domenica 30 settembre 2012

PiErriNo - 30 settembre 2012


No, non è un errore, né un becero tentativo di fare un revival di Alvaro Vitali. No, questa settimana di fine settembre la dedico a due scrittori italiani, cui segue le opere con alti e bassi. Ma che trovo in ogni caso degni di lettura. Qui, nel titolo, li ho mischiati. Così come nelle letture. Sebbene ben distinti siano, appunto l’alessandrino Pino Cacucci ed il napoletano Erri De Luca. Anche se, a ben guardare, la comune passione per il Sud America qualcosa vuol dire.
Erri De Luca “Il contrario di uno” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 13/05/2012 – I: 13/06/2012 – T: 14/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 115; anno: 2003]
Erri, quando torni alla tua vena migliore? Quand’è che ti spogli dalla prosopopea di raccontare ex-cathedra e torni a sporcarti le mani con le narrazioni più partecipate? Tra l’altro, anche qui siamo sul versante racconti, e di quelli che non sono il massimo per le mie corde di lettore. Inoltre pensavo che “Tre cavalli” avesse segnato una svolta importante nello scrivere del nostro amico napoletano, passando appunto da quel modo di porsi un po’ al di sopra, ad uno più partecipativo. Invece anche qui non ho visto giusto. Perché se è pur vero che molta della produzione prima dei cavalli non mi è piaciuta, e molta di quella dopo mi ha dato spunti di riflessione, ci sono ancora dei momenti alti e bassi. Come in tutte le produzioni che vado leggendo negli ultimi anni. Morale (a doppio binario): scritti sentiti dall’autore producono sensazioni interessanti nel lettore, letture partecipate del lettore riscattano momenti non felici dell’autore. Qui ci sono una ventina di racconti che nel complesso non hanno smosso molto in me, ed è come sentisse che anche De Luca non ne avesse una visione chiara. A parte i cinque inutili micro racconti dedicati ai sensi, qui riproposti da una diversa antologia, gli altri, al solito, entrano ed escono dal privato dello scrittore, ne trattano momenti della sua parabola di vita, infanzia, adolescenza ribelle e sovversiva, periodo di ripensamento operaio, solitudine ed introspezione. Tutto giocato su quell’equazione poco aritmetica del rapporto tra uno e due. È lo stesso De Luca che confessa non essere matematica la contrapposizione, che il contrario di uno, se vogliamo essere rigorosi, è “- 1”. O se vogliamo essere filologici è “molti”. Non certamente “2”. Ma l’autore vuole creare una serie di contraltari tra i momenti suoi solitari (lì dove è uno) e quelli di rapporto con gli altri (dove si è almeno 2). Ne capiamo le motivazioni. Come ne capiamo alcuni momenti. Che meglio solitari risaltano, come nel ricordo della madre (per lui, per tutti, sempre dolente quando non c’è più). O nelle strampalate idee del padre, perso in sogni che non riesce né a vivere né a condividere. Ma anche in quei momenti di altritudine: un abbraccio portato per scacciare una malattia, una gonna blu durante una carica di polizia. Fino a quella domanda inespressa durante l’arrampicata in due, dove bisogna appunto non solo essere in due, ma fidarsi reciprocamente. È il solo modo di andare avanti, è il solo modo di superare le difficoltà. Ed anche se la montagna è forse una delle cose a me più distanti (superata solo dalle discese subacquee con bombole e muta), è anche quella che capisco meglio. Il resto, appunto, sono piccole bozzetti, ritratti, ricordi. Ma non mi emoziona sentirlo parlare di quando faceva l’operaio, delle sensazioni provate in Africa, di quell’appartamento vicino a Villa Ada. E questo e quello. Soprattutto, non per il narrato in sé, ma per quel modo di costruire la frase, che non ha più la naturalezza dei Cavalli, e non ancora altro sentire del peso della farfalla o del nome della madre. Perché De Luca a volte prende la frase, la inizia, poi si ferma, respira, ne cerca un suono, un’allitterazione, inverte soggetto e oggetto. E ne fa una corta sentenza. E come tutte le sentenze a me rimane esterna. Non mi da modo di controbattere, è troppo secca e lapidaria. Io amante del dubbio e dell’irresolutezza, mi trovo a volte spaesato nella sua affermosità. Vedremo altro, caro amico, che il nostro cammino non si fermerà qui.
