Siamo dalle parti delle
invenzioni, come dice il titolo di questa trama. Con due autori di lingua inglese,
di cui uno con due romanzi ed uno spagnolo, anzi più che spagnolo, cileno.
Purtroppo con un gradimento generale non elevato. E dispiace, perché Hornby è
uno delle mie stelle preferite. E Sepulveda mi ha guidato per selve amazzoniche
e pampe patagoniche. Rimane lo scozzese, sempre con scritti di livello
adeguato, che troverò la forza prima o poi di leggere in originale. Aspettando
sempre quel whiskey che prima o poi, arriverà.
Nick Hornby “È nata una star?” Guanda euro 10
[A: 13/05/2012 – I: 08/06/2012 – T: 09/06/2012]
[titolo: Not a Star; lingua: inglese; pagine: 73;
anno: 2006]
Caro Nick, mi permetto di darti
del tu per chiederti ragione di questo scritto. È innegabile, l’ho scritto e
detto più volte, che sei uno degli autori a me più cari, soprattutto ed innanzi
tutto per quella tua prima uscita di tanti anni fa. Quella “Alta fedeltà” che
mi fece ridere, mi fece pensare, e diede (a me e a molti) lo spunto delle
famose liste, che tiravi ad ogni piè sospinto. Tanto che poi Saviano ne ha
fatto un bel programma (ed un interessante libro).
Passando poi per quei tre scritti che vengono etichettate come “non-fiction”,
ma la cui lettura mi ha coinvolto. La Febbre a 90’ sul calcio, le 31 canzoni
sulla musica e la Vita da lettore (libro dove sempre mi ritrovo, ad ogni nuovo
libro letto e ad ogni nuova trama scritta). Allora mi sono accinto, anche se le
ultime tue prove mi hanno lasciato perplesso, a leggere questo libro. E
comincio a domandarmi. Ma è un romanzo? No, non ha la struttura, la robustezza,
il sapiente collocamento nel tempo e nello spazio. Allora un racconto?
Probabilmente così nasce, date le sue poco più che 70 pagine. Ma perché farne
un libro “a sé”? Come racconto ha una sua piacevolezza, in poche pagine tu
ribalti alcuni luoghi comuni, con un po’ di ironia. Bella la scoperta,
attraverso un video, della professione non usuale del figlio. Ironico il
domandarsi da dove viene un attributo maschile un po’ fuori la norma. Il
dibattito sulla sua ereditarietà. Il rapporto tra i genitori. Le domande
inespresse alla mamma sul nonno (ma com’è che portava sempre calzoni molto
abbondanti?). E la narrazione del percorso che porta il figlio, privo di altri
talenti, a sfruttare qualcosa di naturale che possiede. Con contorno di piccole
e sapide vendette private. Ma… Ma forse il mondo della pornografia, seppur di
lusso, non è così “rosa e fiori” come lo dipingi. Forse il mondo stesso non è
così bello e simpatico. E ben lo sai avendo dovuto vivere (vivendo?) con un
figlio autistico, combattendo (forse) con divorzi ed altri problemi personali e
sociali. Insomma, poche paginette, decentemente scritte, ma che, dopo aver
smosso (e di poco) il labbro superiore in un accenno di sorriso, si richiudono
e ci si comincia a domandare: ma che cosa ho tra le mani, mi domando, leggendo
Lynn che afferma “le cose bisogna prenderle per il verso giusto e non per
quello sbagliato”? Ed allora continuo a farmi altre domande.
Caro editore, allora, forse e a
te che devo chiedere ragione di questi 10 euro. Perché l’unico senso di
pubblicare un racconto spacciandolo per romanzo è sfruttare qualche po’ di
marketing indotto all’esterno. Che nello stesso periodo (o forse sulla sua
scia), ne esce fuori un filmetto, di quelli italiani senza infamia e senza
lode, che prende spunto dallo scritto. Un filmetto tanto “etto” che poco
circola nelle sale, e magari se ne ricorda solo (almeno per me) che ci sta la Littizzetto,
che mi sta simpatica. Ed allora, ecco la bella operazione. Si prende il testo,
si isola, e si butta lì sul mercato. Mettendo in bella evidenza, in copertina,
il richiamo “Dopo Tutta un’altra musica”.
Che baggianate! Perché questo non è dopo, ma PRIMA del libro citato. È un
racconto uscito nel 2006, ben due anni prima dell’altro. E solo il tuo vizio,
da editore (comune a tutta l’editoria italiana) di prendere per fessacchiotti i
lettori italiani, sfornando libri “a caso”, senza tener conto dell’autore, del
tempo della scrittura, del contesto. Ma devo fare ancora un ultimo sforzo. Ed
un'altra domanda.
