E soprattutto le donne italiane,
che da troppe trame si erano allontanate dai miei scritti (e dalle mie
letture). Sapevo anche perché. Dopo le letture di luglio, che in ogni caso
erano interessanti e stimolanti, sono incappato in due cadute di tono,
accumunate dai colori che invece a me piacciono, con l’esordiente Viola che
promette e non mantiene e con una nuova Rosa che non riesce più a rinverdire i
fasti di quell’ormai lontano “Cuore di mamma”.
Paola Mastrocola “Palline di pane” Guanda euro 11 (in realtà scontato
8,80 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 04/07/2012 – T: 07/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 237;
anno: 2001]
Ripresa di un vecchio libro della
Mastrocola, un po’ per riprendermi dalla delusione patita a suo tempo dalla
lettura del racconto degli inediti di Repubblica, un po’ perché Mariella me ne
accennò mesi e mesi e mesi fa, e mi era rimasto l’interrogativo su come fosse
questo (quasi) primo libro. Che aveva già pubblicato “La gallina volante”, che
mi piacque a tratti. E non ancora “La barca nel bosco”, che invece mi piacque
assai. Alla fine di questo libro, direi che siamo sul versante positivo.
Qualche lungaggine, qualche punto in cui avrei preso Emilia (l’io narrante) e
l’avrei “scutuliata” ben bene, per farle entrare un po’ di sale in zucca. Che
sembra a volte non ce ne sia. Ma forse, in fondo, ce n’è il giusto. Un libro,
direi come commento, sull’inadeguatezza. Detto così sembra una critica. Come? I
personaggi? La trama? Che cosa è inadeguato? Lasciamo la risposta in sospeso,
che uso il termine forse per rivoltarlo sulla protagonista. Per tutto il
romanzo si ha la sensazione che lei, Emilia si senta inadeguata al mondo in cui
vive. E se fosse il contrario? La storia è una specie di fermo macchina su di un
Agosto da vacanza. Emilia e la sua famiglia partono per un mese al mare in
Sardegna, dove hanno, come tutti gli anni, affittato una casa. Emilia, dopo
aver tentato di fare la giornalista, decide di dedicarsi alla fotografia. Non è
un mestiere facile (molti sostengono che non è un mestiere). Ma riesce a
produrre foto interessanti, ed allestire mostre. Come quella che dovrà fare a
breve a Parigi. Per cui per tutto il mese scatterà foto su foto. Riuscendoci?
Ah saperlo. Intanto sappiamo che è sostenuta dal marito Giorgio, che guadagna
per tutti e due, ed ora sono mesi che è stato trasferito in India, dove lavora
nel campo della telefonia. Inoltre, Emilia ha due figli interessanti: Orlando
Maria, detto Olli, bambino undicenne e solitario, che non vuole / non può / non
sa rapportarsi ai suoi coetanei, e preferisce pescare, o disegnare, o al minimo
leggere (lo adotto subito) e Stefania detta Stefy, di 6 mesi, forse un
incidente di percorso. Ma c’è. Ed allora ci prendiamo anche una baby-sitter. La
portoghese Lucinda, che non parla italiano, come Emilia non parla portoghese. E
si andrà avanti per settimane in questi dialoghi tra sordi. Poi c’è l’umanità
che da Torino si sposta agostanamente in Sardegna. Quella piena di Vittoria con
il figlio ventenne che non ci pensa nemmeno di venire, e con l’innamoramento
per Ferdi; i Magli e le loro gemelline; Veronica detta Vero con l’inutile
figlio Filiberto detto Fil. E tutta la cricca (che mi permetto di saltare) che
va al mare insieme, poi si fanno le cene a turno. Tutto permeato dal fatto che
Emilia si sente sempre in difficoltà, fuori posto, che Olli non gioca, che
Stefy piange, che Giorgio non c’è, che Lucinda non parla. Per poi concentrarsi
nel fatto che gli amici la convincono a prendersi cura di una capra
abbandonata. E si andrà sempre peggio. Che Emilia non sa dire di no (primo
errore), poi non sa gestire né capra né cavoli (battutina sul fatto che quando
non fa altro, cerca di cucinare verdure), poi è costretta ad abbandonare la
capra. Venendo praticamente bandita dal consorzio amicale. Dopo tutto questo
abisso, finalmente arriva l’unico amico “out”, il vichingo Lars con la sua
barca e la sua capacità, pur non dicendo nulla, di empatizzare. Di capire la
solitudine di Olli, di parlare portoghese con Lucinda, di consolare Emilia e la
capra. Sempre in ritardo, sempre impaurita, alla fine Emilia si domanda (come
noi abbiamo fatto fin dall’inizio) se non sia il contrario. E che questo mondo
che si ostina a frequentare sia altro dal mondo suo e della sua famiglia. Orlando
continuerà a fare palline di pane per prendere pesci, ma noi speriamo
(sappiamo?) che ci sarà uno scatto interno. Servirà ad Emilia ad uscirne fuori?
