Prima suggestione: io sembra che
non stia a sentire nessuno, ma in realtà sembra. Seconda suggestione: non
sparate. Terza suggestione: non sparite. Quarta suggestione: dove sono andate a
finire le biglie? E poi, ripeto per mia convinzione, continuo ad essere franco
ed a dire cosa mi piace e cosa non mi piace. Come nel quartetto di oggi.
William Langewiesche “Esecuzioni a distanza” Adelphi euro 7 (in realtà,
scontato 5,60 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/07/2012 – T: 28/07/2012]
[titolo: The Distant
Executioner - Predators; lingua: inglese; pagine: 84; anno:
2010]
Non
lo so. Sicuramente mi ha interessato, e sicuramente è ben scritto. Ma ha
lasciato dai forti punti di perplessità. Elenchiamoli: la materia, la
confezione, il suggerimento. Ed anche punti di curiosità e di stimolo. Intanto l’autore
dall’impronunciabile nome. Infatti, Langewiesche è uno strano tipo di
giornalista americano, per anni pilota (da corsa? D’aereo? Mistero da
sciogliere). Non uno scrittore, ma con un modo sicuro di maneggiare le frasi.
Si sente il taglio giornalistico. E si sente anche il taglio imposta dalla
testata per cui scrive (“Vanity Fair”). E questo si ripercuote sulla scrittura,
di taglio giornalistico, ma non pedantemente descrittivo. Anzi, cerca di
suscitare pensieri quasi parlando d’altro (e pensieri ne sono sorti). Non
affronta il tema di petto, non ti sottolinea: guarda che enormità sto dicendo.
Ma i temi vengono fuori. Prima di affrontarli, elemento duale di bene e male,
vediamo gli altri punti, quelli dolenti. Il suggerimento viene da
“Satisfiction” una strana rivista di libri e letture, sponsorizzata da
Feltrinelli e Vasco Rossi. Ne parlava con calore, e mi ha convinto a comprarlo,
ma i motivi che avrei portato sono tutti diversi sa quelli sottolineati. Così
come la confezione. Non è un racconto, o un romanzo, ma sono due articoli,
scritti appunto per “Vanity Fair”, e accomunati dalla vicinanza del tema.
Niente di più. E forse andava detto, nelle note al libro. E continuiamo con lo
specifico. L’interesse che mi ha suscitato la lettura dei due articoli deriva
proprio dalla luce che, in qualche modo, gettano su alcune tipologie americane
di vita. Il primo solleva e collega i grandi interrogativi sul rapporto con le
armi che hanno gli americani. Certo si parla di “sniper” termine gentile che al
volgo si traduce con cecchino. Ma la vicenda del fantomatico Ross Crane dà
alcuni spiragli sul rapporto che hanno con le armi. E di conseguenza con il
rapporto con la vita. È ovvio che stiamo parlando di situazioni particolari, di
quando Crane inquadra nel suo mirino telescopico degli afghani cercando di
capire se siano talebani da uccidere o contadini che stanno seminando (e che
per questo scavano nella terra). È giusto sparare? Come distinguere i due ceppi
se sono praticamente indistinguibili? Se fossimo in Occidente, un mucchio di
sassi al bordo di una strada farebbe muovere idee di possibili attentati. Ma
l’Afghanistan è tutto un mucchio di sassi, anche nelle grandi città. Poi
torniamo nel Texas, dove ora Crane addestra altri cecchini. Ed ha un
mini-arsenale alla porta di casa. E legge riviste di armi. Quando spara si sente
la coscienza a posto davanti alla nazione e a Dio onnipotente. È questo il modo
di vivere? Ci si chiede come sia possibile la nascita di una mentalità così
intimamente sospettosa dell’altro. Che spinge a liberalizzare il possesso
individuale di fucili, pistole e bombe varie. E poi ci meravigliamo di
Columbine o del massacro al cinema di Batman! E non ci meravigliamo che il
nostro cecchino si chieda perché qualcuno ha deciso di far nascere le religioni
monoteistiche in un posto così poco accogliente come il Medio Oriente, invece
di scegliere, che so, la Svizzera. Il secondo poi è ancora più legato al
sentimento militare imperante, e ad alcune modalità della guerra moderna che
non mi erano chiare e che mi hanno spaventato. Si parla di “drone”, cioè di
avio-robot guidati dall’uomo, della classe “Predator”. L’uomo a terra guida il
robot che vola, che trasporta armi, che gira sulle zone di guerra, e che, vedendo
obiettivi sensibili, lancia granate ed altre micidiali bombe. Forse si può
perdere il “drone” ma l’uomo è al sicuro. E fin qui niente di nuovo. Quello che
non sapevo e che mi ha realmente spaventato, è il fatto che l’uomo che guida
questi robot, quasi una sorta di video-gioco super costoso e super-tecnologico,
si trova ben lontano dalla zona di guerra. Nella fattispecie, i robot girano
sempre nelle zone di guerra tra Iraq ed Afghanistan. E gli uomini al comando
sono … in America. Tutto quello cui devono stare attenti è il ritardo del
segnale di circa due secondi, dovuto alla distanza dall’obiettivo reale. Ma lo
scenario da guerra futura è impressionante. Uno sforzo tecnologico per far sì
che la guerra si trasformi realmente in un immenso videogioco.
