domenica 11 novembre 2012

Suggestioni - 11 novembre 2012


Prima suggestione: io sembra che non stia a sentire nessuno, ma in realtà sembra. Seconda suggestione: non sparate. Terza suggestione: non sparite. Quarta suggestione: dove sono andate a finire le biglie? E poi, ripeto per mia convinzione, continuo ad essere franco ed a dire cosa mi piace e cosa non mi piace. Come nel quartetto di oggi.
William Langewiesche “Esecuzioni a distanza” Adelphi euro 7 (in realtà, scontato 5,60 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/07/2012 – T: 28/07/2012]
[titolo: The Distant Executioner - Predators; lingua: inglese; pagine: 84; anno: 2010]
Non lo so. Sicuramente mi ha interessato, e sicuramente è ben scritto. Ma ha lasciato dai forti punti di perplessità. Elenchiamoli: la materia, la confezione, il suggerimento. Ed anche punti di curiosità e di stimolo. Intanto l’autore dall’impronunciabile nome. Infatti, Langewiesche è uno strano tipo di giornalista americano, per anni pilota (da corsa? D’aereo? Mistero da sciogliere). Non uno scrittore, ma con un modo sicuro di maneggiare le frasi. Si sente il taglio giornalistico. E si sente anche il taglio imposta dalla testata per cui scrive (“Vanity Fair”). E questo si ripercuote sulla scrittura, di taglio giornalistico, ma non pedantemente descrittivo. Anzi, cerca di suscitare pensieri quasi parlando d’altro (e pensieri ne sono sorti). Non affronta il tema di petto, non ti sottolinea: guarda che enormità sto dicendo. Ma i temi vengono fuori. Prima di affrontarli, elemento duale di bene e male, vediamo gli altri punti, quelli dolenti. Il suggerimento viene da “Satisfiction” una strana rivista di libri e letture, sponsorizzata da Feltrinelli e Vasco Rossi. Ne parlava con calore, e mi ha convinto a comprarlo, ma i motivi che avrei portato sono tutti diversi sa quelli sottolineati. Così come la confezione. Non è un racconto, o un romanzo, ma sono due articoli, scritti appunto per “Vanity Fair”, e accomunati dalla vicinanza del tema. Niente di più. E forse andava detto, nelle note al libro. E continuiamo con lo specifico. L’interesse che mi ha suscitato la lettura dei due articoli deriva proprio dalla luce che, in qualche modo, gettano su alcune tipologie americane di vita. Il primo solleva e collega i grandi interrogativi sul rapporto con le armi che hanno gli americani. Certo si parla di “sniper” termine gentile che al volgo si traduce con cecchino. Ma la vicenda del fantomatico Ross Crane dà alcuni spiragli sul rapporto che hanno con le armi. E di conseguenza con il rapporto con la vita. È ovvio che stiamo parlando di situazioni particolari, di quando Crane inquadra nel suo mirino telescopico degli afghani cercando di capire se siano talebani da uccidere o contadini che stanno seminando (e che per questo scavano nella terra). È giusto sparare? Come distinguere i due ceppi se sono praticamente indistinguibili? Se fossimo in Occidente, un mucchio di sassi al bordo di una strada farebbe muovere idee di possibili attentati. Ma l’Afghanistan è tutto un mucchio di sassi, anche nelle grandi città. Poi torniamo nel Texas, dove ora Crane addestra altri cecchini. Ed ha un mini-arsenale alla porta di casa. E legge riviste di armi. Quando spara si sente la coscienza a posto davanti alla nazione e a Dio onnipotente. È questo il modo di vivere? Ci si chiede come sia possibile la nascita di una mentalità così intimamente sospettosa dell’altro. Che spinge a liberalizzare il possesso individuale di fucili, pistole e bombe varie. E poi ci meravigliamo di Columbine o del massacro al cinema di Batman! E non ci meravigliamo che il nostro cecchino si chieda perché qualcuno ha deciso di far nascere le religioni monoteistiche in un posto così poco accogliente come il Medio Oriente, invece di scegliere, che so, la Svizzera. Il secondo poi è ancora più legato al sentimento militare imperante, e ad alcune modalità della guerra moderna che non mi erano chiare e che