Pensiero di letture italiane. E
leggerezza di alcuni momenti romanzati, che ci portano a giro per l’Italia.
Cominciando bene, con delle oneste prove, dal lago di Como giù e di lato fino
alla Sardegna. Poi si attraversa il Tirreno, e si cade su una prova troppo
osannata su quel di Prato, per altri versi ed altre storie a me più caro e
chiaro di quanto lo fa Nesi. E poi si scende giù, lungo la costa, fermandosi a
Napoli, con una prova che mi ha lasciato perplesso, di un autore, che prima e
dopo questo scritto, mi sembrava portatore di altri e ben più interessanti
livelli di scrittura. Ma andiamo ad iniziare.
Andrea Vitali “Il segreto di Ortelia” SuperPocket euro 5,90
[A: 29/07/2011 – I: 23/05/2012 – T: 24/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 159;
anno: 2007]
Se fossi uno studente di lettere,
mi piacerebbe, prima o poi, impostare una tesi sulla “Comunità di Bellano” così
come esce dagli scritti di Andrea Vitali. Sin dal primo libro, infatti, lo
scrittore comasco continua ad incastonare tasselli della vita che si è svolta e
si svolge in questa località sulla riva orientale del Lago di Como, che gli ha
dato i natali e dove fa il medico di base (ciao Emilio). E non è un caso che
abbia ricevuto un Premio non per un libro singolo, ma per il complesso della
sua produzione. Ogni volta abbiamo davanti un nuovo pezzo della vita. Ed a
volte (ma ci vorrebbe uno studente che avesse tempo di controllare le
concordanze) c’è un qualche rimando tra i vari scritti. Questa volta, siamo
quasi in presenza di un’opera spuria. Che abbraccia sì un discreto lasso di
tempo (bene o male dal 1919 al 1941), sempre svolgendosi nella cittadina
eponima. Ma dove incontriamo solo in modo trasversale tutta l’epopea fascista
che sarebbe ben presente nell’epoca ed in genere è anche ben presente negli
altri scritti di Vitali. In realtà (e questa volta concordo con la quarta di
copertina) siamo in presenza con una sorta di “Dinasty” rurale, anzi di
macelleria. Perché il motore della vicenda è il giovane Amleto capitato per
altri motivi nella città di Bellano, e che decide di rimanervi per cercare lì
la sua fortuna. Prima si impiega come garzone in una macelleria. Poi,
approfittando di fortuite circostanze, sposa la bruttina Cirene, e diventa il
deus-ex-machina della seconda macelleria del paese, sempre alla ricerca di
nuovi modi per rubare credito e clientela alla prima. Su questo filone si
innesta il prorompente bisogno sessuale di Amleto e la dispareunia della
moglie. Per cui lui cerca soddisfazione altrove, anche se nel primo e quasi
unico assalto riesce a mettere al mondo l’Ortelia del titolo. Soddisfazione che
trova prima con una servetta, che metterà presto in cinta e che sarà quindi
foriera di ben altri problemi. Poi, sodale con il dottor Durini, nei bordelli
di quel di Lecco. Intanto il tempo passa, Ortelia cresce e si fidanza con uno
dei figli dell’altro macellaio, quello ricco. Ma la vita sregolata di Amleto ne
mina il fisico e, durante le nozze, lo porta prima ad un ictus, poi, dopo anni
di sofferenze alleviate solo dalla mano di Cirene, a passare a miglior vita. Ma
anche Ortelia ha i suoi momenti di gloria, dopo il fortunato sposalizio.
Infatti, lo aiuta, quando il fratello del marito va in rovina, a rilevare la
macelleria e ad adibirla ad altri usi. Ormai la loro è LA macelleria di
Bellano. Che non sarà scalfita neanche dalla morte per tetano del marito di
Ortelia. Anzi, sfruttando quel segreto del titolo, e di cui non vi narrerò alcunché,
Ortelia riesce trionfante da tutta la vicenda. Conciliando passato e presente,
riappacificandosi con la Betta, e dando il giusto castigo (forse più morale che
altro) al non esente da colpe dottor Durini. Stelle e stalle che si alternano
nelle al solito non numerose ed agili pagine di Vitali. E ben si incastonano,
durante il narrato, cammei di vita bellanese. Il parroco, i gaudenti, il bordello
di Lecco, il cacciatore, le servette. La solita fauna che popola gli scritti di
Vitali, quasi avesse gusto di riportare sulla carta i tanti e tanti personaggi
che incontra nella sua vita non letteraria. È facile. È leggero. È rilassante.
Ripeto, certo, non un’opera irrinunciabile, ma certo una che fa piacere aver
messo tra quelle lette.
