domenica 9 settembre 2012

Leggerezza del pensiero - 09 settembre 2012


Pensiero di letture italiane. E leggerezza di alcuni momenti romanzati, che ci portano a giro per l’Italia. Cominciando bene, con delle oneste prove, dal lago di Como giù e di lato fino alla Sardegna. Poi si attraversa il Tirreno, e si cade su una prova troppo osannata su quel di Prato, per altri versi ed altre storie a me più caro e chiaro di quanto lo fa Nesi. E poi si scende giù, lungo la costa, fermandosi a Napoli, con una prova che mi ha lasciato perplesso, di un autore, che prima e dopo questo scritto, mi sembrava portatore di altri e ben più interessanti livelli di scrittura. Ma andiamo ad iniziare.
Andrea Vitali “Il segreto di Ortelia” SuperPocket euro 5,90
[A: 29/07/2011 – I: 23/05/2012 – T: 24/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159; anno: 2007]
Se fossi uno studente di lettere, mi piacerebbe, prima o poi, impostare una tesi sulla “Comunità di Bellano” così come esce dagli scritti di Andrea Vitali. Sin dal primo libro, infatti, lo scrittore comasco continua ad incastonare tasselli della vita che si è svolta e si svolge in questa località sulla riva orientale del Lago di Como, che gli ha dato i natali e dove fa il medico di base (ciao Emilio). E non è un caso che abbia ricevuto un Premio non per un libro singolo, ma per il complesso della sua produzione. Ogni volta abbiamo davanti un nuovo pezzo della vita. Ed a volte (ma ci vorrebbe uno studente che avesse tempo di controllare le concordanze) c’è un qualche rimando tra i vari scritti. Questa volta, siamo quasi in presenza di un’opera spuria. Che abbraccia sì un discreto lasso di tempo (bene o male dal 1919 al 1941), sempre svolgendosi nella cittadina eponima. Ma dove incontriamo solo in modo trasversale tutta l’epopea fascista che sarebbe ben presente nell’epoca ed in genere è anche ben presente negli altri scritti di Vitali. In realtà (e questa volta concordo con la quarta di copertina) siamo in presenza con una sorta di “Dinasty” rurale, anzi di macelleria. Perché il motore della vicenda è il giovane Amleto capitato per altri motivi nella città di Bellano, e che decide di rimanervi per cercare lì la sua fortuna. Prima si impiega come garzone in una macelleria. Poi, approfittando di fortuite circostanze, sposa la bruttina Cirene, e diventa il deus-ex-machina della seconda macelleria del paese, sempre alla ricerca di nuovi modi per rubare credito e clientela alla prima. Su questo filone si innesta il prorompente bisogno sessuale di Amleto e la dispareunia della moglie. Per cui lui cerca soddisfazione altrove, anche se nel primo e quasi unico assalto riesce a mettere al mondo l’Ortelia del titolo. Soddisfazione che trova prima con una servetta, che metterà presto in cinta e che sarà quindi foriera di ben altri problemi. Poi, sodale con il dottor Durini, nei bordelli di quel di Lecco. Intanto il tempo passa, Ortelia cresce e si fidanza con uno dei figli dell’altro macellaio, quello ricco. Ma la vita sregolata di Amleto ne mina il fisico e, durante le nozze, lo porta prima ad un ictus, poi, dopo anni di sofferenze alleviate solo dalla mano di Cirene, a passare a miglior vita. Ma anche Ortelia ha i suoi momenti di gloria, dopo il fortunato sposalizio. Infatti, lo aiuta, quando il fratello del marito va in rovina, a rilevare la macelleria e ad adibirla ad altri usi. Ormai la loro è LA macelleria di Bellano. Che non sarà scalfita neanche dalla morte per tetano del marito di Ortelia. Anzi, sfruttando quel segreto del titolo, e di cui non vi narrerò alcunché, Ortelia riesce trionfante da tutta la vicenda. Conciliando passato e presente, riappacificandosi con la Betta, e dando il giusto castigo (forse più morale che altro) al non esente da colpe dottor Durini. Stelle e stalle che si alternano nelle al solito non numerose ed agili pagine di Vitali. E ben si incastonano, durante il narrato, cammei di vita bellanese. Il parroco, i gaudenti, il bordello di Lecco, il cacciatore, le servette. La solita fauna che popola gli scritti di Vitali, quasi avesse gusto di riportare sulla carta i tanti e tanti personaggi che incontra nella sua vita non letteraria. È facile. È leggero. È rilassante. Ripeto, certo, non un’opera irrinunciabile, ma certo una che fa piacere aver messo tra quelle lette.