“Sono stato ragazzo per qualche settimana, un paio di volte, d’estate. Per tutto il frattempo si era adulti involontari.” (52)
“Non scherzavano con le cose della natura.” (81)
“Le chiedevo conto, e mai si deve tra chi sta in amore. Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura.” (91)
“La tua mano minuta serrata nella mia … chiudeva noi due dentro e tutti gli altri fuori.” (108)
Pino Cacucci “Outland Rock” Feltrinelli euro 7,50 (in realtà, scontato 6 euro)
[A: 11/06/2011 – I: 19/06/2012 – T: 20/06/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 165; anno: 1988]
Devo una volta tanto concordare con qualcosa della quarta di copertina, anche se non in modo così entusiastico. Viene, infatti, riportato un giudizio di Fellini su questa prima uscita del nostro, data ben 1988, che parlava di due ore di divertimento rispetto alla lettura dei racconti dello scrittore, piemontese ma cresciuto artisticamente al DAMS di Bologna. Ora divertimento non è la parola che mi viene subito in mente, ma certamente due ora ben spese, leggendo quattro racconti scorrevoli, che rappresentano appunto la prima uscita di Cacucci. Non tutti sullo stesso piano, non tutti parimenti godibili, ma certamente una scrittura che già si preannuncia dotata di un buon grado di leggibilità. Con alcuni elementi che si troveranno nei suoi scritti successivi. L’attenzione ai perdenti, alle piccole cose della vita, ed anche un primo slancio verso quel Sudamerica che per Cacucci rappresenterà un po’ un elemento di svolta. Un amore. Un rifugio. Certamente una patria del cuore se non del corpo. I quattro racconti sono anche uniti dalla “impossibilità (o quasi) di essere reali”. Soprattutto il primo e l’ultimo, dove le vicende del protagonista diventano occasioni per far entrare fraudolentemente tematiche quasi da hard boiled americano o simili elementi poco italici. Nel primo uno sbandato, quasi un alter ego dell’autore che passa le giornate a raggirare le compagnie di vendita per corrispondenza (siamo ancora ai tempi della posta e non delle mail), si trova invischiato in una ricerca di un improbabile pezzo di satellite della guerra non tanto fredda tra le grandi potenze. E riesce, con fortuna ed incoscienza, a cavarsi di impiccio ed uscirne vincitore. Nel quarto, un ricercatore medico trova la formula per eliminare la carie. Ma le grandi compagnie farmaceutiche fanno di tutto per bloccarlo. Prima con le buone, poi con le cattive, ed in fine con le pessime. Ma pur non essendo un James Bond, il nostro professor Bombrini passa (quasi) indenne nelle maglie dei cattivi. Certo la sua idea è sconfitta. Ma forse non lo è lui, che pensa ad un futuro messicano (ve l’avevo detto, no?). Tuttavia, mentre il primo, pur fantasticheggiando, risulta plausibile, le fortune di Bombrini che passa indenne tra spie, agguati alla pistola ed altre fughe ed inseguimenti alla Tom Cruise, sembra poco reale. Direi un po’ forzato. Come sono forzati, ma questi si reali, i due protagonisti dei racconti centrali. L’usciere che assiste all’uccisione di un poliziotto, ma che, non volendo immischiarsene, ne risulta sempre più drammaticamente coinvolto. E l’amante delle moto e delle corse “fuori regola”, che nel tentativo di organizzare un bidone alla Marlon Brando, si ritrova coinvolto anche lui in una morte, senza riuscire a caprie né perché né come uscirne. Il tratto comune è sempre quello: una persona normale, d’un tratto, si trova ad affrontare una situazione eccezionale. Come reagirà? Sarà capace di trovare le misure giuste? Sarà coinvolto o consenziente? Nel tempo Cacucci comprenderà forse che non bisogna andare molto fuori nella fantasia per trovare situazioni difficili da affrontare. A volte le situazioni difficili sono presenti nella vita di tutti i giorni. Ed in quei frangenti che esce fuori poi l’anormalità delle persone. Vuoi la loro eccezionalità, come nel bellissimo ritratto che farà della Modotti o degli anarchici della banda Bonnot. Per ora un primo libro piacevole, certo letto 25 anni dopo. Ma non risente molto dell’usura del tempo (forse solo del passaggio da lira ad euro). Tant’è che ripeto fellinianamente, godiamoci queste due ore di riposo dalla stanchezza del quotidiano. 