Mi viene in mente quel bellissimo film (War Games) dove tutto era gestito da un
computer che poi “impazzisce” e rischia di scatenare una disastrosa guerra
mondiale. Perché lui, il computer, pensa che sia un gioco. E va scolpita nella
pietra quella frase finale: l’unico modo di vincere questo gioco è … non
giocare. Ecco, cerchiamo di scolpirci in fronte questa frase, e cerchiamo di
farla capire a tutti gli imbelli portatori di guerre!
Tommaso Pincio “Hotel a zero stelle” Laterza euro 12 (in realtà,
scontato a 9,96 euro)
[A: 04/12/2011 – I: 06/08/2012 – T: 25/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 229;
anno: 2011]
Intanto questo libro mi dà modo
di confutare la leggenda che mi vuole restio a consigli degli amici. È solo il
tempo che passa tra consiglio e lettura che può far nascere questa diceria.
Così, ringrazio Maria del suggerimento, che mi ha consentito la lettura di un
libro interessante, e con molte corde che risuonano nei miei suoni interiori.
Inoltre è un ulteriore esempio della bontà generale delle scelte editoriali di
Laterza in questa collana che, nella quasi totalità, propone autori italiani
alle prese con paesaggi e memoria. Paesaggi esterni o interni, ma sempre
paesaggi. Come questo viaggio che ci propone Marco/Tommaso attraverso le sue stanze
interiori che ricostruisce come un albergo, di quelli degli scrittori dannati,
di quelli dove morivano drogate e alcolizzate le speranze di molte generazioni.
Un albergo senza stelle appunto, ma pieno di tanta gente che avrebbe oscurato
le suddette stelle. E partendo dalle basi, dal piano terra, dagli atri, si sale
attraversando il suo inferno personale, sino al quarto piano del suo Paradiso.
Mescolando, con gusto e con coinvolgimento di me lettore, episodi di vita,
scorribande, viaggi, lavori, atelier, pittori, scrittori. Alla fine pensiamo di
conoscere un po’ di più lo scrittore, di poter dialogare sulle sue scelte,
trovando, personalmente, geniale la chiusura. Cerchiamo allora di addentrarci,
attraverso i piani di questo albergo. E non possiamo che iniziare viaggiando.
Che il viaggio ci porta a frequentare più spesso gli alberghi. E lì, senza
particolari giudizi, nell’atrio che da il tono e la qualità all’albergo stesso,
viaggiamo con Marco in oriente, per incontrare il Vietnam di Parise o quello di
Graham Greene (di cui ho a lungo parlato tramando ‘L’amico americano’). E come
non notare nell’angolo, l’archetipo dei viaggiatori che poi non è che viaggino
tanto. C’è Kerouac, con l’epopea sulla strada, anche se non era la sua (né di
strada né di epopea), lui sempre un po’ ai margini a scrivere, mentre gli altri
si dannavano. Senza ascensore, saliamo allora i tre piani dell’albergo, la
commedia poco divina dell’autore. Passando da un inferno popolato dalle follie
di Scott Fitzgerald (e della moglie Zelda), per arrivare all’ipertrofia dello
scrivere di Simenon e all’ipotrofia di Foster Wallace. Saliamo arditi verso le
visioni (ai limiti del tossico) di Philip K. Dick (e anche qui rimando alle
righe che ne ho appena scritto, per trovare un rapporto tra visione e realtà).