Flavio Soriga “Sardinia blues” Bompiani euro 8,90 (in realtà, scontato 6,68 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 02/06/2012 – T: 05/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 272; anno: 2007]
Un giovane che mi aveva incuriosito. Ne avevo sentito parlare durante una presentazione presso uno spazio Feltrinelli. Ora, dopo la lettura, confermo che meritava. È un’onesta ballata, sull’onda di qualche nota (blues) e con molta Sardegna appresso. Sardegna che si sente nei toponimi (S’Archittu, Villanova Truschédu, per non parlare della bellissima Bosa, o della mitica Argentiera della mia adolescenza, ma anche le solite città, Cagliari, Oristano, Alghero), si sente in alcune parlate (anche se non si Cammillereggia, e forse ce ne sarebbe bisogno prima o poi), si vede in alcuni vestiti (gli stivali di Busàchi su tutti), ma soprattutto aleggia nell’aria indolente dei tre post-vitelloni isolani. Che, superati problemi giovanili, o quanto meno accantonati, tipo droga, sesso sfrenato, ed altri estremismi, si trovano “pirati” di terra dentro la loro grande isola. Con al centro lui, il Davide narrante, che, per soprammercato isolano, è anche talassemico (e questo pare sia l’unico ma fondamentale tratto che condivide con l’autore). Ed è l’anemico mediterraneo che, con brevi capoversi, narra le vicende dei tre amici, delle serate in discoteca, delle donne che prendono e lasciano per una sera, delle fidanzate da cui sono lasciati, dalle avventure che decidono di intraprendere. Tipo il trafugamento di carte d’identità per una libera circolazione degli immigrati o la ricerca del testamento di un conte vecchio e rimbambito. Avventure che, seppur non in tragedia, finiscono sempre con portare poco lustro e pochi soldi ai nostri pirati. Poi c’è la storia di Corda e della sua ballerina, di Licheri, della droga, dello sballo, della sua casa al mare, rifugio durante necessità varie (vere o presunte). E la lunga avventura in un’altra isola, molto più a Nord, quando Davide decide di seguire il suo amore a Londra, ma dove resisterà qualche anno, per poi tornare indietro. Il tutto punteggiato dalle periodiche visite agli ospedali, dove il talassemico grave si sottopone mensilmente a trasfusioni di sangue. E dove incontra tanti altri mondi, a lui paralleli. Dai giovanissimi che non si danno pace, all’amica australiana che decide il trapianto di midollo per curarsi. Insomma tanti piccoli cammei, che s’incastrano nel corso del tempo, come direbbe un patito di Wim Wenders. Come quello, bellissimo ed umano, del bandito sardo, che decide di fare outing, e della solitudine che ne deriva (e del suo pianto sulle spalle di Davide). Ed anche gli amori di Davide, da quello lasciato a Londra, alla matura Maria Elena, alla vendicativa Elisa che lo usa per far dispetto al suo ex (e mi sembra che Davide non si dispiaccia più di tanto), fino alla bellissima ed irraggiungibile Daniela, quella con il fidanzato in Afghanistan. Peccato il finale, che si tinge di toni drammatici, non tanto per le possibili scomparse dei protagonisti (è umano, accade tutti i giorni), quanto il modo, il concatenamento degli eventi. Seppur la scrittura sorregga sempre Soriga, questa parte mi è stata ostica, e mi ha fatto abbassare di un punto il gradimento globale. Non so, mi è sembrata (al solito) una di quelle trovate di chi, ad un certo punto, si trova ad un bivio: o andare avanti all’infinto o trovare una via d’uscita. Ma chi si pone questa domanda, ha sicuramente esaurito parte dello sprint iniziale. Però Soriga mi è piaciuto, così come il sentimento di sentirsi trascinare tra le coste selvagge del Sud della Sardegna e gli entroterra barbaricini. Sedendosi a delle tavole dove si mangia tanta carne, che l’acqua serve a proteggersi dai nemici. Se ne riparlerà.