“Quelli che sanno fare un po’ di tutto significa che non sanno fare niente di preciso.” (9)
Erri De Luca “Il torto del soldato” Feltrinelli euro 11
[A: 13/05/2012 – I: 04/07/2012 – T: 05/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 88; anno: 2012]
Siamo tornati sul versante alto di De Luca. Non vetta eccellente, ma migliore e più intrigante degli ultimi libri che ne ho letto. Meglio nella prima parte, quando narra in soggettiva, che nella seconda, dove, a volte, ricade nelle pause iperboliche di alcuni suoi momenti meno felici. Un libro breve, quasi un racconto lungo. Che De Luca riempie di alcuni suoi messaggi e di una domanda di fondo, che credo sia all’origine dello scritto. Appunto nella prima parte, dove ritroviamo la dichiarazione d’amore verso le montagne (e la solitudine delle stesse), troviamo anche la narrazione della nascita dell’amore di De Luca per l’yiddish, per la traduzione dei racconti di Singer, il ricordo delle barbarie naziste, la visita al ghetto di Varsavia, ed altre micro-storie che al solito stanno lì e sedimentano. Come lo sguardo alla donna nella locanda. Come la birra, o la pietanza mangiata con le mani. Tutto quello che serve poi ad innescare la seconda parte, questa in soggettiva della donna dello sguardo. Che ricostruisce, dalla sua parte del vetro, la storia della sua vita, e del suo rapporto con questo padre anziano. Che alla fine scopriamo essere un ex-soldato nazista. Ed un lungo e sotterraneo tormentone nasce dalle pagine, quello della domanda che ha fatto scaturire il bisogno di scrivere. Lo sconfitto nazista sostiene che il torto del soldato è di aver perso la guerra, che la storia la scrivono i vincitori. Lo scrittore pieno di dubbi ribatte che il torto del soldato è di obbedire. (E vai con il dibattito…). Ma le due parti, per me, non son bilanciate. Quando De Luca si mette in panni altri, fa un doppio lavoro (faticoso e prezioso) che non sempre porta i risultati sperati. Il lavoro di spogliarsi della propria impalcatura caratteriale, che rende i personaggi a volta più agili e meno oscuri, e la paura di togliersela tutta, per cui a volte ritorna nelle sue frasi anguste, nelle inversioni tra soggetto e oggetto, che a volte fanno tanto poema, ed a volte fanno solo fatica nel lettore. Ma il narrare diventa più fluido. Quando rimane in soggettiva su sé stesso, ha più difficoltà nel togliersi le armature caratteriali (mi sia consentita la citazione…) ma quando il discorso fluisce, ne esce più partecipe, ci fa più coinvolti. Quando parla dell’yiddish, della sua struttura, si vede l’amore con cui si accosta a questa lingua, per non farla morire (mi ricorda quei passi del Bambino di Noè di Schmitt). Che ne ricostruisce modalità e rigore (e poi si cercherà, tra quelli bravi e colti, di vedere affinità e differenze tra yiddish, ebraico, arabo ed altre lingue di ceppo mediorientale). Che ci fa vedere la bella genesi del finale del libro “La famiglia Muskat” di Singer. Nelle parti della donna, il discorso diventa più difficile. Ci son passaggi forse troppo involuti. Anche se si arriva ben presto a comprendere l’impianto. Ed a tornare alla domanda iniziale, su quale sia il torto del soldato, fatto salvo il fatto che non possa essere il fatto stesso di essere soldato. La domanda, infatti, travalica il contingente e diventa altro: diventa il torto degli sconfitti, il torto dei disobbedienti. Diventa il chiedersi se dire sempre di sì sia compatibile con le richieste che ci vengono fatte. Diventa, facendo un salto di un numero altissimo di gradi, il chiedersi, con Saviano ed Alajmo, come disobbedire alla Mafia e alla Camorra. Dove finisce il coraggio personale, per cominciare l’orgoglio collettivo. Forse sto correndo troppo, e le parole di De Luca hanno solo fatto da miccia a pensieri latenti e presenti. Ma altri dal narrato. Comunque, è mia convinzione che un qualsiasi scritto che susciti pensieri, anche se diversi dalle intenzioni dell’autore, è un libro degno di essere stato scritto. Ed io sono contento di aver avuto la fortuna di leggerlo (come diceva un diverso autore italiano, se leggi cinquecento libri all’anno, in una vita per quaranta cinquanta anni, potrai leggere che so venti-trentamila libri; in Italia ogni anno se ne pubblicano il doppio; e quindi ci vuole fortuna a pescare libri che si è contenti di portare con sé).