Leggetelo per scoprirlo. Per ora, lasciateci fare il tifo per i nostri,
sperando che Babi (l’orrenda Bartolomea Bice Valpetti) cada in una buca di
sabbia.
“Il problema è che non solo perdo le cose, ma molto spesso credo di
averle perse e invece non è vero … Ma non è che il lieto fine ci salvi dalla
tragedia: la tragedia c’è comunque stata, cioè noi, fino a che non ritroviamo
l’oggetto perso, viviamo la tragedia di averlo perso.” (48)
“Non so perché, ma quando una psicologa parla, tutto quel che dice,
foss’anche la più banale e quotidiana cosa, assume all’istante un’aria
profonda, introspettiva, e tanto tanto simbolica.” (50)
“Perché facciamo i bambini se poi non ce li guardiamo?” (75)
“La cosa che non sopporto è che ormai tutte le minoranze vengono,
giustamente!, difese, tranne una: la minoranza di chi la pensa a modo suo.”
(138)
“La tragicità del telefono, nessuna ci pensa mai. Intanto lui suona,
così, quando gli pare, in mezzo ai tuoi pensieri, a volte anche complessi. Tu
allora ci caschi e dici i tuoi pensieri a chi ti ha chiamato, ma dal punto in
cui eri, non dall’inizio, e così nessuno capisce mai niente. E ci si illude di
essersi parlati.” (195)
Donatella Di Pietrantonio “Mia madre è un fiume” Elliot euro 9,90
[A: 29/06/2012 – I: 11/07/2012 – T: 13/07/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 177;
anno: 2010]
Un romanzo la cui trama si
potrebbe veramente raccontare in un telegramma: “Donna verso la cinquantina
ripensa alla sua vita mentre accudisce la madre che di giorno in giorno
sprofonda nell’Alzheimer”. E già così sarebbe una bella epigrafe, per il
romanzo opera prima di questa scrittrice abruzzese. Che mi è piaciuto assai,
con quell’opera di straniamento che si ha leggendo di cose che si teme
potrebbero accadere. Ed anche perché sapientemente autobiografico. La cosa più
difficile, parlare di sé e del proprio vissuto, senza utilizzare la narrazione dei
fatti banale, ma trasfondendoli in una storia che è la propria pur essendo
altra. E che proprio per questo diventa epigrafe di storie simili. Operazione
ben riuscita della dentista di Penne, ma originaria di Arsita, che sta di qua
di Isola Gran Sasso, proprio come invece di là sta il luogo scelto per situare
il romanzo, situato tra Colledara e Tossicìa. Un grande fiume di parole, per
parafrasare il titolo, scaturito dalla penna e dalla testa di questa donna che
prova a fare i conti della propria vita, rapportandosi ad una madre che mai ha
mostrato di volerle bene. Operazione di una difficoltà unica, che noi rimproveriamo
ai nostri genitori, e che con quanta paura vediamo esserne rimproverati dai
nostri figli. Madre anaffettiva, ed ora, verso i settanta anni, colpita da
questo male che mi fa una paura enorme. Che ti fa perdere contatto con la
realtà immediata, e ti fa rifuggire in un mondo altro, dove non sarà facile,
anzi sarà impossibile raggiungerti. E proprio nel tentativo di questo raggiungimento,
l’io narrante comincia a raccontare alla madre la vita che lei, la madre, ha
vissuto. In questo modo, prova a non perderne la memoria, ed a noi ci fa
viaggiare per questi settanta anni, nella campagna pedemontana abruzzese. Tra famiglie
dai cognomi probabili e comuni (Viola, nome ben diffuso nel luogo) e dai nomi
d’effetto. Il nonno Fioravante e la nonna Serafina. Mamma Esperia e le zie
Valchiria, Diamante, Clotilde, Nives e Clarice. Che suoni famigliari hanno