“Io spero sempre … Ho questa illusione.” (139)
“Forse così te lo posso spiegare, con degli episodi, forse è questo l’unico modo che abbiamo per raccontare una persona, per chi come me è allergico alle astrazioni.” (149)
“Non mi piacciono le videocamere e le fotografie … le storie tornano lo stesso nella mia testa anche senza riprese e documento.” (191)
“Ho pensato che solo dei medici ci possono salvare, delle persone che si mettono davanti a un uomo e non solo a un paziente, a un’altra persona e non a una cartella.” (254)
Edoardo Nesi “Storia della mia gente” Bompiani euro 14 (in realtà, scontato 10,50 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 05/06/2012 – T: 06/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161; anno: 2010]
Sinceramente mi aspettavo di meglio. Sia perché, pur avendo letto pochissimo dell’autore, la sua scrittura mi rimandava una sensazione empatica (ricordo soprattutto il racconto sulla partita di pallone tra ragazzi) sia per la fama ed i premi che questa Storia ha ottenuto sin dalla sua prima uscita. E non perché non sia scorrevole, anzi molte parti sono di punta di penna e delicatezza che mi hanno tenuto sulla pagina a lungo (relativamente, è ovvio, tipo un minuto buono, che per me è tempo da meditazione), come il ritratto del sensale tedesco e del suo percorso apogeico e perigeico. Mi danno perplessità invece proprio quei risvolti, che quarte di copertina e battage vari, lanciavano come “scrittura a metà tra romanzo e saggio”. Ecco, quella metà del saggio, seppur interessante, ed in alcuni punti dolentemente calzante, poi non si addentra, non diventa analisi finale, decisiva. Rimane a corroborare alcuni tratti delle vicende umane e personali, magari dandone alcuni connotati di interesse, ma senza coinvolgere sino in fondo. Ed anche qui, non perché sia sbagliata, o stonata, ma perché non conchiusa. Il clima generale, tra l’altro, mi aveva ben piacevolmente coinvolto. Siamo in Prato, città che ben conosco, nei suoi meandri culturali e nelle sue attività industriali. Nonché nei suoi collegamenti, alle lunghe visite fatte tra Calenzano e Piazza Mercatale, tra il Duomo e Fucecchio, laddove ben ricordo l’attività tessile di calzini del padre di Maurizio, dal suo fulgore inizio anni novanta, alla vendita ai cinesi, così come molte altre industrie del pratese. Torniamo alla scrittura, per ora. Con quegli inizi, tra il ricordo e l’autobiografia, che tanti salti nelle memorie antiche mi hanno fatto fare. Potenza dei nomi. Quei nonni, Omero e Temistocle, il padre Alvarado. Come non saltare nella memoria tra il personale prozio Arduino ed il locale Cilindro? Quelle fughe di studio, tra Edoardo che se ne va in America ed io che fuggo a Parigi (logica scelta culturale visti i dieci anni di differenza tra noi). Quelle letture matte e disperate. La scoperta di Scott Fitzgerald o quella di Joan Didion (mi sa che io e lui siamo i pochi ad aver letto “Democracy” un dì pubblicato da Frassinelli!). Viaggiando di capitolo in capitolo, ma forse sarebbe meglio dire di storia in storia, che ogni capitolo è anche una specie di micro-racconto, veniamo via via ricostruendo la storia della famiglia Nesi, da quando fonda la fabbrica tessile nei primi anni del fascismo, ai giorni nostri, fino alla vendita ed alla chiusura dell’industria avvenuta nel 2004. Questa è la Storia, che si porta appresso quella dei lavoranti alle filature, agli artigiani della lana, insomma a tutta la gente intorno. Ma la sua vena di scrittore non riesce a penetrare i problemi della crisi economica. Motivo per cui arrivano gli intarsi, giusti ma non amalgamati, sui motivi, le vicende, i susseguirsi di casualità ed idiozie che hanno portato una delle industrie di punta che sostenevano molto del panorama industriale italico, a crollare, quasi ad implodere. Ricordo e condivido la follia di chi diceva che si doveva aprire il mercato cinese, potenzialmente forieri di guadagni immensi. Sarebbe stato forse vero, se fosse rimasto isolato. Entrato nel circuito WTO, con le economie interne di risparmio produttivo, non poteva che portare alle problematiche attuali (ed è di questi giorni un paragone dell’economia 2000-2010, dove lì c’erano Stati Uniti in testa, poca Cina e Italia quinta, ed ora Cina in testa davanti agli USA, e noi scesi all’ottavo posto). Ripeto, queste parti, pur giuste, non mi hanno preso. Lasciandomi soltanto negli occhi la grande manifestazione di protesta in Piazza Mercatale di tre-quattro anni fa. Purtroppo Prato continua a morire. Mentre io vedrò di dedicarmi ad altri Nesi.