mi hanno spaventato. Si parla di “drone”, cioè di avio-robot guidati dall’uomo, della classe “Predator”. L’uomo a terra guida il robot che vola, che trasporta armi, che gira sulle zone di guerra, e che, vedendo obiettivi sensibili, lancia granate ed altre micidiali bombe. Forse si può perdere il “drone” ma l’uomo è al sicuro. E fin qui niente di nuovo. Quello che non sapevo e che mi ha realmente spaventato, è il fatto che l’uomo che guida questi robot, quasi una sorta di video-gioco super costoso e super-tecnologico, si trova ben lontano dalla zona di guerra. Nella fattispecie, i robot girano sempre nelle zone di guerra tra Iraq ed Afghanistan. E gli uomini al comando sono … in America. Tutto quello cui devono stare attenti è il ritardo del segnale di circa due secondi, dovuto alla distanza dall’obiettivo reale. Ma lo scenario da guerra futura è impressionante. Uno sforzo tecnologico per far sì che la guerra si trasformi realmente in un immenso videogioco. Mi viene in mente quel bellissimo film (War Games) dove tutto era gestito da un computer che poi “impazzisce” e rischia di scatenare una disastrosa guerra mondiale. Perché lui, il computer, pensa che sia un gioco. E va scolpita nella pietra quella frase finale: l’unico modo di vincere questo gioco è … non giocare. Ecco, cerchiamo di scolpirci in fronte questa frase, e cerchiamo di farla capire a tutti gli imbelli portatori di guerre!
Tommaso Pincio “Hotel a zero stelle” Laterza euro 12 (in realtà, scontato a 9,96 euro)
[A: 04/12/2011 – I: 06/08/2012 – T: 25/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229; anno: 2011]
Intanto questo libro mi dà modo di confutare la leggenda che mi vuole restio a consigli degli amici. È solo il tempo che passa tra consiglio e lettura che può far nascere questa diceria. Così, ringrazio Maria del suggerimento, che mi ha consentito la lettura di un libro interessante, e con molte corde che risuonano nei miei suoni interiori. Inoltre è un ulteriore esempio della bontà generale delle scelte editoriali di Laterza in questa collana che, nella quasi totalità, propone autori italiani alle prese con paesaggi e memoria. Paesaggi esterni o interni, ma sempre paesaggi. Come questo viaggio che ci propone Marco/Tommaso attraverso le sue stanze interiori che ricostruisce come un albergo, di quelli degli scrittori dannati, di quelli dove morivano drogate e alcolizzate le speranze di molte generazioni. Un albergo senza stelle appunto, ma pieno di tanta gente che avrebbe oscurato le suddette stelle. E partendo dalle basi, dal piano terra, dagli atri, si sale attraversando il suo inferno personale, sino al quarto piano del suo Paradiso. Mescolando, con gusto e con coinvolgimento di me lettore, episodi di vita, scorribande, viaggi, lavori, atelier, pittori, scrittori. Alla fine pensiamo di conoscere un po’ di più lo scrittore, di poter dialogare sulle sue scelte, trovando, personalmente, geniale la chiusura. Cerchiamo allora di addentrarci, attraverso i piani di questo albergo. E non possiamo che iniziare viaggiando. Che il viaggio ci porta a frequentare più spesso gli alberghi. E lì, senza particolari giudizi, nell’atrio che da il tono e la qualità all’albergo stesso, viaggiamo con Marco in oriente, per incontrare il Vietnam di Parise o quello di Graham Greene (di cui ho a lungo parlato tramando ‘L’amico americano’). E come non notare nell’angolo, l’archetipo dei viaggiatori che poi non è che viaggino tanto. C’è Kerouac, con l’epopea sulla strada, anche se non era la sua (né di strada né di epopea), lui sempre un po’ ai margini a scrivere, mentre gli altri si dannavano. Senza ascensore, saliamo allora i tre piani dell’albergo, la commedia poco divina dell’autore. Passando da un inferno popolato dalle follie di Scott Fitzgerald (e della moglie Zelda), per arrivare all’ipertrofia dello scrivere di Simenon e all’ipotrofia di Foster Wallace. Saliamo arditi verso le visioni (ai limiti del tossico) di Philip