Flavio Soriga “Sardinia blues” Bompiani euro 8,90 (in realtà, scontato
6,68 euro)
[A: 02/06/2011 – I: 02/06/2012 – T: 05/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 272;
anno: 2007]
Un giovane che mi aveva
incuriosito. Ne avevo sentito parlare durante una presentazione presso uno
spazio Feltrinelli. Ora, dopo la lettura, confermo che meritava. È un’onesta
ballata, sull’onda di qualche nota (blues) e con molta Sardegna appresso.
Sardegna che si sente nei toponimi (S’Archittu, Villanova Truschédu, per non
parlare della bellissima Bosa, o della mitica Argentiera
della mia adolescenza, ma anche le solite città, Cagliari, Oristano, Alghero),
si sente in alcune parlate (anche se non si Cammillereggia, e forse ce ne
sarebbe bisogno prima o poi), si vede in alcuni vestiti (gli stivali di Busàchi
su tutti), ma soprattutto aleggia nell’aria indolente dei tre post-vitelloni
isolani. Che, superati problemi giovanili, o quanto meno accantonati, tipo
droga, sesso sfrenato, ed altri estremismi, si trovano “pirati” di terra dentro
la loro grande isola. Con al centro lui, il Davide narrante, che, per soprammercato
isolano, è anche talassemico (e questo pare sia l’unico ma fondamentale tratto
che condivide con l’autore). Ed è l’anemico mediterraneo che, con brevi
capoversi, narra le vicende dei tre amici, delle serate in discoteca, delle
donne che prendono e lasciano per una sera, delle fidanzate da cui sono
lasciati, dalle avventure che decidono di intraprendere. Tipo il trafugamento
di carte d’identità per una libera circolazione degli immigrati o la ricerca
del testamento di un conte vecchio e rimbambito. Avventure che, seppur non in
tragedia, finiscono sempre con portare poco lustro e pochi soldi ai nostri
pirati. Poi c’è la storia di Corda e della sua ballerina, di Licheri, della
droga, dello sballo, della sua casa al mare, rifugio durante necessità varie
(vere o presunte). E la lunga avventura in un’altra isola, molto più a Nord,
quando Davide decide di seguire il suo amore a Londra, ma dove resisterà
qualche anno, per poi tornare indietro. Il tutto punteggiato dalle periodiche
visite agli ospedali, dove il talassemico grave si sottopone mensilmente a
trasfusioni di sangue. E dove incontra tanti altri mondi, a lui paralleli. Dai
giovanissimi che non si danno pace, all’amica australiana che decide il
trapianto di midollo per curarsi. Insomma tanti piccoli cammei, che
s’incastrano nel corso del tempo, come direbbe un patito di Wim Wenders. Come
quello, bellissimo ed umano, del bandito sardo, che decide di fare outing, e
della solitudine che ne deriva (e del suo pianto sulle spalle di Davide). Ed
anche gli amori di Davide, da quello lasciato a Londra, alla matura Maria
Elena, alla vendicativa Elisa che lo usa per far dispetto al suo ex (e mi sembra
che Davide non si dispiaccia più di tanto), fino alla bellissima ed
irraggiungibile Daniela, quella con il fidanzato in Afghanistan. Peccato il
finale, che si tinge di toni drammatici, non tanto per le possibili scomparse
dei protagonisti (è umano, accade tutti i giorni), quanto il modo, il
concatenamento degli eventi. Seppur la scrittura sorregga sempre Soriga, questa
parte mi è stata ostica, e mi ha fatto abbassare di un punto il gradimento
globale. Non so, mi è sembrata (al solito) una di quelle trovate di chi, ad un
certo punto, si trova ad un bivio: o andare avanti all’infinto o trovare una
via d’uscita. Ma chi si pone questa domanda, ha sicuramente esaurito parte
dello sprint iniziale. Però Soriga mi è piaciuto, così come il sentimento di
sentirsi trascinare tra le coste selvagge del Sud della Sardegna e gli
entroterra barbaricini. Sedendosi a delle tavole dove si mangia tanta carne,
che l’acqua serve a proteggersi dai nemici. Se ne riparlerà.