questi nomi antichi. Mi congiungono sempre a mia nonna Bianca che ho sempre
pensato chiamassimo così per i suoi candidi capelli, per poi scoprire in tarda
età che si chiamava Paola Bianca. Ma torniamo ai piedi del Gran Sasso, dove si
svolge la gioventù di Esperia, scandita dai campi, dalle pecore e dalle capre,
dall’uccisione annuale del maiale. Da tutti i riti contadini e rurali. Financo
tipico il rito del ballo, unico modo per frequentare l’altro sesso. E dove
Esperia si prende del lontano cugino Cesare (in fondo lì son tutti mezzi
parenti). Perpetuando la storia familiare e contadina. Con la nascita della
figlia (ora narrante). Con il trasferimento nel nuovo podere. Le passeggiate
ante-lucane per andare a scuola. E via con tanti micro episodi. Sempre con la
presenza debole di papà Cesare, che ora pensa solo al suo orto avendo paura
della malattia di Esperia. E la presenza forte della madre, che tiene tutti
insieme, loro, i parenti, le zie, sposate o no. Tira forte tutti i fili, tanto
che ora ne ha le mani ritorte. E la figlia ribelle, va, torna, e solo alla
nascita di Giovanni sembra che ci sia quel riavvicinamento, che ora si spezza
nella testa di Esperia. La scrittura va su e giù, che Esperia chiede e chiede
alla figlia di narrare. Intanto si guarda al presente. Con il bicchiere rotto
messo in frigorifero. Le cose che si perdono. L’olio per il sugo che brucia. E
tutte le micro - catastrofi che costellano la vita di chi sta andando via. Non
succede nulla di catartico, questo è il bello e potente del romanzo. Non
arriveremo a vedere la fine di Esperia. Non è quello che serve narrare. Serve
narrare di questa madre impetuosa e travolgente come un fiume, ma che si
avrebbe voluto fosse un albero, per riposare nella sua ombra. Confesso che
molto del bello del romanzo sta anche nel mio ritrovarmi in situazioni familiari.
E nella paura che mamma Agnese possa perdere l’unica cosa ancora forte che ha.
Non la memoria, che si sa con l’età si modifica. Ma il ragionamento ed i pensieri.
Grazie Donatella di avermici fatto riflettere.
Viola Di Grado “Settanta acrilico Trenta lana” E/O euro 9
[A: 18/03/2012 – I: 25/09/2012 – T: 28/09/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 189;
anno: 2011]
Ho
cominciato a leggerlo con interesse. Una nuova scrittrice, giovane (della
stessa età di mia nipote Fede), laureata in lingue orientali e trasferitasi in
Inghilterra. E le ombre dei primi passi di scrittura ricalcano queste storie.
Già dal nome adombrato, che la scrittrice fa Viola e la protagonista Camelia.
Poi siamo Leeds, città dedita al ricordo dell’Università di Sara. Tutto questo
mescolato in un linguaggio tra sogno e realtà, come direbbe Ligabue. Poi,
pagina dopo pagina, il sogno si affossa, emergono dolori della pagina non
risolti. E tutto si va perdendo e sperdendo in un tentativo di nobilitare
l’innobilitabile, ed altre amenità. Nodo centrale, infatti, scopriamo dopo
quelle pagine accattivanti, è la morte del padre di Camelia. Già questo sarebbe
doloroso. In più, il padre muore in un incidente di macchina, in compagnia
della sua amante. E questo scatena la “follia” nella testa dei protagonisti.
Vediamo la caduta verso l’abisso della madre, che, sporca e lacera, una volta
suonatrice eccelsa di clarinetto, decide di dedicarsi al mutismo. E se
interessanti sono le pagine in cui madre e figlia si scambiano lunghi discorsi a
forza di sguardi, questo leit-motiv che diventerà ricorrente alla fine stanca.