“Non è morta una lingua se anche uno solo al mondo la muove tra il palato e i denti, la legge, la borbotta.” (24)
Pino Cacucci “San Isidro Futbòl” Feltrinelli euro 6,50 (in realtà, scontato a 6 euro)
[A: 13/05/2012 – I: 07/08/2012 – T: 08/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 101; anno: 1991]
Non scopriamo oggi l’amore di Cacucci per il Messico. Tanto ne ha scritto e tanto ci ha dedicato (prove letterarie, da Puerto Escondido a Demasiado Corazòn, e saggi meta-scritture dalla biografia di Tina Modotti a La polvere del Messico di Io, Marcos a Gracias Mexico). Qui, in questo felice racconto lungo, unisce questo amore-devozione, con la punta ironica dei suoi migliori spunti, confezionando uno scritto veloce, ma non meno degno di lettura e riflessione. E che balza subito agli occhi facendoci sentire lì in quel pezzo di terra messicana, con la selva, le strade bianche, i polli e le galline. Tant’è che Alessandro Cappelletti l’ha subito trasformato in un (anche non eccelso) film. Quel “Viva San Isidro” dove spiccava la forte presenza di Diego Abatantuono nella parte di Padre Pedro (che bella assonanza!). Ma torniamo allo scritto ed alla sua esile trama. Tutta incentrata sulla comunità di San Isidro, paesino sperduto tra le regioni di Veracruz e Oaxaca (ahi, quando ci si ritornerà tra i suoi monti magici…). Cacucci, da bravo conoscitore dei posti, riesce a dipingerlo con brevi tratti di penna, soprattutto attraverso i suoi personaggi eponimi. L’alcade Don Cayetano, i suoi luogotenenti aficionados, Justino Portillo e Pascual Sandia, l’agricoltore misterioso, Alvaro Cristobal, il mescitore di mescal, Chepe Chamaco, il bello del villaggio, Quintino, e la sua bella, Antonia, la figlia maggiore di Pepe Gongora, non solo uno dei maggiorenti del villaggio, ma anche l’allenatore della squadra di calcio. Per finire (nel libro solo nelle ultime pagine), con Padre Pedro, con le sue potenti manone e la capacità, finale, di risolvere tutto per il meglio. Ma tutto che? Cacucci ci porta in una di quelle concatenazioni di avvenimenti, tanto improbabili quanto esilaranti nel susseguirsi. La squadra di calcio di San Isidro deve affrontare dei terribili rivali, ma bisogna delimitare il campo, e viene convinto Alvaro a cedere un sacco delle sue sementi. Quintino, il presunto Maradona della squadra, non riesce a prendere una palla, quando, dopo un fallo, cade sulle sementi, e dopo averne odorato un po’ si rimette in piedi, e segna dieci goal agli avversari. Il paese si ubriaca e Quintino continua la sua impresa in una folle notte d’amore con Antonio. Poi preso a ben volere da Alvaro, lo aiuta a prendere gli altri sacchi di sementi, che si trovano su di un aereo caduto nella selva. Per compensarlo, Alvaro gliene da un po’, che Quintino distribuisce ai suoi amici rancheros. Fatto sta che il paese si trova ben preso assalito da sgangherati ladrones ed altrettanto sgangherati federales. Don Cayetano arma il paese e sconfigge i bruti, ma solo fisicamente. Certo che altri arriveranno, se non intervenisse Padre Pedro, che tramite una complessa trattativa, riesca ad accontentare i ladrones (si era capito cari tramatori che non di sementi ma di coca si trattava?), il defraudato Alvaro, l’alcade. Ed anche Quintino e Antonia che convolano a giuste nozze. Il tutto condito da quegli splenditi bozzetti fatti da Cacucci in punta di penna, dove, dedicando poche righe ad ogni personaggio, ce lo dipinge e ce lo fa conoscere e ben volere in poche e sentite battute. È un divertimento, una presa in giro del western e dei (mal) costumi d’occidente. Anche una presa in giro dei messicani, ma fatta col garbo e la maestria di chi veramente vuole loro bene. Anche noi ne vogliamo, e non si vede l’ora di tornar tra le selve e le piramidi, tra San Cristobal e Palenque, tra Chichén Itzá e Monte Albán. Que viva Mexico!
Ebbene sì, comincia la settimana delle castagne. Oggi primo controllo sulla situazione casa - albero a Soriano. E poi si spera in un week-end decente, magari solatio. C’è attesa per la nuova linea ADSL, e per i bilancini che si accumulano. Una settimana in potenza… (nessuna battuta sciocca, via). Un bacio
Giovanni

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