“Io spero sempre … Ho questa illusione.” (139)
“Forse così te lo posso spiegare, con degli episodi, forse è questo
l’unico modo che abbiamo per raccontare una persona, per chi come me è
allergico alle astrazioni.” (149)
“Non mi piacciono le videocamere e le fotografie … le storie tornano lo
stesso nella mia testa anche senza riprese e documento.” (191)
“Ho pensato che solo dei medici ci possono salvare, delle persone che si
mettono davanti a un uomo e non solo a un paziente, a un’altra persona e non a
una cartella.” (254)
Edoardo Nesi “Storia della mia gente” Bompiani euro 14 (in realtà,
scontato 10,50 euro)
[A: 02/10/2011 – I: 05/06/2012 – T: 06/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 161;
anno: 2010]
Sinceramente mi aspettavo di
meglio. Sia perché, pur avendo letto pochissimo dell’autore, la sua scrittura
mi rimandava una sensazione empatica (ricordo soprattutto il racconto sulla
partita di pallone tra ragazzi) sia per la fama ed i premi che questa Storia ha
ottenuto sin dalla sua prima uscita. E non perché non sia scorrevole, anzi
molte parti sono di punta di penna e delicatezza che mi hanno tenuto sulla
pagina a lungo (relativamente, è ovvio, tipo un minuto buono, che per me è
tempo da meditazione), come il ritratto del sensale tedesco e del suo percorso
apogeico e perigeico. Mi danno perplessità invece proprio quei risvolti, che
quarte di copertina e battage vari, lanciavano come “scrittura a metà tra
romanzo e saggio”. Ecco, quella metà del saggio, seppur interessante, ed in
alcuni punti dolentemente calzante, poi non si addentra, non diventa analisi
finale, decisiva. Rimane a corroborare alcuni tratti delle vicende umane e
personali, magari dandone alcuni connotati di interesse, ma senza coinvolgere
sino in fondo. Ed anche qui, non perché sia sbagliata, o stonata, ma perché non
conchiusa. Il clima generale, tra l’altro, mi aveva ben piacevolmente coinvolto.
Siamo in Prato, città che ben conosco, nei suoi meandri culturali e nelle sue
attività industriali. Nonché nei suoi collegamenti, alle lunghe visite fatte
tra Calenzano e Piazza Mercatale, tra il Duomo e Fucecchio, laddove ben ricordo
l’attività tessile di calzini del padre di Maurizio, dal suo fulgore inizio
anni novanta, alla vendita ai cinesi, così come molte altre industrie del
pratese. Torniamo alla scrittura, per ora. Con quegli inizi, tra il ricordo e
l’autobiografia, che tanti salti nelle memorie antiche mi hanno fatto fare.
Potenza dei nomi. Quei nonni, Omero e Temistocle, il padre Alvarado. Come non
saltare nella memoria tra il personale prozio Arduino ed il locale Cilindro?
Quelle fughe di studio, tra Edoardo che se ne va in America ed io che fuggo a
Parigi (logica scelta culturale visti i dieci anni di differenza tra noi). Quelle
letture matte e disperate. La scoperta di Scott Fitzgerald o quella di Joan
Didion (mi sa che io e lui siamo i pochi ad aver letto “Democracy” un dì
pubblicato da Frassinelli!). Viaggiando di capitolo in capitolo, ma forse sarebbe
meglio dire di storia in storia, che ogni capitolo è anche una specie di
micro-racconto, veniamo via via ricostruendo la storia della famiglia Nesi, da
quando fonda la fabbrica tessile nei primi anni del fascismo, ai giorni nostri,
fino alla vendita ed alla chiusura dell’industria avvenuta nel 2004. Questa è
la Storia, che si porta appresso quella dei lavoranti alle filature, agli
artigiani della lana, insomma a tutta la gente intorno. Ma la sua vena di
scrittore non riesce a penetrare i problemi della crisi economica. Motivo per
cui arrivano gli intarsi, giusti ma non amalgamati, sui motivi, le vicende, i
susseguirsi di casualità ed idiozie che hanno portato una delle industrie di
punta che sostenevano molto del panorama industriale italico, a crollare, quasi
ad implodere. Ricordo e condivido la follia di chi diceva che si doveva aprire
il mercato cinese, potenzialmente forieri di guadagni immensi. Sarebbe stato
forse vero, se fosse rimasto isolato. Entrato nel circuito WTO, con le economie
interne di risparmio produttivo, non poteva che portare alle problematiche
attuali (ed è di questi giorni un paragone dell’economia 2000-2010, dove lì
c’erano Stati Uniti in testa, poca Cina e Italia quinta, ed ora Cina in testa
davanti agli USA, e noi scesi all’ottavo posto). Ripeto, queste parti, pur
giuste, non mi hanno preso. Lasciandomi soltanto negli occhi la grande
manifestazione di protesta in Piazza Mercatale di tre-quattro anni fa.
Purtroppo Prato continua a morire. Mentre io vedrò di dedicarmi ad altri Nesi.