Perché, alla fine, tutto si aggira sul silenzio, sul non detto. Si ha bene
allenare gli occhi, ma anche la bocca vuole la sua parte. Come ci dimostra
l’altra parte felice del testo. Lì dove Viola fa sfoggio della sua cultura
linguistica, portandoci nell’universo della scrittura e della morfologia
cinese. Di dove nascono le parole, come agglutinazione di monosillabi
perifrastici. O dove crescono le potenze evocative, quelle dei verbi potenziali
(che mi riportano ad una delle visioni degli studi linguistici che più mi
avevano colpito, la frase ipotetica dell’irrealtà). Ed anche le radici: qui,
nel cinese, evocate da morfemi unici (così ho capito), laddove nell’arabo erano
tre consonanti quelle che guidavano. Tutta questa parte, per narrare
l’avvicinamento di Camelia a Wen, lo strano cinese del negozio dei vestiti
sbagliati. E di suo fratello Jimmy, quello che cuce le maniche sulla pancia, o
i bottoni ovunque meno che al giusto posto. Perché Camelia, non riesce a
parlare con Wen. Ma sopratutto è Wen che non riesce a parlare. E quando lo fa
ne esce una tale mancanza di sostanza, che depaupera il romanzo di una
componente essenziale: il mistero per cui il cinesino rifiuta la bella italiana,
pur essendo innamorato. E facendo credere a tutti di avere un fratello pazzo. E
quando conosciamo il fratello forse capiamo che il pazzo è un altro. E con
tutta la cura che mette Camelia nel trattare la madre per farla uscire dal
mutismo e la pazzia, alla fine, ma proprio alla fine ci domandiamo attoniti, ma
chi è veramente fuori di testa? Questo tentativo di imbrogliare tutte le carte,
porta la nostra giovane Viola ad ingarbugliare sempre più il racconto.
Infarcendole di quelle immagini che, a piccole dosi, nella prima parte, sembravano
alleggerire il racconto. Ma ora appesantiscono. Tutte quelle sforbiciate senza
senso sui vestiti. Quei fogli pieni di lettere cinesi sparse per la casa.
Certo, la morte del padre, così “altra” ha lasciato i suoi segni. Tuttavia
quella più colpita, alla fine, mi sembra proprio Camelia. E mentre, pagina dopo
pagina, sembravamo portati alla ricerca di un’uscita verso la luce, con quelle
frasi sulle date della rinascita e via discorrendo, tutto precipita in abissi
di silenzi, incomprensioni, ed altro. Ma dico, suvvia, apri la bocca e metti
due frasi in fila. Fa dire qualcosa a qualcuno. Non cercare la mescolanza tra
detto e non detto per portare sull’orlo della speranza e precipitare nei
baratri della follia. Tutta la seconda parte mi è sembrata una (inutile) esibizione
della bravura di scrittrice, ma senza la più piccola voglia di prendere per
mano il lettore ed accompagnarsi insieme verso qualcosa. Tanto che, alla fine,
il mio giudizio del libro si avvia verso lo scarso, quasi il brutto. Peccato.
Rosa Matteucci “Le donne perdonano tutto tranne il silenzio” Giunti
euro 12 (in realtà, scontato 10,20 euro)
[A: 30/09/2012 – I: 14/10/2012 – T: 17/10/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 142;
anno: 2012]
Che delusione! La Rosa di Orvieto
aveva avuto (per me) inizi brillanti e promettenti. Mi aveva preso e coinvolto
“Cuore di Mamma” (ed avevo anche riso assai). Mi erano parsi interessanti, ma
con alcune riserve, sia “Lourdes” sia “Libera la Karenina che è in te”. Dopo di
che, lascia l’Adelphi per partecipare a concorsi letterari (in particolare il
Premio Strega), e già questo mi doveva lasciare perplesso. A valle della finale
del Premio, con “Tutta mio padre”, ora ritorna in libreria con questo libro,
edito da Giunti. E siamo caduti ancora più in basso. Dal punto di vista globale
e particolare. Nel confezionamento generale, risulta quanto mai “straniante” il
giudizio positivo espresso in quarta di copertina da Carlo Fruttero, laddove il
libro vede le stampe a settembre del 2012, mentre l’ottimo Fruttero, purtroppo,
ci ha lasciato già dal gennaio di quest’anno. Forse chi leggerà il libro tra 10
anni non se ne accorgerà, ma ora sembra un lancio poco efficace. Tralasciamo