Caro traduttore, sì, anche tu ci
sei di mezzo. Ma che senso ha cambiare il titolo? Solo perché è difficile
renderlo? E se questa operazione stravolge il senso del racconto stesso? Perché
chiedersi se nasca una stella, nel mondo della pornografia, come si capisce poi
dal contesto, è tutt’altra cosa dall’affermare, come fa Hornby nel titolo
originale che stiamo parlando di un “Not a Star”. Di qualcuno che non è una
stella, e che usa questo “star system” solo per vivacchiare un po’ in attesa,
forse, di qualche altra cosa. Ed in tanto, si prende una bella birra al bar.
Come non potrebbe fare Hugh Grant senza essere importunato. A proposito: e se
si citasse il film di Grant (anche) con il titolo della distribuzione italiana,
forse capiremmo di più che “Love actually” è circolato (ma quasi dieci anni fa)
con il titolo “L’amore davvero”. Uno zero spaccato in belle maniere di
traduzioni, mio caro!
Nick Hornby “Tutto per una ragazza” Guanda euro 12 (in realtà, scontato
9,96 euro)
[A: 15/05/2012 – I: 15/06/2012 – T: 19/06/2012]
[titolo: Slam; lingua: inglese; pagine: 274;
anno: 2007]
Dopo un racconto travestito da
romanzo (o meglio contrabbandato), ecco un romanzo che avrebbe guadagnato molto
se fosse stato asciugato e ridotto alla dimensione di un racconto. Sono un po’
deluso dall’ultimo Hornby. Si sa che gli amori letterari non sono “per sempre”
(ma ce ne sono?). Certo è che l’evoluzione di un autore non sempre va di pari
passo con quella tua personale. E dopo un po’ di strada percorsa insieme, forse
è bene separarsi per un po’. Certo, Hornby mantiene alcuni stili e modalità di
scrittura che me lo fanno sentire fratello. Ma i parenti sono come le scarpe:
più sono stretti, più fanno male. Quindi sorrido allo stile che conosco (quello
dei primi libri, quello delle prime recensioni), e poi mi domando dove sta
andando, ora il suo mondo, la sua scrittura. Ovvio che le vicende personali
influiscono. Divorzio, nuova famiglia, ed altro. Tuttavia, cerchiamo a volte di
essere de-contestualizzanti, e proviamo a vedere il prodotto in sé, senza il mondo
che lo ha costruito nella coscienza dell’autore. Intanto il quasi sessantenne
prova ad utilizzare un linguaggio sempre più giovane, innalzando a protagonista
un sedicenne. Ed un sedicenne che fa skate ed ascolta rap. Ha quindi un
linguaggio veloce, sintetico, a volte con crasi e riferimenti che noi “anziani”
perdiamo. Hornby fa la solita operazione mediana, un colpo al cerchio ed uno alla
botte. Per cui Sam parla moderno e ragiona un po’ come può ragionare una
qualsiasi persona di qualsiasi età. Con qualche ingenuità, ma anche con qualche
maturità di troppo. La storia di Sam è poi anch’essa una storia semplice: madre
che rimane incinta a sedici anni, si sposa con il padre di Sam, dopo sette anni
divorziano (anche se rimangono discretamente civili). Ed ora, Sam ha sedici
anni e la madre trentadue. Come tutti i sedicenni, Sam ha grandi turbe amorose,
fino a perdersi perdutamente (vi piace l’allitterazione, eh) della bella
Alicia. Stanno sempre insieme, fanno sesso sicuro. Poi, come tutte le storie a
quell’età che sembrano durare per sempre ci si comincia ad allontanare. E qui
si fanno le “cazzate”. Alicia rimane incinta. E la storia si ripete. Sam e
Alicia diventano genitori a sedicenni, Victoria nonna a poco più di trenta. Sam
in soggettiva cerca di analizzare tutte queste vicende, provando a vedere se su
questi “disastri” si riesce a crescere. E tutto sommato l’ottimismo di fondo di
Hornby ci porta a vedere tutti gli aspetti positivi di una vicenda per altri
versi “tragica”. Un racconto di formazione, quindi, ed abbastanza carino.