K. Dick (e anche qui rimando alle righe che ne ho appena scritto, per trovare un rapporto tra visione e realtà). E continuiamo a trovarci di fronte alle difficoltà, alle impossibilità di scrivere. Con Tommaso Landolfi, da un lato e con il Bartelby di Melville (sì, quello che continua a ripetere “preferirei di no”) dall’altro. Per arrivare, finalmente, al Pantheon privato del nostro: a Pasolini, alle due scritture opposte e complementari di Garcia Marquez e di William Burroughs, alle utopie reali di George Orwell. Un bel compendio, dove si attraversa con gusto lo scrivere altrui, infilando esempi, aneddoti, momenti personali (bello quello con Alighiero e Boetti, che, per i non addetti all’artistico, è una persona sola). Con scelte che condivido, ed altre meno (non ho ancora attraversato Pasolini, e non mi trovo a mio agio con Burroughs). Ma il bello delle scelte è che si possono discutere. E Marco mi sembra che sia un tipo che non si tirerebbe indietro. Non entrerò qui sulla diatriba del suo pseudonimo, in fondo è un suo problema, anche se condivido a pieno la frase finale (e non è un caso, vero Gianni - Giovanni?). Vorrei solo finire facendo mia l’esortazione dello scrittore agli altri. Perché se è vero, come ha fatto scrivere sulla sua lapide Marcel Duchamp, che ‘sono sempre gli altri che muoiono’, prima della (mia?, nostra?) fine, per favore, “Non sparite!”. Ultimo inciso ai revisori del libro (o una domanda all’autore se invece è fatto di proposito): non si lascia una citazione alla stanza 404 dell’albergo, visto che l’ultima è la 403. (P.S.: ne parlo tanto di questo libro perché, primo dovete comunque leggerlo, e secondo, mi dispiace di non averlo scritto io).
 “Quello che siamo è spesso nascosto alla maniera della lettera rubata nel racconto di Poe.” (22)
“Ci rifugiamo nel teatro della letteratura perché là fuori, nel mondo reale, abbiamo fallito in qualche cosa.” (86)
“Spesso le parole che attribuiamo agli altri non sono che rielaborazioni inconsapevoli di quel che abbiamo creduto di udire o leggere.” (94)
“Perché mi succede di fare cose che so essere sbagliate e che in teoria non vorrei fare?” (104)
“Mi ha insegnato una cosa fondamentale: … ribellarsi è sempre giusto, ma lo è ancor di più quando non hai scampo.” (172)
“Acquisire un nome nuovo significa cambiare il corso del proprio destino.” (210)
Alberto Arbasino “La vita bassa” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato a 4,40 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/08/2012 – T: 29/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 113; anno: 2009]
Mi domando perché ed in base a quali suggerimenti abbia comprato questo libro. E poi perché, una volta incominciato a leggerlo, abbia voluto portarlo a termine. Non è che non mi sia piaciuto. Peggio. Lo trovo inutilmente pretenzioso, demagogicamente pensato e scritto. Certo, Arbasino era sempre rimasto nella mia mente, nel suo lato giovanile, l’autore che mi aveva affascinato con quel folle testo di “Super-Eliogabalo”. Io ero ben più giovane, magari più portato alle stramberie linguistiche, affascinato dalle letture di Antonin Artaud e dei suoi coevi facitori di teatro francese (ricordo di essere stato uno dei pochi possessori e lettori di quelle raccolte einaudiane di teatro dadaista e surrealista). Tuttavia, qualche sospetto mi sarebbe dovuto venire, quando, di tempo in tempo, cercavo di leggere qualche sua pagina nella sezione culturale di Repubblica. Lì il nostro Alberto gigioneggia, si loda e si imbroda, insomma ne leggevo poche righe e poi passavo ad altro più coinvolgente. Che so, la cronaca di una partita di tennis fatta da Gianni Clerici, qualche pezzo di nera firmato da Massimo Lugli. Poi mi imbatto in questo pamphlet. Diviso in tre parti, scritte nel 2008, non a caso nella quarantennale ricorrenza di un anno mirabilis. E ben di quello si parla, nella contorta scrittura arbasiniana. Che se avesse usato modi piani e diretti, forse avrebbe