“Chi fa un mestiere normale per mantenersi mentre scrive è convinto di
prendere il meglio dai due mondi, ma invece prende solo il peggio.” (36)
“Sulla spiaggia pettinata d’una Forte dei Marmi abbacinata dalle nuove,
luride ricchezze dei russi, ero nella condizione ideale per … ricadere nelle
abitudini goduriose di quando ancora non scrivevo e la lettura era solo una
grande passione: fare gli orecchi di ciuco alle pagine.” (41)
“Nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti.” (144)
Diego De Silva “Voglio guardare” Einaudi 9,50 (in realtà, scontato 7,60
euro)
[A: 19/01/2012 – I: 11/06/2012 – T: 12/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 183;
anno: 2002]
Un romanzo inutile o un romanzo
dannoso? Nella mia perversione di comprensione continuo a leggere anche romanzi
altri di autori che, ogni tanto, mi sono piaciuti. Ed inevitabilmente incappo
in prove diverse. Se tutto fosse bello, sarebbero, anche se di nicchia, autori
che si portano nel cuore. Invece, come è naturale, si alternano prove buone a
prove decenti ed anche a prove scadenti. C’erano passi, nelle mie prime letture
di De Silva, che mi facevano sentir bene: simpatia di personaggi, comunanze di
pensieri, ed altre piacevoli amenità. Sorretti, in genere, da una scrittura di
facile lettura. Qui, forse, rimane solo l’ultima parte. E neanche tutta. Ci
sono parti che rimangono oscure, nell’intento e nello svolgimento. Ma
soprattutto mi rimane oscuro il senso generale della vicenda. A posteriori,
vado ricostruendo l’idea che me ne sono fatta. Come se l’autore volesse
cimentarsi con qualche scrittura di tipo anglo-americana. Una vicenda forte,
che si contorna di persone e vicende collaterali, per un affresco di uno
specchio di mondo. Se questo era, non è riuscito. Se voleva, da una vicenda
“tirata” estrarre conclusioni o ragionamenti sulla natura umana, e sul nostro
vissuto italiano, la riuscita è anche minore. Per tutto il romanzo assistiamo
alla caduta verso l’abisso di due personaggi in parallelo: la sedicenne Celeste
e l’avvocato David. Celeste ormai frequenta saltuariamente la scuola, oppressa
dal degradarsi della vicenda umana familiare, con il padre, da lei tanto amato,
che corre a pieni passi verso l’abisso dell’Alzheimer. E lei, per ribellione o
per disperazione, decide di vendere il suo corpo, di mettersi sulla strada. Riuscendo
benissimo in questa impresa, anche perché possiede una capacità empatica che le
fa riconoscere bisogni e desideri di chi incontra. Purtroppo non riconosce i
suoi. O forse fa di tutto per ignorarli. L’avvocato, oltre ad essere un bravo
penalista, è un assassino psicopatico cui piace schiacciare gli altri nel verso
senso del termine. In tribunale, per vincere le cause, anche con ragionamenti
al limite della moralità (mi ricorda un mio lontano conoscente avvocato che
fece assolvere un assassino dimostrando che il morto aveva avuto un infarto
fatale prima di essere colpito dalla pallottola del suo assistito). E non
contento, si dedica a rapire bambine under 10, ed a schiacciarle nel suo
abbraccio. Per poi sotterrarle nel bosco. Vi dicevo che la trama era forte. E
se parlassimo di racconto in stile verista, ci si dovrebbe mettere a trovare i
moventi, i motivi, le indagini, ed altre delizie poliziesche. Invece l’autore
ceca di farci benvolere il turpe assassino, descrivendolo nella parte positiva.
Celeste ha la ventura di scoprire quanto combina David. Ed invece di denunciarlo,
lo frequenta, anzi ne fa quasi un suo paladino. E pur sapendo l’orrendo vizio,
continua ad entrare ed uscire dal suo appartamento. Perché? Cosa vuole Celeste?
E perché David si lascia sprofondare verso una dostoevskiana resa dei conti con
sé stesso? Il tutto convogliato verso un finale che non chiude niente (e ci
potrebbe stare) ma che non aiuta a capire né le motivazioni dei personaggi, né
quelle dell’autore. Per cui continua a chiedergli: ma cosa volevi dire? O
dimostrare? Non l’ho capito, ed ho chiuso con piacere il libro, dicendomi che
averlo finito mi consentiva, intimamente, di riportarlo al suo posto nella
libreria, e dimenticarlo.
“La realtà … trova sempre il modo di umiliare le sue convinzioni più
sincere, come quella per cui la gentilezza di un viso non può nascondere
un’intenzione maligna.” (58)
Siano quasi nel pieno di
settembre, confusione nasce dalle strade, ora ripopolate dal ritorno di
studenti e professori. Lavori improbi e controlli. Ben presto sapremo meglio
come impostare la fine e l’inizio del nuovo anno.
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