Ironico quel che serve, con quella dualità tra avvenimenti “alti” e modalità
infantili di affrontarli. Tuttavia sembrano tutti buoni, ed alla fine, anche se
non come si poteva pensare, sembra tutto andare per il verso giusto. L’unica
cosa che mi lascia perplesso ed insoddisfatto è l’artificio usato a volte da
Hornby-Sam quando si proietta nel futuro, vivendo vicende come temendo che si
presentino. Per poi viverle nella realtà allo stesso modo. Insomma, che ci
voleva dire? Che quello che temiamo a volte lo possiamo affrontare? Che non
tutto è così brutto come potrebbe essere? Perché allora inventarsi queste fughe
oniriche? Mi sono sembrate appiccicate e poco funzionali. Quasi un voler a
volte prendere la distanza dal testo, per farlo diventare altro. Una
riflessione sui giovani inglesi e sulla loro mancanza di prospettive per un
futuro migliore? Non so. Rimango appunto perplesso, e torno a pensare che una
dimensione più contenuta ne avrebbe fatto un testo ugualmente leggibile e
gradevole. Un’ultima parola sul titolo, che in inglese fa “Slam”, uno di quei
termini quasi onomatopeici che ci fanno pensare allo sbattere, di una porta, di
una tavola da skate sul marmo, di una persona con dei problemi più grandi di
lei. Ma anche alla vittoria in una competizione (nel tennis, nel bridge). Ed
allora perché tradurlo con “Tutto per una ragazza”? Dove sta la volontà
dell’autore in tutto ciò? Insomma due titoli di Guanda e due traduzioni poco
convincenti. Mi sa che non mi piacciono molto i ragazzi del marketing di questa
casa editrice. E speriamo anche che Hornby torni ad essere più positivamente
ottimista.
“Si ha l’impressione che i figli facciano sempre meglio dei genitori …
nella nostra famiglia tutti inciampano sempre sul primo gradino.” (17)
“Se qualcuno ti dice che ti ama, sei obbligato a dirglielo anche tu,
no?” (47)
“Padre: Mica tutto quello che diciamo o facciamo mira a distruggerti la
vita, sai? Qualche volta, molto raramente, cerchiamo di pensare al tuo bene.
Figlia: Molto raramente! Padre: Ero sarcastico. Figlia: Io no.” (172)
“Se dici qualcosa di razzista senza riflettere evidentemente sei un
razzista. Perché significa che per non dire cose razziste devi pensarci in
continuazione.” (218)
Luis Sepulveda “Ritratto di gruppo con assenza” TEA euro 8 (in realtà,
scontato 6 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 24/06/2012 – T: 25/06/2012]
[tit. or.: Historias
marginales II; ling. or.: spagnolo; pagine: 157; anno 2010]
Due appunti iniziali: ancora
racconti, purtroppo. Anche se Sepulveda a volte riesce meglio nel corto che nel
lungo. Del resto non ci si scorda delle sue origini più giornalistiche che da
scrittore puro. Ed ulteriore poi riprova delle capaci mistificazioni
editoriali. Il testo originale, infatti, ha per titolo “Storie marginali II”
(il che già implica che ci sia stato un primo volume). E questo sono, storie di
persone ai margini di qualcosa. Della storia, della vita, sicuramente della
felicità. Ed il sessantenne cileno ripercorre con dolenza momenti della sua
vita, incontri e fatti diversi. Per farne un corposo e nutrito necrologio. Luis
invecchia ed i suoi amici muoiono. Ma perché allora intitolarlo con il primo
racconto? E quale banalità nasconde il sottotitolo quando afferma che ‘la vita
è piena di storie’? Ma torniamo allo scritto. I testi di Sepulveda, quando non
si cimenta in imprese romanzesche, hanno sempre delle grandi costanti: Luis non
si dimentica (e non ci fa dimenticare) che è sudamericano, che è cileno, che a
24 anni faceva parte della guardia del corpo di Allende, che ha vissuto quasi
venti anni da esule, che ha lottato contro i tiranni in Sudamerica prima, e poi
con gli ambientalisti in Europa. Ha visto tanto, viaggiato tanto, incontrato
tanto. E qui, come detto, la maggior parte dei brevi racconti assurgono quasi
ad epitaffi per coloro che se ne sono andati prima di noi. Che appunto magari
erano marginali, almeno per se stessi, anche se importanti per altri. Come la
voce di radio Mosca della trasmissione “Ascolta Cile”. O di tutti quegli amici
con cui si è fatto un breve tratto, e che poi hanno fatto magari scelte di
minoranza. Ma sempre (altrimenti non sarebbero amici di Sepulveda) con la
coerenza delle idee. Due racconti si staccano dagli altri nel mio immaginario
mondo: quello del titolo e l’altro su quello che rimarrà sempre “il vecchio”.