E continuiamo a trovarci di fronte alle difficoltà, alle impossibilità di
scrivere. Con Tommaso Landolfi, da un lato e con il Bartelby di Melville (sì,
quello che continua a ripetere “preferirei di no”) dall’altro. Per arrivare,
finalmente, al Pantheon privato del nostro: a Pasolini, alle due scritture
opposte e complementari di Garcia Marquez e di William Burroughs, alle utopie
reali di George Orwell. Un bel compendio, dove si attraversa con gusto lo
scrivere altrui, infilando esempi, aneddoti, momenti personali (bello quello
con Alighiero e Boetti, che, per i non addetti all’artistico, è una persona
sola). Con scelte che condivido, ed altre meno (non ho ancora attraversato
Pasolini, e non mi trovo a mio agio con Burroughs). Ma il bello delle scelte è
che si possono discutere. E Marco mi sembra che sia un tipo che non si
tirerebbe indietro. Non entrerò qui sulla diatriba del suo pseudonimo, in fondo
è un suo problema, anche se condivido a pieno la frase finale (e non è un caso,
vero Gianni - Giovanni?). Vorrei solo finire facendo mia l’esortazione dello
scrittore agli altri. Perché se è vero, come ha fatto scrivere sulla sua lapide
Marcel Duchamp, che ‘sono sempre gli altri che muoiono’, prima della (mia?, nostra?)
fine, per favore, “Non sparite!”. Ultimo inciso ai revisori del libro (o una
domanda all’autore se invece è fatto di proposito): non si lascia una citazione
alla stanza 404 dell’albergo, visto che l’ultima è la 403. (P.S.: ne parlo
tanto di questo libro perché, primo dovete comunque leggerlo, e secondo, mi
dispiace di non averlo scritto io).
“Quello che siamo è spesso
nascosto alla maniera della lettera rubata nel racconto di Poe.” (22)
“Ci rifugiamo nel teatro della letteratura perché là fuori, nel mondo
reale, abbiamo fallito in qualche cosa.” (86)
“Spesso le parole che attribuiamo agli altri non sono che
rielaborazioni inconsapevoli di quel che abbiamo creduto di udire o leggere.”
(94)
“Perché mi succede di fare cose che so essere sbagliate e che in teoria
non vorrei fare?” (104)
“Mi ha insegnato una cosa fondamentale: … ribellarsi è sempre giusto,
ma lo è ancor di più quando non hai scampo.” (172)
“Acquisire un nome nuovo significa cambiare il corso del proprio
destino.” (210)
Alberto Arbasino “La vita bassa” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato
a 4,40 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 27/08/2012 – T: 29/08/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 113;
anno: 2009]
Mi domando perché ed in base a
quali suggerimenti abbia comprato questo libro. E poi perché, una volta
incominciato a leggerlo, abbia voluto portarlo a termine. Non è che non mi sia
piaciuto. Peggio. Lo trovo inutilmente pretenzioso, demagogicamente pensato e
scritto. Certo, Arbasino era sempre rimasto nella mia mente, nel suo lato
giovanile, l’autore che mi aveva affascinato con quel folle testo di
“Super-Eliogabalo”. Io ero ben più giovane, magari più portato alle stramberie
linguistiche, affascinato dalle letture di Antonin Artaud e dei suoi coevi
facitori di teatro francese (ricordo di essere stato uno dei pochi possessori e
lettori di quelle raccolte einaudiane di teatro dadaista e surrealista).