inoltre quanto sostenuto sia dal resto della quarta, sia dai risvolti, che
sembrano aver letto una sintesi del libro (o forse le linee editoriali
concordate prima della stesura definitiva) e non abbiano tenuto conto poi del
libro in quanto tale. Dove, entrando nel particolare, sembra si assista ad una
serie di capitoli slegati tra loro, nel tentativo, non riuscito, di creare un
affresco della situazione per pitture successive, pittando ogni quadro di
alcune sue caratteristiche, nella scrittura minuta forse anche interessanti, ma
che non riescono a presentare (o che non mi hanno consentito di vedere) il grande
affresco collettivo. La storia, depurata dalla pittura, dovrebbe presentare il
percorso di due donne alle prese con problemi sentimentali. L’una, giovane
attricetta, presa da Francesco regista del film sul cui set sembra svolgersi
l’azione. L’altra, matura, presa da Savelli, direttore della fotografia del
suddetto film. Peccato che entrambi siano sposati e non abbiano intenzione di
cambiare il loro stato. Francesco perché è un classico “puttaniere” che pensa solo
ad “intingere il biscotto”. E se non è Marta, sarà Valentina, o altra. Fino a
che non viene casualmente scoperto dalla moglie e mandato a ramengo. Savelli
perché preso dai sensi di colpa, laddove la moglie tenta un ridicolo suicidio,
andando a guidare la macchina senza occhiali, e decidendo quindi che questa
sarà la colpa che dovrà espiare: farsi amare da Maria senza risponderle. Certo
le due donne ad un certo punto si trovano sul set, e ne parlano. Ma non con cui
toni da “rivelazioni grandiose” che sembra profetizzare l’estensore delle note.
Un dialogo tra sorde, dove qualche parola filtra, senza un vero perché. E forse
Marta farà scelte nuove, mentre Maria non cambierà il suo cliché. Intorno a
tutto ciò si muove il set cinematografico di un grande (grande?) film sulla
passione di Cristo. Con tanto di croce con sopra Gesù, che rimane
(inopinatamente) sempre lì per tutto il libro. Con l’invasione di attori da
altri set limitrofi. E qui si rivela la piccola maestria (nonché conoscenza)
dell’autrice, dove imbastisce per questi personaggi minori, delle mini-storie,
soprattutto riprese dai libri della Brönte, “Cime tempestose” in testa. Ma
certo questi divertimenti in punta di penna non riscattano il libro
complessivo. Che rimane lì, amorfo, con tante frasi una dopo l’altra. Attaccate
a questo o quel personaggio. Che parla, si dichiara, ragiona, esterna, ma senza
un vero perché. Come non si comprende tutto lo sproloquio del Cristo sulla
croce. Né tanto meno l’onirico capitolo della nuvola a forma di croce che appare
a Genova, con una serie di messaggi incomprensibili o quasi (la resurrezione
dei cagnolini? Ma che vuole dire l’autrice?). Per finire, citando il vezzo,
credo richiesto dell’autrice, di scrivere “per sempre” tutto attaccato (“persempre”)
per ben 5 volte nel libro (eh, si le ho contate). Errore dell’editor? Richiesta
dell’autrice? Quale sarà il messaggio? C’ho pensato a lungo. Decidendo alla
fine che si tratta solo del tentativo, furbetto, di voler apparire come una
persona che maneggia un testo importante (utilizzando le frasi come fossero
altro da un susseguirsi di lettere necessarie a comporre un testo), mentre a me
risulta un libretto inutile. E forse anche, fastidioso. Peccato!
(Post Scriptum: l’unico punto
veramente degno di nota e pronto per un dibattito è l’affermazione di pagina
42, dove i nomi delle dita dei piedi vengono indicati con alluce, melluce,
trillice, pondolo e minolo; sono nomi indicati nella podologia alternativa,
anche se melluce si indica più sovente con illice, e tuttavia meritano una
discussione. Voi come li chiamate?)
Siamo già
oltre la metà di Novembre, ed a grandi passi si avvicina addirittura il Natale.
E con il Natale, il Capodanno. E poi il nuovo anno con le prime promesse di
gite, e con i dubbi sulla continuazione del lavoro. Vedremo.
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