Il ritratto iniziale comincia proprio da una fotografia, di ragazzi dodicenni
presi in un momento felice (la fine della scuola) verso la fine dell’era
Pinochet. Ora che non c’è più il dittatore, Sepulveda e la fotografa tornano a
cercare i ragazzi. Ne esce fuori un ritratto dell’ultima generazione a cavallo
della liberazione. Con quella che avrebbe dovuto essere l’inizio di un sogno,
ma che sembra invece la fine. E con la dolenza dell’unica assenza della foto,
quella del quindicenne Marcel, che viene ucciso durante un improvvido tentativo
di rapina per procurarsi da mangiare. Luis ci fa vedere i volti di questi
ragazzi cresciuti ed induriti, facendo da contraltare con il nonno di due di
loro, che scopre essere niente altro che un indomito campione di pugilato degli
anni sessanta, anche lui mai domo e mai piegatosi alla dittatura. Il vecchio,
invece, è quella bella figura che poi Sepulveda immortalò nel suo primo
romanzo, quello del vecchio che leggeva romanzi d’amore. Ed ora lo va a
ritrovare, nello spazio e nella memoria. Quel bianco che chissà come e perché
finisce nella selva amazzonica. E rimane lì, a portare avanti la sua vita,
sempre rispettoso degli altri e della natura, avendo per compagni un pugno di
libri d’amore. Ed è bello vederlo descritto mentre se ne sta lì, in piedi, a
leggere, a lume di una candela. Il resto c’è, l’ho detto. È denuncia dei
soprusi. È ricordo degli amici. Ma è anche stanchezza. Si vede che Luis ha
girato la boa dei sessanta, ed anche il suo corpo (come non capirlo) comincia a
chiedere il conto di una vita vissuta molto al limite. Non è che mi sia
dispiaciuto. Solo un po’ ripetitivo nelle tematiche. E senza le speranze che,
ad esempio, uscivano fuori dai fulminanti ritratti di ‘Patagonia express’. Uno
solo non mi è piaciuto, quello dedicato a sbeffeggiare (anche giustamente) il
nostro Silvio nazionale. Ma senza una vera volontà, né descrittiva, né distruttiva.
Se omesso, non sarebbe stato un libro meno interessante.
“La finzione è sempre un prolungamento della realtà.” (51)
“Cos’è successo nell’animo di quel pugno di persone che hanno dato
tutto e quel tutto gli è sembrato ancora poco.” (56)
Alexander McCall Smith “Semiotica, pub e altri piaceri” TEA euro 8,60
[A: 19/01/2012 – I: 20/07/2012 – T: 25/07/2012]
[titolo: Espresso Tales; lingua: inglese; pagine: 356;
anno: 2005]
Rovesciamo
una volta tanto i termini classici della comunicazione efficace (tanto non
credo che McCall Smith leggerà presto queste mie righe né tanto meno il
traduttore Garbellini o l’editore), dicendo subito quello che non mi piace di
questo libro. Confermo innanzi tutto quanto sostenuto già anni fa da Chiara che
McCall Smith va letto in inglese (anche se continuo a leggerlo in italiano).
Usa una scrittura piana, discretamente abbordabile, e sicuramente più efficace
nel rendere i colori scozzesi, di una qualsiasi (anche se dignitosa)
traduzione, che alla fine che legge i suoi libri ambientati ad Edimburgo al
massimo commenta con un miserando “carini…”. Secondariamente, veniamo al
titolo, dove rispetto ad un dignitoso “Racconti al Caffè”, che tali sembrano i
105 piccoli capitoli della pittura scozzese dell’autore, qualcuno ha preteso di
chiamarli con quel titolo altisonante. Titolo che, guarda caso, è anche quello
del primo capitolo (in realtà “Semiotica, pub, decisioni”). Ed in quello si
parla di semiotica, e solo in quello (ed in realtà di significati e
nominalismi, come se un romano si mettesse a disquisire sulla differenza tra
chiamare la piazza antistante le terme di Diocleziano, Piazza Esedra o Piazza
della Repubblica). Infine, la notoria inconcludenza del raccontare Alexandrino.