Tuttavia, qualche sospetto mi sarebbe dovuto venire, quando, di tempo in tempo,
cercavo di leggere qualche sua pagina nella sezione culturale di Repubblica. Lì
il nostro Alberto gigioneggia, si loda e si imbroda, insomma ne leggevo poche
righe e poi passavo ad altro più coinvolgente. Che so, la cronaca di una
partita di tennis fatta da Gianni Clerici, qualche pezzo di nera firmato da
Massimo Lugli. Poi mi imbatto in questo pamphlet. Diviso in tre parti, scritte
nel 2008, non a caso nella quarantennale ricorrenza di un anno mirabilis. E ben
di quello si parla, nella contorta scrittura arbasiniana. Che se avesse usato
modi piani e diretti, forse avrebbe confezionato un centinaio di pagine
leggibili e perché no, con qualche idea non proprio da buttare (forse solo
l’ultima parte sarebbe stata irrecuperabile). Andando a semplificare, la prima
parte, per via di accostamenti da lettino psichiatrico, cerca di darsi una
spiegazione del passaggio non repentino, ma certamente doloroso, da una
stagione di fermenti e di idee e possibilità, ad uno stato attuale di
volgarità, rozzezza, e prospettiva nulla. Esemplificata, nella volgarità, da
quella vita bassa che tanto va di moda tra i giovani dei tempi nostri, quella
per cui fan bella mostra di sé mutande firmate e fondo schiena torniti. Ora,
certamente Arbasino non è un sociologo, ma uno scrittore, e non pretendo da lui
un’analisi consequenziale e diretta di cause ed effetti, ma questi affastellamenti
verbali, oltre che di difficile lettura, sono affaticanti anche per menti più
scattanti della mia (e ne riporto un esimio esempio, che fa mostra di sé nella
quarta, ma rimaneggiato dall’editor, che così si legge, mentre nello scritto
risulta pesantino anzi che no). La seconda parte, poi, avrebbe avuto bisogno di
altri attacchi, altri commenti, ed altri finali. Come a spiegazione di certe
derive intellettuali, Arbasino riporta brani di interventi, scritti, pensieri,
delle lucide menti di scrittori e politologi di quaranta anni prima. Partendo
da Berlino, passando per Parigi, e fermandosi a Londra. Se avesse proseguito
per Roma, sarebbe stato più interessante (ma forse, sarebbe stato troppo forte,
e per il lato italico è sufficiente la seconda frase che vi cito). Ma si
passano via via citazioni su Grass e Böll, su Adorno e Handke, poi su Queneau e
Sollers, su Barthes e la McCarthy esiliatasi in Francia, e poi su Sillitoe e
Angus Wilson, sulla Lessing e Mauriel Spark. Frasi decontestualizzate, che non
si capisce cosa dicano, che non si raccordano, che si annodano fra loro, strutturate
solo nella testa di Arbasino, che tuttavia non ce ne fornisce la sua chiave interpretativa.
Le butta lì, perché noi siamo intelligenti e ne capiamo il perché. E lui è
troppo superiore per sporcarsi le mani e guidarci nel suo percorso. Insomma,
100 pagine per dire, alla sua maniera, che siamo caduti in basso, e che non
vede la speranza. Un presente ed un futuro nero e nichilista. Sarà vero. Sarà
così. Ma io sono della vecchia scuola, quella che si affanna a coordinare le
frasi, a cercarne un senso, a spiegarne lo svolgimento, ed in questo non credo
di offendere l’intelligenza di nessuno. E forse un modo così basso di lettura
ci consentirebbe di trovare qualche luce in tutto questo buio. Ritorno allora
alla domanda iniziale: ma perché l’ho comperato? Di certo, so solo che continuerò
a saltare i suoi scritti giornalistici.
“E se la ‘vita bassa’ per i
prossimi Lévi-Strauss e Mauss e Bataille … diventasse un Segno antropolo- ed
etnometodologico strutturale e culturale di tutto un Inconscio o Conscio
tribale ed elettorale … come i totem e tabù … dei più rinomati aborigeni?” (27)
[ed ho tagliato molto, che nei vari puntini si saltava da glutei ridondanti,
sgargianti, e facce dipinte]
“- Una risata vi seppellirà! ... Ma all’epoca certamente non si poteva
prevedere che di lì a poco ben altro che risate avrebbero sepolto Pasolini,
Moro, Feltrinelli, Pinelli, Casalegno, Calabresi, Tobagi, Dalla Chiesa,
Bachelet, Croce, Coco, Calvi, Sindona, Ambrosoli, Alessandrini….” (62)
Francesco Guccini “Dizionario delle cose perdute” Mondadori euro 10 (in
realtà, scontato 7,50 euro)
[A: 24/07/2012 – I: 07/09/2012 – T: 07/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 140;
anno: 2012]
Riuscendo
a dribblare con garbo una possibile operazione di “pura nostalgia”, il grande
Francesco ci (e mi) fornisce un gradevole ed agile compendio di cose che
c’erano ed ora non ci sono più (o se ci sono, sono talmente modificate da
essere altre). La sensazione però, nell’onda dei ricordi, non è che si cerchi
il facile rimpianto un po’ lamentevole sui bei tempi andati (ah, che bello quando
c’era …, quando si faceva …, quando si poteva …). Io l’ho letto più come una constatazione
ed una consapevolezza. I tempi cambiano. Cambiano i costumi. Cambiano le
abitudini. Tutte constatazioni. Ma noi siamo qui, siamo cresciuti, ne
ricordiamo, e, in modi diversi, ci hanno fatto quello che siamo. Consapevoli di
un mondo diverso, e pronti ad affrontarlo ancora. Forse, la sola punta di
rimpianto (a cui devo dire mi associo in pieno) riguarda i giochi che si
facevano da ragazzi. Perché erano un momento di incontro anche nello scontro.