confezionato un centinaio di pagine leggibili e perché no, con qualche idea non proprio da buttare (forse solo l’ultima parte sarebbe stata irrecuperabile). Andando a semplificare, la prima parte, per via di accostamenti da lettino psichiatrico, cerca di darsi una spiegazione del passaggio non repentino, ma certamente doloroso, da una stagione di fermenti e di idee e possibilità, ad uno stato attuale di volgarità, rozzezza, e prospettiva nulla. Esemplificata, nella volgarità, da quella vita bassa che tanto va di moda tra i giovani dei tempi nostri, quella per cui fan bella mostra di sé mutande firmate e fondo schiena torniti. Ora, certamente Arbasino non è un sociologo, ma uno scrittore, e non pretendo da lui un’analisi consequenziale e diretta di cause ed effetti, ma questi affastellamenti verbali, oltre che di difficile lettura, sono affaticanti anche per menti più scattanti della mia (e ne riporto un esimio esempio, che fa mostra di sé nella quarta, ma rimaneggiato dall’editor, che così si legge, mentre nello scritto risulta pesantino anzi che no). La seconda parte, poi, avrebbe avuto bisogno di altri attacchi, altri commenti, ed altri finali. Come a spiegazione di certe derive intellettuali, Arbasino riporta brani di interventi, scritti, pensieri, delle lucide menti di scrittori e politologi di quaranta anni prima. Partendo da Berlino, passando per Parigi, e fermandosi a Londra. Se avesse proseguito per Roma, sarebbe stato più interessante (ma forse, sarebbe stato troppo forte, e per il lato italico è sufficiente la seconda frase che vi cito). Ma si passano via via citazioni su Grass e Böll, su Adorno e Handke, poi su Queneau e Sollers, su Barthes e la McCarthy esiliatasi in Francia, e poi su Sillitoe e Angus Wilson, sulla Lessing e Mauriel Spark. Frasi decontestualizzate, che non si capisce cosa dicano, che non si raccordano, che si annodano fra loro, strutturate solo nella testa di Arbasino, che tuttavia non ce ne fornisce la sua chiave interpretativa. Le butta lì, perché noi siamo intelligenti e ne capiamo il perché. E lui è troppo superiore per sporcarsi le mani e guidarci nel suo percorso. Insomma, 100 pagine per dire, alla sua maniera, che siamo caduti in basso, e che non vede la speranza. Un presente ed un futuro nero e nichilista. Sarà vero. Sarà così. Ma io sono della vecchia scuola, quella che si affanna a coordinare le frasi, a cercarne un senso, a spiegarne lo svolgimento, ed in questo non credo di offendere l’intelligenza di nessuno. E forse un modo così basso di lettura ci consentirebbe di trovare qualche luce in tutto questo buio. Ritorno allora alla domanda iniziale: ma perché l’ho comperato? Di certo, so solo che continuerò a saltare i suoi scritti giornalistici.
 “E se la ‘vita bassa’ per i prossimi Lévi-Strauss e Mauss e Bataille … diventasse un Segno antropolo- ed etnometodologico strutturale e culturale di tutto un Inconscio o Conscio tribale ed elettorale … come i totem e tabù … dei più rinomati aborigeni?” (27) [ed ho tagliato molto, che nei vari puntini si saltava da glutei ridondanti, sgargianti, e facce dipinte]
“- Una risata vi seppellirà! ... Ma all’epoca certamente non si poteva prevedere che di lì a poco ben altro che risate avrebbero sepolto Pasolini, Moro, Feltrinelli, Pinelli, Casalegno, Calabresi, Tobagi, Dalla Chiesa, Bachelet, Croce, Coco, Calvi, Sindona, Ambrosoli, Alessandrini….” (62)
Francesco Guccini “Dizionario delle cose perdute” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 07/09/2012 – T: 07/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140; anno: 2012]