In questa tranche di romanzi, il nostro segue alcuni personaggi che gravitano
intorno alla casa sita al numero 44 di Scotland Street. Tuttavia, seppur ne seguiamo
vicende ed intrecci, verso la fine un po’ si disperdono, rimangono sospesi. Non
che si voglia sempre che tutto abbia un fine (un grande scrittore italiano
sosteneva, forse a ragione, che in un romanzo c’è un pezzo di una storia il cui
prima e dopo si svolge altrove), ma (almeno per me) la scrittura serve a
comunicare qualcosa. E per farlo deve prendere dei momenti, situazioni, atti,
presentarli, svolgerli, e darne un senso. McCall Smith dà solo il senso del
girovagare intorno alla vita, deliziandoci, questo è vero, con osservazioni
acute e con momenti topici. Ma lasciando tutto vagare sull’onda magari di una
buona birra. O di un buon whisky di malto. O, per tornare la romanzo, davanti
ad un buon caffè. Nero, come lo prende Pat, la ragazza un po’ al centro della
storia, o delle storie. Era lei che, nel primo romanzo della serie, si
trasferiva al 44 di Scotland Street, ed incrociava la sua vita con il
narcisista Bruce, suo compagno di casa, con il piccolo Bertie tiranneggiato
dall’odiosa madre Irene, con la sessantenne Domenica, antropologa che sta
perdendo il filo dei suoi studi, ma che forse li andrà a ritrovare alle
Molucche. Questi tre centri eccentrici sono ancora al centro (che bel bisticcio
di parole) anche della presente narrazione. Ed a loro si aggiungono gli
elementi di contorno. Matthew il gallerista senza midollo, datore di lavoro di
Pat, ed i suoi problemi con il padre decisionista e la sua ultima fiamma, forse
cacciatrice di dote o forse no. Il bel Peter, nudista in Scozia (esilarante il
ritrovo nudista, ad Edimburgo, sotto la pioggia, per cui i nudisti mettono la
mantellina per ripararsi dall’acqua e sotto sono nudi!). Il pittore Angus con
il cane Cyril o la barista Big Lou. Intanto Bruce continua nel suo devastante
andare tra gli altri senza accorgersi che esistano, negando la realtà, e, come
tutti i narcisisti, cascando sempre in piedi. Ma il centro (cioè il mio centro)
della vicenda sono le disavventure del povero Bertie, costretto dalla madre a
tutta una serie di attività, perché (sfortunatamente) è un bambino
discretamente precoce. E la madre ha deciso di investire tutta se stessa in
quello che chiama “Progetto Bertie”, che consiste in: farlo scrivere a cinque anni,
fargli studiare italiano, farlo andare a yoga, fargli suonare il sassofono.
Certo il nostro calca un po’ la mano (soprattutto sul sax), ma io mi immedesimo
nel piccolo che vorrebbe avere degli amici, che vorrebbe avere una stanza
bianca e non rosa, che vorrebbe indossare jeans e non una salopette color
fragola. Assistiamo a tutta una serie di tentativi, che non possono che essere
destinati al fallimento, da parte di Bertie per uscire dalla sua condizione (dimenticavo,
c’è di mezzo anche uno psicologo di matrice kleiniana, e qui mi fermo). Non ha
gli strumenti per un sano approccio alla realtà, né qualcuno al suo fianco. Si
spera solo in alcune avvisaglie da parte del padre, ma ancora embrionali.
Insomma, seguiamo tutti questi personaggi vagare in questa Edimburgo che prima
o poi si visiterà, discutere, perdersi e ritrovarsi. E sopratutto, ragionare.
Qui non ci sono problemi etici da affrontare, come nell’altra serie di McCall
Smith dedicata ai filosofi dilettanti, ma momenti di vita. Descritti, mi ripeto,
con garbo e con ironia. Alla fine, mi viene da dire anche a me, “carino…”. Ah,
prima di chiudere, una buona parte si svolge durante il Fringe Festival
scozzese, e leggerne ora, casualmente dopo le puntate del Fringe romano, mi ha
dato il piacere delle consonanze.
“Il senso di libertà in un’amicizia – o in
una storia d’amore – spesso aggiunge una certa leggerezza a cose che altrimenti
potrebbero pesare.” (41)
“Aveva dato per scontato che una persona di
sessant’anni non si potesse innamorare: ridicolo … una vera e propria
discriminazione contro gli anziani.” (103)
“Nei libri non sempre ci sono le risposte,
sai. A volte si limitano a porre le domande.” (117)
“Non è facile accettare la bassa stima che
gli altri hanno di noi.” (158)
“Forse lui le piace davvero… Dieci anni non
sono un divario eccessivo.” (243)
“Non era mai stato capace di discutere con
[colui] la cui tattica per difendere le proprie idee consisteva nel lasciar
intendere che l’interlocutore sapeva bene che quello che lui stava dicendo era
giusto.” (331)
“- Da quando ti conosco sei sempre stata
impegnatissima, fai tante cose. – Ora non più … sono in fase di stallo. – Ti ci
vuole un nuovo progetto.” (341)
Ieri è stato il solstizio d’autunno,
iniziamo quindi a prepararci per i prossimi freddi (controllando la caldaia, ad
esempio) e per le prossime feste, magari cominciando a mangiare le prime
castagne.
Un bacio
Giovanni
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