varie saghe.
PS - un appunto sulla traduzione: come si fa a
scrivere “il comandante … chiamato Alfred Dawe”; quello è il suo nome, in
italiano si usa chiamato quando si utilizza un soprannome; e credo che
l’originale porti qualcosa tipo “named”, cioè di nome…
Siamo già a metà di un luglio
caldo e lavoroso, e confesso che ora ben capisco i miei affaticati amici che in
questi mesi perdono il filo di quasi tutto obnubilati di caldo e lavoro. Anzi,
li ammiro e spero che questa mia prova da fine del mondo serva a farmi
rinsavire un po’. Aspettando qualche brezza…
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