Riuscendo a dribblare con garbo una possibile operazione di “pura nostalgia”, il grande Francesco ci (e mi) fornisce un gradevole ed agile compendio di cose che c’erano ed ora non ci sono più (o se ci sono, sono talmente modificate da essere altre). La sensazione però, nell’onda dei ricordi, non è che si cerchi il facile rimpianto un po’ lamentevole sui bei tempi andati (ah, che bello quando c’era …, quando si faceva …, quando si poteva …). Io l’ho letto più come una constatazione ed una consapevolezza. I tempi cambiano. Cambiano i costumi. Cambiano le abitudini. Tutte constatazioni. Ma noi siamo qui, siamo cresciuti, ne ricordiamo, e, in modi diversi, ci hanno fatto quello che siamo. Consapevoli di un mondo diverso, e pronti ad affrontarlo ancora. Forse, la sola punta di rimpianto (a cui devo dire mi associo in pieno) riguarda i giochi che si facevano da ragazzi. Perché erano un momento di incontro anche nello scontro. Erano momenti di inventiva, di creatività, anche di manualità (dalla costruzione delle cerbottane a quella delle carriole). Tanti erano già in declino, o poco usati dalle mie parti. Non so, la lippa o la fionda. Altri si stavano evolvendo, anche se ricordo ancora la mia prima scatola di Meccano. Ma sopratutto ricordo le corse con i tappi a corona sui marciapiedi e le biglie sulla spiaggia. Quei Giri d’Italia fatti con le palline con la foto dei ciclisti dentro (ed io sempre con il mio mito, l’impareggiabile Charly Gaul; ve lo ricordate?) erano momenti alti delle mie estati adriatiche. La scelta del luogo, il disegnare il percorso con il fondo schiena del più chiattulello. Costruire montagne ed altri impervi passaggi. Passavamo giorni e giorni a fare, giocare, rifare e disfare. Poi arrivò il mini-golf, ed io scesi in fondo alla scala dei campioni. Governavo il dito, non mi riuscì mai con la mazza. Certo Guccini mi è maggiore (di ben più di dieci anni) e si nota in alcuni ricordi che per me erano già passati quando li risento (l’arrivo del chewing-gum, la ratafià fatta in casa, il caffè d’orzo del dopoguerra e non quello di adesso, i pennini). Altri li vedo ancora nella mente e li ricordo tangibili: il fumo nei cinema, con quell’effetto di pioggia che avevano tutti i film visti tra uno sbuffo e l’altro, i banchetti delle scuole medie con i ripiani in formica verdolina, le siringhe messe a bollire per sterilizzarsi, il lattaio e le bottiglie di vetro. E poi ci sono cose che ho perduto io, e non Guccini, come il forno del panettiere dove portare le teglie di pomodori al riso di zia Vittoria (che non s’aveva il forno in casa). O quei sabati mattina, passati in casa ad aspettare le trasmissioni sperimentali del secondo canale TV. Un discorso a parte meriterebbero, forse, i due capitoli più sociologici. Quello dedicato alla televisione, appunto. Quando si andava dalla ricca zia in centro per vedere il Musichiere o Lascia e raddoppia. E quello dedicato all’arrivo del telefono. Quell’oscuro oggetto, di bachelite nera, che cominciava a collegarci con l’esterno. Ed al primo che arrivò in casa nostra, che, come nello scritto di Guccini, era duplex. Tanto non è che proprio si usasse a dismisura. Ed al rapporto strano che se ne instaurò in casa: ogni trillo era visto come un’invasione. Ed io alla mia prima ragazzina, mica telefonavo, no, scrivevo lettere ed aspettavo sulla porta il postino per l’agognata risposta. Antagonismo atavico, tanto che ancora oggi, ai tempi cellulari, non è che abbia un buon rapporto con lui. Alla fine non posso dire che sia un capolavoro. Ma godibile, scorrevole, leggibile. Ed anche meditabile. Purtroppo anche manchevole, nel mio immaginario personale, laddove di “Davanti San Guido” (un mio must), si ricorda (pensando ai vecchi treni) che ‘ansimando fuggìa la vaporiera’ e non si chiosa il tutto con il bellissimo asino bigio che rosicchia il cardo! E se volete, ve la cito ancora a memoria, che noi, le poesie, si imparavano e si recitavano.
Non possiamo certo esimerci in questo giorno genetliaco di fare ancora auguri a chi doppia mete a noi ancor semestralmente lontane. A grandi passi poi già vien avvicinandosi il Natale con la promessa di nuovi viaggi e la speranza di altrettanti riposi. Per ora godiamoci il fatto che San Martino non ci smentisce con la sua estate. 

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