“Chi fa un mestiere normale per mantenersi mentre scrive è convinto di prendere il meglio dai due mondi, ma invece prende solo il peggio.” (36)
“Sulla spiaggia pettinata d’una Forte dei Marmi abbacinata dalle nuove, luride ricchezze dei russi, ero nella condizione ideale per … ricadere nelle abitudini goduriose di quando ancora non scrivevo e la lettura era solo una grande passione: fare gli orecchi di ciuco alle pagine.” (41)
“Nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti.” (144)
Diego De Silva “Voglio guardare” Einaudi 9,50 (in realtà, scontato 7,60 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 11/06/2012 – T: 12/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 183; anno: 2002]
Un romanzo inutile o un romanzo dannoso? Nella mia perversione di comprensione continuo a leggere anche romanzi altri di autori che, ogni tanto, mi sono piaciuti. Ed inevitabilmente incappo in prove diverse. Se tutto fosse bello, sarebbero, anche se di nicchia, autori che si portano nel cuore. Invece, come è naturale, si alternano prove buone a prove decenti ed anche a prove scadenti. C’erano passi, nelle mie prime letture di De Silva, che mi facevano sentir bene: simpatia di personaggi, comunanze di pensieri, ed altre piacevoli amenità. Sorretti, in genere, da una scrittura di facile lettura. Qui, forse, rimane solo l’ultima parte. E neanche tutta. Ci sono parti che rimangono oscure, nell’intento e nello svolgimento. Ma soprattutto mi rimane oscuro il senso generale della vicenda. A posteriori, vado ricostruendo l’idea che me ne sono fatta. Come se l’autore volesse cimentarsi con qualche scrittura di tipo anglo-americana. Una vicenda forte, che si contorna di persone e vicende collaterali, per un affresco di uno specchio di mondo. Se questo era, non è riuscito. Se voleva, da una vicenda “tirata” estrarre conclusioni o ragionamenti sulla natura umana, e sul nostro vissuto italiano, la riuscita è anche minore. Per tutto il romanzo assistiamo alla caduta verso l’abisso di due personaggi in parallelo: la sedicenne Celeste e l’avvocato David. Celeste ormai frequenta saltuariamente la scuola, oppressa dal degradarsi della vicenda umana familiare, con il padre, da lei tanto amato, che corre a pieni passi verso l’abisso dell’Alzheimer. E lei, per ribellione o per disperazione, decide di vendere il suo corpo, di mettersi sulla strada. Riuscendo benissimo in questa impresa, anche perché possiede una capacità empatica che le fa riconoscere bisogni e desideri di chi incontra. Purtroppo non riconosce i suoi. O forse fa di tutto per ignorarli. L’avvocato, oltre ad essere un bravo penalista, è un assassino psicopatico cui piace schiacciare gli altri nel verso senso del termine. In tribunale, per vincere le cause, anche con ragionamenti al limite della moralità (mi ricorda un mio lontano conoscente avvocato che fece assolvere un assassino dimostrando che il morto aveva avuto un infarto fatale prima di essere colpito dalla pallottola del suo assistito). E non contento, si dedica a rapire bambine under 10, ed a schiacciarle nel suo abbraccio. Per poi sotterrarle nel bosco. Vi dicevo che la trama era forte. E se parlassimo di racconto in stile verista, ci si dovrebbe mettere a trovare i moventi, i motivi, le indagini, ed altre delizie poliziesche. Invece l’autore ceca di farci benvolere il turpe assassino, descrivendolo nella parte positiva. Celeste ha la ventura di scoprire quanto combina David. Ed invece di denunciarlo, lo frequenta, anzi ne fa quasi un suo paladino. E pur sapendo l’orrendo vizio, continua ad entrare ed uscire dal suo appartamento. Perché? Cosa vuole Celeste? E perché David si lascia sprofondare verso una dostoevskiana resa dei conti con sé stesso? Il tutto convogliato verso un finale che non chiude niente (e ci potrebbe stare) ma che non aiuta a capire né le motivazioni dei personaggi, né quelle dell’autore. Per cui continua a chiedergli: ma cosa volevi dire? O dimostrare? Non l’ho capito, ed ho chiuso con piacere il libro, dicendomi che averlo finito mi consentiva, intimamente, di riportarlo al suo posto nella libreria, e dimenticarlo.
“La realtà … trova sempre il modo di umiliare le sue convinzioni più sincere, come quella per cui la gentilezza di un viso non può nascondere un’intenzione maligna.” (58)
Siano quasi nel pieno di settembre, confusione nasce dalle strade, ora ripopolate dal ritorno di studenti e professori. Lavori improbi e controlli. Ben presto sapremo meglio come impostare la fine e l’inizio del nuovo anno.

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