Erano momenti di inventiva, di creatività, anche di manualità (dalla
costruzione delle cerbottane a quella delle carriole). Tanti erano già in
declino, o poco usati dalle mie parti. Non so, la lippa o la fionda. Altri si
stavano evolvendo, anche se ricordo ancora la mia prima scatola di Meccano. Ma
sopratutto ricordo le corse con i tappi a corona sui marciapiedi e le biglie
sulla spiaggia. Quei Giri d’Italia fatti con le palline con la foto dei
ciclisti dentro (ed io sempre con il mio mito, l’impareggiabile Charly Gaul; ve
lo ricordate?) erano momenti alti delle mie estati adriatiche. La scelta del
luogo, il disegnare il percorso con il fondo schiena del più chiattulello.
Costruire montagne ed altri impervi passaggi. Passavamo giorni e giorni a fare,
giocare, rifare e disfare. Poi arrivò il mini-golf, ed io scesi in fondo alla
scala dei campioni. Governavo il dito, non mi riuscì mai con la mazza. Certo
Guccini mi è maggiore (di ben più di dieci anni) e si nota in alcuni ricordi
che per me erano già passati quando li risento (l’arrivo del chewing-gum, la
ratafià fatta in casa, il caffè d’orzo del dopoguerra e non quello di adesso, i
pennini). Altri li vedo ancora nella mente e li ricordo tangibili: il fumo nei
cinema, con quell’effetto di pioggia che avevano tutti i film visti tra uno
sbuffo e l’altro, i banchetti delle scuole medie con i ripiani in formica verdolina,
le siringhe messe a bollire per sterilizzarsi, il lattaio e le bottiglie di vetro.
E poi ci sono cose che ho perduto io, e non Guccini, come il forno del
panettiere dove portare le teglie di pomodori al riso di zia Vittoria (che non
s’aveva il forno in casa). O quei sabati mattina, passati in casa ad aspettare
le trasmissioni sperimentali del secondo canale TV. Un discorso a parte
meriterebbero, forse, i due capitoli più sociologici. Quello dedicato alla
televisione, appunto. Quando si andava dalla ricca zia in centro per vedere il
Musichiere o Lascia e raddoppia. E quello dedicato all’arrivo del telefono.
Quell’oscuro oggetto, di bachelite nera, che cominciava a collegarci con
l’esterno. Ed al primo che arrivò in casa nostra, che, come nello scritto di
Guccini, era duplex. Tanto non è che proprio si usasse a dismisura. Ed al
rapporto strano che se ne instaurò in casa: ogni trillo era visto come
un’invasione. Ed io alla mia prima ragazzina, mica telefonavo, no, scrivevo
lettere ed aspettavo sulla porta il postino per l’agognata risposta.
Antagonismo atavico, tanto che ancora oggi, ai tempi cellulari, non è che abbia
un buon rapporto con lui. Alla fine non posso dire che sia un capolavoro. Ma
godibile, scorrevole, leggibile. Ed anche meditabile. Purtroppo anche
manchevole, nel mio immaginario personale, laddove di “Davanti San Guido” (un
mio must), si ricorda (pensando ai vecchi treni) che ‘ansimando fuggìa la
vaporiera’ e non si chiosa il tutto con il bellissimo asino bigio che rosicchia
il cardo! E se volete, ve la cito ancora a memoria, che noi, le poesie, si
imparavano e si recitavano.
Non
possiamo certo esimerci in questo giorno genetliaco di fare ancora auguri a chi
doppia mete a noi ancor semestralmente lontane. A grandi passi poi già vien
avvicinandosi il Natale con la promessa di nuovi viaggi e la speranza di
altrettanti riposi. Per ora godiamoci il fatto che San Martino non ci smentisce
con la sua estate.
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